Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile “MA SEI COSÌ CERTO DI RIMANERE A CAPO DELLA LEGA FINO AL MAGGIO 2023? VAI AL VOTO! NON CI ARRIVI A MAGGIO 2023. HAI L’ULTIMA POSSIBILITÀ DI FARE LE LISTE ELETTORALI CANDIDANDO AMICI FIDATISSIMI”
Nei giorni cruciali del duello Conte-Draghi il Capitone viene trafitto da un’analisi politica
di Licia Ronzulli, poi supportata dal “suocero”, Denis Verdini: ma sei così certo di rimanere a capo della Lega fino al maggio 2023, data ipotizzata da Mattarella per il voto politico?
Alla eterna fronda interna dei governatori Zaia-Fedriga-Fontana e di quell’anima pia di Giorgetti, occorre aggiungere l’insofferenza dei fedelissimi salviniani nei confronti dei governatori e infine l’alzata di testa di Letizia Moratti, cara alla Meloni, sulla corsa alla presidenza della Regione Lombardia.
E qui entra in campo il vocione di Verdini padre, che in sostanza conferma il pensiero della Ronzulli: “Vai al voto! Non ci arrivi a maggio 2023. Hai l’ultima possibilità di fare le liste elettorali candidando amici fidatissimi”.
Ok, messaggio ricevuto, bofonchia Salvini. Ora c’è però da convincere Silvio Berlusconi, quel pregiudicato di 86 anni che lo scorso settembre, intervistato da Massimo Giannini, aveva drigrignato la dentiera: “Senta, siamo sinceri: ma se Draghi va a fare il presidente della Repubblica poi a chi dà l’incarico di fare il nuovo governo? A Salvini? Alla Meloni? Ma dai, non scherziamo”.
Quella sentenza si è poi trasformata in battuta grazie al tenace lavoro ai fianchi della triade Salvini-Ronzulli-Fascina che gli hanno fatto credere, nei suoi rari momenti di lucidità e controllandolo h24 affinché non cambiasse idea, che era la sua ultima chance, salirai sullo scranno più alto del Senato, diventerai seconda carica dello Stato!
Silvio, dopo la cacciata dal parlamento con la legge Severino, l’umiliazione di processi a ripetizione e il disonore di finire ai servizi sociali, il ritorno sarà la tua vendetta, rivincita, rivalsa contro i comunisti! E poi giù a squadernare i sondaggi che incoronavano la Meloni: ora o mai più!
Anche qui entra in ballo la possibilità di candidare i fedelissimi cari alla Ronzulli-Fascina e al maggiordamo Tajani.
Il Banana assediato si convince, le telefonate della figlia Marina e i consigli di Gianni Letta rimangono lettera morta e Salvini spedisce il leghista Molinari in aula a tuonare “O il rimpasto o morte”. Un Draghi-bis che imponeva a SuperMario di far fuori gli odiatissimi Lamorgese e Speranza. Ovvio che un altro governo non si poteva fare a tre mesi dalla Finanziaria e a sei mesi dal voto.
Draghi gira i tacchi e la triade Salvini-Ronzulli-Fascina si mette in moto: non c’è nessuno che detesta di più la Meloni, quella che il Capitone nomignola beffardamente “la Rita Pavone”.
(da Dragoreport)
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Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile COMPLIMENTI A QUEI POLITICI ITALIANI CHE AMANO FREQUENTARE LE AMBASCIATE DI QUESTI CRIMINALI TERRORISTI
«L’esecuzione, la morte», ma non «per fucilazione bensì per impiccagione»: una «morte umiliante».
Questo è quello che meritano i militanti del battaglione Azov, secondo due civili citati dall’ambasciata russa in Gran Bretagna.
Questo messaggio è infatti apparso sul loro profilo Twitter ufficiale, scatenando immediatamente la veemente reazione di Kiev. Andriy Yermak, capo dell’ufficio della presidenza ucraina, ha ribattuto su Telegram: «La Russia è uno Stato terrorista. Nel XXI secolo, solo i selvaggi e i terroristi possono parlare a livello diplomatico del fatto che le persone meritano di essere giustiziate per impiccagione. La Russia è uno Stato sponsor del terrorismo. Quali altre prove sono necessarie?».
Anche lo stesso Twitter non ha potuto fare a meno di prendere posizione. Ha deciso tuttavia di non eliminare il Tweet, spiegando nel disclaimer che ora appare prima del post: «Questo tweet ha violato le Regole di Twitter sulla condotta relativa all’odio. Tuttavia, Twitter ha stabilito che potrebbe essere nell’interesse del pubblico che il tweet rimanga accessibile».
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile PRODUTTORI DI ARMI, ARMATORI, TASSISTI, BALNEARI E PMI… L’INTERNAZIONALE REAZIONARIA IN EUROPA E NEGLI USA… ECCO A VOI LA DESTRA ASOCIALE
Il volto mediatico di Fratelli d’Italia, quello più moderato, ha le sembianze di Guido
Crosetto. Dal 2019 è presidente dell’Aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza, meglio nota con la sigla di Aiad. Una branca di Confindustria che mette insieme imprese nazionali, ad alta tecnologia, che lavorano nell’ambito dell’aerospaziale civile e militare, il comparto navale e terrestre militare e dei sistemi elettronici che sono legati a questi ambiti. E, come si legge sul sito ufficiale, l’Aiad «mantiene stretti e costanti rapporti con organi e istituzioni nazionali, internazionali o in ambito Nato al fine di promuovere, rappresentare e garantire gli interessi dell’industria che essa rappresenta».
Sponde molto prestigiose per Crosetto che porta in dote alla leader Giorgia Meloni. Ancora di più in tempi di nuova centralità dell’Alleanza atlantica, quando l’aspirante premier vorrà dare “del tu” a Jens Stoltenberg, attuale numero uno della Nato.
Legami di ferro (e fuoco)
Ma c’è un altro filo rosso che lega la lobby delle armi, al di là dell’industria militare, a Fratelli d’Italia. Un patto inossidabile fatto di industriali e appassionati di pistole, fucili e munizioni, che inizia già dal 2018, a pochi mesi dalle elezioni politiche.
