Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
LA DIFFERENZA TRA UN VERO PATRIOTA MORTO A 21 ANNI PER LA LIBERTA’ DELL’ITALIA E I SEDICENTI PATRIOTI FARLOCCHI AMICI DELLE PEGGIORE DITTATURE
Che Matteo Salvini viva la sua esperienza politica come un’interminabile
campagna elettorale, un modo per riempire di sé la ribalta offrendosi quotidianamente all’insaziabile occhio dell’opinione pubblica, è cosa risaputa. Non smise nemmeno quando era Ministro, avvalendosi di quel ruolo delicato quale amplificatore e megafono della sua martellante propaganda politica.
Dall’inesauribile cappello a cilindro, il capo della Lega ha tirato fuori l’ennesima trovata: con la mascherina tricolore a fasciare parzialmente il viso (come nell’insensato assembramento del 2 giugno: mai indossarla tutta, per carità!), si è recato al Mausoleo Ossario dei Caduti di Roma ad “omaggiare” Goffredo Mameli, il patriota autore dell’inno italiano, caduto nella difesa della Repubblica Romana, nel 1849.
Siamo di fronte all’ennesimo gesto eclatante in linea con il progetto di accreditarsi come leader di una formazione politica che si rifà ai più alti valori della storia d’Italia.
Gesto non a caso compiuto a Roma, dove l’anno venturo scadrà il mandato di Virginia Raggi, quindi campo di battaglia privilegiato per cercare consensi e occupare una posizione strategica per gli equilibri geopolitici di questo Paese.
Ma ad un qualsiasi cittadino di buon senso, dotato di una conoscenza anche solo scolastica della storia, la domanda, come si diceva un tempo, sorge spontanea: Che diavolo c’entrano Salvini e la Lega con i valori repubblicani per i quali Mameli ha sacrificato la vita? Cosa ha a che spartire col limpido e generoso Goffredo, dal punto di vista politico, ideologico ed umano, il rappresentante di una formazione politica erede di una forza secessionista che si batteva per l’indipendenza dall’Italia, che oggi lancia anatemi contro l’Europa, che flirta con i dittatori di mezzo mondo ?
Come sempre, qualche pillola di storia può risultare utile a smascherare questi tentativi di appropriazione indebita di un lascito morale e politico che andrebbe almeno rispettato, se non praticato e messo a frutto.
Goffredo Mameli nacque a Genova nel 1827, rampollo da parte di padre di una nobile famiglia di origine sarda, e da parte di madre di un casato aristocratico genovese.
Nell’allora Regno di Sardegna (l’unità d’Italia era lungi dal realizzarsi), fu istruito nelle Pie Scuole della città natale, quindi nel collegio di Carcare (in provincia di Savona), e conseguì il baccellierato all’Università della sua città.
Fu precoce talento letterario, autore di versi romantici che ben ne illuminano il carattere fervido e appassionato, e a neanche vent’anni compose le strofe che oggi noi tutti ripetiamo (in parte, magari solo quando gioca la Nazionale di calcio): il “Canto degl’Italiani”, universalmente noto come “Inno di Mameli”.
Uno spirito così ardente non poteva rimanere indifferente all’empito patriottico che all’epoca accendeva gli animi dei giovani d’intelletto e cultura. S’unì presto alla lotta, e nel settembre del 1846 fu alla testa delle manifestazioni organizzate per la ricorrenza della cacciata da Genova dell’invasore austriaco, esponendo (lui sì, ne aveva ben donde) il tricolore.
Ormai sempre più convinto d’un impegno anche militare per liberare l’Italia, nel marzo 1848 organizzò insieme ad altri patrioti una spedizione di trecento volontari che corse in aiuto di Nino Bixio durante le Cinque giornate di Milano. Lì conobbe Mazzini, delle cui idee repubblicane era ardente sostenitore, e ne uscì arruolato nell’esercito di Garibaldi, col grado di capitano.
