Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
SE FINI HA ARCHIVIATO IL FASCISMO COME ‘MALE ASSOLUTO’, MELONI HA FINITO PER ARCHIVIARE COME MALE ASSOLUTO PROPRIO LUI: IL CAPO CHE L’HA SCELTA COME VICEPRESIDENTE DELLA CAMERA, COME MINISTRA DELLA GIOVENTÙ
Estratto da “Re Giorgia”, di Susanna Turco (ed. Piemme)
Uno strano testacoda avviene dentro Fratelli d’Italia, forse proprio dentro la testa della sua leader. È una specie di triangolazione senza uscita tra Giorgia Meloni, Gianfranco Fini e la complessa questione che va sotto il titolo: i conti col fascismo.
Moltissime volte, in questi anni, alla leader di FdI è stato rimproverato di non recidere abbastanza di netto quel legame, di non prendere sufficienti distanze da quella catena che si stende tra regime mussoliniano e personaggi come il “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini, tra il Ventennio e il saluto romano di Augusta Montaruli a Predappio, passando per la Repubblica di Salò, Giorgio Almirante, l’Msi, An, il nostalgismo, eccetera. Equilibrismi, dribbling, bilancini, un continuo e impercettibile scartare di lato.
Perché Meloni, che pure è passata in pochi anni dall’1,90 al 26 per cento, non riesce a fare il passo decisivo per archiviare la storia da quale viene? Perché se Giuliano Castellino assalta la sede del principale sindacato italiano lei fatica a prendere le distanze, pronuncia equilibrismi come «non so quale sia la matrice», e in privato aggiunge che le scoccia fare così con una persona che conosce sin da ragazzina? La risposta, andando al sodo, può apparire bizzarra: perché ha paura di fare la fine di Gianfranco Fini. Perché ha paura di somigliargli.
Non è una deduzione, o una provocazione: anzi è la spiegazione che, in maniera abbastanza sorprendente, viene offerta più spesso quando si affronta la questione parlando con gli stessi mondi ex aennini, tra la gente di Fratelli d’Italia. Il rischio di essere anche solo vagamente accostabile all’ultimo segretario di An a Meloni stronca i passi. Eppure c’è qualcosa di incongruo.
Gianfranco Fini si è ritirato dalla vita politica da anni. Dopo il 2013 non si è più candidato, non ha un partito né un movimento. Sparito dai radar dal 2017, a processo dal 2018 per riciclaggio nella vicenda della casa di Montecarlo comprata a prezzo di saldo dal cognato Giancarlo Tulliani, non fa l’opinionista, né per iscritto né in tv.
E come mai questo Fini, politicamente ridotto a nulla e quasi del tutto silente da anni, fa così tanta paura a Meloni che per il resto pare non temere quasi niente – a parte forse gli scarafaggi?
Risposta: se Gianfranco Fini ha archiviato il fascismo come «male assoluto», lei, che pure nel 2003 non si dissociò da quella presa di posizione, ha finito per archiviare come male assoluto proprio lui: il capo che l’ha apprezzata come giovane promessa, che l’ha scelta come vicepresidente della Camera, come ministra della Gioventù.
Il segretario che prima ha chiuso l’Msi poi An, che l’ha trascinata nel Pdl, che poi si è ribellato a Berlusconi ed è voluto venire via, per fare qualcosa che non era tornare ad An. Colui che sostanzialmente ha messo le basi perché lei, la destra, potesse muoversi libera dall’ombra del suo passato così ingombrante.
Eppure Meloni non può in alcun modo permettersi di essergli paragonata, pena la morte politica. La fine di tutto. Ed è paradossale che sia proprio questo elemento a indebolirla, laddove in effetti Meloni è riuscita, negli anni, in autentici miracoli, come quello di pacificare anime dell’ex An-Msi che non trovavano pace si può dire da sempre, o come la ricucitura di un orizzonte che pareva destinato a non risorgere più.
Perché mai? C’è uno snodo nei rapporti tra Fini e Meloni che risulta in qualche modo illuminante. Arriva dopo gli anni dello strappo e della fine del Pdl, quando lei prima è critica, poi non segue il suo ex segretario, nel 2010, fuori dal Pdl. Arriva dopo una stagione di armistizio bilaterale, nel quale lei si rifiuta di dargli del traditore e lui tace le sue critiche sulla costruzione del nuovo partito.
Quando però Meloni, con Crosetto e La Russa, decide di celebrare il primo congresso di FdI proprio a Fiuggi, nel luogo simbolo della storia della destra italiana, dove nel 1995 Gianfranco Fini aveva officiato la svolta dell’Msi in An, l’uscita dalla “casa del padre”, accade qualcosa di irreversibile.
In quell’occasione Fini rivolge, con una nota, a Meloni e Fratelli d’Italia parole terribili. «Fa riflettere il modo con cui i dirigenti di Fratelli d’Italia tentano di far risorgere Alleanza Nazionale. Dopo aver furbescamente inserito il simbolo, seppur in formato bonsai, nel loro logo elettorale, celebrano questo fine settimana il congresso nazionale a Fiuggi […].
Mi sembrano bambini cresciuti, e viziati che vogliono imitare i fratelli maggiori senza capire che le condizioni in cui si trovano sono completamente diverse. Rischiano di far piangere, di rabbia e non certo di commozione, chi venti anni fa era consapevole di quel che stava accadendo a destra», scrive Fini.
Ripercorrendo i passaggi principali della svolta di Fiuggi, quando «la destra italiana trasformò radicalmente se stessa perché uscì dalla casa del padre con la certezza di non farvi mai più ritorno», «non cambiò nome, mutò identità e prospettive». E ammonisce: «Non tutto è andato come avevamo sognato», «mi sono preso la mia parte di responsabilità» «anche per questo dico ai Fratelli d’Italia di smetterla di scimmiottare la storia.
Per sopravvivere e superare il 4 per cento alle Europee serve loro qualcosa di assai più convincente che una scampagnata semiclandestina a Fiuggi. La storia di An, di cui anch’essi fanno parte, non merita di ripetersi in farsa. I simboli da soli non bastano.