Il comitato Direttiva 477, oggi diventata Unarmi (Unione degli armigeri italiani), aveva iniziato la propria sfida per fermare la direttiva europea, la 477 appunto, che chiedeva una regolamentazione sulla circolazione delle armi. Un modo per girare in maniera favorevole quella che poteva essere una riforma restrittiva sul possesso delle armi da fuoco.
Una campagna nella campagna elettorale, sull’onda lunga della propaganda della legittima difesa, antico vessillo della Lega di Matteo Salvini. Con un obiettivo ben tracciato: creare consenso nelle forze politiche per garantire che la battaglia sarebbe stata vinta.
Così è andata: il primo governo Conte ha addirittura allargato le maglie sulla detenzione di pistole e fucili. E, proprio mentre Salvini veniva accolto come un idolo agli eventi degli appassionati del settore, il partito di Giorgia Meloni tesseva la sua trama.
Stringendo un sodalizio, destinato a durare, con la lobby delle armi che vanta un bacino elettorale niente male: a fine 2021, secondo i dati del Viminale, i titolari di licenze per possedere pistole e fucili erano 1 milione e 222 mila.
C’è dunque una struttura consolidata, con il punto di riferimento di Unarmi, presieduta da Giulio Magnani, che rappresenta il pezzo italiano del network di Firearms United, con cui il punto di raccordo è Andrea Favaro, altro esponente di spicco della lobby delle armi. Senza tanti giri di parole Firearms United ammette che ha come «prima e più importante missione» quella di «impedire all’Unione europea di attuare nuove normative che rendano più difficile l’accesso dei cittadini dell’Ue alle armi da fuoco».
A fare da garante è Pietro Fiocchi, nome che a primo acchito non dice molto. Eppure si tratta di un eurodeputato di Fratelli d’Italia, che con le armi ci lavora nel vero senso della parola.
«Appartengo a una famiglia di imprenditori che da cinque generazioni produce cartucce e soprattutto da cinque generazioni andiamo tutti a caccia», diceva Fiocchi in conferenza stampa, mentre presentava la sua candidatura da indipendente, ben piantato nella lista di Fratelli d’Italia. Una scelta che non ha rivisto dopo essere stato eletto nel collegio Nord Ovest: è nel gruppo dei fedelissimi di Meloni.
La trafila professionale è tutta legata al mondo delle armi, da manager a presidente della Fiocchi of America, divisione statunitense dell’azienda specializzata nella produzione di munizioni di piccolo calibro. E Fiocchi non è stato un caso nel rapporto di FdI con il mondo delle armi.
Al suo fianco, nell’Europarlamento, c’è Sergio Berlato, altro uomo che con le doppiette si trova a proprio agio. Meloni nel 2016 lo ha nominato coordinatore regionale del partito in Veneto, e in quegli anni il futuro europarlamentare rappresentava gli interessi dei cacciatori.
Nel 2019 è diventato presidente della Confederazione delle associazioni venatorie italiane. Dal 2001 al 2006 è stato «consigliere particolare del ministro Gianni Alemanno al ministero delle Politiche agricole e forestali», come emerge dal curriculum consultabile sul sito dell’Europarlamento.
Le lobby anti-liberalizzazioni
Ma la rete di relazioni lobbistiche, e di sostegno elettorale, arriva anche da altri versanti, molto caldi, e vanta una connessione antica. Basti pensare a quanto avvenuto a inizio luglio a Roma, negli ultimi giorni del governo Draghi, con le proteste dei tassisti contro il ddl Concorrenza, che prevedeva una riforma del settore.
Mentre le auto bianche assediavano i Palazzi della politica, gli unici interlocutori ben accetti erano i deputati di Fratelli d’Italia. Non è un caso che Loreno Bittarelli, storico rappresentante degli interessi dei tassisti, sia stato candidato nel 2013 con FdI.
Un rapporto impossibile da scalfire. Così le decine di migliaia di tassisti – l’ultimo dato aggiornato parla di 40 mila licenze – formano una lobby inattaccabile che supporta il partito di Meloni.
Cadono i governi, ma loro resistono a ogni tentativo di riforma. Il legame va oltre il singolo Bittarelli.
Il 28 giugno scorso, i sindacalisti del comparto si sono confrontati con una delegazione di FdI, capitanata da Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e uno degli uomini più potenti nella cerchia vicina alla leader. «Torniamo a chiedere al governo di stralciare una norma che aprirebbe le porte alla concorrenza sleale delle piattaforme tecnologiche multinazionali», è stata la posizione assunta, senza apertura alcuna, dai meloniani.
Identica e precisa a quella di Claudio Giudici, presidente di Uritaxi, una delle sigle che si è battuta contro il governo per eliminare l’articolo dal ddl Concorrenza. Una battaglia vinta: con le dimissioni di Mario Draghi, la norma è stata stralciata dal testo. E nell’urna, senza nemmeno grandi segreti, lo sforzo dei Fratelli di taxi sarà ripagato.
Sempre legato al corporativismo ostile alle liberalizzazioni c’è la galassia dei balneari, una roccaforte di 30mila imprese, resistenti a qualsiasi ipotesi di riforma.
Il principale trait d’union è senza dubbio la senatrice Daniela Santanchè, che con Flavio Briatore gestisce il Twiga a Forte de’ Marmi, in Versilia. Un volto noto che rappresenta gli interessi degli imprenditori del settore. Del resto l’azione parlamentare è stata costante da mesi: già a febbraio scorso, FdI aveva presentato una mozione alla Camera per stoppare l’idea di mettere a gara le concessioni demaniali marittime.
Iniziative che, nonostante il tentativo di trovare una sponda con gli alleati di destra, non hanno prodotto il risultato sperato: ci saranno i bandi dal 2024 e gli indennizzi saranno determinati dai decreti attuativi.
Per questo Meloni&Co. vogliono mettere le mani sul governo e gestire il capitolo. Sul dossier, la leader di Fratelli d’Italia ha puntato su un uomo di fiducia che di più non si può: il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida, che è anche cognato di “Giorgia”, avendo sposato la sorella.
Un altro deputato, piazzato a guardia delle concessioni balneari, è Riccardo Zucconi, storico proprietario del Gran Caffè Margherita, a Viareggio.