Dopo l’armistizio di Salasco, seguito al fallimento di quei moti, tornò nella sua Genova e per protesta pubblicò L’Inno militare (la cui composizione gli fu ispirata da Mazzini), poi musicato da Verdi, e assunse la direzione del giornale “Diario del popolo”.
Per lui il tempo della battaglia tornò presto, e furono mesi di fuoco: nel novembre 1848, dopo l’uccisione del conte Pellegrino Rossi (fresco Ministro della polizia e ad interim delle Finanze dello Stato della Chiesa, accoltellato sulle scale del Palazzo della Cancelleria) e la fuga di Pio IX, Mameli accorre a Roma, ingolosito dalle notizie delle sommosse che scuotevano alle fondamenta la sonnacchiosa città eterna.
Aderì al comitato sorto per promuovere la convocazione di una costituente, che avrebbe seguito il credo politico repubblicano di Mazzini. Vista l’esperienza maturata, nel gennaio 1849 il giovane Mameli (ricordiamo, aveva ventun anni) s’occupò, all’interno della Giunta Provvisoria di Governo costituitasi nel vuoto di potere, dell’organizzazione militare. Il 9 febbraio, finalmente, avvenne la proclamazione della Repubblica Romana. Fu lui ad inviare a Mazzini il telegramma: “Venite, Roma, repubblica”.
Le cose, come sappiamo, precipitarono. Roma venne assediata dai francesi accorsi in aiuto del papa, e Mameli, divenuto aiutante di Garibaldi, come recitano le cronache “si batté eroicamente”: a Palestrina (9 maggio), a Velletri (19 maggio), quindi si oppose al definitivo assalto del 3 giugno a Villa Corsini. Fu lì che lo ferì ad una gamba la fucilata d’un francese (esiste però anche un’altra versione, meno accreditata, secondo cui fu la baionetta d’un commilitone a ferirlo, per sbaglio).
Comunque sia, fu trasportato all’ospedale di Trinità dei Pellegrini, dove venne curato dal medico Pietro Maestri: versava in ben gravi condizioni, alternando soffertissimi momenti di lucidità a deliqui. La medicina dell’epoca era quello che era, il problema si aggravò con la cancrena: avanzava a vista d’occhio, e si decise di amputare. L’intervento, eseguito dal chirurgo Paolo Maria Baroni, sulle prime parve riuscito, ma sopravvenne un’infezione, che al termine del suo micidiale corso uccise il patriota, per setticemia.
Erano le 7.30 del 6 luglio 1848: a ventuno anni e dieci mesi, l’eroe spirò. Il padre Giorgio, contrammiraglio, accorse al capezzale del figlio, ma giunse troppo tardi. Fu sepolto al Verano, dov’è ancora oggi il suo monumento, ma le spoglie, traslate nel 1941, riposano al Gianicolo, nel ricostruito Mausoleo Ossario Garibaldino.
Goffredo Mameli fu dunque valoroso patriota, acceso sostenitore delle idee mazziniane. La Repubblica Romana del 1849 di cui egli fece parte ha rappresentato una delle esperienze politiche più significative del Risorgimento. In quei mesi Roma divenne il simbolo e la promessa di un’Italia libera e unita, e l’importanza storica di quell’esperimento politico giace anche nella profonda eredità che esso ha lasciato. Perché la costituzione romana fu unica nel suo genere, l’unica in Italia che abbia previsto il suffragio universale prima del referendum del 1946 (avvenuto dunque un secolo dopo!), l’unica che abolì la pena di morte, riconobbe la piena libertà di culto e soppresse qualsiasi forma di censura sulla stampa: un modello eccelso di democrazia, civismo e tolleranza.
Quell’esperienza rappresentò insomma un’importante sperimentazione politica, un laboratorio di nuove idee democratiche e repubblicane, ispirate da Mazzini e arricchite da quelle di patrioti ed esuli che accorsero a Roma da tutta la Penisola e dall’estero. Un esperimento così rivoluzionario da rappresentare un pericolo per le potenze reazionarie, tanto che Francia, Spagna, Austria e Regno delle due Sicilie accolsero di buon grado gli inviti a intervenire di Pio IX.
