Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
TAJANI E’ STATO PRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO, E PER SEI ANNI COMMISSARIO E A BRUXELLES È CONSIDERATO UN AFFIDABILE EUROPEISTA… DI SALVINI NON SE NE PARLA NEPPURE E DELLA MELONI NON SI FIDANO
“Il nostro uomo in Italia è Antonio Tajani”. È questa la scommessa dei Popolari europei. È sul coordinatore di Forza Italia che il Ppe, al momento il primo partito dell’Europarlamento, vuole puntare per le prossime elezioni italiane. E non solo come punto di riferimento. Ma come presidente del Consiglio.
Il suo nome è iniziato a circolare dallo scorso primo giugno. Ossia dal Congresso del Partito Popolare europeo che si è svolto a Rotterdam. In quell’occasione è stato eletto alla presidenza il tedesco Manfred Weber. E Tajani è stato confermato vicepresidente. L’intesa tra i due è forte. Weber è ancora capogruppo nell’aula di Strasburgo. I due si fidano vicendevolmente. E soprattutto hanno interessi comuni.
Nel caso specifico, il Ppe sa che la coalizione di centrodestra può diventare un problema se guidata, anche da Palazzo Chigi, dalla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, o dal leghista, Matteo Salvini. I popolari considerano il “lumbard” una sorta di “nemico”.
In particolare per i suoi rapporti con Mosca e con il partito di Putin. La linea antieuropeista del Carroccio è fumo negli occhi. Non è un caso che intorno ai leghisti persiste una sorta di cordone sanitario che a Bruxelles li esclude da qualsiasi circuito decisionale.
Dell’esponente della destra, invece, non si fidano. Le sue radici post-fasciste non tranquillizzano i popolari che hanno già espulso di fatto l’ungherese Orban proprio per le sue visioni reazionarie. Hanno apprezzato la conversione atlantista e europeista. Ma guardano con diffidenza al gruppo dirigente di Fdi, ai legami con l’ultradestra in Italia e in Europa.
Manca poi ancora quel fattore fondamentale nei rapporti politici e diplomatici: la fiducia e la confidenza. Il ragionamento che viene fatto dai vertici popolari è allora questo: “Dopo aver perso la Germania, dobbiamo riconquistare il governo in almeno uno dei grandi paesi europei. Al voto andranno presto Italia e Spagna. Va bene l’alleanza con la destra e anche con i sovranisti. Purché poi la guida del governo sia moderata”. E in Italia vuol dire che la soluzione migliore sarebbe appunto Tajani.
Tra il rappresentante italiano e Weber esiste un rapporto di reale confidenza. Il 3 maggio scorso, ad esempio, durante il dibattitto a Strasburgo con il presidente del consiglio italiano, Mario Draghi, il capogruppo tedesco ha citato sostanzialmente una sola persona: proprio Tajani. Sottolineando il lavoro svolto dall'”Amico italiano” come presidente del Parlamento europeo dal 2017 al 2019.
Ma c’è di più. L’intesa riguarda anche gli assetti di potere a Bruxelles. Sono stati loro due a condurre le trattative per eleggere Roberta Metsola nella battaglia per la successione a David Sassoli.
“E’ una nostra amica e un’amica dell’Italia”, ripeteva Tajani in quei giorni. E anche in queste settimane sta emergendo un accordo tra loro due per nominare in autunno l’italiano Chiocchetti alla segreteria generale sempre del Parlamento europeo. Non si tratta di una casella secondaria. Il tedesco Klaus Welle, il segretario generale uscente, è stato potentissimo nell’ultimo decennio determinando vittorie e sconfitte nell’assemblea europea. Non si pensi che nell’Unione non si faccia attenzione a poltrone e incarichi. Anzi, sono l’indicatore più sincero dei rapporti di forza.
E l’intesa tra Tajani e Weber ha anche questo motivo. Al di là delle dichiarazioni formali, c’è un altro aspetto da considerare: il primo nemico di Weber a Bruxelles è un’alta esponente del Ppe, la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen. E’ in corso da mesi un regolamento di conti tra i due “tedeschi”. E per Weber avere eventualmente Tajani premier sarebbe l’arma migliore per candidarsi – se i popolari avranno un buon risultato alle elezioni europee del 2024 – al posto di Von Der Leyen o comunque rimuovere la sua “nemica” per promuovere Roberta Metsola.
