Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
“LA REPUBBLICA SIAMO TUTTI NOI, INSIEME”… “LA REPUBBLICA E’ DI CHI PAGA LE TASSE”
Un anno addietro, rivolgendomi a voi in questa occasione, definivo i sette anni precedenti come impegnativi e complessi.
Lo è stato anche l’anno trascorso, così denso di eventi politici e istituzionali di rilievo.
L’elezione del Presidente della Repubblica, con la scelta del Parlamento e dei delegati delle Regioni che, in modo per me inatteso, mi impegna per un secondo mandato.
Lo scioglimento anticipato delle Camere e le elezioni politiche, tenutesi, per la prima volta, in autunno.
Il chiaro risultato elettorale ha consentito la veloce nascita del nuovo governo, guidato, per la prima volta, da una donna.
È questa una novità di grande significato sociale e culturale, che era da tempo matura nel nostro Paese, oggi divenuta realtà.
Nell’arco di pochi anni si sono alternate al governo pressoché tutte le forze politiche presenti in Parlamento, in diverse coalizioni parlamentari.
Quanto avvenuto le ha poste, tutte, in tempi diversi, di fronte alla necessità di misurarsi con le difficoltà del governare.
Riconoscere la complessità, esercitare la responsabilità delle scelte, confrontarsi con i limiti imposti da una realtà sempre più caratterizzata da fenomeni globali: dalla pandemia alla guerra, dalla crisi energetica a quella alimentare, dai cambiamenti climatici ai fenomeni migratori.
La concretezza della realtà ha così convocato ciascuno alla responsabilità.
Sollecita tutti ad applicarsi all’urgenza di problemi che attendono risposte.
La nostra democrazia si è dimostrata dunque, ancora una volta, una democrazia matura, compiuta, anche per questa esperienza, da tutti acquisita, di rappresentare e governare un grande Paese.
È questa consapevolezza, nel rispetto della dialettica tra maggioranza e opposizione, che induce a una comune visione del nostro sistema democratico, al rispetto di regole che non possono essere disattese, del ruolo di ciascuno nella vita politica della Repubblica.
Questo corrisponde allo spirito della Costituzione.
Domani, primo gennaio, sarà il settantacinquesimo anniversario della sua entrata in vigore.
La Costituzione resta la nostra bussola, il suo rispetto il nostro primario dovere; anche il mio.
Siamo in attesa di accogliere il nuovo anno ma anche in queste ore il pensiero non riesce a distogliersi dalla guerra che sta insanguinando il nostro Continente.
Il 2022 è stato l’anno della folle guerra scatenata dalla Federazione russa.
La risposta dell’Italia, dell’Europa e dell’Occidente è stata un pieno sostegno al Paese aggredito e al popolo ucraino, il quale con coraggio sta difendendo la propria libertà e i propri diritti.
Se questo è stato l’anno della guerra, dobbiamo concentrare gli sforzi affinché il 2023 sia l’anno della fine delle ostilità, del silenzio delle armi, del fermarsi di questa disumana scia di sangue, di morti, di sofferenze.
La pace è parte fondativa dell’identità europea e, fin dall’inizio del conflitto, l’Europa cerca spiragli per raggiungerla nella giustizia e nella libertà.
Alla pace esorta costantemente Papa Francesco, cui rivolgo, con grande affetto, un saluto riconoscente, esprimendogli il sentito cordoglio dell’Italia per la morte del Papa emerito Benedetto XVI.
Si prova profonda tristezza per le tante vite umane perdute e perché, ogni giorno, vengono distrutte case, ospedali, scuole, teatri, trasformando città e paesi in un cumulo di rovine. Vengono bruciate, per armamenti, immani quantità di risorse finanziarie che, se destinate alla fame nel mondo, alla lotta alle malattie o alla povertà, sarebbero di sollievo per l’umanità.
Di questi ulteriori gravi danni, la responsabilità ricade interamente su chi ha aggredito e non su chi si difende o su chi lo aiuta a difendersi.
Pensiamoci: se l’aggressione avesse successo, altre la seguirebbero, con altre guerre, dai confini imprevedibili.
Non ci rassegniamo a questo presente.
Il futuro non può essere questo.
La speranza di pace è fondata anche sul rifiuto di una visione che fa tornare indietro la storia, di un oscurantismo fuori dal tempo e dalla ragione. Si basa soprattutto sulla forza della libertà. Sulla volontà di affermare la civiltà dei diritti.
Qualcosa che è radicato nel cuore delle donne e degli uomini. Ancor più forte nelle nuove generazioni
Lo testimoniano le giovani dell’Iran, con il loro coraggio. Le donne afghane che lottano per la loro libertà. Quei ragazzi russi, che sfidano la repressione per dire il loro no alla guerra.
Gli ultimi anni sono stati duri. Ciò che abbiamo vissuto ha provocato o ha aggravato tensioni sociali, fratture, povertà.
Dal Covid – purtroppo non ancora sconfitto definitivamente – abbiamo tratto insegnamenti da non dimenticare.
Abbiamo compreso che la scienza, le istituzioni civili, la solidarietà concreta sono risorse preziose di una comunità, e tanto più sono efficaci quanto più sono capaci di integrarsi, di sostenersi a vicenda. Quanto più producono fiducia e responsabilità nelle persone.
Occorre operare affinché quel presidio insostituibile di unità del Paese rappresentato dal Servizio sanitario nazionale si rafforzi, ponendo sempre più al centro la persona e i suoi bisogni concreti, nel territorio in cui vive.
So bene quanti italiani affrontano questi mesi con grandi preoccupazioni. L’inflazione, i costi dell’energia, le difficoltà di tante famiglie e imprese, l’aumento della povertà e del bisogno.La carenza di lavoro sottrae diritti e dignità: ancora troppo alto è il prezzo che paghiamo alla disoccupazione e alla precarietà.
Allarma soprattutto la condizione di tanti ragazzi in difficoltà. La povertà minorile, dall’inizio della crisi globale del 2008 a oggi, è quadruplicata.
Le differenze legate a fattori sociali, economici, organizzativi, sanitari tra i diversi territori del nostro Paese – tra Nord e Meridione, per le isole minori, per le zone interne – creano ingiustizie, feriscono il diritto all’uguaglianza.
Ci guida ancora la Costituzione, laddove prescrive che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che ledono i diritti delle persone, la loro piena realizzazione. Senza distinzioni.
La Repubblica siamo tutti noi. Insieme.
Lo Stato nelle sue articolazioni, le Regioni, i Comuni, le Province. Le istituzioni, il Governo, il Parlamento. Le donne e gli uomini che lavorano nella pubblica amministrazione. I corpi intermedi, le associazioni. La vitalità del terzo settore, la generosità del volontariato.
La Repubblica – la nostra Patria – è costituita dalle donne e dagli uomini che si impegnano per le loro famiglie.
La Repubblica è nel senso civico di chi paga le imposte perché questo serve a far funzionare l’Italia e quindi al bene comune.
Mattarella: “Pagare le tasse serve a far funzionare l’Italia”
La Repubblica è nel sacrificio di chi, indossando una divisa, rischia per garantire la sicurezza di tutti. In Italia come in tante missioni internazionali.
La Repubblica è nella fatica di chi lavora e nell’ansia di chi cerca il lavoro. Nell’impegno di chi studia. Nello spirito di solidarietà di chi si cura del prossimo. Nell’iniziativa di chi fa impresa e crea occupazione.
Rimuovere gli ostacoli è un impegno da condividere, che richiede unità di intenti, coesione, forza morale.
È grazie a tutto questo che l’Italia ha resistito e ha ottenuto risultati che inducono alla fiducia.
La nostra capacità di reagire alla crisi generata dalla pandemia è dimostrata dall’importante crescita economica che si è avuta nel 2021 e nel 2022.
Le nostre imprese, a ogni livello, sono state in grado, appena possibile, di ripartire con slancio: hanno avuto la forza di reagire e, spesso, di rinnovarsi.