Alla destra servono idee nuove e prospettive credibili […]. Senza una risposta era meglio convocare l’assise altrove. Perché il confronto con il passato sarà inevitabilmente impietoso». Toni da maledizione biblica, in un momento nel quale in effetti Fratelli d’Italia si era presa il simbolo di Alleanza Nazionale ma non aveva ancora rinsaldato un partito che fluttuava tra i tanti partiti possibili spuntati e poi rapidamente scomparsi a destra. Una maledizione finiana alla quale comunque Meloni risponde con altrettanta veemenza. Anzi la raddoppia.
La leader di Fratelli d’Italia aspetta infatti di arrivare proprio sul palco di Fiuggi. E alla fine del discorso di apertura del primo congresso affronta la questione Fini. La prende da lontano. Da Giorgio Almirante, il mentore di Fini che Meloni solleva in alto, per scaraventarlo addosso proprio a Fini, che è il suo di mentore. Dice infatti: «Abbiamo raccolto l’insegnamento di Giorgio Almirante quando diceva: “In altri tempi ci risollevammo per noi stessi, da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmetterla”. Raccoglieremo quel testimone, con uno sguardo al futuro».
Qui Meloni fa una lunga pausa. E precisa: «Voglio anche dire che di recente, a qualcuno, quel testimone è caduto». Altra pausa. «Non ho mai risposto ai diversi attacchi, alle ironie, che ci e mi sono state rivolte da Gianfranco Fini. Perché non è nel mio stile rispondere e perché penso che i panni sporchi debbano essere lavati in casa. Quello che ho letto ieri, però, merita almeno una risposta. Io non comprendo le ragioni di tanto astio per chi prova a ricostruire qualcosa che evidentemente a Gianfranco Fini non interessava più.
Non accetto l’accusa di essere dei bambini viziati. Noi non siamo bambini viziati. Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre, che a un certo punto scappa di casa e se ne va in giro per il mondo a sperperare un patrimonio. Questo noi siamo». Sono parole terribili già lì per lì. E segnano, per anni, la fine di qualsiasi armistizio con Fini, il quale dirà in più occasioni che Meloni è una «fotocopia della Lega», o una «mascotte», una «ragazzina che si è montata la testa», «ridicola».
Ma nel 2014, al congresso di Fiuggi, Meloni non aveva messo a fuoco e dettagliato, nel racconto pubblico che ha poi fatto di sé, il ruolo di suo padre, Franco Meloni. Un padre che, come avrebbe scritto nel 2021 in “Io sono Giorgia”, se ne era «andato di casa», aveva «girato il mondo in barca a vela», così sperperando – stando al racconto di Meloni – il patrimonio affettivo-familiare delle sue figlie, ma anche – stando alle ricostruzioni dei vari media spagnoli spuntate dopo la vittoria di FdI alle elezioni 2022 – anche un patrimonio in senso letterale e non metaforico.
Denari insomma. Non può sfuggire, pur con tutte le cautele del caso, il parallelo che proprio Meloni stabilì durante il primo congresso di Fratelli d’Italia, tra la sua vicenda di figlia e quella di politica: «Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre». Il parallelo tra Gianfranco Fini e Franco Meloni. Sperperatori di patrimoni, in senso letterale e metaforico. Mentre «noi stiamo tentando di ricostruire quello che lui ha deliberatamente distrutto», come ebbe a dire Meloni, di nuovo, nel 2015.
Con queste premesse, è forse un pochino più evidente quanto possa essere complesso per Meloni fare i conti con l’eredità rappresentata da Gianfranco Fini, come sia difficile maneggiare la libertà di manovra di cui ha potuto usufruire grazie a lui, portare ancora un pezzo più avanti le svolte che sempre da quel percorso originano. Senza sentirsi dare della traditrice. E senza sentircisi, lei stessa. Gianfranco Fini, del resto, nella vulgata è diventato il traditore per eccellenza. Un capro espiatorio, persino oltre le sue oggettive responsabilità.
Resistenze spiegate come un’eco da tanti suoi interlocutori abituali: «Non può mica fare questi passaggi perché glieli chiedono», «li farà quando non sembrerà che stia sulla difensiva», eccetera. Non lo fa perché sta più comoda. Perché per quanti pochi siano i voti dei nostalgici e dei neofascisti, comunque ci sono.
Perché una volta che dovesse affrontare di petto la questione, dovrebbe affrontare anche Fini. È un passaggio incomprimibile. Se Meloni non dovesse farlo, come ha scritto Marco Follini a fine agosto sulla «Stampa», in uno dei pochi articoli che hanno chiamato in causa l’ex leader di An, «vorrà dire che esiste un problema politico più complicato delle soluzioni che gli erano state date».
(da L’Espresso)
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Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
QUANDO GLI ARTIGLIERI RICEVONO LE POSIZIONI RUSSE SANNO CHE DEVONO FARE PIÙ IN FRETTA POSSIBILE, SPOSTARE L’OBICE DA 152MM, VERIFICARE LE COORDINATE RICEVUTE, SPARARE LE MUNIZIONI E ALLONTANARSI PRIMA CHE ARRIVI IL CONTRATTACCO RUSSO. COLPIRE O ESSERE COLPITI”
È mezzogiorno di sabato mattina quando gli artiglieri della 59a brigata motorizzata delle forze di terra ucraine escono correndo dalla loro base. Gli operatori dei droni di ricognizione hanno appena spedito la posizione di una batteria d’artiglieria russa a quindici chilometri di distanza, nei territori occupati della regione di Kherson.
Sono arrivate le coordinate dell’obiettivo e l’obice deve spostarsi e colpirlo. Deve farlo velocemente e poi spostarsi per non essere colpito a sua volta, se intercettato dai droni russi. È così che funziona la guerra d’artiglieria. È così che gli ucraini stanno provando a colpire la logistica e il rifornimento russi aprendo lo spazio alla fanteria.
Due giorni fa il comandante della brigata, Serhiy Cehitskyi, ci ha concesso l’accesso alla sua unità permettendoci di documentare una giornata di battaglia dell’artiglieria nell’area tra Mykolaiv e Kherson, quanto si siano accorciate le distanze tra le forze armate.