LE CARTE DI TAJANI
In ogni caso il rappresentante italiano ha anche delle carte personali da giocare. E’ stato presidente del Parlamento europeo, e per sei anni Commissario. Insomma a Bruxelles è accolto e soprattutto è considerato un europeista. E non un pericolo come lo sarebbe Salvini o Meloni. Come ripete Weber (che in Germania chiamano “born Mep”, ossia nato membro del Parlamento europeo), “Antonio è uno dei nostri”.
Certo, la scelta ha già fatto scattare la discussione dentro il Ppe. Non sulla persona che, appunto, nei Palazzi di Bruxelles è comunque rassicurante. Quanto sull’alleanza con la destra sovranista. Alcuni, ad esempio i membri della componente austriaca, non sono per niente convinti che sia giusto “autorizzare” un patto con Lega e Fratelli d’Italia.
Nemmeno con l’obiettivo di riconquistare spazi nell’Unione. Ma per il Ppe, ormai, è quasi una questione di vita o di morte. Nei prossimi due anni, prima delle urne, deve riguadagnare posizioni tra gli Stati membri. Per non correre il rischio di perdere la primazia dentro il Parlamento europeo e nelle principali istituzioni dell’Unione. Nella corsa alla premiership del centrodestra italiano, dunque, le puntate europee avranno un peso. E non da poco.
(da La Repubblica)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
“NO MELONI. NO SALVINI. NO BERLUSCONI. VOTO PD, PERCHÉ IL GRIGIORE DELL’ULTIMO PARTITO COSTITUZIONALE È CIVILMENTE DA PREFERIRE A OGNI ALTRA SCELTA”
Dichiarazione di voto, visto che si vota. No Meloni. No Salvini. No Berlusconi. Voto
Pd, perché il grigiore dell’ultimo partito costituzionale, in attesa di una leadership e di un vero programma politico e di interessi sociali, è civilmente da preferire a ogni altra scelta.
Lo voto anche se mi trovo l’ex gilet giallo Giggino Di Maio nel collegio uninominale, non sono schifiltoso, non me lo posso permettere.
L’agenda Draghi, in bocca al medesimo e nelle sue mani di governo, è una figata pazzesca; l’agenda Draghi, esibita come un blasone di liberalismo in mano a professori di politica minoritaria, a puristi della concorrenza, centristi e riformisti immoderati e megalomani, è una boiata pazzesca.
L’insediamento di Meloni diverrebbe una incoronazione per la fine di tutte le Repubbliche sin qui conosciute
Non è che perché uno è draghista efferato e vota Letta con gli “occhi di tigre” che si deve bere come una limonata le scemenze da ztl e da Sciences Po. Italia tradita, Vergogna, grazie Mario, scusa Mario, sordomuti per Mario, cataclisma dopo Mario, Pnrr ripetuto a tiritera come una pernacchia, e i mercati che non perdonano, e la Nato vaffanculata dall’Italia, perché un governo è stato sfiduciato dal Parlamento.
Un governo di unità nazionale che dall’elezione mancata di Draghi al Quirinale non aveva ragione politica di esistere. La mobilitazione della società civile ben pettinata mi ha sempre fatto sorridere.
L’agenda Draghi dovrebbe essere una coalizione di forze reali o di partiti che punta a governare e spiega per fare cosa con attenzione agli interessi sociali rappresentati, Il Metropolitan Gala della sinistra fighetta ha cercato in Draghi una bandierina mondana, sbagliando indirizzo, e ora è il momento del ballo delle debuttanti con Gelmini Brunetta Carfagna.
Giuliano Ferrara
(da “il Foglio”)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
NON SONO “USCITE” IRRILEVANTI: PER BERLUSCONI SIGNIFICA PERDERE PEZZI DI APPARATO IN DUE REGIONI CHIAVE: LOMBARDIA E CAMPANIA
“Bisogna prima capire cosa faranno Mariastella e Mara, ma sicuramente entro dieci giorni ci saranno diverse altre fuoriuscite”.
Dentro Forza Italia c’è fibrillazione. Serpeggia malumore. Solo i senatori Andrea Cangini e Laura Stabile hanno votato, in dissenso dal gruppo, la fiducia a Mario Draghi. Il primo è passato ad Azione.
Delusione dunque, ma la maggior parte dei parlamentari non si muoverà. Le liste elettorali dovranno essere completate entro il 22 agosto e c’è chi spera ancora in un seggio nel Parlamento
C’è però un manipolo di almeno una decina di fedelissimi delle due ministre che nei prossimi giorni potrebbe seguire le ministre e lasciare FI. Un elenco parziale è questo.