Le esportazioni dei nostri prodotti hanno tenuto e sono anzi aumentate.
L’Italia è tornata in brevissimo tempo a essere meta di migliaia di persone da ogni parte del mondo. La bellezza dei nostri luoghi e della nostra natura ha ripreso a esercitare una formidabile capacità attrattiva.
Dunque ci sono ragioni concrete che nutrono la nostra speranza ma è necessario uno sguardo d’orizzonte, una visione del futuro.
Pensiamo alle nuove tecnologie, ai risultati straordinari della ricerca scientifica, della medicina, alle nuove frontiere dello spazio, alle esplorazioni sottomarine. Scenari impensabili fino a pochi anni fa e ora davanti a noi. Sfide globali, sempre.
Perché è la modernità, con il suo continuo cambiamento, a essere globale.
Ed è in questo scenario, per larghi verso inedito, che misuriamo il valore e l’attualità delle nostre scelte strategiche: l’Europa, la scelta occidentale, le nostre alleanze. La nostra primaria responsabilità nell’area che definiamo Mediterraneo allargato. Il nostro rapporto privilegiato con l’Africa.
Dobbiamo stare dentro il nostro tempo, non in quello passato, con intelligenza e passione.
Per farlo dobbiamo cambiare lo sguardo con cui interpretiamo la realtà. Dobbiamo imparare a leggere il presente con gli occhi di domani.
Pensare di rigettare il cambiamento, di rinunciare alla modernità non è soltanto un errore: è anche un’illusione. Il cambiamento va guidato, l’innovazione va interpretata per migliorare la nostra condizione di vita, ma non può essere rimossa.
La sfida, piuttosto, è progettare il domani con coraggio.
Mettere al sicuro il pianeta, e quindi il nostro futuro, il futuro dell’umanità, significa affrontare anzitutto con concretezza la questione della transizione energetica.
L’energia è ciò che permette alle nostre società di vivere e progredire. Il complesso lavoro che occorre per passare dalle fonti tradizionali, inquinanti e dannose per salute e ambiente, alle energie rinnovabili, rappresenta la nuova frontiera dei nostri sistemi economici.
Non è un caso se su questi temi, e in particolare per l’affermazione di una nuova cultura ecologista, registriamo la mobilitazione e la partecipazione da parte di tanti giovani.
L’altro cambiamento che stiamo vivendo, e di cui probabilmente fatichiamo tuttora a comprendere la portata, riguarda la trasformazione digitale.
L’uso delle tecnologie digitali ha già modificato le nostre vite, le nostre abitudini e probabilmente i modi di pensare e vivere le relazioni interpersonali. Le nuove generazioni vivono già pienamente questa nuova dimensione.
La quantità e la qualità dei dati, la loro velocità possono essere elementi posti al servizio della crescita delle persone e delle comunità. Possono consentire di superare arretratezze e divari, semplificare la vita dei cittadini e modernizzare la nostra società.
Occorre compiere scelte adeguate, promuovendo una cultura digitale che garantisca le libertà dei cittadini.
Il terzo grande investimento sul futuro è quello sulla scuola, l’università, la ricerca scientifica. È lì che prepariamo i protagonisti del mondo di domani. Lì che formiamo le ragazze e i ragazzi che dovranno misurarsi con la complessità di quei fenomeni globali che richiederanno competenze adeguate, che oggi non sempre riusciamo a garantire.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza spinge l’Italia verso questi traguardi. Non possiamo permetterci di perdere questa occasione.
Lo dobbiamo ai nostri giovani e al loro futuro
Mattarella parla ai giovani degli incidenti stradali: “Troppi morti, non cancellate vostro futuro”
Parlando dei giovani vorrei – per un momento – rivolgermi direttamente a loro: siamo tutti colpiti dalla tragedia dei tanti morti sulle strade.
Troppi ragazzi perdono la vita di notte per incidenti d’auto, a causa della velocità, della leggerezza, del consumo di alcol o di stupefacenti.
Quando guidate avete nelle vostre mani la vostra vita e quella degli altri. Non distruggetela per un momento di imprudenza.
Non cancellate il vostro futuro.
Care concittadine e cari concittadini, guardiamo al domani con uno sguardo nuovo. Guardiamo al domani con gli occhi dei giovani. Guardiamo i loro volti, raccogliamo le loro speranza. Facciamole nostre.
Facciamo sì che il futuro delle giovani generazioni non sia soltanto quel che resta del presente ma sia il frutto di un esercizio di coscienza da parte nostra. Sfuggendo la pretesa di scegliere per loro, di condizionarne il percorso.
La Repubblica vive della partecipazione di tutti.
È questo il senso della libertà garantita dalla nostra democrazia.
È anzitutto questa la ragione per cui abbiamo fiducia.
Auguri!
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Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
MOLTO DIPENDERA’ DA CHI SARA’ IN GRADO DI OTTENERE VANTAGGI SUL CAMPO DI BATTAGLIA
Con l’arrivo dell’inverno, la Russia si sta focalizzando il più possibile nel “mantenere il più ampio territorio possibile sotto il suo controllo in Ucraina in preparazione per una nuova offensiva militare nel prossimo anno”, scrive l’ex generale australiano Mick Ryan in un articolo per la rete televisiva nazionale ABC.
Ma questi piani potrebbero incontrare delle difficoltà proprio a causa dell’inverno. Sebbene si pensi normalmente che le condizioni invernali favoriscano l’esercito russo (d’altronde il Generale Inverno è sempre stato il miglior alleato in guerra dei russi prima e dei sovietici poi), stavolta potrebbe non essere il caso, soprattutto per via dell’alto numero di soldati recentemente mobilitati.
Molti di questi hanno ricevuto solo un addestramento minimale, e sono equipaggiati in modo pessimo per far fronte alle dure condizioni invernali sul fronte. Ciò sembrerebbe confermato da una serie di drammatici video apparsi di recente che mostrano soldati russi semi-congelati nelle trincee che quasi non reagiscono dopo aver subito bombardamenti con i droni da parte ucraina.
Allo stesso tempo, l’inverno resta una forte arma per i russi anche per aumentare la pressione sull’Europa, puntando sull’aumento dei prezzi dell’energia. Ma anche questa strategia non sembra per ora aver avuto particolare successo: il prezzo del petrolio è ai minimi da inizio guerra mentre quello del gas resta comunque a livelli ben più bassi del record ottenuto nei mesi successivi.
Ad aiutare l’Europa è stata una serie di fattori, tra cui un clima invernale più mite del previsto ed essere stati in grado di riempire con successo i depositi di stoccaggio di gas nei mesi più caldi. Inoltre, l’uso del gas come metodo di pressione da parte russa ha rappresentato con tutta probabilità anche un boomerang politico per Putin.
“Si tratta di una sfida tra autocrazia e democrazia”, aveva avvertito la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo discorso annuale sullo stato dell’Unione Europea a settembre.
Molti altri leader politici del continente europeo hanno dipinto lo stallo energetico con la Russia come “un’epica lotta tra il bene e il male”, afferma The Telegraph. Il rifiuto di Putin di fornire gas all’Europa “potrebbe anche finire per costare caro alla Russia” in termini finanziari, ostacolando la capacità di Mosca di finanziare l’invasione, aggiunge il giornale britannico.
Ciò avviene proprio mentre la situazione economica in Russia resta molto fragile, nonostante il 2022 stia andando meglio delle previsioni catastrofiche della primavera, quando si prevedeva un crollo dell’economia dell’ordine di due cifre percentuali. Invece ci si sta attestando verso una riduzione del PIL del -3% che viste le premesse è un risultato più che positivo. Tuttavia, non c’è molto spazio per l’ottimismo se si guarda al futuro.
Una delle previsioni più pessimistiche per il 2023 tra gli economisti russi è quella di Natalia Orlova di Alfa Bank. Secondo lei, il PIL russo il prossimo anno diminuirà significativamente di più rispetto a quest’anno, ovvero almeno del 6,5%. Le ragioni sono le stesse di questo anno: una riduzione della domanda dei consumatori, un calo degli investimenti e una diminuzione del potenziale di esportazione.
