Destra di Popolo.net

L’AVVERTIMENTO UE ALL’ITALIA: “CONTI A RISCHIO CON IL DEBITO COSI’ ALTO, ANCORA TROPPI GIOVANI SENZA LAVORO”

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

L’ALLERTA NEL RAPPORTO DI AUTUNNO

In attesa di ricevere il testo completo della manovra varata questa settimana dal governo Meloni, attesa a Bruxelles a giorni, la Commissione europea rinnova l’allerta sui rischi macroeconomici che corre l’Italia.
Per l’esecutivo Ue resta infatti motivo di seria preoccupazione in primis il livello eccessivo di debito pubblico, tornato a crescere negli ultimi due anni per l’impegno dello Stato contro pandemia e caro energia.
Sebbene sia sceso al 150,3% del Pil nel 2021, scrivono i tecnici della Commissione nell’Alert Mechanism Report pubblicato oggi, il livello di indebitamento «resta elevato e dovrebbe rimanere ben al di sopra del livello del 2019», prima cioé dello scoppio della pandemia.
Ma ad essere cambiato nel frattempo è il contesto di politica monetaria, con i tassi d’interesse in rapida crescita e la Bce che sta progressivamente ritirando il programma straordinario di acquisto di titoli di Stato. In questo quadro, avverte la Commissione, «i Paesi con i più alti indici di indebitamento sono particolarmente vulnerabili». Tradotto e riassunto: l’Italia rischia di non riuscire più a invertire la rotta sul rientro del debito, col rischio di esaurire gli spazi di manovra e tornare nel mirino della speculazione finanziaria. «Nel medio termine ci sono elevati rischi per la sostenibilità fiscale», sancisce la Commissione.
Senza lavoro
A preoccupare l’Ue, oltre al debito pubblico, sono anche gli squilibri del mercato del lavoro italiano. «Il tasso di disoccupazione è salito al 9,5% nel 2021. Si prevede che diminuirà nel 2022 ma aumenterà nuovamente nel 2023», si segnala nel rapporto. In particolare, rispetto alla media europea, restano troppo bassi il tasso di attività, soprattutto per le donne, quello di disoccupazione giovanile e quello di disoccupazione di lungo periodo. Insieme ad altri nove Paesi, che presentano squilibri macroeconomi preoccupanti, l’Italia resta dunque sotto monitoraggio della Commissione Ue, che continuerà a valutare l’evoluzione dei parametri con una revisione approfondita (in-depth review). .
Rispondendo da Strasburgo alle domande dei cronisti, il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni intanto ha fatto sapere che la Commissione esaminerà la manovra varata dal governo Meloni non appena arriverà, «immagino tra mercoledì e giovedì».
(da Open)

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CHE CI FANNO ROMEO E SANSONETTI CON “L’UNITÀ”? L’IMPRENDITORE NAPOLETANO E IL DIRETTORE DEL “RIFORMISTA” HANNO VINTO LA “GARA” DEL CURATORE FALLIMENTARE DEL GIORNALE FONDATO DA ANTONIO GRAMSCI

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

HANNO OFFERTO 910MILA EURO E STANNO CERCANDO UN DIRETTORE. SECONDO RUMORS RIPORTATI DA “PRIMA COMUNICAZIONE”, DOVRÀ ESSERE DI AREA CALENDA O ZONE LIMITROFE

L’Unità, giornale fondato da di Antonio Gramsci nel 1924, da luglio scorso nelle mani del curatore fallimentare del Tribunale di Roma ha trovato un nuovo editore.
Si tratta del Gruppo Romeo, già publisher de Il Riformista, che fa capo all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, e dello stesso direttore del Riformista, Piero Sansonetti (che a L’Unità ha lavorato per 30 anni).
Romeo e Sansonetti hanno infatti vinto la “gara” del curatore fallimentare offrendo 910 mila euro – superando i 900mila messi sul tavolo da Silvio Pons, presidente della Fondazione Gramsci – e assicurandosi la titolarietà della testata. L’operazione non prevede obblighi verso la corposa ex redazione del quotidiano che dal fallimento ha ancora delle pendenze sospese.
Sansonetti sta già cercando un direttore per la “nuova” Unità. Romors riferiscono che dovrà essere di area Calenda o zone politiche limitrofe.
L’intenzione è riportare il giornale in edicola all’inizio del nuovo anno.
(da Dagoreport)