Con Maria Stella Gelmini ci sarebbero i deputati del nord: Roberto Caon, Giuseppina Versace, Claudia Porchietto, Carlo Giacometto, Anna Lisa Baroni e Roberto Novelli.
Mentre con Carfagna potrebbero andarsene i parlamentari campani Paolo Russo, Luigi Casciello, Marzia Ferraioli e Antonio Pentangelo.
La vera fuga, se ci sarà, la si vedrà proprio nei territori dove le due ministre sono più forti: Lombardia e Campania.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
SIAMO AGLI INSULTI TRA EX COLLEGHI GIORNALISTI E DI PARTITO… TOTI: “TROVATI UN COLLEGIO CHE TI ABBIAMO MANTENUTO FIN TROPPO”
Non si risparmiano i veleni Giorgio Mulè e Giovanni Toti, ex colleghi di professione
come giornalisti e di partito in Forza Italia.
Tutto comincia con un’intervista di Mulé al Secolo XIX nel corso della quale, a proposito delle alleanze in Liguria, l’esponente azzurro osserva che “abbiamo perso il conto dei partiti che fonda Toti, se fa un accordo con la sinistra viene meno l’appoggio del centrodestra”.
Il governatore ligure replica: “4-4-2-1… Non è la formazione di Oronzo Canà, sono gli ultimi risultati di Forza Italia alle elezioni regionali in Liguria, alle Comunali di Genova, La Spezia e Savona. Con questi numeri capisco che l’onorevole Mulè abbia fretta di andare a votare”. E ancora: “Giorgio, cercati un collegio va, che per il contributo che hai dato ti abbiamo mantenuto abbastanza. E lascia tranquilli i liguri, che di guai gliene avete già combinati a sufficienza!”, rincara sempre su Twitter il leader di Italia al Centro.
Un punto per uno, ma c’è il secondo tempo. “Il guaio di Giovanni Toti – controreplica Mulè – è che, poverino, vive da tempo di livore. Non avendo argomenti, dispensa rancore a piene mani nei confronti di chiunque. Sembra un Di Battista un pò sovrappeso. Si prova solo molta pena e nulla più”.
“Ormai siamo arrivati al body shaming”, lamenta Toti, “aspetto con ansia le prossime opinioni politiche dell’onorevole Mulè. Visto il livello, sono indeciso tra ‘Ciccio bomba cannoniere’ e ‘Non mi hai fatto niente, faccia di serpente’. Ecco il suo programma segreto per vincere le elezioni”.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
“SOGNI, SPERANZE E BAGAGLI PRONTI”
Francesca Pascale pronta a fare le valigie e scappare dall’Italia in caso di trionfo sovranista alle elezioni: l’ex compagna di Silvio Berlusconi, in viaggio di nozze a Santa Monica con la moglie Paola Turci, su Instagram lancia un messaggio ben chiaro: “Se dovessero vincere: sogni, speranze e bagagli pronti”.
Sei anni fa ebbe uno scontro con Matteo Salvini a distanza: Pascale postò su Instagram alcuni vecchi slogan del segretario del Carroccio contro il Sud, e lui in un’intervista a Libero rispose: Caliamo un velo umanamente pietoso. Alla ragazza non starò simpatico. Ma se questa roba ha un’influenza sulle scelte politiche, beh allora siamo messi male”.
Ad ora nessun commento alle parole di Pascale dal centrodestra
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
I PARTITI DEVONO TROVARE L’ACCORDO SUL BONUS 200 EURO E SUL TAGLIO DELL’IVA… NEL DECRETO NON CI SARÀ IL MINIMO SALARIALE, NÉ IL MINI-TAGLIO DEL CUNEO FISCALE
Giorno dopo giorno si capirà meglio quanto «gli affari correnti» si faranno più
flessibili, quanto più ampio sarà il perimetro di azione che Sergio Mattarella ha disegnato per il governo uscente di Mario Draghi. Perché ci sono troppe emergenze da affrontare, e né la crisi politica né la campagna elettorale sotto l’ombrellone possono metterle da parte. Il primo tema che si pone, il più urgente, è il prossimo decreto Aiuti, rimasto in cantiere in attesa che i partiti portassero a compimento il suicidio della legislatura.