L’interlocutore principale è Antonio Capacchione, numero uno del Sib, sindacato di settore legato alla Confcommercio. La vicinanza è messa nero su bianco dalla costante pubblicazione degli interventi dei rappresentanti di FdI sul sito mondobalneare.com, punto di riferimento di chi vuole difendere con le unghie e i denti le concessioni che gestisce da decenni.
Follow the money
Ma la rete di relazioni di Meloni non è solo formata dalle lobby. C’è anche una questione economica da seguire, il più tradizionale del “follow the money”, attraverso le donazioni che negli anni sono affluite nelle casse del partito.
Per Fratelli d’Italia non c’è l’equivalente di Davide Serra per Matteo Renzi, che fa arrivare copiose risorse per la gestione della macchina partitica.
Le informazioni, nero su bianco nei bilanci di FdI, dimostrano comunque come ci siano dei sostenitori molto generosi.
È il caso di Daniel Hager, amministratore delegato della Hc Consulting srl, con sede a Livorno, che risponde alla voce “spedizionieri e agenzie di operazioni doganali”.
Hager è marito di Ylenja Lucaselli, deputata di FdI, e gestisce un colosso della distribuzione di vini in tutto il mondo. Così, nel 2018 ha versato 95 mila euro a cui si sommano altri 15 mila dati dalla società livornese. Anche la Moby spa, gestita da Onorato armatori, ha spesso fornito un contributo, ripetendo quanto fatto con altre forze politiche: nel 2018 e nel 2019 ha donato 5 mila euro per ogni anno.
Più pesante, invece, il supporto del Gruppo villa Maria, che opera nel settore della ricerca sanitaria. Fondata nel 1973 è guidata da Ettore Sansavini, che ha mostrato generosità nei confronti del partito di Meloni, donando 50 mila euro nel 2020.
Il supporto economico arriva inoltre da Confagricoltura, che nel 2019 ha fatto donazioni per 25 mila euro totali, cifra che è calata a poco più di 3 mila euro per l’anno successivo.
Non manca, poi, un circuito esclusivamente romano di donatori, riportati nell’elenco che ogni soggetto politico è tenuto ad aggiornare.
Nel 2020 la Confapi (associazione di piccole e medie imprese) di Roma ha elargito 4 mila euro, mentre l’anno precedente la costola capitolina di Federalberghi aveva provveduto a donare la stessa cifra finita nelle casse del partito.
In alcuni casi le società, come la Pata (che produce patatine), ha versato 2 mila euro alla sezione di Mantova di FdI, città in cui c’è la principale sede della stessa società.
E da Mantova si va oltre, fino a valicare i confini nazionali.
L’European conservatives & reformists party (Ecr) è la casa europea di Giorgia Meloni, condivisa tra gli altri con l’estrema destra spagnola di Vox e il PiS polacco, oltre a rappresentare il megafono di Fratelli d’Italia all’estero.
Soprattutto è un prezioso contributor in termini economici. In tre anni l’Ecr ha destinato a Fratelli d’Italia la somma totale di 250 mila euro. Niente di sconvolgente, visto che le risorse dell’Europarlamento sono aumentate nel tempo per il Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti: solo nel 2022 sono affluiti nelle casse più di 4 milioni di euro distribuiti dall’Eurocamera.
L’aspetto curioso, tuttavia, è la mancanza di trasparenza dell’Ecr, che sul proprio sito – ecrparty.eu – non pubblica i bilanci dal 2017, rendendo indecifrabile l’impiego complessivo delle risorse.
Stesso destino è condiviso dalla New Direction foundation, altra organizzazione che ha sempre sostenuto FdI.
Il motivo? La fondazione, ispirata alla filosofia politica di Margaret Thatcher, è un think tank del pensiero conservatorie che ha come vicepresidente Raffaele Fitto, altro eurodeputato di Fratelli d’Italia. Dal 2018 al 2020, la New Direction ha girato oltre 50 mila euro alle casse del partito meloniano. Anche per la fondazione, però, non è possibile consultare gli ultimi rendiconti: il più recente – si fa per dire – risale al 2018
Il respiro internazionale è anche dato dall’attività all’Europarlamento, condotta principalmente da Procaccini, che si occupa di tutto quanto ruota intorno al mondo digitale, e dal suo collega Carlo Fidanza, che porta le istanze delle realtà italiane nell’alveo dell’Ue.
Da Google a Facebook (che non hanno alcun rapporto economico con FdI) è Procaccini a tenere i fili degli incontri sui provvedimenti che transitano negli uffici europei, mentre Fidanza ha portato Confcommercio, Coldiretti, Assolatte ma anche l’Associazione Italiana Pellicceria, in sede comunitaria.
Una leader convertita all’atlantismo
Qui Meloni non è una semplice comprimaria, ma recita da anni un ruolo da protagonista. La sua ascesa al vertice dell’Ecr arriva nel settembre 2020, quando ne diviene presidente nonostante FdI sia solo il secondo partito per numero di membri del gruppo all’Europarlamento.
I polacchi di Diritto e Giustizia (PiS) guidato dal premier Mateusz Morawiecki contano infatti oltre un terzo dei componenti ma lo scettro va comunque a Meloni, segno del livello raggiunto dalla leader di FdI nei rapporti internazionali. Non a caso ben due premier dell’Ue – lo stesso Morawiecki e il ceco Petr Fiala, il cui Partito Democratico Civico siede nel gruppo Ecr – sono intervenuti (in collegamento video) alla conferenza programmatica del suo partito tenuta ad aprile a Milano: «L’Europa conta su di voi», ha dichiarato allora il primo ministro polacco. «Insieme restituiremo libertà e sicurezza» all’intero continente, ha chiosato il capo del governo ceco, che ha incentrato il suo messaggio sul ringraziare Giorgia Meloni «per la posizione ferma assunta contro l’invasione russa dell’Ucraina».
La leader di FdI è tutt’altro che l’ennesima capofila del sovranismo in Europa à la Trump, almeno sul piano internazionale.
È infatti ben diversa dal suo alleato Matteo Salvini, che da anni appoggia l’ex presidente Usa e si accompagna a personaggi come Marine Le Pen ma soprattutto Viktor Orbán, i cui rapporti con il Cremlino proseguono nonostante il conflitto.