Cosa ci insegna tutto ciò? Almeno una cosa, direi. La biografia di Mameli ci giunge moralmente intatta, carica della sua fede repubblicana, impregnata dei supremi valori della libertà e della democrazia.
Appaiono dunque un insulto alla decenza i tentativi di strumentalizzazione politica in atto per appropriarsi del suo preziosissimo lascito, operati da chi, nelle continue, aggressive esternazioni, nella pratica di governo e nella condotta umana, da quell’eredità politica e morale si discosta in maniera così clamorosa.
“Uniamoci, amiamoci/L’unione e l’amore/Rivelano ai Popoli/Le vie del Signore”: sono versi dell’inno d’Italia, scritti e “vissuti” da Mameli: rintoccano forse nell’ideologia e nella pratica leghiste tali parole incitanti alla concordia, all’unità, all’amore?
Suvvia, siamo seri, non si abusi della credulità e dell’ignoranza degli italiani: chi propugna idee divisive e dispotiche non è neanche degno di nominare Goffredo Mameli.
Tantomeno, può macabramente agitargli le mani in un applauso ad una politica regressiva e antidemocratica, per combattere la quale egli sacrificò la vita. Ricordiamocelo, e non soltanto il 6 luglio, giorno della sua scomparsa del grande patriota.
(da Globalist)
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Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
CALCIO ESEMPIO DI SPORTIVITA’? CON QUESTA CIALTRONATA I CALCIATORI ARGENTINI SI SONO INIMICATI GLI SPORTIVI CIVILI
Ogni Mondiale lascia in eredità immagini destinate a restare nella storia. Olanda-Argentina, quarto di finale dai tratti epici per come si è sviluppata la partita, non farà eccezione. Ma le istantanee di maggior impatto prodotte dall’incontro sono destinate a far discutere.
Gli scatti, immediatamente diventati virali, seguono di pochi istanti la realizzazione del rigore decisivo da parte di Lautaro Martinez. Da un lato ci sono i calciatori argentini, già festanti. Dall’altra gli avversari olandesi, alcuni a testa bassa, altri già a terra per la delusione. L’esultanza dei giocatori dell’Albiceleste ha però un’impronta evidentemente provocatoria: gli sguardi sono rivolti ai calciatori dell’Olanda, con tanto di urla rabbiose e gesti fastidiosi. Più che celebrare la propria vittoria, in quel momento l’Albiceleste sta celebrando la sconfitta degli Oranje.
Il gruppo argentino si divide in due nel momento del rigore trasformato da Lautaro Martinez. Alcuni giocatori puntano El Toro per raggiungerlo e festeggiare insieme la qualificazione alla semifinale (Messi sarà l’unico a dirigersi verso Emiliano Martinez, decisivo con le sue parate).
Diversi calciatori si soffermano invece per qualche istante a ridosso del cerchio di centrocampo, con l’obiettivo di esultare in faccia agli avversari, già palesemente abbattuti per la sconfitta. Il più plateale è Otamendi, che sfila davanti al gruppo in maglia arancione portandosi la mano vicino alle orecchie. Insieme a lui sfilano Paredes, Montiel e Di Maria, urlando qualcosa in direzione degli olandesi.
La partita, tesa e combattuta vista la posta in palio, ha vissuto svariati momenti di tensione: su tutti la rissa esplosa nel secondo tempo dopo una pallonata di Paredes in direzione della panchina olandese, a seguito di un’entrata ruvida su Aké. Non a caso proprio Paredes è stato uno dei più accesi nell’esultanza finale sotto il naso degli olandesi.
L’Argentina è arrivata particolarmente carica a questa partita, non solo per il valore della stessa, ma anche per il modo in cui Van Gaal l’ha preparata nella conferenza stampa nella vigilia. Il ct olandese non si è nascosto dietro parole di circostanza e ha parlato a ruota libera anche di Messi, utilizzando toni e termini che non sono piaciuti al numero 10 argentino.