E che adesso potrebbe diventare ancora più striminzito se il governo non dovesse ricevere un via libera dalle forze politiche già impegnate in campagna elettorale. Ma al centro delle preoccupazioni di Draghi (e di Mattarella) ci sono anche gli impegni dell’agenda internazionale. Le sfide a cui ha legato il suo nome: il tetto al prezzo del gas, la garanzia dell’invio delle armi a Kiev, la diplomazia energetica per liberarsi dal gas russo. Dopo le indicazioni del presidente della Repubblica, al momento di sciogliere le Camere, è Draghi a dare, in una direttiva indirizzata a tutti i ministri, una cornice di cosa si occuperà il governo. Piano europeo di riforme (il Pnrr), guerra in Ucraina, Covid, nomine in scadenza, ma anche bollette e caro-benzina.
Il costo della crisi politica si riflette già sulle norme allo studio per mitigare gli effetti dell’inflazione sulle famiglie. Al momento, Tesoro e a Palazzo Chigi confermano che il pacchetto di interventi potrebbe essere molto meno forte di ciò che era stato preventivato. Si fermerebbe a poco più di 3 miliardi. Il condizionale è d’obbligo, perché tutto è cambiato nel giro di pochi giorni. Come raccontato da La Stampa, fino allo strappo del M5S del 14 luglio, motivato dal no all’inceneritore di Roma, il governo aveva trovato una disponibilità finanziaria di 23-25 miliardi, da usare per anticipare misure chieste dai partiti e previste per la manovra. Rispetto alla settimana scorsa, a comporre il menu del decreto ora c’è un governo dimissionario, in carica solo per il disbrigo degli affari correnti.
E quindi, il provvedimento arriverà in Consiglio dei ministri in una versione necessariamente light. Molto meno dei 10 miliardi individuati grazie al tesoretto delle entrate fiscali, come certificato dal ddl sull’assestamento di bilancio che il Parlamento voterà nei prossimi giorni.
Nel decreto non ci sarà il minimo salariale, né il mini-taglio del cuneo fiscale. Insomma, tutte le misure politiche che in qualche modo avrebbero dovuto anticipare la legge di bilancio sono state eliminate. Il decreto si occuperà dello stretto necessario e non sarà troppo esteso, anche perché poi bisognerà approvarlo senza fiducia. La crisi ha mozzato le risorse, facendole calare, a quanto pare, a meno di 4 miliardi.
Si sta valutando se riproporre per un altro mese il bonus da 200 euro, che proprio alla fine di questo mese verrà erogato nelle buste paga di 30 milioni di italiani, oppure tagliare l’Iva sui prodotti del carrello della spesa. O altrimenti prorogare solamente il contributo sulle bollette di luce e gas e il credito di imposta per le imprese energivore, che appunto valgono circa 3, 5 miliardi. Il dibattito dentro la ex maggioranza deve ancora cominciare.
Il bonus da 200 euro, per esempio, è un’ipotesi che mette d’accordo tutti, ma costa quasi 7 miliardi, e non è l’unico intervento da fare. Per questo, per procedere, il governo vuole avere il consenso dei partiti. Al Tesoro pensano che non ci saranno problemi: quale forza, in piena campagna elettorale, si esporrebbe agli attacchi per aver fermato una misura che mette soldi in tasca agli elettori?
Se fosse confermato, allora il decreto tornerebbe alla cifra di 10 miliardi. Nella sua versione originaria, l’indennità da 200 euro è rivolta a chi ha un reddito inferiore ai 35 mila euro. Una platea enorme che i sindacati vorrebbero ampliare a favore dei precari. Capitolo a parte, la benzina. Il taglio sulle accise che assicura uno sconto di 30 centesimi alla pompa è stato allungato fino al 21 agosto, un rinvio fino a metà settembre è destinato ad essere varato per via ministeriale.
Fino al 25 settembre, giorno delle elezioni, e poi ancora fino alla formazione del nuovo governo, Draghi avrà il potere di imporre restrizioni, per esempio, se un’altra ondata del virus dovesse renderlo necessario. E sarà lui a dare l’ok al prossimo decreto sugli aiuti militari, il quarto, che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha già pronto, e che ha ricevuto la massima copertura del Quirinale.