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L’EPIC FAIL DELLA TV RUSSA: IL PADRE DI PUTIN SAREBBE MORTO 10 ANNI PRIMA DELLA NASCITA DEL FIGLIO

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

IL PRINCIPALE CANALE TELEVISIVO RUSSO CANCELLA TUTTO

Durante un servizio del 21 novembre 2022 dedicato alle vittime del nazismo mandato in onda da Canale 1 (Первый канал), il principale canale televisivo russo, è stato trasmesso un testo nel quale si afferma che il padre di Vladimir Putin sarebbe morto durante l’assedio di Leningrado combattendo contro le forze tedesche.
Secondo i giornalisti russi, Vladimir Spiridonovich Putin sarebbe caduto nell’area di Nevsky Pyatachok (Не́вский пятачо́к), uno dei siti del combattimento tenutosi tra il 1941 e il 1944. C’è un problema, perché l’attuale leader russo Vladimir Putin è nato il 7 ottobre 1952. Il servizio serviva per giustificare l’invasione russa dell’Ucraina, attraverso la narrazione della lotta contro i nazisti e neonazisti, riportando le atrocità subite dall’esercito sovietico. Nell’introdurre un breve intervento dell’attuale leader russo, nella parte bassa della schermata è apparso il seguente testo: «Il presidente Vladimir Putin, il cui padre è morto a Nevsky Pyatachok…».
La mattina del 22 novembre 2022, il giorno dopo la messa in onda, il servizio è letteralmente scomparso dall’account di Canale 1 nella piattaforma RuTube (una sorta di Youtube russa). Rimane però traccia, grazie al sistema di archiviazione online Web.Archive.org dove leggiamo il titolo dell’intero servizio («В Гатчине открылся Международный форум, приуроченный к годовщине Нюрнбергского процесса»).
Il padre del leader russo aveva realmente combattuto nelle file sovietiche durante l’assedio di Leningrado, ma risulta che venne gravemente ferito senza però cadere in battaglia. La data della sua morte risulta quella del 2 agosto 1999 all’età di 88 anni, un anno dopo la moglie Maria Ivanovna Putina. La tomba è situata a San Pietroburgo, dove a settembre era stata posta una lettera sotto forma di “nota scolastica”: «Cari genitori, vostro figlio si comporta male. Salta le lezioni di storia, litiga con i compagni di classe e minaccia di far saltare in aria l’intera scuola. Dovete prendere provvedimenti».
(da Open)