Dalla fine degli anni ’90 tutte le crisi in Russia hanno seguito più o meno lo stesso scenario, afferma Orlova: una recessione dell’economia durante l’anno precedente e un ritorno alla crescita quello successivo. Ma la crisi attuale ha una natura diversa, dipendendo direttamente dalla guerra in corso e dalle sanzioni che sono state imposte alla Russia.
Invece di una brusca caduta, l’economia russa sta molto probabilmente affrontando un lungo e doloroso declino, concordano diversi altri analisti. Il calo cumulativo del PIL per il 2022 e il 2023 sarà molto vicino al -8% e successivamente sarà molto difficile che la Russia viva una fase di rapida ripresa economica, anche per via dell’effetto delle sanzioni imposte contro Mosca che continueranno a farsi sentire nel tempo.
È perciò altamente probabile che una buona parte di cittadini russi continuerà a soffrire dal punto di vista economico per molti anni a causa del calo del tenore di vita collegato alla guerra.
Anche per questi motivi, se il conflitto dovesse durare ancora a lungo, Putin avrebbe sempre più problemi ad “addestrare, equipaggiare e rifornire un esercito in grado di occupare e controllare le quattro province ucraine annesse”, per non parlare del resto dell’Ucraina, come afferma Edward Carr, vice editore del The Economist.
Tornando al 2023, nello specifico, a determinare l’andamento delle operazioni militari sarà quasi certamente la possibile nuova offensiva russa che potrebbe avvenire per un motivo ben specifico: solo circa la metà delle 300.000 nuove truppe russe mobilitate si trova infatti ora già nella zona di combattimento.
Il resto, insieme alle forze liberate per l’azione dopo il ritiro di Kherson, offre così ai russi l’opportunità di lanciare una nuova offensiva.
Come lo scorso anno, è molto probabile che il cuore dello scontro resti nel Donbass anche nel prossimo anno, in particolare nelle regioni di Luhansk e Donetsk, ma una grande avanzata russa, come un’avanzata da sud verso Pavlograd per accerchiare interamente le forze ucraine nel Donbas, è ora meno probabile dopo che i russi hanno perso la loro testa di ponte al di là del fiume Seversky Donets, nella città di Izyum, a novembre.
È invece maggiormente ipotizzabile una continuazione delle tattiche attuali: una lenta distruzione delle forze ucraine su direzioni strette e una lenta avanzata, come nelle aree di Bakhmut e Avdiivka, con la possibilità di adottare la stessa tattica nell’area di Svatove-Kreminna, dove però sono al momento gli ucraini maggiormente all’offensiva.
I continui attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine e altri attacchi alle retrovie ucraine completeranno questa strategia di guerra di logoramento.
Va detto però che anche gli ucraini si stanno preparando al meglio delle loro possibilità per possibili nuove offensive: ingenti forze ucraine sono state liberate per l’uso in altre zone del fronte dopo la ritirata russa da Kherson, e, come ha ammesso lo stesso comandante Zaluzhny, un buon numero di riserve non è ancora stata ancora impegnato sul campo per essere usato in maniera strategica nel momento più opportuno.
Per Kyiv la direzione più valida per una nuova offensiva è quella che punta a sud, verso Melitopol o Berdyansk, con l’obiettivo finale di tagliare il corridoio continentale russo verso la Crimea.
Si tratterebbe, se portata a termine con successo, di una grande vittoria ucraina e di un colpo decisivo per le prospettive russe nel sud dell’Ucraina, ed è proprio per questo motivo che i russi stanno attualmente fortificando Melitopol.
Un’altra opzione per l’Ucraina è quella di prendere il controllo di Svatove per mettere in pericolo l’intero fianco settentrionale del fronte russo nel Donbass.
La questione principale è sapere quante forze ucraine siano davvero libere e disponibili per l’offensiva in questo momento, e quale sia il calendario che il generale Zaluzhny ha sulla sua scrivania, che indica quante nuove brigate e corpi d’armata di riserva che si stanno costruendo saranno pronte nei prossimi mesi, compresi gli uomini, i veicoli corazzati e le armi pesanti a loro disposizioni.
Le possibilità ucraine di effettuare nuove controffensive di successo dipenderanno anche (e soprattutto) dalla capacità occidentale di continuare a rifornire Kyiv di sistemi di armamento avanzati.
A tal proposito di recente il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un nuovo stanziamento di 45 miliardi di dollari di aiuti finanziari e militari. Nondimeno, ora che alla Camera dei Rappresentanti a partire da gennaio ci sarà una nuova maggioranza repubblicana, è facile immaginare che il ritmo degli aiuti possa rallentare.
Il possibile futuro Speaker repubblicano della Camera, Kevin McCarthy, ha già più volte segnalato, infatti, che sarà necessario un maggiore controllo dei fondi spesi a favore dell’Ucraina ed un certo numero di suoi sostenitori della destra repubblicana più vicina all’ex presidente Donald J. Trump è a dir poco scettico sulla necessità di ulteriori aiuti a Kyiv.
Ma da questo punto di vista rischia di sorgere anche un ulteriore problema: come fanno notare diversi media occidentali, al ritmo attuale di utilizzo delle munizioni di artiglieria in Ucraina, l’Occidente avrà ben presto problemi a poter continuare a supportare Kyiv in questo ambito anche volendo, visto che l’uso che ne viene fatto è ben più veloce della velocità di produzione di queste munizioni in Occidente.
Il problema in questo caso è che la tattica militare occidentale non si basa, come quella ex sovietica, su una guerra di artiglieria e di posizione come quella in atto al momento in Ucraina. Di conseguenza, i Paesi occidentali non saranno in grado, a lungo andare, di mantenere questi ritmi di forniture, e ci vorranno mesi, se non anni, per aumentare sensibilmente la produzione di queste munizioni chiave.
Lo stesso problema, ovviamente, lo hanno i russi. Fonti di intelligence occidentale affermano che la scarsità di munizioni è stata parzialmente compensata dalle forniture di munizioni di artiglieria da Corea del Nord ed Iran, due Paesi che però finora hanno negato di aver fornito armi ai russi per le operazioni militari in corso in Ucraina. Ma se così fosse, quanto potrebbero continuare queste forniture? È difficile dirlo.
In conclusione, mentre ci avviciniamo sempre più alla fine del 2022, la situazione in Ucraina è ancora incerta.
Di sicuro, la Russia non è più grado di vincere la guerra nei termini originari in quanto palesemente non è più in grado di prendere il controllo dell’intera Ucraina, e forse neppure a pieno delle sole quattro regioni che si è illegalmente annessa a settembre, nonostante le recenti roboanti affermazioni di Lavrov.
Dall’altro lato, però, Putin ormai ha investito così tanto nella guerra da non potersi permettere di perdere la guerra senza rischiare in prima persona la sua permanenza al Cremlino.
L’Ucraina, allo stesso tempo, è ora abbastanza equipaggiata per non perdere più la guerra, ma probabilmente non ancora per essere in grado di vincere in maniera netta.
E più passerà il tempo più sarà difficile per entrambe le parti in guerra dotarsi dei rifornimenti necessari per montare offensive su larga scala. Tutto ciò a lungo andare costringerà entrambe le parti a dover sedersi al tavolo dei negoziati per raggiungere una qualche sorta di compromesso, se nel frattempo non accadrà qualche svolta al momento imprevedibile.
I prossimi mesi saranno quindi essenziali per stabilire come si svolgerà la guerra nel 2023: la chiave di volta è se una delle due parti sarà in grado di ottenere vantaggi significativi sul campo di battaglia. Quando il fango sarà del tutto congelato, avremo una prima risposta, che ci porterà un po’ più vicino a sapere “come andrà a finire”.