La vicinanza di ideali di Meloni (e dei suoi alleati nell’ormai quasi ex gruppo di Visegrad) al Viktator ungherese non basta per superare le differenze sul piano delle alleanze geopolitiche. In primis con gli Usa e la Nato e contro le ambizioni di Russia e Cina.
È su questo punto che l’ex ministra si gioca quella credibilità internazionale necessaria ad ambire a Palazzo Chigi. Se Morawiecki e i suoi piacciono poco a Bruxelles, le loro posizioni fieramente antirusse, espresse ben prima della guerra in Ucraina, sono molto gradite alla Casa Bianca
Magari a Washington possono non condividere il discorso tenuto in Andalusia a sostegno di Vox contro «la lobby Lgbt, l’ideologia di genere, la cultura della morte, la finanza internazionale e i burocrati di Bruxelles» ma, al di là delle boutade identitarie per non perdere l’appoggio dei nostalgici, sono altri i temi che interessano davvero agli Usa e su cui Meloni si è completamente allineata, come dimostra una lettera pubblicata ad aprile dal Foglio.
Qui la leader di FdI si dice favorevole a «un’Europa confederale, più armata, che non dipenda da Paesi terzi» e che faccia da argine a Russia e Cina nei Balcani occidentali. Una sorprendente convergenza con la Casa Bianca, cominciata già l’anno scorso con l’appoggio di Meloni alla global tax per le multinazionali e i colossi del web, di cui FdI denuncia da anni «l’elusione e le tasse ridicole» nonostante il dialogo aperto a Bruxelles.
Insomma, tutt’altra musica rispetto al Trumpismo, da cui l’ex ministra si tiene lontana, almeno oggi. In molti ricordano il suo incontro nel marzo del 2018 con l’ideologo Steve Bannon, invitato a parlare ad Atreju nei giorni in cui cominciavano le trattative tra Lega e M5S per poi formare il primo governo Conte.
L’allora consigliere di Trump indicò Salvini, Meloni e il britannico Farage come i «veri disgregatori» di «ciò che le élite hanno rifilato alla civiltà occidentale», invitandoli a seguire il modello del miliardario americano. Un appello che l’ex ministra non raccolse completamente, tenendosi fuori dall’alleanza sovranista tra Salvini e Di Maio benedetta da Bannon, ma annunciando l’adesione al suo think tank “The Movement”.
Un percorso che raggiunse l’apice nel febbraio 2020, quando Meloni presenziò come ospite al tradizionale “National Prayer Breakfast” organizzato a Washington dal partito Repubblicano e a cui prese parte anche Donald Trump, da cui però la leader di FdI avrebbe poi progressivamente cominciato a sganciarsi.
«Il rapporto di Giorgia Meloni è sempre stato con – se vogliamo definirlo così – il “deep state” del partito conservatore americano che andava al di là di Trump», aveva spiegato tempo fa Crosetto a TPI. «Non ha mai avuto simpatie per Trump: hanno approcci diversi».
L’ex ministra non ha comunque mai messo in discussione l’alleanza con Washington anche dopo l’arrivo alla Casa Bianca del democratico Joe Biden, la cui agenda politica interna è molto lontana da quanto propone FdI che però ne condivide sempre di più la visione geopolitica, come dimostra il recente convegno svoltosi proprio nei giorni della crisi del governo Draghi nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera, dal titolo: “L’Italia e l’Unione europea nel futuro della Nato”.
All’evento, promosso dal partito meloniano e a cui erano presenti anche alcune delegazioni diplomatiche estere e il presidente del Copasir Adolfo Urso, sono intervenuti tra gli altri il generale Claudio Graziano, già presidente del Comitato Militare dell’Ue; l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, presidente della Nato Defense College Foundation; e l’ex ministro degli Esteri e responsabile del Dipartimento Rapporti Diplomatici del partito, Giulio Terzi di Sant’Agata. Il tutto si è chiuso con un discorso del capogruppo di FdI alla Camera, Francesco Lollobrigida, che ha sottolineato come il titolo stesso dell’evento «non lascia dubbi su quello che è il punto di riferimento» del partito meloniano: l’adesione al progetto europeo e il rafforzamento della Nato, appunto. Musica per le orecchie di Washington.
(da TPI)
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Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile GIA’ LO SAPEVAMO, MA ORA IL GIOCO E’ SCOPERTO E NON SI POTRA’ PIU’ NEGARE
Mentre le potenze occidentali sono alle prese con crisi di governo ed elezioni anticipate, come accaduto in Italia, dalla Russia c’è chi avanza pubblicamente la proposta di interferire con le campagne elettorali di tutto il mondo in modo da portare al potere persone più vicine a Mosca o comunque meno propense a vedere il Cremlino come nemico numero uno.
È il caso di Vladimir Solovyev, il più influente anchorman russo e considerato da più fonti molto vicino a Vladimir Putin, e degli ospiti della sua trasmissione.
In una delle sue ultime apparizioni sulla tv di stato, nel corso della sua ormai nota trasmissione televisiva, Solovyev infatti, ha messo al centro del dibattito proprio la politica interna degli stati occidentali, in particolare di quelli europei e degli Usa, affermando che bisognerebbe “fornire la nostra assistenza” ai leader più comodi per la Russia.
Come segnala Julia Davis, curatrice del Russian Media Monitor, nel corso del programma è stato lanciato un servizio sul Primo Ministro dell’Ungheria Viktor Orbán avviando una discussione su un suo intervento in cui affermava che se fossero stati al potere Trump e Merkel la guerra in Ucraina non sarebbe scoppiata.
“Siamo d’accordo con lui” hanno affermato i vari esperti presenti in studio, lanciandosi in valutazioni su come fare “eleggere” politici favorevoli al Cremlino all’estero, causando disordini interni in altri paesi e lasciando così che le sanzioni contro la Russia divengano un lusso che l’Occidente non può più permettersi. Un piano a cui lo stesso Solovyev si è detto decisamente favorevole.
Una degli analisti in studio nonché vicedirettore dell’Istituto internazionale di amministrazione presso l’Università MGIMO del Ministero degli Affari Esteri russo, Henry Sardaryan, si è lamentato del fatto che il Cremlino non ha sfruttato appieno le numerose opportunità di interferenza elettorale in paesi come l’Italia.