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REDDITO DI CITTADINANZA, LE MISURE ATTIVE IN ALTRI PAESI EUROPEI

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

DALL’ASSEGNO SOCIALE IN GERMANIA AL BONUS FRANCESE PER INTEGRARE LO STIPENDIO… GLI STRUMENTI CONTRO LA POVERTA IN EUROPA

Il governo Meloni ha deciso: dal 2024 il reddito di cittadinanza sarà abolito e sostituito da una nuova «riforma complessiva per il sostegno alla povertà e all’inclusione». Con l’approvazione della nuova manovra di bilancio, l’esecutivo ha deciso di interrompere già nel 2023 la concessione del sussidio a tutti i cosiddetti «occupabili», ossia coloro che sono in grado di lavorare.
A partire dal 1° gennaio 2024, invece, lo strumento cesserà completamente di esistere e verrà introdotta una nuova forma di sussidio, destinata solo ai più poveri.
Secondo i dati di YouTrend, aggiornati a maggio 2022, sono oltre un milione i nuclei familiari che quest’anno hanno beneficiato del reddito di cittadinanza, ricevendo un importo medio mensile di 581 euro.
Ma come si stanno muovendo gli altri Paesi dell’Unione Europea nella lotta alla povertà?
Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica, tutti i 27 Stati Ue hanno adottato misure per garantire un reddito minimo. Tra un Paese e l’altro, però, le differenze sono notevoli. A cambiare non sono solo i requisiti di chi può fare domanda, ma anche l’obiettivo stesso dello strumento.
In Francia, per esempio, il supporto ai più poveri va di pari passo con il reinserimento nel mercato del lavoro. In Spagna, invece, lo strumento approvato dal governo Sánchez ha come scopo dichiarato l’aiuto delle famiglie che vivono sotto la soglia di povertà.
Il caso francese
In Francia, chi ha più di 25 anni ed è disoccupato può richiedere il Revenu de solidarité. Il sussidio è stato introdotto nel 2008 e prevede un supporto economico che va da circa 500 euro – in caso di mononucleo familiare – a circa 1.000 euro per le coppie con figli.
La misura non ha nessun limite temporale ma consente di rifiutare al massimo un’offerta di lavoro. Se il percettore del sussidio rifiuta anche la seconda, il beneficio decade.
La misura può essere richiesta anche per integrare i redditi dei lavoratori sotto la soglia fissata annualmente per raggiungere il reddito minimo. Per incentivare chi beneficia del Rsa a rientrare nel mercato del lavoro, il governo francese ha varato anche il Prime activité, una sorta di integrazione dello stipendio che può essere richiesta da chiunque guadagni meno di 1.800 euro (una volta e mezzo il salario minimo legale). L’obiettivo è chiaro: rendere più appetibili anche i lavori con una paga più bassa e ridurre la disoccupazione.
La Germania cambia le regole
Discorso diverso in Germania, dove a partire dal primo gennaio 2023 entrerà in vigore un nuovo strumento: il Bürgergeld.
Si tratta di un assegno sociale di 502 euro mensili per chiunque si trovi «in stato di indigenza o nell’incapacità di assicurarsi il guadagno di base». La misura va a sostituire lo strumento attualmente in vigore, il cosiddetto Hartz IV, che obbligava i lavoratori ad accettare qualsiasi offerta di lavoro ritenuta «adeguata», pena la perdita del sussidio. Secondo la «coalizione semaforo» di Olaf Scholz, però, questa norma è troppo stringente. L’obiettivo del nuovo strumento, dunque, non è più il semplice reinserimento nel mercato del lavoro – anche a costo di accontentarsi di un’occupazione temporanea – ma allargare a più persone la possibilità di richiedere l’assegno del governo.
La ricetta spagnola contro la povertà
In Spagna il governo socialista di Pedro Sánchez ha introdotto nel 2020 l’Ingreso Minimo Vital (IMF), una misura di welfare per garantire a disoccupati e famiglie in difficoltà un assegno che va da un minimo di 462 a un massimo di 1.015 euro al mese.
L’importo dell’IMV varia a seconda della dimensione del nucleo familiare, viene erogato in 12 mensilità ed è cumulabile con altri tipi di prestazioni sociali. Il fine ultimo della misura è soprattutto il contrasto alla povertà. E, proprio per questo, la misura prevede requisiti meno stringenti rispetto ad altri Paesi e può essere richiesto anche dagli stranieri che si trovano da almeno un anno in Spagna. Per quanto riguarda la parte di politiche attive del lavoro, il governo spagnolo ha varato un meccanismo detto sello social (timbro sociale), che prevede sgravi fiscali alle imprese che assumono i beneficiari del sussidio.
Le linee guida di Bruxelles
La crisi economica scoppiata in seguito alla guerra in Ucraina ha rimesso le politiche contro la povertà al centro dell’agenda legislativa. Per questo, a fine settembre, la Commissione Europea ha pubblicato una proposta rivolta a tutti i Paesi membri per modernizzare i propri sistemi di reddito minimo garantito. «Oggi più di una persona su cinque nell’UE è a rischio di povertà ed esclusione sociale», ha detto Nicolas Schmit, commissario Ue per il Lavoro.
«In tutti gli Stati membri esistono regimi di reddito minimo, ma – ha aggiunto – dalle analisi risulta che non sempre sono adeguati, raggiungono tutti coloro che ne hanno bisogno o motivano le persone a rientrare nel mercato del lavoro».
Tante le proposte che Bruxelles invita a prendere in considerazione: dalla revisione periodica dell’importo alla promozione di procedure più trasparenti, passando per l’introduzione di nuovi meccanismi che favoriscano il reingresso nel mercato del lavoro.
(da Open)