(da Fanpage)
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Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
INTERVISTA AL VICE-PRESIDENTE DI EMERGENCY CHE SMANTELLA TUTTE LE ILLEGALITA’ CONTENUTE NEL DECRETO SUPERCAZZOLA
Il testo definitivo del decreto contro le Ong, che è stato approvato il 28 dicembre in Consiglio dei ministri, non è ancora disponibile, ma dalle bozze che sono circolate è evidente l’intento di ostacolare il più possibile il lavoro delle navi da soccorso che salvano i migranti nel Mediterraneo centrale.
Proprio ieri Emergency, che ha da poco messo in mare una propria nave, la Life Support, che dovrebbe tornare operativa per una nuova missione il prossimo 10 gennaio, ha fatto sapere che rispetterà il nuovo codice di condotta solo se questo non entrerà in contrasto con le leggi internazionali che impongono e regolano il soccorso in mare.
Il decreto Sicurezza votato dal Consiglio dei ministri “riduce drasticamente le possibilità di salvare vite in mare, limitando l’operatività delle navi umanitarie e moltiplicando i costi dei soccorsi per tutte le Ong in mare”, ha detto l’organizzazione, commentando le disposizioni contenute nel provvedimento.
Le nuove norme prevedono multe fino a 50mila euro, fermo amministrativo della nave per due mesi fino alla confisca, per le Ong che non rispettano le prescrizioni, con sanzioni che si applicano al comandante della nave e in solido all’armatore e al proprietario.
Subito dopo il soccorso, si specifica, deve essere fatta immediata segnalazione alla Capitaneria di porto con richiesta di un porto sicuro per lo sbarco. Nel momento in cui quest’ultimo viene assegnato dalle autorità, la nave dovrà raggiungerlo “senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso”. Tradotto: le navi delle Ong non potranno effettuare più salvataggi in mare prima di raggiungere il porto assegnato.
Inoltre i migranti dovranno essere informati subito da parte degli operatori delle organizzazioni umanitarie della possibilità di attivare la procedura di protezione internazionale direttamente a bordo. Queste in sintesi le principali regole del nuovo Codice di condotta.
Chiaramente sanzioni così alte possono fungere da deterrente per le navi da soccorso. “Certo che multe fino a 50mila euro sono una somma importante per una Ong, che va avanti con i fondi dei donatori. Non abbiamo soldi nostri con i quali possiamo agire come vogliamo. È sicuramente un deterrente per noi, come lo è anche l’assegnazione di un porto sicuro lontano, che comporta un aggravio di costi”, ha detto a Fanpage.it Alessandro Bertani, vicepresidente di Emergency.
“Se si salvano delle persone in mare la prima cosa da fare è portarle al sicuro nel più breve tempo possibile. Le Ong hanno sempre agito in coordinamento con le autorità degli Stati marittimi coinvolti nelle aree di intervento, hanno sempre segnalato la loro presenza, chiesto di intervenire, comunicato l’intervento e poi hanno sempre chiesto l’assegnazione del porto sicuro. Il buon senso, prima ancora che le norme nazionali e internazionali, ci dice che deve essere assegnato un porto sicuro, il più vicino possibile”.
“I naufraghi salvati devono essere portati nel più breve tempo possibile nel primo posto più vicino possibile, affinché vengano messi in sicurezza. Se viene assegnato un porto lontano, come conseguenza logica i naufraghi salvati vengono esposti a un viaggio più lungo, che comporta per queste persone dei rischi ulteriori. L’Italia è un Paese con centinaia di costi e chilometri di costa. Obbligandoci a navigare verso un porto lontano si mettono a repentaglio i naufraghi che abbiamo a bordo”.
Eppure proprio oggi il vicepremier Matteo Salvini è tornato sulla questione, senza fornire spiegazioni chiare, alludendo a un eventuale sovraccarico dei porti siciliani: “Non si vede perché” i migranti soccorsi in mare “debbano andare sempre, solo e soltanto tutti in Sicilia”, ha detto stamattina il vicepremier, rispondendo alla domanda di un giornalista sull’arrivo a Ravenna della nave Ocean Viking.
Le nuove norme prescriverebbero alle Ong di effettuare un solo salvataggio, e poi dirigersi verso il porto sicuro assegnato, senza ulteriori deviazioni, anche nel caso in cui venissero a sapere di altre barche in distress.
Ma per le leggi del mare, se una nave si imbatte in un’altra barca che richiede un intervento di soccorso “non si può esimere dal farlo, perché il comandante ha l’obbligo di intervenire”, ha sottolineato Bertani a Fanpage.it, “se non lo facesse dovrebbe rispondere di omissione di soccorso. Nessuno può impedire a un comandante di una nave, che abbia già dei migranti a bordo, di effettuare un nuovo soccorso mentre sta tornando in porto, se viene a sapere di una barca in difficoltà e nessuno interviene al suo posto”.
Una nave Ong potrebbe evitare di intervenire solo se le autorità comunicassero di aver preso in carico l’operazione.
Ma se da una parte il governo chiede alle navi umanitarie di raggiungere il porto di sbarco indicato dalle autorità senza ritardi, dall’altra assegna porti lontani, che allungano la navigazione: “Se il principio è che nessuno debba far fare il ‘turista’ ai naufraghi, portandoli in giro nel Mediterraneo, allo stesso tempo non possono chiedere di farci fare la crociera fino a Livorno o fino a Ravenna. È un controsenso”, ha sottolineato ancora Bertanti.
Nella bozza viene specificato che il personale a bordo delle navi Ong avrà l’obbligo di raccogliere tempestivamente le eventuali intenzioni di richiedere la protezione internazionale. Una prassi che però non è consentita dalla legge.
“Se tutto questo fosse confermato – ha detto Bertani – sarebbe illecito, perché le convenzioni internazionali prevedono che non possa svolgere quest’attività un comandante di una nave privata, non è il suo compito. Tanto più non può farlo se la nave batte bandiera straniera. Se la nave batte bandiera italiana il governo potrebbe anche pensare di imporre questa procedura a un capitano italiano, ma non può imporre a un capitano battente bandiera straniera un obbligo del genere, perché vorrebbe dire estendere la giurisdizione oltre i confini italiani. Ma in ogni caso le convenzioni internazionali dicono che questo tipo di attività deve essere effettuata per esempio a bordo delle navi della Guardia costiera, ma non può essere imposta ai comandanti delle navi private. Il governo pensa di estendere quest’obbligo anche ai comandanti dei mercantili? Sarebbe una follia”.|
In un altro passaggio della bozza si parla poi di sanzioni dalle 2mila alle 10mila euro al comandante e all’armatore della nave che “non forniscono le informazioni richieste dalla competente autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare o non si uniformano alle indicazioni della medesima autorità”. Un’indicazione questa che presuppone il fatto che normalmente le Ong non forniscano tutti i dettagli sulle operazioni di soccorso effettuate in mare.
“Non si capisce di quali informazioni parlino – ha commentato il vicepresidente di Emergency – Se intendono che Ong hanno l’obbligo di condividere le informazioni che riguardano le attività di soccorso, questo già avviene, vengono date le coordinate prima dell’intervento stesso. Quando riceviamo una segnalazione chiediamo l’autorizzazione prima di muoverci, e per fortuna da due settimane a questa parte pare che abbiano iniziato a rispondere tempestivamente. Prima le autorità marittime si prendevano molto più tempo prima di rispondere a una richiesta delle Ong. Ma già oggi una nave verrebbe bloccata se dopo un’attività di salvataggio non inviasse un rapporto che descrive dettagliatamente l’intervento, compreso l’orario e tutte le informazioni sanitarie che riguardano le persone”.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, nell’anticipare il decreto, aveva spiegato così la ratio: “Come Paesi che partecipano alla vita democratica, avremmo l’ambizione che in ogni ambito, quindi anche nel salvataggio di persone in mare, debba provvedere lo Stato, non c’è bisogno ci siano le organizzazioni non governative”. Il punto però è che a questa stretta non corrisponde un maggiore dispiegamento di forze da parte dell’Italia, e in ogni caso in acque internazionali, se non ci fossero le Ong, non interverrebbe nessuno.