Le cose stanno cambiando su molti fronti in Ucraina. Dopo la controffensiva di settembre nelle regioni nordorientali, uomini e mezzi dell’esercito ucraino si stanno riposizionando a Est e Sud. Sul fronte orientale, in Donbass, nell’ultima settimana i russi stanno perdendo terreno e sono stati respinti alla periferia di Bakhmut, cioè l’unica città in cui continuavano a guadagnare terreno da mesi, sebbene lentamente.
Sul fronte meridionale le truppe ucraine avanzano da metà agosto verso Kherson, l’obiettivo finale della prossima battaglia. Che però si presenta piena di ostacoli. Conquista di importanza strategica – città di accesso sia alla Crimea annessa al Cremlino che al Mar d’Azov – e simbolica, perché è l’unica provincia caduta interamente in mano ai russi e occupata in meno di una settimana tra febbraio e marzo.
All’inizio dell’invasione le forze russe di stanza in Crimea l’hanno accerchiata, controllando prima i villaggi vicini, l’aeroporto di Chernobaevka, poi sono entrate in città, sconfiggendo le truppe ucraine in inferiorità numerica e aiutati da una solida rete di collaborazionisti. Il 3 marzo la città era occupata, così come le zone circostanti.
Una disfatta per l’esercito di Kiev, che proprio per questo vuole conquistarla presto, sulla scia delle vittorie a Nord e a Est, e soprattutto prima che arrivi l’inverno. Il comandante Cehitskyi è originario della città di Haisyn,nell’Oblast di Vinnytsia. È lì che è nata la brigata 59 quando nel 2014 si sono uniti tre battaglioni di difesa territoriale per combattere in Donbass.
Cehitskyi è un veterano della guerra del Donbass, ma quei combattimenti – dice – «non hanno niente a che vedere con quello che viviamo qui». Non vede sua moglie, sua figlia e i suoi nipoti da febbraio. Guarda le foto sul telefono, insieme a quella che lo ritrae mentre aiuta un’anziana della regione a portare via dai detriti di casa le poche cose che le restano intatte dopo un attacco russo.
I suoi uomini vivono nelle trincee da otto mesi. Chilometri di fortificazioni altezza uomo scavate in mezzo ai canali di irrigazione nelle pianure della regione. È qui che i soldati si nascondono dai droni russi, dormono a gruppi di venti sui letti a castello costruiti con tavole di legno, si lavano al freddo, mangiano nel fango e temono l’arrivo dell’inverno. Secondo gli analisti militari resta più o meno un mese e mezzo prima che le temperature e il gelo invernali rendano complicato fare altri progressi. È proprio per questo che bisogna essere razionali, non impulsivi e valutare tutti gli ostacoli che ci sono tra l’ottimismo che deriva dalle controffensive precedenti e il raggiungimento dell’obiettivo. Cehitskyi sa che Kherson è la madre di tutte le battaglie in questa fase della guerra, e sa che la fiducia nei suoi uomini non deve fargli perdere lucidità.
Quando sono arrivate le notizie che i russi stavano evacuando forzatamente la popolazione di Kherson con i traghetti verso la sponda orientale del Dnipro, per esempio, non ha gioito. Non ha pensato che i russi si stessero preparando a cedere la città, non ha celebrato la parziale ritirata, ha pensato piuttosto a quanti civili fossero ancora intrappolati in mezzo al fuoco dell’artiglieria.
«Fa parte della strategia di Mosca, lasciano la gente lì a fare da scudo umano per trattenere l’avanzata – dice – ma prima della terra, dobbiamo salvare la nostra gente». Il comandante Cehitskyi sostiene che i suoi uomini abbiano visto le truppe russe rafforzare le linee di difesa e che siano certi dell’arrivo di nuove truppe dopo la chiamata alla mobilitazione parziale del mese scorso.
Dato confermato dalle trasmissioni radio russe intercettate che provano la presenza dei coscritti russi recentemente mobilitati e già impegnati a scavare trincee e creare corridoi di evacuazione. Secondo Oleksiy Arestovych, consigliere di Zelesnky, dopo l’arrivo dei nuovi coscritti sarebbero 30 i battaglioni tattici russi intorno a Kherson, ognuno composto da 800 soldati, «una forza militare massiccia che sarà molto difficile abbattere», ha detto Arestovych.
Il comandante Cehitskyi non crede a una ritirata frettolosa da Kherson come quella vista a Nord un mese fa. Teme la guerra urbana, uno scenario brutale. E ha ragione, per Putin sarebbe una sconfitta inaccettabile, soprattutto dopo che un mese fa, con i referendum farsa, ha proclamato l’annessione della città ai territori della Federazione russa, «perciò – dice – continueremo a vivere nel fango e sparare».
Nascondersi e colpire
La guerra in Ucraina è stata per lo più una guerra di cieli: razzi, missili, droni. Per mesi la Russia ha attaccato città, villaggi, infrastrutture e obiettivi militari da posizioni che gli ucraini non erano in grado di colpire. Una modalità non nuova per i russi aiutati da enormi scorte di cannoni: colpire il bersaglio con una pioggia di proiettili e sfiancare l’esercito avversario per conquistare infine, i territori resi ormai irriconoscibili ammassi di macerie come già fatto ad Aleppo e a Grozny. Per mesi il rapporto dei colpi è stato di dieci a uno a favore dei russi, ma con l’arrivo delle armi di precisione occidentali le cose sono cambiate.
Gli Himars soprattutto, ma anche degli obici M777 forniti dagli americani che possono colpire fino a 30 km dietro le linee russe. È con l’arrivo di queste armi che i russi hanno dovuto ripensare le loro posizioni, la logistica e spostare i mezzi più lontano dal fronte, cioè indietreggiare.
Le truppe di Kiev quindi oggi non solo hanno mezzi più sofisticati per difendersi ma uomini meglio addestrati a combattere che stanno distruggendo le scorte di munizioni e le linee del rifornimento russe.