Lo stesso Messi ha celebrato il gol del momentaneo 2-0 portandosi le mani alle orecchie mentre era rivolto verso la panchina occupata da Van Gaal. Un gesto di sfida che tradisce la rabbia agonistica che si è portato dentro per tutto l’incontro e ha trasferito, come suo solito nelle vesti di capitano e leader, al resto del gruppo. Come testimoniano le foto dell’esultanza finale che stanno facendo il giro del mondo.
(da Fanpage)
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Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
SI CONFERMA UNA “MALATTIA” DIPLOMATICA. SI È OFFESA PER IL NO DELL’ELISEO A UN BILATERALE CON MACRON IN SPAGNA
L’assenza fa rumore, evita qualche imbarazzo, ma non risolve il grande
freddo. Gli sbarchi dei migranti non bastano a rasserenare il clima: Italia e Francia restano distanti. Si litiga nella sostanza, ma anche e soprattutto nella forma, che in diplomazia non è mai un dettaglio. Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron ieri sono rimasti lontani anche fisicamente, lui al vertice del Mediterraneo di Alicante, lei a Roma con l’influenza.
I pontieri instancabili, a cominciare da Antonio Tajani, restano all’opera. Il ministro degli Esteri, che sostituisce la premier al summit, lo fa direttamente con il presidente francese, al quale trasmette la volontà italiana di recuperare il dialogo ai più alti livelli. Per riuscirci però, «bisogna tenere a bada i burocrati» è il senso del messaggio. Sulle navi, il vicepremier aggiunge: «Non manca mai da parte dell’Italia una risposta solidale, l’importante è che si rispettino le regole».
Quello spagnolo doveva essere il vertice del ghiaccio da rompere, con Pedro Sanchez, e del rapporto da recuperare, con Macron. L’influenza che ha colpito Giorgia Meloni però ha cambiato di colpo lo scenario. Sono le otto del mattino quando Palazzo Chigi avvisa la Farnesina: la presidente è a letto con la febbre e non può partecipare al summit dei Paesi del Mediterraneo ad Alicante.
Sull’aereo di Stato verso la Spagna sale allora Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepremier. Fonti governative escludono che si tratti di Covid, «il tampone è negativo». Il ministro della Funzione pubblica, Alberto Zangrillo, sminuisce la gravità della malattia, «Meloni ha una cosa da niente». Quel «niente», però, la costringe a saltare un appuntamento delicato, molto al di là dell’agenda dei lavori.
Il vertice dei 9 Paesi del Mediterraneo si chiude con una dichiarazione che chiede all’Ue di mettere «un tetto al prezzo del gas che sia dinamico e realmente efficace», come spiega Sanchez. Visto che la proposta della Commissione, «ha bisogno di aggiustamenti». Di fatto è la posizione italiana. Prima del summit viene presentato H2MED, il corridoio dell’idrogeno che collegherà Portogallo, Spagna per arrivare, sotto al mare, a Marsiglia.
Alla Ciudad de la luz, gli studi cinematografici sulle colline di Alicante, tra i diplomatici iberici circola una battuta: «Questa influenza è stata molto opportuna». È una battuta, ma l’assenza incide sulla giornata. Meloni e Sanchez si sentono al telefono, «il rapporto con Roma è fondamentale». Il tema dello scontro con la Francia resta nell’aria. Quando Tajani arriva al pranzo organizzato dagli spagnoli sul lungomare di Alicante, ha l’occasione di avvicinare il presidente francese. I due si conoscono da tempo e il ministro degli Esteri italiano può parlare con una certa franchezza. L’irritazione italiana per le notizie che filtrano dall’Eliseo su un invito a Parigi al quale Meloni non avrebbe risposto, è ancora molto vivo. Palazzo Chigi nella serata di giovedì ha risposto: «Non ci è arrivato nessun invito». Una durezza che a Parigi è parsa fuori luogo. La questione, è opinione diffusa tra i francesi, si risolverebbe soltanto con un contatto diretto tra i due leader. Ma per il governo italiano i tempi non sono maturi, viste le differenze per il momento molto grandi sulla questione migranti. In Spagna, Tajani vuole stemperare il clima, ma auspica maggiore attenzione anche da parte francese: «Non ci sono state dichiarazioni ufficiali, ci sono state dichiarazioni informali, ma non c’era nessuna visita programmata di Meloni».