“Le Ong sono lì per dare una mano – ha ricordato il vicepresidente di Emergency – a completamento di un intervento che dovrebbe essere fatto dagli Stati e che non è stato fatto dagli Stati. Anche perché l’Italia svolge attività di salvataggio prevalentemente nelle proprie acque territoriali. Ribaltiamo il ragionamento: non volete le Ong perché volete occuparvene solo voi? Benissimo, saremmo felici di saperlo”.
(da Fanpage)
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Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
UN GOVERNO TUTT’ALTRO CHE PRONTO
Ancorché confuse, dalla Cina arrivano notizie preoccupanti sull’evoluzione della pandemia da coronavirus. Con il drastico allentamento delle restrizioni deciso dal governo di Pechino, infatti, stiamo assistendo a un eccezionale aumento dei casi di Covid-19 e, con ogni probabilità, anche dei decessi.
Come dovremmo ormai sapere, inoltre, la massiva circolazione del virus aumenta la possibilità di emersione di nuove varianti del virus, con il rischio che siano ancor più contagiose o addirittura in grado di minimizzare gli effetti dei vaccini.
Siamo ovviamente nel campo della speculazione teorica e per il momento è necessario adoperare una buona dose di cautela (i primi riscontri indicano che in Cina circolano varianti già conosciute), ma la comunità scientifica internazionale segue con grande attenzione l’evolversi della situazione, per non ripetere gli errori degli ultimi anni.
Errori che, manco a dirlo, la politica sta puntualmente commettendo. Con la riduzione progressiva delle strutture di tracciamento, sequenziamento e analisi, abbiamo sempre meno dati a disposizione per prevedere l’evoluzione del quadro epidemiologico.
I governi hanno diminuito gli sforzi per le campagne vaccinali, tanto che in pochi sono coperti dai booster, anche tra gli anziani e i fragili.
Le mascherine non sono più obbligatorie e le pratiche di igiene e distanziamento personale sono essenzialmente scomparse. I tamponi negativi di fine isolamento non sono più ritenuti necessari. La comunicazione istituzionale oscilla tra l’inutilmente rassicurante e l’allarmismo ingiustificato, finendo per risultare poco credibile per l’opinione pubblica.
La circolare con cui il governo italiano interviene solo sui voli diretti provenienti dalla Cina è un buon compendio di ciò che speravamo di non vedere più: misure inutili e raffazzonate della cui inutilità abbiamo avuto prova in passato (non hanno funzionato nella prima ondata, non hanno funzionato contro Omicron dal Sudafrica eccetera), non accompagnate da provvedimenti strutturali (isolamento e quarantene), che hanno l’unico scopo di mostrare ai cittadini di “avere la situazione in pugno”.
Nella conferenza stampa di fine anno, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rivendicato l’efficacia dell’ordinanza del ministro Schillaci, aggiungendo di considerare del tutto sotto controllo la situazione Covid in Italia.
Contemporaneamente, Meloni ha ripetuto per l’ennesima volta la sua contrarietà a interventi restrittivi delle libertà individuali, dicendosi convinta che occorra puntare sul senso di responsabilità dei cittadini.
È un approccio che oscilla fra la supercazzola e il superficiale, diciamocelo chiaramente, perché riduce l’intera gamma delle opzioni di contrasto alla Covid al dualismo fra restrizioni/lockdown (che nessuno chiede o vuole) e non fare nulla.
E che soprattutto tradisce una certa tendenza alla deresponsabilizzazione e alla riduzione in slogan di risposte che invece sono piuttosto complesse.
A essere discutibile è la lettura dell’intera “questione Covid-19”. Innanzitutto, non si capisce bene cosa voglia dire Giorgia Meloni quando parla di approccio ideologico alla pandemia.
È chiaramente una forzatura, che risente della lettura fuorviante e distorta che la destra italiana fa della risposta alla pandemia, rappresentata solo come un miscuglio fra repressione delle libertà individuali e scelte sbagliate in materia di politiche sanitarie. Non è sbagliato invece porre la questione sul piano politico, l’unico modo corretto di affrontare una seria analisi sul passato recente del nostro Paese e, soprattutto, di prepararsi a gestire la prossima sfida.
Perché il punto è questo: siamo evidentemente in una zona grigia, in cui la Covid19 resta un problema di salute pubblica (i dati sull’eccesso di mortalità sono drammatici) ma chiaramente non può e non deve essere più affrontata con i parametri dell’emergenza.
Servono una visione chiara, il rafforzamento strutturale del comparto sanitario (e la legge di bilancio del centrodestra non va per nulla in tale direzione) e una grande attenzione nel calibrare interventi mirati, nel caso fossero necessari. È tempo che la politica agisca, invece di inseguire gli eventi e di sperare che le cose si aggiustino da sole.
Dopo quasi tre anni di pandemia da coronavirus non abbiamo ancora ben chiaro un concetto: i lockdown, le chiusure, le restrizioni alla mobilità, così come le regole su quarantene, smartworking e didattica a distanza sono scelte eminentemente politiche, che sono solo parzialmente collegate ai “dati scientifici”.
A decisioni di questo tipo si arriva mettendo insieme una serie di valutazioni, tra cui l’impatto sociale, sanitario o economico, ma che essenzialmente rispondono anche agli orientamenti ideologici, alle convinzioni politiche e (ahinoi) alle strategie di consenso dei decision maker. Dopo la fase dell’impreparazione e della sorpresa, la storia della gestione della pandemia è stata questa: la politica ha scelto di volta in volta il punto di equilibrio, sancendo cosa fosse accettabile e in che termini (morti, pressione su ospedali, impoverimento scolastico, ripercussioni sul tessuto produttivo e via discorrendo).
Si è sempre trattato di scelte di cui le forze politiche avrebbero dovuto assumere la responsabilità, sottoponendosi al giudizio dei cittadini, senza trincerarsi dietro formule vuote del tipo “agiamo solo in base ai dati della scienza” (a maggior ragione quando ciò non è avvenuto). Chiaramente, le indicazioni scientifiche, si spera il più possibile corrette tecnicamente, orientate eticamente e frutto di processi trasparenti, costituiscono la base imprescindibile su cui adottare decisioni in tema di salute pubblica. E il ruolo dei tecnici e degli esperti è quanto mai fondamentale per le valutazioni dei decisori. Che però, appunto, vanno inserite in un contesto più ampio, un quadro d’insieme in cui onere e onore di decidere spettano a chi ha in mano la gestione della cosa pubblica.
Dire “abbiamo agito solo in base alla scienza” non ha alcun senso e non costituisce una giustificazione o un modo per sottrarsi alle proprie responsabilità. Meloni dimostra di non aver capito molto della gestione pandemica e, soprattutto, di essersi incartata su una linea che è un potenziale pericolo per le politiche di sanità pubblica. Perché se sbagli la lettura degli eventi passati, difficilmente puoi essere pronta ad agire con efficacia in futuro.
Proviamo ad andare con ordine. A essere obiettivi, non è affatto vero che in Italia si sia agito seguendo scrupolosamente le indicazioni della comunità scientifica o degli organismi internazionali. Del resto, malgrado la guida politica e quella scientifica al ministero della Salute siano rimaste le stesse, la gestione della pandemia è stata rapsodica, ben poco lineare e fatta di “momenti” diversi.
Se vogliamo, è proprio ciò che è mancato: la capacità di seguire un percorso chiaro, una strategia che andasse oltre il brevissimo periodo e che rispondesse a obiettivi ben precisi. È stata una continua corsa a inseguire, anche successivamente alla fase emergenziale (su cui, piccolo inciso, stiamo leggendo e sentendo una marea di sciocchezze e letture col senno di poi da media e ambienti di governo). Sono stati mesi confusi, con tante giravolte e cambiamenti di linea, di strategia e di comunicazione. Soprattutto, è stato un periodo di grandissima sofferenza. Decine di migliaia di morti, di ricoveri, di contagi con effetti a lungo termine. Milioni di famiglie devastate da paura e incertezza, interi settori produttivi messi a repentaglio, decine di migliaia di lavoratori del settore sanitario a un passo dal burnout. Prima del vaccino e in assenza di informazioni chiare sulla malattia e il suo decorso, non avevamo altre armi che non fossero le pratiche di igiene individuale e le restrizioni a contatti e mobilità.