Stanislav ha 23 anni, anche lui viene dall’Oblast di Vinnitsya, anche lui ha già combattuto in Donbass dal 2018 al 2020, quando – dice – «ero solo un ragazzino».
Il volto, oggi, è quello di un giovane la cui identità di adulto si sta formando nella vita di trincea.
Non si lamenta, non è livoroso. Combatte perché l’ha scelto e l’ha scelto per ragioni semplici. Ha una fidanzata a casa che lo aspetta, l’avrebbe sposata a maggio se i russi non avessero invaso il Paese, vogliono dei figli e una casa con un grande giardino dove crescerli. «Voglio la pace per loro, per i figli che ancora non ci sono», dice guardandosi prima l’uniforme, guardandosi intorno nel camion pieno di munizioni, guardandole come se fossero in contraddizione con la forza della parola myr, pace.
«Però, dice, non può esserci pace senza libertà, per questo combatto». È lui che, nel campo, con l’obice nascosto tra gli alberi segna le coordinate, chiama l’inclinazione, grida l’ordine di sparare e grida quello di spostarsi. Qui a Sud, il primo ostacolo è la geografia. Il terreno di battaglia è un campo aperto in cui è difficile ripararsi dai colpi, e nella guerra d’artiglieria la cosa più importante è nascondersi in fretta.
Quando gli artiglieri della 59esima brigata ricevono le posizioni russe sanno che devono fare più in fretta possibile, spostare l’obice da 152mm, verificare le coordinate ricevute, sparare le munizioni che servono e allontanarsi prima che arrivi il contrattacco russo. Tornato alla base Stanislav aspetta il video degli operatori dei droni, la prova che l’incursione sia andata bene arriva due ore dopo.
Nel video che la brigata ci ha concesso di mostrare, un tank russo centrato nelle campagne a Nord di Kherson. Stanislav mette il telefono in tasca, torna a riposare steso a terra. Aspetta la prossima posizione, il prossimo obiettivo, il prossimo spostamento, scommessa col destino. Centrare o essere centrati.
Tra gli edifici segnati dalle battaglie quelli che non se ne sono voluti andare, che continuano a vivere, raccogliendo le foglie ingiallite che l’autunno ha stesso a terra, pascolando mucche e capre nelle aie dietro casa. Quando sulla strada passano gli obici che li richiamano alla realtà della guerra, si avvicinano all’asfalto, salutano i soldati e gridano «Slava Ukraini».
(da La Stampa)
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Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
SUBITO DOPO L’ANNUNCIO DEL PUGNO DURO CONTRO I RAVE PARTY, AL MINISTRO È STATO CHIESTO DEL MANCATO INTERVENTO DEL GOVERNO DURANTE LE CELEBRAZIONI DELLA MARCIA SU ROMA… MA CHE VUOL DIRE? E’ UN REATO O NO? NEL CASO LO FOSSE, ANCHE LE RAPINE ALLE BANCHE AVVENGONO DA TANTI ANNI
Il raduno fascista di Predappio? «Si tiene da tanti anni». Così il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi risponde alla domanda della Stampa sul mancato intervento del governo durante le celebrazioni della marcia su Roma.
Stesso giorno in cui a Modena scattavano le misure di polizia contro un rave party su ordine di Giorgia Meloni. La domanda e la risposta non sono nella registrazione ufficiale video e audio perché il segnale era stato già staccato. L’elenco delle domande, poche per questione di tempo, era già state chiuse.
Prima risponde Piantedosi: «Modena e Predappio sono cose completamente diverse. Predappio è una manifestazione che si svolge da tanti anni, è una cosa diversa. Sul rave party c’era la denuncia del proprietario». La risposta di Piantedosi tende a sminuire la gravità dell’evento dei nostalgici del Duce, in un momento in cui parte dell’opinione pubblica chiede chiarezza alla destra guidata dalla premier sul Ventennio e sulle sue eredità.
La domanda viene riposta anche a Meloni, per sollecitarla a dare un giudizio più politico. La premier si irrigidisce, poi sfodera un sorriso imbarazzato e risponde: «Sapete come la penso. È una cosa politicamente molto distante da me». Ma alla fine non rinuncia a una stoccata alla stampa: «Tornate sempre su questo, potete farlo altre volte ma la risposta sarà sempre la stessa”
(da La Stampa)
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Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
PEGGIO SARA’ QUANDO LA MELONI SARA’ ALL’ESTERO PER GLI IMPEGNI INTERNAZIONALI… GOVERNO SEMPRE PIU’ SOVRANISTA, MELONI TANTA FUFFA
Con i posti di sottogoverno, Matteo Salvini ha fatto filotto. La lista che ha sottoposto a Giorgia Meloni è stata accettata in toto. Ogni suo desiderio, un ordine. Doveva essere junior partner del governo, invece il Capitone si sta muovendo con la sicurezza dell’azionista forte.
La Meloni, dopo un inizio scoppiettante fatto di lodi e imbrodi , sembra un po’ in difficoltà a dare un “suo” ordine alle cose.
Al primo vero tavolo di trattativa (sui ministri poteva giocare la carta dei veti del Quirinale), si è piegata alle richieste della Lega. L’esperienza al governo deve aver fatto crescere un bel pratone di peli sullo stomaco a via Bellerio: il Carroccio appare più strutturato nell’assalto ai posti di potere.
La decisione di spedire Nicola Molteni a fare il sottosegretario al Viminale vuol dire dare potere a un Salvini al quadrato. E’ lui l’uomo dei decreti sicurezza, lo stesso che si augurava la “distruzione dei barconi delle Ong”.
Piazzare il leghista Edoardo Rixi a viceministro alle Infrastrutture permetterà a Salvini di non restare inchiodato al ministero ma di fare il trottolino amoroso in giro per l’Italia, a recuperare voti e consensi. Claudio Durigon, che voleva intitolare il parco Falcone e Borsellino di Latina a Arnaldo Mussolini, è stato mandato a fare il sottosegretario al ministero del Lavoro.