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“CASSIERA FULL TIME A 500 EURO AL MESE”

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

“LAVORO DALLE 8 ALLE 24 CON TURNO SPEZZATO PER 2,5 EURO L’ORA”… I DIMENTICATI DAL GOVERNO MELONI

Un mini taglio del cuneo fiscale, la prospettiva di uno stop al reddito di cittadinanza per le persone potenzialmente occupabili, nulla sul salario minimo per legge.
Nella prima legge di Bilancio del governo Meloni le misure su lavoro e stipendi si fermano qui. Anche al netto della scarsità di risorse e della necessità di dare priorità all’emergenza bollette, il pacchetto sembra non tener conto della realtà del mondo del lavoro.
In Italia, ricorda l’ultimo rapporto Inapp, il 10,8% degli occupati è un “working poor”, cioè ha uno stipendio inferiore alla soglia di povertà, l’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione annua lorda inferiore a 10mila euro e solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30mila euro, stipendi medi di gran lunga inferiori rispetto alla media europea. Un quadro – confermato anche dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia – in cui si inseriscono perfettamente le testimonianze raccolte dal fattoquotidiano.it, che raccontano le condizioni di lavoro subite da molti pur di avere un impiego che permetta loro di sopravvivere.
ADDETTO ALLA SICUREZZA PER 3,66 EURO L’ORA
“Mi sono trasferito a Milano dalla Sardegna per trovare lavoro. Quando sono arrivato ho trovato un lavoro come addetto alla sicurezza in un grande magazzino della città – racconta Pietro – Ho lavorato dalle 7.30 alle 23.30 con soli 30 minuti di pausa per un compenso di 3,66 euro all’ora. Era obbligatorio avere la barba perfettamente tagliata ogni giorno, pena la decurtazione di 4 ore dalla busta paga come multa. Speravo di trovare un lavoro pagato dignitosamente a Milano visto che in Sardegna spesso gli stipendi sono molto bassi, ma mi sono dovuto accontentare di questo per sopravvivere”.
40 ORE FULL TIME? RETRIBUITE IN MINIMA PARTE
Di storie di sfruttamento simili a quella che racconta Pietro ne esistono letteralmente a migliaia. Da Nord a Sud, sono moltissime le testimonianze di giovani e meno giovani costretti ad accettare proposte a condizioni molto lontane dall’essere accettabili. E in molti casi, si tratta di lavori solo parzialmente regolarizzati, dove a fronte di un monte orario anche ben più alto delle canoniche 40 ore di lavoro full time ne vengono contrattualizzate e retribuite solo una minima parte, permettendo al datore di lavoro di evadere tasse e contributi e di non versare le eventuali 13esima, 14esima e Tfr a cui avrebbe diritto il dipendente, oltre a ferie e malattia. E poi, c’è il lavoro totalmente in nero, una piaga di cui si sente parlare sempre troppo poco.