Sul tetto al prezzo del gas sarà corsa contro il tempo perché il Consiglio europeo che ne dovrà discutere è fissato il 20 ottobre. Per quella data l’Italia potrebbe già avere un nuovo presidente del Consiglio. Nelle prossime settimane Draghi intende comunque lavorare sui canali diplomatici con la Commissione Ue che a settembre finalmente definirà una proposta di price cap. Poi, per sperare di superare le resistenze dei partner europei più scettici, gli resterà l’occasione del vertice informale della Ue a Praga, il 6 ottobre. Saranno passati dieci giorni dal voto.
(da la Stampa)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
PROPRIO LORO CHE A DRAGHI HANNO DEDICATO LECCATE DI ALTA QUALITA’ E NONOSTANTE IL MALUMORE DI IMPRENDITORI E TERRITORI
Matteo Salvini si compiace per la compattezza mostrata dalla Lega. Ma con i governatori del Carroccio ci sono state 48 ore di gelo dopo tanti malumori e maldipancia trattenuti a fatica per giorni (vedi il caso del mancato comunicato di sostegno a Draghi).
Perché sui territori l’ipotesi di andare ad elezioni prima e di non votare la fiducia al governo poi ha avuto un peso ben diverso da quello percepito a Roma.
Le categorie economiche e i mondi di riferimento si sono fatti sentire, contavano che prevalesse il senso di responsabilità. Quella linea in Senato, però, non ha retto. Il timore di pagarne le conseguenze è stato avvertito dai governatori che hanno tuttavia preferito annegare la loro rabbia nel silenzio.
Ma ora è già tempo di campagna elettorale. È anche, o soprattutto, per questo che Luca Zaia e Massimiliano Fedriga (ma anche Attilio Fontana, Christian Solinas, Donatella Tesei e il presidente della Provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti), così come Giancarlo Giorgetti e i colleghi ministri Massimo Garavaglia e Erika Stefani, alla fine, pur avendo sostenuto la necessità di garantire appoggio a Draghi, si sono allineati alla scelta del leader, diversamente da quanto è avvenuto in Forza Italia.
La fronda sembra rientrata, pronta a riemergere se le elezioni non dovessero andare come ci si aspetta.
Nella Lega il dissenso esplicito, al di là di non essere gradito, non ha mai fatto la fortuna di chi se ne è reso interprete, fin dai tempi di Umberto Bossi. Del resto, Salvini sapeva che la posizione dei governatori poteva essere insidiosa per lui.
Per questo li ha consultati prima, durante e anche nei momenti decisivi dell’epilogo del governo. E anche ieri, all’avvio di una campagna elettorale che nelle intenzioni dovrebbe riportare il centrodestra nella stanza dei bottoni, il segretario della Lega li ha voluti sentire per un confronto.
La nota diffusa da Salvini sottolinea che «è emersa grande soddisfazione per la compattezza della Lega, a differenza di altri partiti» (annotazione velenosa). E poi aggiunge: «I governatori sono già al lavoro anche per offrire spunti utili in vista dei dossier più interessanti per la campagna elettorale a cominciare dall’autonomia. Grande attenzione per economia, sburocratizzazione, infrastrutture, energia e tasse».
Zaia guarda avanti: «Io capisco la posizione delle categorie economiche, che è quella di chi vorrebbe stabilità e scadenze perfette per le elezioni. Il tempo che manca per avere un nuovo Parlamento e un nuovo governo non è molto e spero che si recuperi velocemente. Mi auguro che ci sia una maggioranza solida e che si continuino a fare le riforme di cui l’Italia ha bisogno».
Fedriga nelle ultime settimana ha preso più volte le difese del presidente del Consiglio. E anche all’interno della Lega si è speso perché non si spezzasse il filo. La linea «governista» non ha prevalso, ma il governatore del Friuli-Venezia Giulia conferma le sue valutazioni: «Secondo me Draghi ha fatto un ottimo percorso in mezzo a molte difficoltà con una maggioranza estremamente eterogenea.
È riuscito a portare a casa il Pnrr, ma penso anche alla lotta alla pandemia, alla crisi con la guerra in Ucraina e la crisi economica, è riuscito ad avere la capacità di dialogare con i Paesi stranieri e ha reso l’Italia protagonista». Fedriga e Zaia rispondono all’unisono su un loro possibile impegno a Roma. «Non vedo l’ipotesi di una mia chiamata» replica il primo. «Io presidente del Consiglio? No, ogni volta che si parla di elezioni sono candidato a tutto quello che passa per strada. Io penso al Veneto» chiude il secondo.