Le carezze alla Lega hanno preceduto le randellate a Forza Italia. Per il partito di Berlusconi, zero carbonella. Negato un posto all’uomo di fiducia di Tajani, Paolo Barelli.
Il filo-russo Valentino Valentini, in predicato di andare agli Esteri, è stato dirottato al Mise come viceministro. L’antipatia per Licia Ronzulli e il dente avvelenato verso Berlusconi, a causa delle sue sparate pro-Putin, hanno sicuramente avuto un peso nella decisione finale.
Ma Giorgia deve guardarsi bene dai suoi alleati: chi dei due è il meno peggio? Se il Cav la chiamava “la piccoletta”, Salvini l’ha marchiata “la nana”
Quel che è certo è che Salvini ha iniziato la sua nuova esperienza di governo già in modalità Papeete, come ai tempi del Conte-1: spadroneggia, gioca su più tavoli, minaccia di sfilarsi e ottiene quel che vuole. Lui e il suo braccio destro Andrea Paganella stanno dettando la linea.
Della serie: adesso la Meloni la mettiamo pancia a terra. E quel che colpisce è che la leader di Fratelli d’Italia sembra aver lasciato loro mano libera.
I problemi seri arriveranno quando la Meloni sarà a lungo fuori dall’Italia per i suoi impegni istituzionali. Nei prossimi giorni volerà in Egitto per il Cop-27, poi tappa a Bruxelles, al G20 di Bali e poi a Parigi. In sua assenza, come si comporteranno il Capitone e la sua schiera di fedelissimi piazzati al governo? Saranno disciplinati e obbedienti o daranno fuoco alle polveri per fare dell’Esecutivo una succursale di via Bellerio?
Senza contare che nei primissimi giorni di governo, invece di un’azione decisa sui temi discussi in campagna elettorale c’è stato uno smottamento su questioni decisamente “laterali”.
Gli argomenti all’ordine del giorno rilanciati dai giornali (il covid e il rientro a lavoro dei medici no vax, il tetto al contante e l’aborto) nulla c’entrano con le priorità a cui Giorgia Meloni ha più volte detto di volersi dedicare: lotta al caro-bollette e all’inflazione. Se il buongiorno si vede dal mattino, la strada per il governo è già in salita…
(da Dagoreport)
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Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
SAREBBE MEGLIO USARE IL CERVELLO CHE IL PUGNO DI FERRO
Il Governo ha licenziato il suo primo decreto legge. Il raduno di Modena, che ha richiamato oltre 3mila persone da tutta Europa è stato l’occasione che ha dato all’esecutivo guidato da Giorgia Meloni il pretesto per poter utilizzare uno strumento che richiede eccezionali condizioni di “necessità e urgenza” per poter essere richiamato.
Ma nei cosiddetti rave non c’è proprio nulla di eccezionale. Non sono un fenomeno comparso di recente, e non riguardano solo il nostro paese. I rave sono delle feste con musica elettronica che richiamano musicisti, artisti e semplici avventori in eventi di cultura underground, e in cui, sì, si consumano spesso sostanze stupefacenti.
I rave sono nati in Inghilterra alla fine degli anni Cinquanta e si sono diffusi in Europa negli anni Novanta. Negli anni Duemila hanno avuto il massimo momento di diffusione, e si sono svolti in ogni paese del continente: soprattutto Inghilterra, Germania e Spagna. Gli unici paesi ad avere normative che li vietano espressamente sono la Francia e la Gran Bretagna.
Che, non a caso, sono due paesi che come l’Italia hanno delle severe leggi sulle droghe che non servono a molto visto che sono gli stessi paesi dove i consumi di stupefacenti hanno le percentuali più alte.
Dunque il Governo Meloni ha pensato di creare un nuovo reato, il reato di “invasione per raduni pericolosi”.
Si tratta di una fattispecie che concepisce i rave – intesi come raduni sopra le 50 persone – come minacce all’ordine e alla salute pubblica, e che prevede oltre alla confisca obbligatoria degli strumenti (le casse e gli impianti audio) una sanzione fino a 10mila euro e la pena del carcere dai 3 ai 6 anni per chi organizza e partecipa.
Per intenderci: chi partecipa a un rave in Italia verrà punito di più di uno che commetta violenza privata (reato punito con il carcere fino a 4 anni).Nel presentare il decreto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha dichiarato che l’auspicio è quello che il nuovo reato agisca come “deterrente”.
Quanta ingenuità in un proposito del genere. E quanta crudeltà nel voler ricondurre all’ambito penale un comportamento, il consumo di stupefacenti appunto, che oggi nel nostro paese non è reato.
Vi sembrerà strano, ma in Italia drogarsi non è un reato. Per il consumo personale di stupefacenti si rischia una sanzione amministrativa (come il ritiro del passaporto o della patente) e si rischia di essere mandati a fare un percorso ai servizi per le dipendenze.
Ma non è un reato: non si va in carcere. A deciderlo è stato il popolo italiano, con un referendum nel 1993. Gli umani fanno uso di sostanze che alterano e amplificano le percezioni sin dalla notte dei tempi. Lo fanno per motivi religiosi, per motivi sociali, per esperienze mistiche, personali. Per non sentire il dolore. O, nella stragrande maggioranza dei casi, perché li fa sentire bene. Può non piacerci, può fare paura, può suscitare la nostra riprovazione, ma è così. E questo bisogno umano è inestirpabile.
A vietare il consumo di droghe ci hanno provato tutti. Mettendo in atto le politiche più repressive e crudeli. Per esempio il dittatore delle Filippine Rodrigo Duterte dal 2016 al 2019 ha massacrato in strada 6600 persone accusate di usare stupefacenti, dando licenza di uccide alla polizia. Sono riusciti a impedire ai filippini di usare droghe? No. Sono riusciti solo ad aumentare i problemi di chi aveva bisogno di aiuto.