“Se avessimo lavorato lì per un lungo periodo con l’opposizione e i media, i social e gli opinion leader, ora sarebbe il momento di appoggiare il nostro candidato” ha affermato. “Ora le circostanze politiche sono ideali, il 54 per cento della popolazione italiana dice ‘Per favore dividete l’Ucraina, Fate in modo che non esista, fate qualsiasi cosa per evitare lo scontro con la Russia”. “Dobbiamo spingere perché i politici locali impegnino risorse economiche sui loro problemi invece che darle per contrattaccarci” afferma ancora l’ospite.
“Le cose si faranno interessanti questo autunno… Ci sono ovviamente valori condivisi e comprensione comune tra Trump, Orbán e Putin, ma non tra Trump e Zelensky” ha dichiarato invece un altro ospite, Sidorov, sostenendo che negli Stati Uniti sia necessario “un crollo interno totale” per superare un sistema di governo altrimenti incredibilmente forte.
A questo punto Solovyov ha chiesto: “Stai suggerendo di aiutarli?” Sidorov ha risposto: “Se potessimo. Se solo potessimo, dovremmo fornire la nostra assistenza”. Solovyov ha affermato con sicurezza: “Possiamo farcela”.
(da Fanpage)
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Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile LO SCONTRO TRA UE E SOVRANISTI SOSTENUTI DA PUTIN
Questa che segue è la ricostruzione del primo scontro fra Europa e Salvini, per altro
perso dal leghista, che, come si ricorderà, proprio su questo perderà il Governo, nel 2019, per mano del suo alleato di allora, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
La ricostruzione è tratta dal libro «L’inquilino», storia dei governi degli ultimi dieci anni, che sta per uscire per Feltrinelli.
Il caso dei fondi russi
Il 10 luglio del 2019, il sito americano BuzzFeed annuncia di essere in possesso di una registrazione del colloquio a Mosca in cui si discute delle modalità per erogare fondi al partito di Salvini. È lo stesso colloquio di cui aveva parlato l’Espresso 6 mesi prima. Ma stavolta c’è un’incontrovertibile prova: un audio. «Sei uomini si incontrano per una riunione di lavoro la mattina del 18 ottobre dell’anno scorso tra il rumore di tazzine e l’opulenza delle colonne di marmo dell’iconico Hotel Metropol di Mosca, per parlare di progetti mirati a una “grande alleanza”. I sei uomini – tre russi e tre italiani – si riuniscono sotto la spettacolare volta dipinta della lobby, avendo anche loro in mente un’operazione storica. Formalmente stanno trattando un accordo per una partita di petrolio; il vero scopo è quello di indebolire le democrazie liberali e formare una nuova Europa nazionalista allineata con Mosca».
L’audio racconta come i sei uomini discutano con cura i vari modi per poter “inviare segretamente” decine di milioni di dollari della Russia per colui che è definito «il più forte leader europeo di estrema destra». La conversazione registrata dal sito americano riprende e conferma in maniera definitiva l’inchiesta dell’Espresso nel racconto degli inviati Giovanni Tizian e Stefano Vergine, pubblicato il 24 febbraio 2018. Il piano è quello di una falsa vendita di 3 milioni di tonnellate di gasolio da vendere tramite un’azienda italiana (nell’audio si parla di Eni, che smentisce subito) per sostenere con un finto scambio commerciale i sovranisti alle vicine europee. «Non sappiamo se l’affare sia stato concluso», scrive l’Espresso. Salvini si attaccherà proprio a questo «non ho visto un rublo» per la sua difesa.
Ma l’audio del sito americano rivela una vicinanza politica imbarazzante a un certo sottobosco politico russo, personaggi vicini a Putin che lavorano non solo con Salvini ma con le maggiori figure del sovranismo europeo.
Per dirla con Marco Minniti, predecessore di Salvini al Viminale, la questione non è il finanziamento ma quello di «una possibile soggezione del Ministro degli Interni, Matteo Salvini, nei confronti della Russia». Minniti inquadra la posta in gioco di quel che succede a Mosca. «In Russia si sta certamente giocando una importante e delicata partita con l’Europa, Matteo Salvini ricopre la massima carica dello Stato in materia di sicurezza nazionale per questo il ministro deve venire a chiarire in Parlamento non in diretta su Facebook». Salvini, insomma, è parte di un nuovo “grande gioco” politico fra Russia ed Europa. Il problema infatti non è la sua collocazione, ma il suo ruolo nella costruzione di quello che, anche nel colloquio riportato da BuzzFeed, i russi con cui parlano i salviniani definiscono come il progetto di «indebolire le democrazie liberali e formare una nuova Europa nazionalista allineata con Mosca».
Le elezioni europee del 2019 tuttavia non danno la vittoria al fronte “antieuropa” come sperato dai sovranisti. Il risultato elettorale complessivo del voto di maggio consente alle forze europeiste di isolare i nazionalisti. La rottura della maggioranza del governo italiano si consuma infatti in Europa prima ancora che in Italia. I 5 Stelle votano a favore della Von der Leyen, incassando loro la vicepresidenza che sarebbe dovuta andare alla Lega. Von Der Leyen si rivelerà una pedina fondamentale contro i sovranisti.
Un altro deludente evento segna il destino di Salvini in quel periodo: il viaggio a Washington del 17 giugno programmato per capitalizzare sul fronte delle relazioni atlantiche la grande vittoria alle europee di maggio, si rivela un altro schiaffo. Ci si aspetta molto da questa visita. E in Europa la si osserva con attenzione. I grandi giornali americani (fra cui Time Magazine, che mette Salvini fra i cento uomini più influenti del mondo) lo considerano un leader «alla Trump». Ma il viaggio non va esattamente così. Salvini vede Mike Pompeo, segretario di Stato, e il vicepresidente Mike Pence. Probabilmente avrà dato spiegazioni sulle mille e contraddittorie alleanze dell’Italia gialloverde a trazione leghista – Putin, innanzitutto, ma anche tutte le altre “stranezze geopolitiche”, agli occhi di Washington, del governo populista, come la forte relazione con la Cina e il Venezuela; ed è probabile che qualcuno a Washington ricordi ancora il vecchio amore per Saddam e per Milosevic, esaltati dai ruspantissimi leghisti all’epoca della guerra con la Jugoslavia negli Anni 90.