(da il “Corriere della Sera”)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
L’ANALISI DI ROBERTO D’ALIMONTE: “MOLTI FATTORI POSSONO CAMBIARE LE COSE. IL PRIMO È LA CRISI DI GOVERNO. M5S, LEGA E FORZA ITALIA SARANNO DANNEGGIATE DAL FATTO DI ESSERSI RESE RESPONSABILI DEL VOTO ANTICIPATO?”… ATTENZIONE ALL’ASTENSIONISMO: GLI ELETTORI CHE NON RISPONDONO ALLA DOMANDA SUL VOTO SONO IL 40%.
L’esito delle prossime elezioni si giocherà nei collegi uninominali della Camera e
soprattutto del Senato. Non è stato così nel 2018. Allora la forza del M5s, in particolare nei collegi del Sud, ha fatto sì che il risultato finale fosse sostanzialmente proporzionale e il governo, come si sa, non uscì dalle urne ma dal negoziato post-voto tra M5s e Lega. Questa volta non andrà così.
Questa volta quasi certamente i collegi uninominali faranno la differenza e molto probabilmente a favore della destra. È questo il vero motivo per cui Berlusconi e Salvini hanno scelto la strada delle elezioni anticipate. Li hanno convinti i sondaggi favorevoli e la divisione che questa crisi ha prodotto tra Pd e M5s.
Guardiamo i dati. La media dei sondaggi della settimana che va dal 10 al 16 Luglio, dice che Fdi, Lega e Fi insieme possono contare sul 46,3% delle intenzioni di voto, mentre Pd, Azione/+Europa, Sinistra/Verdi, Iv arrivano al 34,1%. Il M5s è stimato all’11%. Il partito di Di Maio non è stimato.
Includendo nel centro-sinistra il M5s il distacco in voti con la destra sarebbe modesto. La vera differenza è che la destra è meno frammentata e più coesa, nonostante tutto, del centro-sinistra. È impensabile, pur in un paese in cui ne abbiamo visto e ne vediamo di tutti i colori, che Pd e M5s possano allearsi per presentare candidati comuni nei collegi dopo quanto è successo.
Quindi, con questa distribuzione di voti, il distacco tra i due poli è più o meno di 10 punti percentuali. È vero che il 46 % della destra e il 34 % del centro-sinistra sono medie nazionali e quello che conta per vincere nei collegi sono le percentuali ottenute dai candidati nei singoli collegi, ma anche tenendo conto di questo fattore, con questo distacco non c’è partita.
Però, chi può dire oggi con certezza che questo distacco resterà lo stesso fino al 25 settembre? Molti fattori possono cambiare le cose. Il primo è la crisi di governo. Oggi non è ancora noto quale effetto avrà sulle opinioni degli elettori. Secondo un sondaggio recente di SWG il 50% degli intervistati preferiva che il governo Draghi restasse in carica. Oltre al M5s, Lega e soprattutto Forza Italia saranno danneggiate dal fatto di essersi rese responsabili del voto anticipato?
Le defezioni in Forza Italia e i malumori dentro la Lega sono un segnale. Il secondo è il fattore Draghi.
In un sondaggio di Euromedia del 19 luglio l’indice di fiducia del premier era ancora al 52%. In che misura l’associazione del suo nome e del suo governo al Pd e ai partiti che lo hanno sostenuto fino in fondo può influenzare il voto? Il terzo è l’astensionismo. In tutti i sondaggi la percentuale di elettori che non rispondono oggi alla domanda sul voto è stimata intorno al 40%. Non tutti gli astensionisti di oggi si asterranno il 25 settembre. Il loro voto, che oggi non conosciamo, può cambiare gli equilibri. E lo stesso si può dire a proposito dell’astensionismo aggiuntivo rispetto alle elezioni del 2018 che potrebbe favorire il centro-sinistra. Insomma mobilitazione e smobilitazione incideranno di certo.
Il quarto, e importantissimo, fattore è la composizione delle coalizioni, il modo in cui i partiti si presenteranno davanti agli elettori. Una cosa ben nota è che la domanda, cioè l’espressione del voto, è influenzata dalla offerta, cioè la configurazione delle forze in campo. Come si presenteranno i vari Calenda, Renzi, Di Maio, Gelmini ecc.? Una offerta convincente al centro dello spazio politico potrebbe far lievitare quel 34% stimato oggi come base di partenza del polo di centro-sinistra. Ma non sarà facile trovare la quadra, come già si vede dalle diatribe di queste ore.