Provare a estirpare il comportamento del consumo di droghe è impossibile. Pure gli animali usano sostanze per “sballarsi” (vi consiglio di leggere “Animali che si drogano” di Giorgio Samorini). Un governo responsabile dovrebbe occuparsi appunto di governare questo fenomeno. Se, per intenderci, in quella lunghissima colonna di mezzi della polizia, se tra quelle centinaia di agenti delle forze dell’ordine, se in tutto il dibattito indignato sul party di Modena a un certo punto alle autorità fosse venuto in mente di mandare un solo operatore esperto in riduzione del danno… Ecco sarebbe stato molto meglio.
E invece abbiamo anche stavolta abbiamo un Ministro dell’Interno che invece della ragione usa il “pugno di ferro”.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
I SOLDATI DORMONO A TURNI CON I SACCHI A PELO SCAVATI SOTTO TERRA: “È IL LUOGO PIÙ SICURO DOVE STARE” … CI SONO PERSONE DI OGNI ETÀ E I VILLAGGI ALLE LORO SPALLE DIVENTANO CASERME DOVE LE RADIO O I SOCIAL MEDIA MANTENGONO IL COLLEGAMENTO TRA LE UNITÀ
In trincea si dorme a turni, perché di notte la guerra fa anche più spavento. Sei di guardia oppure esci all’attacco di quelli che, forse, questa volta non ti vedranno. Difficile immaginarli rimestare Nescafé. I nemici hanno qualcosa di diverso, qualche stupidità che li avvicina alle bestie, qualche malvagità che li rende insopportabili. Coltivi l’odio per poterli uccidere. Eliminare loro prima che loro elimino te. È parte essenziale della guerra: odio per chi cerca di ammazzarti da lontano, vigliaccamente, con un macchinario potente e rumoroso. Lo stesso che usi tu.
Un carrista di 26 anni spiega che i coscritti russi «sono già arrivati sul fronte» e con lo sguardo dritto dice che «continuano a mandarceli contro a gruppi di 20 e noi ogni giorno ne facciamo fuori 18 e il giorno dopo ne arrivano altri 20 e poi ancora e ancora e ancora». Si chiama Ivan. È un ragazzo, con gli occhiali, i capelli lunghi come piacciono alla fidanzata. Ha l’aspetto del volontario della parrocchia.
È che in trincea i sentimenti si fanno estremi. I commilitoni appena conosciuti diventano fratelli, si diventa tutti uniti come le foglie degli alberi attorno. Ivan è pronto a morire per difenderli e non è un modo di dire. Ogni volta che sale sul carro armato espone il corpo a bombe capaci di carbonizzarlo in un attimo anche dentro la corazza d’acciaio del tank. Degli occhiali da universitario rimarrebbe, forse, qualche pallina di plastica.
Ivan da dentro il carro carica, punta e spara: i nemici meritano la peggiore delle fini. Deve essere sicuro di fare la cosa giusta. Altrimenti sarebbero quei 20 ad uccidere lui. «Ormai lo sappiamo. Anche se hanno già un drone in volo, ci vogliono cinque colpi perché i russi riescano a capire da dove stiamo sparando. Così cinque colpi e non uno di più. Via».
In trincea bisogna riuscire a dormirci anche di giorno e il sacco a pelo sotto terra è il luogo più sicuro dove stare. Si scava almeno due metri e mezzo, poi si copre in modo che nulla spunti da terra. È meglio se il soffitto è fatto con travi di cemento armato, altrimenti bisogna farsi bastare i tronchi. A volte si abbattono alberi, altre si raccolgono pali della luce o travi da case bombardate. Non c’è porta in una trincea sotterranea, ma coperte a trattenere il caldo di una piccola stufetta a legna che scarica tra i cespugli.
Per costruire quella stanza sotterranea si ricicla l’enorme spreco della guerra. Le scatole che trasportano le munizioni diventano buone per isolare le pareti dall’umidità. Una sopra l’altra fanno da perlinato con tanto di decorazione: calibro, marca, numero di serie. I bossoli delle cariche esplosive che spingono la bomba nelle canne dei carri armati vanno benissimo a rinforzare i gradini. Il risultato pare l’incrocio tra la casa sull’albero di bambini disordinati, una miniera e un campeggio da rave party. Non c’è tempo di rassettare. La trincea si spera sempre provvisoria: «Presto vinceremo». Altrimenti bisognerà indietreggiare e questo rifugio rimarrà a far meravigliare i bambini.
La fortuna serve anche perché ci sia sempre qualcuno più disponibile di altri a cucinare. Così una pentola è sempre calda sui fornelli. Pomodoro, scatolette di carne, barbabietole, patate, cipolle: il rancio è qualcosa di più di un modo per riempire lo stomaco, è un rito che ricorda casa, dà un senso di continuità alla vita come dovrebbe essere e non com’ è ora. A volte basta del pepe a scatenare ricordi che tengono a galla.
In trincea si sta come in famiglia, senza vergogna, tra generazioni diverse. Spesso il comandante ha meno anni di alcuni dei sottoposti e le cose funzionano se tutti capiscono di non saper leggere, capire e decidere bene come lui. I vecchi però risolvono sempre molti problemi. Ci sanno fare con pala, chiodi e martello. Sono loro a costruire la trincea, i giovani, come in famiglia, escono più spesso e rischiano anche di più.
Tutti, tutti i gruppi di combattimento che si rifugiano in trincea hanno un cane. Ci sono sensori e satelliti, ma è ancora il cane a dare il conforto delle greggi contro i lupi che le vogliono divorare. Possono essere cani grandi o piccoli. Di giorno ciondolano, evitano cingoli e ricevono pacche e avanzi di cibo. Di notte si accucciano vicino alla sentinella e raddoppiano il numero di orecchie. Le caserme è più sano evitarle, con l’aviazione nei cieli non si possono costruire campi tendati, ciascuna trincea, come una squadra di boyscout, deve pensare da sé a come dormire, mangiare e proteggersi.
Non tutto può essere in trincea. Non c’è da lavare e lavarsi, ad esempio. Al volante di auto civili, le più vecchie e brutte possibile (le loro oppure quelle trovate abbandonate o requisite), si lascia la camera sotterranea e si va nelle retrovie. Se si è fortunati si trova una casa col pozzo, la stufa e il bagno dove lavarsi. I villaggi alle spalle delle trincee diventano così caserme diffuse dove sono le radio o i social media sul telefonino (WhatsApp, Viber o Telegram) a tenere il collegamento tra le unità.