(da la Stampa)
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Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
IL COMITATO NORD PENSATO DA BOSSI PER RILANCIARE L’IDENTITÀ DEL PARTITO? “SONO UN PROFONDO DIFENSORE DI QUALSIASI PROCESSO DI CONFRONTO DEMOCRATICO E DUNQUE BEN VENGA TUTTO QUELLO CHE PUÒ AGGIUNGERE QUALCOSA AL DIBATTITO INTERNO DELLA LEGA”
“Non è un’operazione per recuperare consenso ma per allargarlo. Esattamente come hanno fatto Luca Zaia o Giovanni Toti. Credo che una lista del presidente dopo il primo mandato sia utile alla coalizione per offrire agli elettori un’alternativa che non sia dentro i binari nazionali”.
Così il governatore del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga che in un’intervista alla Stampa spiega che sta già lavorando a una lista del governatore, in vista delle elezioni regionali, perché “stiamo vedendo che molti cittadini, che non si riconoscono nei partiti nazionali del centrodestra, e che magari guardano anche ad altre parti politiche, apprezzano l’azione amministrativa che abbiamo svolto”.
Che idea si è fatto del Comitato Nord pensato da Bossi per rilanciare l’identità del partito? “Sono un profondo difensore di qualsiasi processo di confronto democratico e dunque ben venga tutto quello che può aggiungere qualcosa al dibattito interno della Lega. Dopodiché – dice Fedriga – voglio sottolineare che la Lega è un movimento profondamente legato ai valori dell’autonomismo e lo è anche oggi, come dimostra l’impegno di Calderoli. Umberto Bossi è colui che ha fondato la Lega e non l’ha mai lasciata. Ho profondo rispetto per lui e penso che abbia ancora molte cose da dire e che sia utile stare ad ascoltarlo”.
E aggiunge: “Io ho sempre operato e continuerò a operare nel mio piccolo per tenere unita la Lega. Penso che la Lega sia la casa che abbiamo costruito in tanti anni per dare risposte da Nord a Sud sui temi dell’autonomia, ma anche su immigrazione, imprese ed economia. Dentro la Lega si può discutere, però è importante che la Lega sia una e che sia unita”, sottolinea.
“Io sono entrato nella Lega che avevo 15 anni. Ho visto la Lega all’8%, al 4%, al 34%, al 17%. So bene che la sinusoide dei consensi può salire e scendere. L’importante è che il movimento porti avanti politiche di prospettiva, non proposte che si limitano semplicemente a inseguire il consenso.
Noi stiamo cercando di farlo. Io sono convinto che a livello lombardo, avendo un ottimo candidato come Attilio Fontana, la Lega possa anche rafforzarsi rispetto alle politiche”, dice il governatore rispondendo a una domanda sul voto in Lombardia. Il governatore Stefano Bonaccini si è candidato per guidare il Pd. In futuro potrebbe esserci una sfida fra voi due a livello nazionale? “No – risponde Fedriga – una sfida così non la vedo. Io sto volentieri in Friuli Venezia Giulia e mi auguro che i cittadini mi confermino il loro sostegno”.
(da affaritaliani.it)
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Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
AD ESSERE IN CRISI È LA GUIDA E LA STRATEGIA DI SALVINI: IL PROBLEMA, PER LUI, SI PORREBBE SE IL GRUPPO NORDISTA DI BOSSI PASSASSE ALL’APPOGGIO ALLA CANDIDATA E TRANSFUGA DEL CENTRODESTRA, LETIZIA MORATTI O SE COMUNQUE A FEBBRAIO LA LEGA PERDESSE LA “SUA” REGIONE
L’uscita di tre consiglieri della Lega di Matteo Salvini in Lombardia è un
sintomo. Ed è possibile che non intacchi più di tanto il tentativo del centrodestra di mantenere il controllo della Regione: la loro espulsione immediata colpisce, ma lo stesso Umberto Bossi, al quale si erano rivolti, cerca di ricomporre la rottura.