Sembriamo aver dimenticato tutto così in fretta, specie dopo la cancellazione per decreto della pandemia arrivata con il governo Draghi. Da lì è cambiato tutto, almeno nella percezione pubblica della pandemia. L’eliminazione del sistema delle zone bianche, gialle e arancioni (mai davvero efficace e sempre oltremodo confusionario), l’archiviazione di quasi ogni limitazione per i non vaccinati, la durata illimitata del green pass e le norme sulla scuola, oltre che le regole sulle quarantene: sono stati questi i principali provvedimenti che hanno segnato il passaggio decisivo nel percorso di ritorno alla normalità.
O meglio, nel modo in cui i cittadini (e a cascata le forze politiche) hanno cominciato a percepire la Covid19. Quella lettura è esattamente la stessa di adesso: in altre parole, nella narrazione dominante non si riesce più nemmeno a comprendere il motivo per cui i governi occidentali si ostinassero a imporre restrizioni e obblighi (per quanto blandi), non si rintracciano le reali ragioni che avevano portato a scelte specifiche, si decontestualizzano i fatti e si elaborano giudizi sulla base del contesto attuale.
È un processo ormai compiuto, una gigantesca e rapida rimozione della memoria, determinato da una scelta fatta dalla quasi totalità dei governi occidentali in un preciso momento storico. Ovvero, la resa all’infezione di massa, confidando nella minore gravità della malattia da Omicron e nella crescita della copertura vaccinale, con l’accettazione di migliaia di morti come “naturale prezzo da pagare” per incamminarsi verso la nuova normalità. Anche questa è stata una decisione politica, che solo una narrazione distorta, grossolana e imprecisa ha trasformato in “scelta inevitabile e basata sulle evidenze scientifiche”.
Lo ripetiamo ancora una volta: il numero di contagi e morti è sempre stato la risultante di un insieme di fattori, tra cui certamente le caratteristiche intrinseche delle varianti, ma anche le scelte dei governi, la tempistica degli interventi, la qualità e incisività delle norme, i comportamenti della popolazione. Se si eccettua la prima fase, di enorme confusione e incertezza (con scelte praticamente obbligate, prese del resto praticamente ovunque), abbiamo sempre avuto un ventaglio di opzioni. Se proprio volessimo trovare un senso alla Commissione parlamentare d’inchiesta di cui si fa un gran parlare sarebbe questo: valutare gli effetti di tali scelte, ricostruire le tempistiche di chiusure e aperture, analizzare gli errori per non commetterne in futuro. Peccato che Meloni e la destra (nonché Renzi) intendano esattamente il contrario: un processo a quella che è attualmente l’opposizione per la gestione della fase acuta della pandemia, con un lampante pregiudizio verso le decisioni più prudenti e conservative (peraltro nella stragrande maggioranza condivise dalle amministrazioni regionali di ogni colore).
Di certo c’è solo che per Meloni il peggio è passato: siamo nelle condizioni di fare scelte consequenziali e di affidarci unicamente al senso di responsabilità degli italiani, cui chiediamo di vaccinarsi per una malattia che non dovrebbe più far paura, magari per poi stupirci del basso numero di booster. E, ancora una volta, ci siamo ridotti a sperare che le cose non vadano peggio.
(da Fanpage)
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Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
TARIFFE AUMENTATE DEL 2% E DI UN ALTRO 1,34% DA LUGLIO
Per gli automobilisti il nuovo anno si aprirà con una probabile doppia stangata.
A rincarare saranno i carburanti al distributore ma è in arrivo anche un aumento dei pedaggi autostradali del 2% sui tratti gestiti da Aspi. Nessun rincaro invece per le altre concessionarie.Capitolo carburanti: il taglio delle accise deciso a suo tempo dal governo Draghi non è stato prorogato in legge di Bilancio e scadrà oggi 31 dicembre 2022, ultimo giorno in cui si potrà fare benzina con lo sconto di 18,3 centesimi al litro.
Nei mesi passati la riduzione delle accise introdotta dal governo Draghi a partire da marzo era stata inizialmente di 25 centesimi, 30,5 centesimi considerando anche l’Iva. Questa misura era durata fino a fine novembre, poi dal 1° dicembre era stata tagliata a 15 centesimi dall’esecutivo Meloni (18,3 centesimi con l’Iva). Ora arriva lo stop definitivo e per automobilisti e famiglie non ci saranno più sconti sui carburanti. Il timore è di tornare ai record del 2022. L’anno si chiude con le quotazioni sui minimi dell’ultimo anno e mezzo per la benzina (1,625 euro al litro) mentre il diesel si muove a quota 1,689 euro, livello più basso da un anno (rilevazioni settimanali del Mase dal 19 dicembre al 25 dicembre).
Nonostante i ribassi di queste ultime settimane, il 2022 è però risultato l’anno dove i carburanti sono stati più cari di sempre. È quanto emerge da un’analisi dell’Unione nazionale consumatori (Unc).
«Per la benzina in modalità self service la media annua è stata di 1,812 euro al litro, il gasolio si è invece mosso su una media di 1,815 euro al litro», precisa spiega Massimiliano Dona, Presidente Unc. L’associazione spiega che è stato battuto il precedente primato del 2012, quando la benzina si fermava a 1,786 e il gasolio a 1,706. «Ecco perché il governo dovrebbe rivedere il suo grave errore», conclude Dona.
Guardando ai numeri più nel dettaglio, il record storico è stato registrato, nei dati settimanali del Mite, oggi Mase, per i prezzi in self service, nella rilevazione settimanale del 14 marzo 2022, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. In quel frangente la benzina ha raggiunto il picco di 2,185 euro al litro mentre il gasolio ha registrato un livello di 2,155 euro al litro.
Tornando ai pedaggi autostradali, gli occhi saranno puntati sul decreto ministeriale di fine anno che fisserà gli aumenti sulla rete autostradale nazionale a partire dal 1° gennaio 2023.
Sul fronte pedaggi, sulle arterie di competenza di Autostrade per l’Italia dal primo gennaio le tariffe aumenteranno del 2%, con aggiunta di un altro 1,34% dal primo luglio 2023. È confermato inoltre lo stop agli aumenti sulle Autostrade A24/A25 Roma-L’Aquila Teramo e Diramazione Torano Pescara: il Mit, si legge in una nota del ministero, sta facendo approfondimenti per una eventuale riduzione. Tariffe invariate sulle altre tratte autostradali. Le decisioni – viene spiegato nella nota – sono state stabilite dal ministero delle infrastrutture e trasporti d’intesa con il ministero dell’Economia. Scongiurato invece il temuto aumento delle multe. Con la legge di Bilancio è stata decisa la sospensione dell’aggiornamento delle sanzioni che avviene ogni due anni e che è legato anche all’andamento dell’inflazione. Il rialzo sarebbe stato non da poco con un balzo del 15,6% su tutte le sanzioni.
(da La Stampa)
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Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
AD ACCOGLIERLI LO STRISCIONE “BENVENUTI IN ITALIA, SALVARE VITE UMANE NON E’ REATO”
Sole pallido, cielo grigio, attorno all’una l’Ocean Viking è arrivata a Ravenna. Ad accoglierla fra gli applausi un piccolo presidio, con striscioni che recitano “Benvenuti in Italia. Salvare vite umane non è reato”.
Un altro fa risuonare la frase che per tanto tempo è stata l’esortazione di Vik Arrigoni. “Restiamo umani”. I centotredici naufraghi attendono sul ponte che si completi la lunga liturgia delle procedure di sbarco. Vanno giù subito solo i casi medici e le mamme con i bimbi. Poi in ordine di priorità i minori non accompagnati, le donne sole, le famiglie, solo alla fine gli uomini adulti. Si aspetta da ore.