Poi ogni mese, ogni due o tre mesi, ecco la vera licenza. L’Ucraina ha il vantaggio, rispetto alla immensa Russia, di poter mandare a casa i propri soldati dopo un tempo di utilizzo in trincea relativamente breve. Può farlo perché l’intero Paese non è poi così lontano dalla guerra. Dalla zuppa in trincea alla pizza con la famiglia si impiegano al massimo 8 o 10 ore. La vita normale è così vicina da non poter evitare di combattere per difenderla. Così vicina che è una follia.
(da “Corriere della Sera”)
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Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
È SOTTO INDAGINE A ROMA CON L’IPOTESI DI CORRUZIONE PER ESSERSI INTERESSATO MOLTO PREMUROSAMENTE DELLA ORTE-MESTRE DI VITO BONSIGNORE CIRCA UN ANNO FA
Chissà se Giorgia Meloni leggerà l’articolo di Gianfrancesco Turano sul sito dell’Espresso, che analizza le potenziali difficoltà del ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, nel gestire i miliardi di euro di lavori pubblici.
Guarda caso, Turano scrive proprio il giorno in cui Edoardo Rixi, fedelissimo del Capitone, si dovrebbe insediare come Viceministro a fianco del segretario leghista.
Di certo, alla Meloni non potrà passare inosservato questo passaggio:
“In un governo che ha sdoganato i cognati è facile mettere il piede in fallo prima ancora di avere iniziato. La prima grana porta il nome di Tommaso Verdini. Il figlio di Denis, e fratello della compagna del vicepremier leghista, è sotto indagine a Roma con l’ipotesi di corruzione per essersi interessato molto premurosamente della Orte-Mestre di Vito Bonsignore circa un anno fa, quando il numero uno dell’Anas (gruppo Fs) era Massimo Simonini, oggi indagato con Verdini junior e Bonsignore ma sempre in carica come commissario straordinario della statale 106 Jonica (oltre 4 miliardi di euro di interventi), della E78 Grosseto-Fano (oltre 2 miliardi di euro di lavori).”
(da L’Espresso)
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Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
I RAGAZZI NATI TRA IL 1997 E IL 2012 COMPRANO COSE CHE NON SI POSSONO PERMETTERE AMMALIATI DALLA POSSIBILITÀ, OFFERTA DA SOCIETÀ DI CREDITO, DI PAGARE IN COMODE RATE SENZA INTERESSI
In tempi di inflazione alle stelle e salari fermi al palo, fa gola a molti la promessa “compri subito, ricevi immediatamente, ma paghi dilazionato”, senza passare attraverso i canali bancari o finanziari e con totale assenza di interessi. Soprattutto a quella Generazione Z che diffida dalle banche, che non usa le carte di credito e spesso fatica a razionalizzare i propri impegni finanziari. Il fenomeno del “Buy now, pay later”, o Bnpl, cresce e viene attenzionato dalle autorità di vigilanza. Anche in Italia.
L’onda di piccoli default in arrivo dagli Stati Uniti – dove crescono i giovani che bruciano i loro risparmi nell’illusione di potersi indebitare a costo zero per comprarsi una giacca o un viaggio – ha spinto Banca d’Italia ad accendere un faro su un fenomeno che è quasi impossibile da quantificare, con stime che oscillano dal miliardo e mezzo di euro – pari al 3% del valore dell’ecommerce – solo per l’online ai 6,2 miliardi di euro complessivi stimati dalla società di intelligence finanziaria Market & Research che nel nostro Paese calcola una crescita del 52,8% rispetto al 2021. Merito dell’adozione del sistema di pagamento da parte dei big del settore, come Amazon, Yoox o Farfetch, e delle neo-bank.
Un fenomeno che secondo Kaleido Intelligence, a livello globale per l’online, potrebbe sfondare quota 80 miliardi di dollari con una crescita del 50% rispetto all’anno scorso.
Anche perché secondo PayPlug, i commercianti che hanno utilizzato questo metodo di pagamento registrano un aumento del carrello medio del 45% e un incremento di fatturato pari al 10%. Motivo per cui i costi dell’operazione sono tutti a carico loro.
Klarna, Scalapay e Clearpay sono alcune delle società che permettono di diluire il pagamento degli acquisti, anche direttamente da app dopo l’acquisto nei negozi fisici. E il fatto che Apple abbia annunciato l’intenzione di sviluppare un servizio di dilazione dei pagamenti direttamente da telefonino conferma quanto il settore sia effervescente.
Quello che spesso sfugge ai consumatori, però, è che l’assenza di interessi non sia un’assenza di rischi. Secondo Kruk, operatore specializzato nella gestione dei debiti, il 60% degli utilizzatori del Bnpl non si è mai accorto degli avvisi sulle conseguenze in caso di mancato pagamento e il 77% ignora ci siano delle sanzioni in caso di mancato pagamento di una rata.
Addirittura, PayPal sottolinea come una rata saltata potrebbe far scattare «un’azione legale nei confronti dell’utente» e avverte che «potrebbe comportare criticità nell’ottenimento di altri finanziamenti, anche con terzi creditori».
Avvertenze analoghe per gli altri operatori. Eppure, la storia di crescita del comparto è solida in Italia, secondo Market & Research.
Nel periodo 2022-2028 il tasso annuo di crescita composto (o Cagr, in inglese) è dato al 26,8 per cento. Si passerà dai 4,09 miliardi di euro del 2021 ai 25,98 miliardi del 2028.
Sempre più persone usano il Bnpl, o ne sono incuriositi. Secondo un rapporto di marzo 2022 di Clearpay, il 56,1% degli italiani che non sono a conoscenza del metodo di pagamento sarebbe interessato a utilizzarlo.
E non solo per i grandi acquisti. Nel luglio scorso Trenord, l’operatore dei trasporti ferroviari della Lombardia, ha annunciato il lancio della sua funzionalità Bnpl con Scalapay, che consente ai pendolari di acquistare i biglietti utilizzando l’opzione di pagamento differito.