È ancora a Washington, lì dove le cose che avvengono in Occidente si sanno tutte, che si trova una spiegazione di come abbia funzionato quel primo scontro che, ripetiamo, ha fatto cadere Salvini e il suo governo con i 5S. Nel luglio di quel 2019 vado dunque a Washington. Il lavoro fatto viene poi pubblicato su Huffington Post, per cui allora lavoravo, il 23 luglio del 2019 – e non viene mai smentito. Dietro il Russiagate, secondo le opinioni che raccolsi, si vedevano i segnali di un nuovo attivismo dei Servizi tedeschi contro i sovranisti, di un diverso modo di interpretare la propria leadership sul vecchio continente e di un’America decisa a non lasciare campo a Putin.
La manina che più efficacemente potrebbe aver lavorato contro i sovranisti italiani sarebbe tedesca. Nel quadro di una “riattivizzazione” a tutto campo della strategia della Germania per difendere l’Europa dal risorgente nazionalismo, e dalla Russia di Vladimir Putin – un’uscita dal tradizionale schema della leadership “riluttante” che ha caratterizzato la Germania nel Dopoguerra. Passo intrapreso con il consenso/conoscenza della Francia e della Gran Bretagna, nonché degli Stati Uniti, a dispetto delle affermazioni di rutilante simpatia che il presidente americano Donald Trump ha sempre espresso nei confronti del leader russo Putin.
Questa è la storia che circola tra le due sponde dell’Atlantico in risposta alla sola domanda che interessa fuori dall’Italia sul caso Salvini/Mosca: chi ha incastrato il leader della Lega, vice premier e ministro dell’Interno italiano? Domanda non da spy story – anche se, come vedremo, di spy story è tutto il tono della vicenda – ma di pura politica.
La vicenda dei rapporti Lega/Mosca, comunque la si voglia interpretare, fuori dall’Italia ha colpito perché segnala alle élite della politica estera occidentale la necessità di fare, dopo le recenti elezioni per il governo di Bruxelles, i conti con il nuovo assetto interno dell’Europa e dei rapporti inter-atlantici. Nei sensibilissimi think tank americani, o nelle sfere dei professionisti della politica globale, alcune novità sono state immediatamente registrate. Va detto anche che, al momento, alla domanda su chi abbia incastrato Salvini nessuno ha risposta certa, ma solo serie ipotesi.
Il campanello d’allarme che avverte di un nuovo clima in Europa suona proprio nella capitale di uno stato simbolo, un luogo che è stato un passaggio cruciale del conflitto europeo del secolo scorso: l’Austria. Il 17 maggio di quest’anno, a poche ore dal nuovo voto europeo, per il quale le urne si aprono dal 23 al 26, viene reso pubblico un video che riguarda il politico più discusso e più in ascesa dell’Austria, Heinz-Christian Strache, leader del partito di estrema destra, il Freedom Party. Nel video, girato nel 2017 in una villa di Ibiza, Strache e un suo collega, parlano per sei ore di donazioni illegittime al partito, con una donna che si presenta come la nipote di un oligarca russo, che vuole influenzare la politica austriaca con il suo denaro. La donna vuole comprare il 50 per cento di un grande giornale austriaco, per aiutare il Freedom Party. Strache, che si impegna a darle in cambio ricchi contratti di Stato, tira in mezzo anche il sovranista Viktor Orban, dicendo di voler «costruire un panorama mediatico» come quello in Ungheria – in ammirazione della politica di chiusura dei media in quel Paese.
L’incontro era una trappola. Il video viene passato ai media tedeschi e in poche ore porta alle dimissioni di Strache, cancella l’Austria dalle elezioni europee, e distrugge il Governo austriaco, che si avvia a nuove elezioni questo settembre.
Per molti versi la vicenda sembra una storia molto locale, di un Paese da sempre attraversato da una forte corrente di estremismo di destra. Ma la lezione nel cuore dell’Europa centrale viene ben capita. Il Freedom Party di Strache è stato fondato da un neo nazista e si dichiara amico della Russia. Il giovane cancelliere Sebastian Kurz forma una coalizione con questo partito, nel 2017, ricevendo molte critiche, incluso dalla Germania, nell’idea che i conservatori moderati possano a loro volta servire a moderare, con l’inclusione nel governo, i neonazi.
Strategia che fallisce miseramente. Ma il potenziale impatto dello scandalo accende l’attenzione internazionale su quel che può accadere nel resto dell’Europa. Alina Polyakova, esperta di questioni di estrema destra per il Brookings Institute di Washington, scrive sul New York Times che la vicenda prova che gli estremisti non possono essere moderati, anche quando entrano al Governo. «Altri politici europei che si trovano a confrontare con una destra estrema dovrebbero capirlo. A fronte di tutta la retorica di sovranità nazionale regolarmente celebrata da Marine Le Pen, Matteo Salvini e altri leader populisti, la caduta di Strache prova che tutte queste idee sono solo copertura di opportunismo e ipocrisia».
Che i populisti siano un pericolo da fermare è un’idea che assume una forte valenza proprio intorno a quello scandalo, nelle ore immediatamente a ridosso dell’apertura delle urne per le europee.
Chi c’è dietro quella trappola? Molti parlano degli stessi russi, ma molti vi vedono un ruolo tedesco – magari non di organizzazione, ma certamente di facilitazione. Sono i giornali tedeschi che riverberano lo scandalo, il tema del pericolo populista; ma è soprattutto Vienna a far scattare l’associazione con la Germania. Dire Austria ha avuto a lungo il significato, ed è vero ancora oggi, di dire Germania. Dalla tragica avanguardia antisemita della “Notte dei cristalli” nel 1938, alla guerra pericolosa e sottile degli anni della Guerra Fredda, appunto. L’influenza della Germania è ancora oggi molto estesa, nei Paesi dell’Est. I rapporti fra Russia e Germania sono nella storia europea fra i più stretti: persino nella divisione creata dal Muro, quando la Germania era il cuore e il confine di un conflitto per la sopravvivenza di due modi di vedere l’Europa, questi rapporti sono rimasti intrecciatissimi. Proprio per questo, nella Guerra Fredda gli inglesi e gli americani in prima fila contro la Russia si sono sempre basati sulla struttura operativa, inteso come uomini, conoscenze, contatti, costituita dalla rete tedesca – spesso delle due parti della Germania.