L’alba si era alzata livida sulla Ocean Viking in avvicinamento a Ravenna. Avvolti nelle coperte i naufraghi hanno aspettato per ore il momento dello sbarco.
Anche i bambini che nei giorni scorsi hanno monopolizzato il ponte con i loro infiniti giochi, sono rimasti silenziosi. C’è chi inganna il tempo con un’ultima partita di pallone, alcune donne parlano davanti allo shelter in cui molte delle compagne cercano riparo dal freddo. Molti guardano il mare, la terra che si intravede sotto la foschia, alzano il telefono alla ricerca di segnale. Grazie al Salamat, un sistema messo a disposizione dalla Croce rossa, sono riusciti a far sapere a familiari e parenti di essere vivi. Ma aspettano con ansia di poterci davvero parlare, di poter dire direttamente a mogli, fratelli, sorelle, madri che aspettano: “Sì, è andato tutto bene”.
La costa di Ravenna si avvicina. Appena la Ocean Viking entra in acque nazionali appaiono due motovedette della Finanza. Una fa da apripista a prua, l’altra si piazza sulla fiancata. Da bordo, qualcuno filma. Anche i naufraghi dal ponte le vedono, qualcuno si innervosisce, alcuni si spaventano. Il profilo è tanto, troppo simile a quello della Guardia Costiera Libica. E in effetti sono proprio le stesse.
“Tranquilli, stiamo andando in Italia”. Al momento dell’approdo, c’è silenzio. A bordo ci si prepara. La crew di Sos Mediterranée saluta quei bimbi che per giorni hanno alzato le braccia chiedendo a chiunque di essere presi in braccio, salutano con una pacca quei ragazzi che dopo aver realizzato di essere vivi, di essere sfuggiti alle onde e al mare, hanno affidato all’equipaggio ricordi, dolori, speranze.
(da La Repubblica)
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Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
PROPAGANDA SEMPRE PIU’ INVASIVA NELLE SCUOLE
“L’offerta di negoziato da parte di Putin serve solo a fargli prendere tempo, per riorganizzare le sue truppe. Nel frattempo nel paese è in corso l’indottrinamento delle giovani generazioni su una scala mai vista prima.” Sono le parole di Grigory B. Yudin, professore di filosofia politica alla Scuola di Scienza Sociali di Mosca ed esperto di opinione pubblica, uno dei pochi intellettuali ancora liberi in Russia, che avvertì nel 2021 che l’intenzione di Putin era di invadere l’Ucraina. Ci sentiamo su zoom. Quando gli chiedo dove si trova, preferisce non rispondere. Ufficialmente non ha lasciato la Russia anche se, mi dice, come tutti gli accademici viaggia molto.
“All’inizio Putin ha venduto questa guerra come un match calcistico che si poteva osservare comodamente dal divano di casa propria. Ora ha bisogno che le persone siano mobilitate politicamente. Lo sta facendo, oltre che con la propaganda televisiva, attraverso il sistema educativo”. In base ad una legge entrata in vigore nel luglio del 2022 tutti i bambini russi saranno incoraggiati a entrare in un’organizzazione patriottica simile ai Pionieri dell’Urss e presieduta dal presidente stesso. Nelle scuole ci saranno lezioni settimanali sulla storia della Seconda guerra mondiale, la situazione geopolitica e sui “valori tradizionali”, accompagnati da tour virtuali della Crimea. I libri di testo adesso includono la versione della storia cara al Cremlino. Putin è lo storico-in-capo del paese. Come ha detto un alto funzionario del regime, Sergei Novikov, è giunto il momento di inculcare nei giovani “la nostra ideologia”. Ha aggiunto, ad un seminario organizzato dal ministero dell’istruzione a luglio, “dobbiamo cambiare le coscienze”. Ad un evento per gli insegnanti, un altro funzionario del Cremlino ha dichiarato che “il patriottismo – cioè essere pronti a dare la vita per la patria – deve essere il valore da insegnare ai giovani.” Le 40.000 scuole elementari e medie hanno già ricevuto i nuovi programmi. Irina Milyutina, un’insegnante nella città di Pskov, ha notato il cambiamento. “Mentre a marzo i bambini ancra discutevano tra di loro sui pro e contro della guerra, oggi disegnano la Z dovunque”. L’offesa peggiore che si può fare è chiamare un compagno di scuola ‘ucraino’.
Per Yudin questi provvedimenti sono un fatto nuovo e significativo. Università, scuole, asili vengono piegati alla propaganda putiniana. “Se il regime sopravvive nel medio periodo, esso avrà il tempo di far crescere una nuova generazione cui avrà lavato il cervello”.
In effetti, i giovani sono oggi un problema per Putin: essi non hanno nessuna intenzione di combattere e, se possono, scappano. Dopo nove mesi di guerra, anche i sondaggi effettuati in Russia rilevano un calo tra coloro che credono che Putin abbia fatto la scelta giusta (il 60% al 17 novembre, meno 10% rispetto alla primavera). I giovani sono i più scettici: solo il 40% di chi ha tra i 18 i 45 anni è oggi favorevole alle scelte del presidente (gli over 45 approvano le sue decisioni al 76%). Inoltre, tra i giovani, c’è stato un forte aumento del numero di intervistati che si dichiarano “incerti” – ora al 36%.
Secondo Yudin, “se viene concesso del tempo a Putin, questi può risolvere il problema dei giovani. Un paio di settimane fa – aggiunge – sono andato a vedere un nuovo film basato sul romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale (Berger, 2022). È una rappresentazione molto efficace di cosa succede quando un regime cerca di mobilitare i giovani. Gli studenti, le matricole universitarie sono così felici di andare in guerra e credono che saranno a Parigi in due settimane. Questo non è ancora il caso della Russia. A parte pochi pazzi fanatici, nessuno vuole andare a combattere, soprattutto tra i giovani”. Quindi, se vuoi creare uno Stato totalitario, devi iniziare da loro. “Se questo progetto avrà successo nel medio e lungo periodo, avremo una potenza di centoquaranta milioni di persone determinate a combattere fino alla fine”.
Cosa può fare nel frattempo l’opposizione?
“Continuiamo ad essere un paese completamente depoliticizzato. La mobilitazione ha cambiato la situazione, perché è successo qualcosa alle persone. La politica è entrata nelle loro vite. È più difficile mettere la testa sotto la sabbia. Molti cominciano a farsi delle domande. In questa situazione, bisogna mantenere la propria sanità mentale, dire cose semplici e ovvie, come ‘questa è una guerra ingiusta’. Bisogna ribadire che gli inquilini del Cremlino fingono di essere patrioti ma sono in realtà dei traditori, perché stanno distruggendo il paese. Del resto, se i putiniani fossero così preveggenti e così giusti, perché non hanno ancora vinto? La rivolta consiste nel mantenere un po’ di sanità mentale e far sapere alle persone intorno a te cosa pensi, senza alzare la voce, senza litigare, senza neppure voler cercarli di convincerli…”.
Eppure, gli spazi ancora aperti per comunicare semplici fatti si stanno sempre più restringendo…
“Bisogna usare tutti gli spazi a disposizione, anche privati. Perché in questa situazione le persone perdono letteralmente la testa; iniziano a confondere il bianco e il nero. Cominciano a chiedersi se c’è qualcosa che non va in loro, forse ci sono davvero i nazisti in Ucraina; poiché tutti ci credono, dovrà essere vero. E, naturalmente, c’è la propaganda che cerca di convincerli”.
Non la definirei una resistenza collettiva, ma personale…
“Certo, ma non è poco. In ogni caso si rischia di essere licenziati per fare questi discorsi. Quindi non bisogna cedere alcuno spazio. Alcune persone lo stanno facendo purtroppo, qualcuno mi ha detto proprio oggi che ha smesso di comunicare con i parenti ucraini per paura di essere licenziato”.