Il problema principale, secondo le autorità, è la scarsa percezione della spesa, e quindi il possibile sovraindebitamento. Banca d’Italia ha messo in guardia i consumatori sull’utilizzo del Bnpl. Si tratta, spiegano da via Nazionale, di una «forma di credito che si sta diffondendo anche nel nostro Paese, ma non è oggetto di una specifica regolamentazione.
Pertanto, la disciplina applicabile e le relative tutele dipendono dal modo in cui è configurata».
Questa forma di finanziamento, ricorda l’istituto, è «solitamente di importo contenuto e può essere offerta sia online sia presso punti vendita fisici, nella maggior parte dei casi non prevede interessi o oneri a carico del consumatore, ma commissioni in caso di ritardo o mancato pagamento». Il credito è concesso con una procedura molto rapida, e in questo caso «senza lo svolgimento di una valutazione del merito creditizio o sulla base di una valutazione semplificata».
Il contesto di poche regole e procedure velocizzate, rimarca Palazzo Koch, può essere fuorviante: «La facilità di accesso al servizio, unitamente alla circostanza che il Bnpl è generalmente utilizzato per acquistare beni di consumo di importo contenuto, potrebbe incentivare acquisti non del tutto consapevoli e, quindi, potenzialmente non sostenibili per i consumatori, esponendoli a un rischio di sovraindebitamento», si spiega. Il monitoraggio, avverte Via Nazionale, sarà costante e continuo.
«È uno strumento da utilizzare con buon senso e responsabilità. Non dobbiamo farci ingannare dalla convinzione di poterci permettere tutto e subito», dice Simona Scarpa di Kruk Italia. Che poi aggiunge: «Siamo particolarmente preoccupati che questo strumento possa solo aumentare i casi di debiti personali, soprattutto in una fascia giovane della popolazione».
(da “la Stampa”)
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Ottobre 31st, 2022 Riccardo Fucile
I CIVILI RECLUTATI NON HANNO ALCUN TIPO DI ADDESTRAMENTO MILITARE E UNA VOLTA SPEDITI AL FRONTE MUOIONO COME MOSCHE SOTTO I COLPI DI ARTIGLIERIA UCRAINA
In nove mesi di guerra non erano mai morti così tanti soldati russi in un giorno solo: novecentocinquanta, secondo il bollettino quotidiano del ministero della Difesa ucraino di ieri.
Il dato record è significativo, perché i numeri del bollettino pubblicato dalla Difesa ucraina non sono di fantasia e sono legati a quello che succede sul terreno. Vuol dire che il numero reale potrebbe non essere quello ed è materia di discussione, ma la tendenza è credibile.
In questi mesi squadre di ricercatori indipendenti che raccolgono tutte le immagini di veicoli russi distrutti hanno scoperto che il loro conteggio non si discosta in modo significativo da quello del bollettino.
Se valesse anche per i soldati, vorrebbe dire che da parte russa ci sono più perdite del normale – tra l’altro in un periodo che non vede avanzate veloci e capovolgimenti di fronte, ma bombardamenti di artiglieria.
Il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, tre giorni fa ha detto che la mobilitazione di trecentomila russi è completa e che ottantaduemila sono già arrivati sul fronte – e questa potrebbe essere una spiegazione. I mobilitati spediti in zona di guerra senza addestramento e senza esperienza hanno meno chance di cavarsela rispetto ai soldati professionisti.
Circola questa versione, per ora non confermata da alcuna fonte ufficiale: i soldati russi si stavano concentrando in preparazione di un attacco e sono stati individuati e bombardati dai cannoni ucraini sul fronte est, quello di Lugansk.
Due giorni fa il generale russo che dirigeva le operazioni su quel fronte, Aleksandr Lapin, è stato rimosso dal suo incarico. Lapin questo mese è stato attaccato due volte con durezza dal dittatore ceceno Ramzan Kadyrov, che lo ha accusato di essere un incapace disfattista e di avere ordinato alle sue truppe di ritirarsi dalla città di Lyman invece che resistere e che inoltre si sarebbe anche appropriato della vittoria di Lysychansk a giugno.
Lapin aveva risposto con ancora più durezza e aveva alluso alla necessità di una terza guerra in Cecenia, per mettere a posto i ceceni diventati troppo arroganti.
Mediazone, un sito di notizie ucraino che segue in dettaglio la guerra, e il Progetto Sato, un media indipendente russo, ieri hanno scritto che Lapin a metà ottobre ha estratto dalla sua fondina la pistola e l’ha puntata alla testa di un tenente (un mobilitato a settembre con zero esperienza) perché aveva osato abbandonare una posizione assieme ai resti della sua compagnia. Il racconto arriva da un soldato presente alla scena, Nikita Pavlov, e i due media hanno sentito anche la moglie e il padre dell’ufficiale.
È una storia che in queste settimane si ripete con regolarità lungo tutto il fronte del Donbass. La compagnia del tenente, Dmitry Vodnev, subito dopo essere stata assemblata in frette e furia alla fine di settembre con gli uomini arruolati a forza è mandata a Kolomyichykha, un piccolo villaggio vicino Svatove nella regione di Lugansk.
Gli uomini si sistemano in un capannone per trattori e dormono per terra per quattro giorni senza luce elettrica, riscaldamento, cibo, acqua e soprattutto senza istruzioni da parte dei superiori. Gli ucraini li scoprono, cominciano a bombardare, chi può si sparpaglia nella foresta e gli altri restano inchiodati sotto il fuoco dei mortai.
Muoiono dieci soldati in due giorni, i sopravvissuti tornano a piedi fino al comando, il generale Lapin li vede, punta la pistola alla testa del tenente e accusa tutti di essere «traditori e disertori».
Va avanti per quasi un giorno, fino a quando due droni ucraini sorvolano il comando e gli ufficiali russi, per timore di essere stati individuati e di attirare il fuoco ucraino, saltano sui loro veicoli e vanno via.
(da La Repubblica)
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