L’ 8 luglio, meno di due mesi dopo la tempesta austriaca, arriva un’altra pubblicazione, quella degli audio di un gruppo di leghisti che, suppostamente a nome della Lega di Matteo Salvini, tratta un finanziamento illegale con dei russi a tutt’oggi non identificati. La trattativa non va in porto nemmeno questa volta, come non era andata in porto quella di Ibiza. Le somiglianze con il caso austriaco sono però sorprendenti: i due avvenimenti sono la fotocopia l’uno dell’altro. E il parallelismo non va perso.
La Lega si difende dallo scandalo, sottolineando l’aspetto geopolitico della trappola, cita i Servizi, parla dei francesi, della Massoneria. Gli avversari della Lega evocano la possibilità che gli stessi russi avrebbero tradito il proprio alleato – per fare un favore all’America, per scaricare un alleato che ha tradito le aspettative. Ma la storia che siano gli stessi russi è in parte troppo contraddittoria. Seguendo invece la pista della “operatività” e del “cui prodest”, si arriva molto più vicini a una pista più politicamente fondata.
La trappola stavolta viene resa nota per vie americane, Buzzfeed e New York Times. E non è audace sostenere che è questo il passaggio che serve: laddove la questione austriaca era molto europea, il rapporto con Mosca di Matteo Salvini, vincitore delle elezioni europee e astro nascente del nazionalismo europeo, ci porta dritti diritti agli americani, che pure, nel 2019, dovrebbero essere alleati del leader leghista tanto quanto Putin. E la domanda che si pone è: Washington sapeva o meno? Gli Usa sono stati protagonisti o solo spettatori? E sono stati contenti o meno?
Ma non è forse l’amministrazione Trump amica di Salvini e dialogante con Putin?
Questa definizione, che dal nostro lato dell’Atlantico, è una opinione indiscussa, a Washington non è invece tale. L’America non sta con Putin e non intende lasciare via libera alla Russia in Europa. […] Il rapporto fra Putin e i nazionalisti europei ha finito con il diventare una sfida frontale alla sovranità europea, i nazionalisti visti come la quinta colonna, la “porta di servizio” attraverso cui la Russia rientra in Europa.
Intanto, la scena politica sembra ampiamente appoggiare l’ipotesi di una Germania che allarga il proprio campo di azione.
Che il primo atto della presidente Von der Leyen sia stato quello di non incontrare Salvini e di allontanare i voti leghisti è un altro segno di una lotta che si sposta dal controllo delle spese delle nazioni alla sfida diretta. Così come inequivocabili sono state le parole di Angela Merkel, nei primi giorni del nuovo governo europeo, sul tema oggi più sensibile – il nazismo e il pericolo di una destra che ritorna in Europa. Nel discorso di commemorazione del fallito attentato ad Adolf Hitler, Merkel ha collegato l’evento al presente della Germania: «Questo giorno ci ricorda non solo chi agì nel 20 luglio del 1944, ma tutti coloro che si sono opposti al regime nazista. Oggi siamo ugualmente obbligati a opporci a tutte le tendenze che cercano di distruggere la democrazia. Compreso l’estremismo di destra».
È stato questo l’inizio di un nuovo ruolo, più “interventista” dell’Europa nella difesa della propria stabilità? La guerra che la Russia ha portato nel nostro continente, attaccando l’Ucraina, e contro cui l’Europa ha reagito, prova che non stiamo parlando di sciocchezze
(da La Stampa)
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Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile IL SOLITO SEGUACE DI PUTIN TRAVESTITO DA PRETE NON HA GRADITO CHE IL SACERDOTE UCRAINO AVESSE RICORDATO LE RESPONSABILITA’ DEL SEDICENTE CLERO ORTODOSSO SERVO DI PUTIN
La croce dovrebbe essere un simbolo di pace e fratellanza, ma quando c’è di mezzo una guerra come quella tra russi e ucraini neppure questo riesce ad arginare i sentimenti di rabbia nati dal conflitto in Ucraina.
Così non è raro che aspre tensioni esplodano anche tra religiosi, come mostra un video in cui un sacerdote della Chiesa Ortodossa Ucraina (UOC) viene aggredito e colpito con una croce di legno da un prete della Chiesa Ortodossa Russa (ROC).
I due colleghi non sono riusciti a trattenersi e ne è scaturita una rissa furibonda, tanto che è stato necessario l’intervento di alcune persone per dividerli.
L’aggressione sembra essere scaturita in seguito all’accusa da parte del prete ucraino al collega russo di collaborare e supportare le forze militari che hanno invaso l’Ucraina.
I fatti risalgono al 22 luglio. Anatoliy Dudko, prete ucraino, stava celebrando il funerale di un soldato suo connazionale, Oleksandr Zinivy: durante l’omelia ha mandato su tutte le furie un altro prete, il russo Mykhailo Vasylyuk, il quale gli si è scagliato contro come una furia.
Il religioso ucraino, infatti, stava dicendo qualcosa che evidentemente riteneva inaccettabile, ma che è la pura e semplice verità: cioè che Vladimir Putin aveva scatenato una guerra d’invasione e che quella scelta era stata benedetta anche dalle gerarchie cristiano ortodosse russe.
Apriti cielo. Il prete russo si è avvicinato come una furia al collega e ha tentato di strappare la croce dal collo di Dudko prima di colpirlo.
Il combattimento tra i due è stato interrotto da membri dell’esercito, che hanno allontanato Vasylyuk. Il servizio funebre è poi continuato regolarmente senza altri disordini.
(da Fanpage)
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Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile MA LEI SI RIBELLA E LA SPUNTA… IN UNO STATO NORMALE VERREBBE RITIRATA LA LICENZA, COSI’ POI VANNO IN FILA ALLA CARITAS PER UN PASTO
Disavventura a Roma per Camihawke, all’anagrafe Camilla Boniardi, l’influencer da
1,3milioni di followers su Instagram, scrittrice e volto del web. La 32enne di Monza è arrivata in città per il concerto dei Fast Animals and Slow Kids, visto che è la compagna del frontman, Aimone Romizi.