Dunque, per ora non esiste lo spazio per una resistenza collettiva?
“In questo momento, no. La resistenza collettiva emergerà quando all’interno della Russia la situazione cambierà, quando si potranno intravedere nuove opzioni”.
Nel frattempo, la scuola è il terreno dove si gioca il futuro della Russia: la repressione oggi è delle coscienze e ha un sapore antico, che ricorda le dittature del ventesimo secolo.
(da La Repubblica)
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Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
DOPO ANNI DI CRESCITA IRREALE, ARRIVA LA BOTTA E, CON ESSA, I LICENZIAMENTI A TAPPETO… IL CASO TESLA: MUSK HA BRUCIATO 200 MILIARDI DI PATRIMONIO PERSONALE, E LE AZIONI DELLA SOCIETÀ HANNO PERSO IL 69% DEL LORO VALORE
Il 2022 si chiude con un bilancio negativo per le grandi aziende tech in generale. Dopo aver vissuto un periodo d’oro nei dieci anni fino al 2021 che hanno visto crescere i loro ricavi e profitti a un tasso cinque volte superiore al Pil americano, coronato dal balzo anche durante la pandemia, le big tech hanno accusato una dura contrazione, successivamente accompagnata da uno stop alle assunzioni e seguita da ondate massicce di licenziamenti.
Secondo i calcoli dell’Economist, i cinque giganti della tecnologia Apple, Alphabet, Meta, Microsoft e Amazon hanno perso circa tre mila miliardi di dollari di valore di mercato.
Nel 2020 le principali aziende della Silicon Valley crescevano costantemente con l’aumentare del flusso web causato dalle restrizioni.
Non solo i ricavi di molte di queste società tecnologiche sono saliti alle stelle, ma anche il loro numero di dipendenti che, con il crollo dei profitti, si sono poi trasformati in esuberi tradotti in annunci di tagli del personale. Sono più di 150.000 i posti di lavoro tagliati nel 2022 nelle aziende tecnologiche di tutto il mondo (dati di Layoffs.fyi).
Dopo Meta, la holding di Facebook, Instagram e Whatsapp, che aveva annunciato a novembre a livello globale 11 mila esuberi, anche l’amministratore delegato di Amazon, Andy Jassy, aveva annunciato l’avvio della campagna di licenziamenti di 10 mila unità, pari all’1% della forza lavoro totale, circa 1,5 milioni di persone. Licenziamenti potrebbero arrivare anche per Alphabet, la società madre di Google che oltre al crollo del mercato della pubblicità digitale a ottobre ha registrato profitti il calo del 27% nel terzo trimestre 2022 rispetto all’anno precedente, a 13,9 miliardi di dollari.
Il Nasdaq, che rappresenta l’indice del listino azionario ad alto contenuto tecnologico, ha perso un terzo del suo valore. Tra le cinque, ad accusare perdite maggiori è Meta che ha bruciato quasi due terzi del suo valore, lasciando la sua capitalizzazione di mercato a poco più di 300 miliardi di dollari.
Diverse sono le cause della fine dell’inarrestabile crescita del settore. Tra queste il calo della raccolta pubblicitaria. Negli ultimi anni molti budget sono stati destinati alle piattaforme online. Ma oggi il fenomeno sembra aver perso parte del suo slancio. Un’altra sfida per le big tech è la concorrenza. La concentrazione dei mercati come quella caratterizzata dal monopolio di Google nella ricerca e di Meta nei social media è destinata a finire. Ne è un esempio il successo di TikTok, che ha portato a sé parte degli utenti di Meta.
E i confini tra le varie competenze non sono più così netti: il ramo di cloud computing di Amazon ha subito rallentamenti a causa di Google che sta investendo miliardi nel proprio servizio cloud. A queste cause si aggiungono anche altri eventi “sfavorevoli”, come l’innalzamento dei tassi di interesse della Federal Reserve al 4,5% per contrastare l’inflazione e la reperibilità dei semiconduttori per i quali oggi la domanda è diminuita a causa del calo delle vendite di pc e smartphone.
Secondo quanto riportato da Wired, nel 2022 le azioni di Amazon hanno perso tutto il valore accumulato durante il periodo più marcato della pandemia, scendendo nel corso dell’anno del 49% rispetto al 2021. Ammonta invece al 66% il crollo azionario di Meta anche dovuto dal calo dei profitti.
Fa peggio solo Tesla: a dicembre le sue azioni hanno raggiunto il livello più basso dal 2020 (- 69% rispetto allo scorso anno). Cali più contenuti per Microsoft che segna un -26%, probabilmente imputabile al calo delle vendite di videogiochi e software. Mentre Microsoft e Alphabet attribuiscono buona parte della riduzione dei profitti al rallentamento delle loro attività nel cloud computing.
L’ondata di perdite travolge anche tutti i maggiori paperoni tech della Silicon Valley che, insieme, hanno visto andare in fumo 433 miliardi di dollari, più del doppio del Pil della Grecia.
Il fondatore di Amazon Jeff Bezos ha perso 84,1 miliardi mentre, secondo quanto riportato dal Washington Post , la situazione non migliora neanche per Zuckerberg che ha accumulato 80,7 miliardi di perdite. I due fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, hanno invece visto prendere fuoco nel complesso quasi 88 miliardi di dollari. Bill Gates invece si è impoverito di 28,7 miliardi e la sua fortuna è pari ora a 109 miliardi.
(da il Corriere della Sera)
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Dicembre 31st, 2022 Riccardo Fucile
“USARE PAROLE STRANIERE E’ SNOBISMO RADICAL CHIC” HA DETTO IL MINISTRO DELLA CULTURA SANGIULIANO, USANDO TRE PAROLE STRANIERE
“Usare parole straniere è snobismo radical chic”, ha detto il ministro della Cultura Sangiuliano usando tre parole straniere. Non ci caschiamo. Ormai il giochino è chiaro: uno tra i più rimarchevoli esponenti del governo (collezionisti di busti, nostalgici delle punizioni scolastiche, cacciatori al cinghiale urbano, riccone in stile balneare, etc.) dice qualcosa di un fascismo da cabaret; quelli di sinistra – che quelli di destra, insipienti dell’origine dell’espressione, chiamano radical chic – si incazzano, producendosi in paginate di analisi e piagnistei; loro gongolano, avendo ottenuto il doppio risultato di: 1) giustificare il loro stipendio; 2) distrarre l’opinione pubblica dalle vere pecche del governo Meloni.
Messasi di buzzo buono a combattere l’egemonia culturale della sinistra (nella tv pubblica, dove fino a ieri Sangiuliano dirigeva un Tg, nella scuola, dove prima dell’arrivo di Valditara non vigeva il Merito ma il 6 politico, etc.), la battagliera intellighenzia di destra ha dichiarato guerra alla spocchiosa élite di chi non vota FdI: residenti delle Ztl, sì-vax, cosmopoliti (globalizzati, meticci, venduti, traditori della Patria); tutta gente che loro, seguitando la propaganda monomaniaca dei giornali di destra, chiamano radical chic
Guerra pure ai poliglotti, che impoveriscono la lingua di Dante; così invece del cachemire indosseranno il casimiro, e stasera brinderanno a sciampagna tra ricchi premi e cotiglioni, tiè.
Il tutto mentre Meloni, più confindustriale di Confindustria, vara una Finanziaria ligia all’austerità, riduce la spesa pubblica, taglia la Sanità. affama i poveracci, ricatta i disoccupati costringendoli ad accettare qualunque lavoro
Encomio perciò agli arditi intellettuali revanscisti: è dura fare epica dannunziana stando in un governo neoliberista, in cui Salvini cita la Thatcher e Meloni Ronald Reagan.
Se a Sangiuliano riesce di mettere l’italiano lingua ufficiale in Costituzione, com’era nello Statuto albertino, già che ci siamo riprendiamoci pure Nizza e la Savoia.
(da Il Fatto Quotidiano)
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