In realtà non si sa nemmeno se Pd e Azione decideranno di stare insieme o meno. Se andassero divisi il quadro della competizione cambierebbe completamente. Da ultimo e non da meno, non si può non tener conto che su questa tornata elettorale aleggia in autunno lo spettro di una crisi economica, sociale e forse pandemica che potrebbe incidere pesantemente sugli orientamenti politici e quindi sull’esito del voto. In quale direzione non è dato sapere oggi.
In fondo, quanto abbiamo detto finora si riassume sostanzialmente in un concetto: la campagna elettorale. Il clima politico, i temi, i toni, le alleanze, i candidati nei collegi uninominali possono fare la differenza. Abbiamo già visto campagne elettorali iniziate con un largo vantaggio di uno dei due poli e finite al photofinish. In un periodo come questo in cui le opinioni sono estremamente fluide basterebbe uno spostamento di 4-5 punti percentuali da un campo all’altro per riequilibrare i rapporti tra i due poli e rendere la competizione in molti collegi più incerta.
Detto ciò, alla luce dei dati di sondaggio di oggi non c’è dubbio che il centro-sinistra non sia il favorito per la vittoria finale. Eppure, tutto dipende da cosa succederà in un certo numero di collegi uninominali. In chiusura riproponiamo uno strumento già utilizzato in passato su queste pagine. Serve a rispondere alla domanda: quale combinazione di seggi proporzionali e maggioritari consente di arrivare alla maggioranza assoluta?
Ottenendo il 46% dei seggi proporzionali, che più o meno corrisponde al 46% di voti, la destra dovrebbe ottenere il 65% dei seggi maggioritari per avere un totale di 104 seggi su 200. Questo significa che dovrebbe vincere 48 collegi su 74.
Se invece i seggi/voti proporzionali fossero il 42% dovrebbe vincerne il 70%, vale a dire 52 su 74, per avere 103 seggi totali. Sono percentuali elevate ma non irraggiungibili.
D’altronde, basterebbe che il centro-sinistra vincesse una trentina di seggi uninominali per impedire al centro-destra di conseguire la maggioranza assoluta al Senato. Missione difficile ma non impossibile.
Conclusione: per Pd e alleati la corsa è senza dubbio in salita ma non è persa in partenza. Se riuscissero a fare una campagna elettorale perfetta la destra potrebbe non arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi in una delle due camere oppure ottenere maggioranze molto risicate. Ma potrebbe succedere anche il contrario: che la destra, grazie ai collegi uninominali e alle divisioni e agli errori dei partiti di centro-sinistra, possa conseguire una vittoria schiacciante. Aspettiamo la campagna elettorale e capiremo.
Roberto D’Alimonte
(da il “Sole 24 Ore”)
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Luglio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
UGO MAGRI: “AL POSTO DELLA TERRA PROMESSA SIAMO IN UNA TERRA DESOLATA E AD ACCELERARNE LA DESERTIFICAZIONE È STATA PROPRIO LA SCIAGURATA E IRRESPONSABILE DECISIONE DI STACCARE LA SPINA A DRAGHI”
C’era una volta (seppure un po’ a singhiozzo e a geometrie alquanto variabili) una Forza Italia moderata, liberalconservatrice – ma con sprazzi di apertura sui diritti civili – ed europeista. Ecco, c’era una volta, e non c’è più, definitivamente. Come mostrano le uscite eccellenti di queste giornate e i drammi personali di figure che avevano contribuito alla sua fondazione, credendo che costituisse comunque la finestra di opportunità per dare vita a una destra liberale in Italia (che continua invariabilmente a confermarsi più simile a un incrocio fra una chimera e l’araba fenice che a una realtà effettuale).
Mentre è sempre in campo, eterno ritorno indistinguibile dall’assenza di soluzione di continuità, lui: Silvio Berlusconi, già dominus indiscusso del centrodestra che, da qualche anno, si è compiutamente convertito in destracentro a trazione populista, e teatro delle aspre liti di condominio per la successione tra i suoi un tempo junior partner Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Con la presidente di Fratelli d’Italia – già lasciata in solitudine all’opposizione, e attualmente col vento in poppa dei sondaggi – il sempiterno leader di Forza Italia si è infine incontrato a pranzo nelle scorse ore.