SEI GIORNI SU SETTE A 12 ORE PER 400 EURO
Valerio è siciliano e ha lavorato in un’azienda di infissi 12 ore al giorno per 5 giorni a settimana più ulteriori 8 ore il sabato. “Per il mio titolare il fatto che andassimo via ancora con la luce significava che avevamo lavorato solo mezza giornata, molti qui a Sud considerano 8 ore un part-time”. Lo stipendio? Ben 400 euro al mese. Praticamente 1,5 euro all’ora. “Ovviamente tutto in nero. Qui la messa in regola è un’utopia. Dicono sempre che noi giovani non vogliamo lavorare e non sappiamo cosa sia il sacrificio. La realtà è che non vogliamo fare gli schiavi”.
“HO PROTESTATO, MI HANNO DETTO CHE SONO GIOVANE” Maddalena ha 23 anni e vive in provincia di Napoli. Nella sua vita ha dovuto accettare di tutto, anche lavorare 13 ore al giorno per 600 euro. Trovare altro sembra impossibile, perché in zona le condizioni proposte dai vari titolari sono tutte molto simili. “Sono andata a fare un colloquio di lavoro in un supermercato della mia zona. Mi hanno proposto 42 ore a settimana su due turni per 500 euro al mese come cassiera e commessa di reparto insieme. Ho protestato e ho detto che solo di affitto spendo 400 euro al mese, con uno stipendio del genere non mi sarebbero rimasti nemmeno i soldi per fare la spesa. La risposta del direttore? Ha detto che avrebbero dovuto testare le mie abilità e che comunque a 23 anni quella cifra andava bene”.
“LAVORAVO DI PIU’, LA PAGA (MISERA) ERA UGUALE”
Davide ha lavorato per due anni e mezzo come aiuto banconista e ragazzo delle consegne per un bar di Napoli, un tipo di lavoro che nella città partenopea viene costantemente ricercato. “Lavoravo su turni di 5 o 8 ore per sei giorni a settimana, ma la paga non cambiava in funzione di quante ore lavorassi. Prendevo 70 euro a settimana, 12 euro al giorno praticamente”. Parliamo di 1,5/2,4 euro all’ora, a seconda dei turni lavorati. Una vera e propria miseria.
TURNO SPEZZATO TRA LE 8 E LE 24
Gabriele ha lavorato come cameriere in un pub, sempre in Campania. “Lavoravo dalle 8 del mattino alle 15 e poi ancora dalle 19 alle 24, anche se molto spesso si chiudeva più tardi perché soprattutto nel weekend i clienti tendevano a rimanere di più. La paga? 30 euro al giorno per entrambi i turni, tutto in nero e senza giorno di riposo. Praticamente lavoravo 360 ore al mese per 2,5 euro all’ora. La prima settimana di prova ho dovuto farla gratis perché il titolare la considerava formazione, quindi da non pagare”.
(da il Fatto Quotidiano)

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PEDEMONTANA VENETA: LO SPRECO DI SOLDI PUBBLICI ORA TRAPELA ANCHE NEI DOCUMENTI UFFICIALI