L’episodio risulta però rilevante perché evoca un rischio di «guerra civile» nel Carroccio; e proprio nel cuore territoriale e politico del suo potere trentennale. In più, lo smottamento arriva dopo la sfida vinta il 25 settembre dal partito di Giorgia Meloni nel nord berlusconiano e leghista. Stavolta, però, la diaspora è a favore della costola storica della Lega.
Il sintomo diventa così la conferma di un affanno, se non di una crisi, che sembra in primo luogo della guida e della strategia di Salvini. Il leader ha perso molti voti ma ottenuto molti ministeri e posti di potere.
Da quando Meloni si è insediata a Palazzo Chigi, ha fatto parlare di sé ogni giorno Ha promosso una miriade di iniziative.
Si è candidato di fatto a premier ombra più del berlusconiano Antonio Tajani, ministro degli Esteri. Eppure, la sensazione è che Salvini non riesca più a incidere: anche se il leader del cosiddetto Terzo polo, Carlo Calenda, cerca di provocare la premier sostenendo che la sua finora è l’agenda della Lega. La realtà racconta una situazione diversa, di un Salvini che non riesce né a fermare né a placare i malumori che serpeggiano nel suo partito. I potenziali concorrenti, dal governatore del Veneto, Luca Zaia, a quello del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, giurano di non volerlo sfidare. «La Lega», dicono, «è una».
E in effetti, al momento non si intravede un’altra leadership. Smottamenti come quello di ieri in Lombardia, però, segnalano un malessere più grave di quanto appaia.
Né si può pensare che l’anziano leader Bossi prefiguri un’alternativa. Si indovina qualcosa di diverso e più profondo, sebbene meno insidioso nell’immediato per Salvini. Si tratta di un’iniziativa tesa più a richiamare alla gravità della situazione un vertice che detiene il potere da così lungo tempo da ritenersi inamovibile. Questo aggrava i difetti di chi sta al governo da troppo a livello locale.
E con la sua autoreferenzialità delude l’elettorato. Il problema, per Salvini, si porrebbe se il gruppo «nordista» di Bossi passasse dal limbo all’appoggio alla candidata e transfuga del centrodestra, Letizia Moratti; o se comunque a febbraio la Lega perdesse la «sua» regione. Certo, ormai è difficile per il capo del Carroccio ignorare quanto accade. Dietro al conflitto tra leghismi c’è una destra pronta a sostituirli puntando a rappresentare lo stesso blocco sociale.
(da Il Corriere della Sera)
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Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
“IL FOGLIO” SPERNACCHIA “IL CAPITONE” CHE CONTINUA A PERDERE PEZZI CON IL CARROCCIO DILANIATO DAI LIVORI INTERNI … LA BASE CHIEDE LA TESTA DI SALVINI
Se la svuota ancora può perfino affittarla: “Lega per Salvini premier, si loca”. In Lombardia ha perso quattro consiglieri regionali in un mese. Ieri ne sono usciti tre. Sono stati espulsi. Umberto Bossi: “Chiederò a Salvini l’annullamento delle espulsioni”. A Gratosoglio, a Milano, due giorni fa, quando i giornalisti gli hanno chiesto cosa pensasse dei leghisti in fuga, Salvini ha replicato: “Solo fantasie che interessano i giornalisti”. I consiglieri regionali che hanno deciso di abbandonare il gruppo della Lega sono Antonello Formenti, Federico Lena, Roberto Mura. Li ha preceduti Gianmarco Senna, il leghista più votato a Milano. Formenti, Lena, Mura aderiscono al Comitato Nord, la corrente del fondatore della Lega. Sia loro sia il Comitato non hanno intenzione, da quanto garantito, di sostenere Letizia Moratti. Non sono usciti contro le posizioni del loro presidente Attilio Fontana. Sono usciti perché non si riconoscono nella Lega di Salvini.