“Arrivata a Roma – scrive in una storia su Instagram – .Salita sul taxi sto già litigando perché ho chiesto cortesemente se avesse la carta di credito. Risposta: ‘Per dieci euro di corsa al massimo preleva’”. Da qui, la discussione. Boniardi risponde “No, guardi, io non prelevo proprio un bel niente, gliel’ho chiesto per carineria visto che dovrebbe ormai essere obbligatorio avere il pos”.
A quel punto il conducente, secondo la testimonianza della giovane, avrebbe detto: “Ma che ne so io, mica lavoro con le banche”. A quel punto “dico ‘guardi, non c’entrano niente le banche, per legge è obbligatorio’. E lui mi dice ‘Ma che non ha visto che Draghi lo hanno mandato a casa?'”.
Alla fine, comunque, Camihawke è riuscita a pagare con la carta di credito. In una storia successiva ha scritto: “Sono contenta di essermi fatta valere, la mia battaglia di oggi l’ho vinta”.
Di recente un altro volto noto del web – e, in questo caso, soprattutto dello sport italiano – ha avuto problemi con un tassista in merito al pagamento tramite carta. Si tratta di Carlotta Ferlito: la ginnasta si trovava a Milano ed è anche stata costretta a scendere dopo aver contestato al conducente di non avere un pos a bordo nel 2022. Alla fine la ragazza, che ha raccontato l’episodio su TikTok, dove la seguono in 4milioni, ha denunciato il tassista.
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile L’ABITUDINE AL MALE E LA FEROCE INDIFFERENZA DI CHI NON HA FERMATO L’OMICIDA DI ALIKA
Ci sono due domande che continuano a girarmi in testa da ieri: se Alika Ogorchukwu fosse stato italiano, bianco, qualche voce in più sulla sua morte si sarebbe alzata? E poi, io, ieri, di fronte a questa scena di efferata violenza, cosa avrei fatto?
Così per prima cosa ho pensato a chi riprendeva col cellulare, faceva video e restava in silenzio.
Poi mi sono ricordata un episodio, di alcuni anni fa, in cui dei ragazzotti di circa 20 anni, durante un Capodanno romano, infastidivano alcuni ambulanti nel mentre di un concerto al Circo Massimo.
Questi ragazzi si divertivano a buttar loro addosso dei petardi, li accendevano e glieli tiravano. E a poco a poco diventavano sempre più arroganti e violenti e il gioco pericoloso. Ma nessuno diceva niente, perché di indifferenza non si muore (credono alcuni).
E invece io, dall’alto dei miei 25 anni, che potevano pure essere 15, iniziai a urlare, a scagliarmi contro di loro, lasciandomi alle spalle l’allora fidanzatino inerte (cosa che mi portò in seguito a rivalutare la relazione e la persona).
Senza divagare e svilire il fatto di cronaca, il succo è: no, non avrei mai fatto un video dell’accaduto restando in silenzio e ferma.
Nemmeno se avessi valutato l’utilità di quel video per la polizia. E non perché sia brava o coraggiosa, ma perché nell’orizzonte della realtà il pensiero di vedere una persona che ne ammazza di botte un’altra, in pieno centro, in un pomeriggio di luglio, mi vieta categoricamente di restare spettatrice.
Pian piano nella testa iniziano a impilarsi le immagini di tutti i video che ho visto in rete e che hanno raccontato le stesse dinamiche. Mi domando allora perché su – ipotizziamo – 5 video della stessa scena da diverse angolature, non vi sia almeno una irruzione di qualcuno che frena quell’escalation di violenza.
Forse perché di Willy Monteiro Duarte (giovane italiano di origine capoverdiana, vittima di omicidio e medaglia d’oro al valore civile alla memoria) ne esistono sempre meno. E perché Willy, per fare ciò che ha fatto, ha pagato con la vita.
Ma l’indifferenza, la vigliaccheria, la meschinità di restare nell’ombra con un telefono a riprendere non raccontano molto di più di ciò che siamo diventati? Di quanto abbiamo paura dell’altro?
Alika Ogorchukwu è stato ammazzato con la stampella che gli reggeva i passi in seguito a un incidente d’auto, così ha dichiarato il suo avvocato.
Quello che resta sono quei minuti, lunghissimi, in cui l’aggressore lo finisce di botte.
Qualcuno commenta, qualcuno filma col cellulare. Nessuno interviene. Avranno avuto tutti la pancia piena e gli occhi abituati a questo genere di immagini.
“Forse il futuro prossimo porterà catastrofi inimmaginabili. Ma ciò che di sicuro minaccia il mondo non è tanto la violenza di moltitudini fameliche quanto la sazietà di masse annoiate”, scriveva Nicolás Gómez Dávila.
E questo è ciò che spaventa di più. L’abitudine al male.
Lara Tomasetta
(da TPI)
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Luglio 30th, 2022 Riccardo Fucile LA LEGA MARCHE POI CAMBIA VERSIONE, MA LO SQUALLORE RIMANE
Cosa pensa la Lega dell’uccisione di un ambulante nigeriano ucciso a bastonate, calci e
pugni in pieno centro cittadino: “È vergognoso che nel pieno centro di una città turistica e molto frequentata come Civitanova Marche si assista a episodi del genere – ha commentato il commissario della Lega Marche, Riccardo Augusto Marchetti – Matteo Salvini è stato l’unico ministro dell’Interno a garantire la sicurezza del Paese azzerando gli sbarchi e investendo ingenti risorse per aumentare l’organico delle Forze dell’Ordine”.
Quindi per la Lega la morte del povero nigeriano per mano di un italiano è conseguenza degli sbarchi.
Poi Marchetti ha fatto marcia indietro spiegando che gli era stata spiegata male la notizia e ha cercato di cancellare le tracce.
“La Lega vuole lavorare per garantire sicurezza agli italiani – ha proseguito ancora Marchetti – non appena torneremo al governo, stavolta insieme al centrodestra unito, metteremo subito in campo misure in grado di tutelare i cittadini e la loro incolumità”.
E ha concluso: “La sicurezza è da sempre una delle nostre priorità, non permetteremo che gli italiani continuino a vivere nella paura”.
Peccato che il morto fosse nigeriano e l’assassino italiano.
Magari in altri tempi la Lega storica del Salvini indipendentista avrebbe sottolineato che l’assassino era campano
(da Globalist)
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