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

BUCO DI 54 MILIONI DI EURO NELLE CASSE REGIONALI

Che la Pedemontana Veneta – la superstrada a pagamento lunga appena 94 chilometri che collegherà la provincia di Vicenza a quella di Treviso – sarebbe stato un grosso spreco di denaro pubblico, l’avevamo già preannunciato in una serie di articoli precedenti, ma ora, a distanza di qualche mese, le conferme cominciano ad arrivare anche dalle stime ufficiali.
Nel bilancio di previsione 2023/25 della regione Veneto è scritto nero su bianco che ci si aspetta che la Pedemontana provocherà un buco di 54 milioni di euro nelle casse regionali per i prossimi tre anni. Fondamentalmente perché gli incassi derivati dai pedaggi (e quindi il volume del traffico) saranno notevolmente più bassi rispetto a quanto ipotizzato nelle a dir poco ottimistiche stime progettuali.
Una verità che molti avevano già ipotizzato dati alla mano e una situazione per la quale il governatore Zaia dovrebbe delle spiegazioni convincenti ai cittadini veneti.
Il problema della Pedemontana è a monte, e il rischio, ormai piuttosto concreto, è che l’opera potrebbe finire per costare in totale alle casse pubbliche 12 miliardi. Cioè tre volte quello stimato per il Ponte sullo Stretto di Messina. A fare le stime sui costi esorbitanti dell’opera non è stato solo qualche comitato locale, e di certo non è storia recente. Ci aveva già pensato la Corte dei Conti, per cui il contratto firmato dall’amministrazione veneta, concepito per tutelare l’appaltatore privato da ogni rischio d’impresa, riversando lo stesso direttamente sulle tasche dei cittadini, è irragionevole. Un accordo che Laura Puppato, ex sindaca di Montebelluna (uno dei Comuni attraversati dall’opera) ha sintetizzato con queste parole: «Neanche da ubriachi si poteva firmare una cosa del genere».
Spieghiamo meglio. Il fulcro dell’accordo contrattuale raggiunto nel 2016 con il Sis, il concessionario privato che ha progettato e sta realizzando l’opera, prevede che per i prossimi 40 anni, oltre a un contributo straordinario di 300 milioni di euro, l’amministrazione di Luca Zaia dovrà versare un canone annuo di 153 milioni di euro a favore del Consorzio costruttore. Canone annuo, tra l’altro, destinato ad aumentare nel tempo, fino a toccare quota 332 milioni annui al 2059. Per un totale quindi, a termine degli accordati anni, di oltre 12 miliardi: più di 100 milioni di euro al chilometro.
Quello con il consorzio è una tipologia di accordo che prende il nome di project financing, utilizzato quando le risorse pubbliche non sono sufficienti a coprire in quel momento determinati costi. Insomma, il privato finanzia il pubblico con la garanzia di un ritorno economico, a prescindere dalle effettive entrate. Un tipo di accordo che privatizza i profitti e socializza le perdite, proteggendo a spese dei cittadini l’azienda appaltatrice da ogni rischio di impresa.
«Il rischio di impresa è stato accollato totalmente al soggetto pubblico (Regione Veneto) nel momento in cui è stato concesso un canone di disponibilità», ci aveva detto in un’intervista esclusiva l’ingegnere Nicola Troccoli, progettista ed unico firmatario della progettazione preliminare dell’intera opera per conto della ditta concessionaria, ovvero la Sis Scpa. «Se, infatti, si fosse rimasti con il rischio a carico del promotore (così come previsto dal bando), molto probabilmente l’iniziativa non sarebbe nemmeno partita, perché con quelle condizioni e con quell’alto rischio determinato dai flussi di traffico, non sarebbero mai stati trovati investitori». Per Troccoli, sarebbe stato molto più semplice ed opportuno, ad esempio, far completare il finanziamento dell’opera allo Stato o all’ANAS. O, come credono alcuni, non portarla a termine affatto.
In generale, tutta la vicenda è piena di contraddizioni e mancate risposte. C’è una sola certezza, ma non è quella che i cittadini avrebbero voluto avere: ci sarà da impiegare tanto, tantissimo denaro pubblico.
(da lindipendente)

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KHERSON, IL VIDEO DEL SOLDATO VIOLINISTA FA IL GIRO DEL MONDO

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

IL MILITARE UCRAINO HA ABBANDONATO PER QUALCHE MINUTO IL FUCILE E HA IMBRACCIATO IL VIOLINO PER CONCEDERE UN MOMENTO DI SOLLIEVO A DONNE E BAMBINI