A cosa serve una ricandidatura in un partito che ormai scivola al sei per cento? Cecchetti ha parlato di “tradimento” e aggiunto che sarebbe opportuna la “correttezza”. Detto da questo segretario, che in Lombardia è riuscito a inimicarsi un’intera comunità, è singolare.
La base avrebbe chiesto di sostituirlo con una figura come l’ex ministro Garavaglia. Ma Salvini sa cosa vuole la base? I tre fuoriusciti in serata sono andati da Umberto Bossi, un fondatore che, in carrozzina, ospedalizzato, da settimane aspetta di essere ricevuto da Salvini. Da settimane Bossi deve mendicare un appuntamento da un segretario che usa come metodo di lavoro la contumacia: scompare.
In silenzio, chi è rimasto deve accettare le decisioni di un politburo che tra le altre cose si è lasciato scalare da Forza Italia. Sembra inverosimile ma è cosi. Oltre alla Sardone che è cresciuta politicamente in FI (europarlamentare, commissaria della Lega di Milano; un suo fedelissimo è capogruppo del consiglio della città metropolitana, Samuele Piscina) alle prossime elezioni regionali sarà candidato dalla Lega Alan Rizzi, assessore alla Casa, ex Forza Italia.
Verrà candidato come capolista nel collegio di Milano. L’unico leghista che ha i voti, ma un suo pensiero, Fabio Rolfi, starebbe per essere candidato come sindaco a Brescia. Nella Lega vale l’adagio di un vecchio direttore, grande giornalista. “Hai una buona idea? Un consiglio. Tienitela”. Quando questo partito sarà svuotato, Salvini sarebbe capace di dire: “In fondo era troppo grande per noi”.
(da Il Foglio)
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Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO IL VIA LIBERA DELLA CORTE TEDESCA MELONI E GIORGETTI DOVRANNO MUOVERSI PER APPROVARE IL TRATTATO PER NON SCONTRARSI CON BRUXELLES… VE LA RICORDATE QUANDO LA MELONI NEL 2019 PROMETTEVA “BARRICATE CONTRO LA NUOVA EUROFOLLIA DI UNA SUPERTROIKA ONNIPOTENTE”?
Siamo solo noi. L’esito del ricorso proposto dai liberali tedeschi alla Corte di
Karlsruhe, tra l’altro su una questione procedurale legata al tipo di maggioranza parlamentare da utilizzare, era atteso. Ma la sua formalizzazione mette l’Italia nella condizione di unico Paese dell’Eurozona a non aver deciso la ratifica parlamentare della riforma del Mes approvata da tutti gli Stati, noi compresi, il 27 gennaio e il 7 febbraio 2021 (governo Conte-2). Dal 1° gennaio l’Italia sarà affiancata dalla Croazia, ma per la semplice ragione che Zagabria entrerà nell’euro dall’anno prossimo.
Sul piano sostanziale, la decisione della Corte tedesca fa cadere il velo che fin qui ha permesso ai governi italiani di temporeggiare, portando avanti il dossier in Europa ma guardandosi bene dal portarlo nel Parlamento italiano dove avrebbe spaccato le loro maggioranze. E rende più stretto il sentiero scelto dal governo Meloni, che punterebbe a far considerare come nata vecchia una riforma del Meccanismo europeo di stabilità ora da ridiscutere all’interno delle nuove regole fiscali in costruzione a Bruxelles per superare la sospensione del Patto prima pandemica e poi energetica.
Ieri da Palazzo Chigi e dal ministero dell’Economia non sono trapelati commenti. Ma ci ha pensato il ministro degli Esteri Antonio Tajani a spiegare da Alicante, dove ha sostituito la premier indisposta al vertice Eu-Med9, «le riserve delle forze di maggioranza» per una riforma del Mes che per il titolare della Farnesina Forza Italia giudica «non sufficientemente europeista perché manca qualsiasi forma di controllo parlamentare».