E ha dichiarato la sua intenzione di candidarsi al Senato, con il desiderio sussurrato a bassa voce di poter concludere la sua carriera di Highlander accomodandosi sullo scranno più alto, e l’aspirazione manifesta di prendersi la rivincita sulla giornata dell’ira funesta del 23 novembre 2013, quando la Camera alta votò la sua decadenza dopo la condanna definitiva per frode fiscale nel processo Mediaset. Obiettivi per il cui conseguimento l’uomo che ha inaugurato la Seconda Repubblica ha scelto di assecondare la «mutazione genetica» (come l’ha definita un deluso e furente Renato Brunetta) della sua creatura politica, pianificata all’interno del femminile cerchio magico filosalviniano.
E di dismettere i panni del responsabile uomo delle istituzioni e dell’interlocutore riabilitato dal Partito popolare europeo per tramutarsi in uno dei principali congiurati del draghicidio. Perciò risulta di grande interesse leggere il colloquio di ieri con Massimo Giannini, nel quale il capo di Fi si è prodotto nelle sue «Berlusconarie», un tentativo di riscrittura della storia della congiura antiDraghi per accreditarsi come suo difensore nonostante l’evidenza dei fatti (e la flagranza di reato). E a dispetto del timore, molto malcelato (e decisamente infondato), di ritrovarsi un giorno l’ex banchiere centrale quale potenziale competitor nel segmento di mercato politico moderato.
Il voto anticipato rappresenta, altresì, un’iniezione di Gerovital per colui che, alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, ha introdotto in Europa il paradigma del partito personale e in Italia le pratiche e gli strumenti della campagna elettorale permanente. E che del populismo postmoderno è stato il padre putativo, anche se – una differenza non di poco conto rispetto alla stagione odierna – si trattava di una sua versione ottimistica, quella dell’uomo col sole in fronte e della terra promessa a portata di mano. Mentre dagli anni della Grande recessione in poi – per non parlare di quello che si prospetta già dall’autunno caldo del nostro scontento dietro l’angolo -, il populismo si è fatto nettamente regressivo, reattivo e rabbioso, e ha bandito le speranze (irrealizzabili e irrealizzate) dentro le quali Silvio l’illusionista aveva cullato tanti cittadini-elettori.
Le passioni tristi, come le chiamava Spinoza, hanno preso così il sopravvento insieme ai rancori, relegando un po’ in soffitta il berlusconismo. Sempre pensiero magico, beninteso, ma cupo anziché solare e ciarliero. Memore, sulla scorta dei risultati calcistici del Monza, della massima per cui «squadra che vince non si cambia», l’ennesima discesa in campo del «Bba» (Berlusconi back again) avviene così a suon di annunci miracolistici.
E della prospettiva di un’Italia di nuovo terra promessa con pensioni elevate “almeno” a mille euro per 13 mensilità, «la pensione alle nostre mamme, che sono le persone che hanno lavorato di più alla sera, al sabato, alla domenica, nei periodi delle ferie e che hanno diritto di avere una vecchiaia serena e dignitosa». Come pure dell’impegno alla piantumazione ogni anno di un milione di alberi – col dettaglio non esattamente trascurabile che nel Pnrr è già contemplata la messa a dimora di 6 milioni di piante.
Un colpo (elettoralistico) al cerchio e uno alla botte: pantere grigie e generazione Greta. Un Berlusconi anti-aging e “ritornante” da par suo, dunque. Soltanto che al posto della terra promessa ci stiamo inoltrando sempre di più in una eliotiana terra desolata, socialmente e finanziariamente, e ad accelerarne vieppiù la desertificazione è stata proprio la sciagurata e irresponsabile decisione di staccare la spina a Draghi. «Il centrodestra sono io», ha detto l’ultraottuagenario ex pluripremier al direttore di questo giornale.
Peccato, però, per l’appunto, che il centrodestra come cultura politica di riferimento non ci sia più. Puf!, volatilizzata. E che il centrodestra cosiddetto di governo abbia fornito il contributo decisivo proprio per buttare giù il governo. Sulle sue fondamenta è cresciuto nel frattempo, e ora si è irreversibilmente consolidato, il destradestra-centro, la Casa delle libertà delle destre populiste. Ma anche del perdurare, dietro i sorrisi e la riconciliazione propiziata dai sondaggi, dei litigi e dei machiavelli, almeno fino a quando verrà stabilita con precisione a prova di bomba la metodologia di investitura del possibile inquilino (o inquilina) di palazzo Chigi.
Ugo Magri
(da “la Stampa”)
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