A Kherson, la città liberata dagli ucrainI, il caso di un soldato violinista ha attirato le attenzioni di mezzo mondo, con i video dell’esibizione di Moisey Bondarenko diventati virali in pochissimo tempo.
La musica, per spezzare con leggerezza il rumore degli spari e delle bombe e donare un momento di serenità alla popolazione oppressa dall’invasione russa.
Bondarenko attualmente presta servizio nell’esercito ucraino e dopo aver abbandonato momentaneamente il fucile imbraccia il violino, per concedere qualche minuto di sollievo a donne e bambini.
Negli ultimi video diffusi, il musicista si esibisce al centro di Kherson, dopo la fine dell’occupazione della città. La clip, rilanciata anche da Sky News, mostra la folla riunita attorno a Bondarenko mentre con violino e mimetica, suona per loro in Piazza della Libertà.
Su Twitter si trovano molti video del violinista ucraino mentre suona al fronte, tra le macerie degli edifici distrutti dalle bombe, nei bunker. All’inizio di quest’anno, il musicista, che in precedenza viveva a Kiev ed era in un’orchestra quando è scoppiata la guerra, è stato filmato mentre sollevava lo spirito dei suoi commilitoni suonando per loro in un bunker a Odessa. In quell’occasione, raccontò a Zenger News di essere stato ispirato ad arruolarsi nell’esercito «da Alexander Yarmak, un musicista ucraino e padre di famiglia che si è offerto volontario per la guerra nei primissimi giorni senza alcuna esitazione».
«Questo è un momento storico, questa è la cosa più utile che posso fare, la sensazione più bella è quando ti senti realizzato, necessario», ha aggiunto. «Certo, non ho mai tenuto in mano una mitragliatrice ed è molto spaventoso, ma se capisci questo, allora starai bene».
(da agenzie)

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“IL TRUCCHETTO DI GIORGIA MELONI È INACCETTABILE PER UN PRESIDENTE DEL CONSIGLIO”

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

IL GIORNALISTA DELLA “STAMPA”, ILARIO LOMBARDO, SPIEGA IL BATTIBECCO CON LA PREMIER DURANTE LA CONFERENZA STAMPA DI OGGI: “LA SOLLECITAVO A PRENDERE PIÙ DOMANDE. IL SUO È UN METODO. FA DELLE INTRODUZIONI LUNGHE E POI C’È LA TAGLIOLA DEI TEMPI”

Il confronto della premier Meloni coi cronisti al termine della conferenza stampa di oggi sulla manovra? “La sollecitavo a prendere molte più domande, visto che la legge di Bilancio è la principale legge dello Stato. C’è un metodo ormai, l’ho seguita in tutti i viaggi fatti finora e lei tutte le volte ha fatto le stesse cose, dicendo che aveva un impegno e non poteva prendere troppo domande”.
A parlare, ai microfoni di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Ilario Lombardo, giornalista de ‘la Stampa’, che oggi, al termine dell’incontro del governo con i media, ha criticato la possibilità di poter fare poche domande alla premier.
Giorgia Meloni ha sostenuto di non poter rispondere ad altre domande perché attesa da un altro incontro. Questa motivazione è a suo avviso pretestuosa? “Diversi indizi fanno una prova. Ci intravedo un metodo, una strategia, visto che lei fa delle introduzioni più lunghe dei suoi predecessori poi c’è la tagliola dei tempi e finisce che le domande diventano due, tre o cinque, come avvenuto oggi”.
Lei ha chiesto alla premier di tagliare sui tempi l’introduzione. “La presentazione della manovra è durata 75 minuti, un record degli ultimi anni. Il senso della conferenza stampa è fare domande, non è un convegno”.
Meloni ha detto “non mi pare che non siamo disponibili, mi ricordo che in altre situazioni siete molto meno assertivi”. A cosa si riferiva secondo lei?
“Non lo so ma è gravissimo che un’istituzione come la presidenza del Consiglio si permetta di accusare una categoria che è lì solo per fare domande. Questo trucchetto è assolutamente inaccettabile per un presidente del Consiglio”.
Secondo lei Giorgia Meloni vuole poche domande? “E’ così. Tanto che dopo aver fatto scoppiare la polemica si è messa a braccia conserte, col volto un po’ nervoso, e ha preso altre quattro o cinque domande”.
(da Un Giorgio Da Pecora)

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MELONI E LA SINDROME DELL’ASSEDIO: LA PRESIDENTE HA PAURA DELLE DOMANDE?

Novembre 22nd, 2022 Riccardo Fucile

DOMANDA LEGITTIMA DOPO IL FUORI PROGRAMMA DI OGGI, CONDITO DI ALLUSIONI E VITTIMISMO, CON CUI LA PREMIER HA CERCATO DI TRONCARE LA CONFERENZA STAMPA

Giorgia Meloni ha un problema con l’informazione? Non ama rispondere alle domande dei giornalisti in conferenza stampa? La presidente del Consiglio sa che si tratta di un suo dovere e non di una concessione o un favore?
Domande legittime dopo il fuori programma di oggi, condito di allusioni e il solito velo di vittimismo, con cui Meloni ha cercato di troncare la conferenza stampa sulla legge di bilancio, limitando il tempo dedicato alle domande dei cronisti.
Non una novità, peraltro, dato che anche in altre precedenti occasioni aveva lasciato pochissimo spazio alla fase del confronto, concedendo solo tre o quattro domande, lasciando solo in un caso il tempo necessario per quella fase in cui una conferenza stampa diventa degna di essere definita tale, smette cioè di essere l’equivalente di una diretta Facebook, certo più comoda e abituale, e assume il suo vero valore di spazio aperto alla verifica e all’approfondimento dei temi.
Se è un problema di agenda, dato che spesso Meloni ha troncato le conferenze accampando la motivazione di appuntamenti successivi da onorare, si tratta di modulare meglio il tempo a disposizione: meno spazio ai comizi iniziali e più al confronto aperto.
Se invece, e sarebbe decisamente più grave, c’è anche una indisposizione al libero esercizio dell’informazione, occorre che la presidente del Consiglio se ne faccia una ragione: il suo ruolo le impone di essere pronta e preparata a rispondere a tutte le questioni che le vengono poste. Può accadere che non lo sia, preparata, in tal caso è lecito dichiararlo e rimandare ad altre occasioni, lo hanno talvolta fatto anche i suoi predecessori.
Non le è invece consentito scambiare le domande sgradite per aggressione, come quando – forse ancora troppo imbevuta dei complessi della sua formazione politica – a un cronista ha risposto: “È una vita che mi volete insegnare le cose”.
Né le è consentito di lanciare allusioni (“Non eravate così coraggiosi in passato”, le è sfuggito a un certo punto) che hanno il solo effetto di testimoniare un’impreparazione alla funzione che ricopre e che, per giunta, suonano contraddittorie visto che è stata proprio lei, pur sollecitata, a non avere poi il coraggio di spiegare questa sgrammaticatura facendo almeno nomi e riferimenti concreti.
Sindrome dell’assedio
Farebbe bene anche al governo, oltre che al clima nel Paese, se Meloni si liberasse di questa sindrome dell’assedio, vera o simulata che sia. Ha vinto le elezioni, ha la piena legittimità a dispiegare il suo programma. Alla fine ha fatto la cosa giusta, fermandosi a rispondere ad altre domande, sebbene solo dopo la rivolta dei giornalisti presenti.
Nel discorso di insediamento ci ha voluto persino raccontare la sua simpatia per chi scende in piazza a contestarla. Singolare che una premier a parole così ben disposta verso chi scende in piazza contro il suo governo, si riveli tanto fragile e insicura quando deve confrontarsi con delle semplici domande.
La stampa non è un surrogato dell’opposizione. Meloni superi anche questo equivoco: informare i cittadini, verificare i fatti, individuare contraddizioni o punti deboli – in una espressione: controllare il potere – resta una delle funzioni primarie del giornalismo. Nei paesi democratici.
(da La Repubblica)

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