Le cronache raccontano in realtà che l’atteggiamento degli Azzurri sul Salva-Stati è cambiato nel tempo (nell’ottobre 2020 Fi presentò alla Camera anche una mozione per chiedere il Mes sanitario), ma il caso non è certo unico. Stabili sul no sono invece sempre stati FdI (nel 2019 Giorgia Meloni promise «barricate contro la nuova eurofollia di una SuperTroika onnipotente») e soprattutto la Lega, che votò anche contro il Mes originario nel 2012 (allora FdI era nel Popolo della Libertà, ma Meloni era assente il giorno del voto) anche se ad accompagnare tutta l’istruttoria in Europa fu l’ultimo governo Berlusconi, sostenuto dalla Lega.
Nel merito, per quel che può contare, la riforma che ora attende solo il voto italiano non appare così rivoluzionaria. Il suo contenuto più importante è nella creazione del Common Backstop al Fondo di risoluzione unico, cioè un ombrello ulteriore da attivare in caso di grosse crisi bancarie. Un ritocco ha poi riguardato la linea di finanziamento «precauzionale», destinata agli Stati in difficoltà temporanea, che è stata semplificata prevedendone l’attivazione tramite lettera d’intenti e non più con un Memorandum of Understanding.
Per quella «rafforzata», rivolta ai Paesi più in difficoltà, è stata confermata di fatto la disciplina attuale. Perché le condizionalità più pesanti e le ipotesi di ristrutturazione “automatica” del debito, che pure si erano affacciate nelle proposte iniziali, sono state accantonate fin dal 2018 anche per l’iniziativa italiana guidata dall’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria nel governo Conte-1.
Ma non è in questi aspetti tecnici che va cercata l’origine delle difficoltà italiane. Che sono tutte politiche e dovute allo stigma del Mes come emblema dell’austerità. La stessa nomea ha tenuto fermi ai box anche i fondi sanitari privi di condizionalità, a interessi vicini allo zero e quindi vantaggiosi soprattutto per gli Stati che si finanziano a costi più alti (quindi in primis per l’Italia). Ora però la posizione di Roma si complica, anche nell’ambito di quel rapporto non conflittuale con Bruxelles che fin qui ha accompagnato con successo conti pubblici e rendimenti dei BTp nella fase delicata della manovra: perché ratificare il Mes in Parlamento sembra impossibile, ma anche tenerlo a bagnomaria ancora a lungo è piuttosto complicato.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
ENTRO DOMANI LA DECISIONE SULLA CONVALIDA DELL’ARRESTO
Ha passato la prima notte in stato di detenzione Eva Kaili, la vicepresidente del Parlamento europeo fermata ieri, 9 dicembre, a Bruxelles. A casa sua, infatti, sarebbero stati ritrovati sacchi pieni di banconote. Ne ha dato notizia il quotidiano belga L’Echo. Un altro giornale del Paese dove si sta svolgendo l’indagine per la presunta corruzione operata dal Qatar, Le Soir, ha affermato che Kaili e le altre quattro persone fermate ieri dalla polizia sarebbero state ascoltate entro 48 ore da un giudice a cui spetterà la decisione di emettere mandati di cattura.
E in effetti, riferisce un portavoce della Procura federale belga, le deposizioni dei cinque fermati davanti al giudice sono iniziate durante la mattina di oggi, 10 dicembre. Ascoltate le testimonianze, il magistrato Michel Claise dovrebbe pronunciarsi entro domani sulla convalida dell’arresto. Ad ora, la procura federale belga non ha confermato i nomi di tutti gli indagati, riferendo soltanto che si tratta di personalità potenzialmente in grado di influenzare le decisioni economiche e politiche europee a favore di un Paese del Golfo.
La stampa indica le altre persone coinvolte in Francesco Giorgi, ex assistente parlamentare di Antonio Panzeri e compagno di Kaili, Niccolò Figa-Talamanca, segretario dell’ong No Peace Without Justice, Luca Visentini, segretario generale della Confederazione internazionale dei sindacati e Antonio Panzeri, eurodeputato per tre mandati.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2022 Riccardo Fucile
PIÙ DI MILLE DIPENDENTI DELL’AUTOREVOLE QUOTIDIANO STATUNITENSE NON SI SONO PRESENTATI AL LAVORO. È LA PRIMA VOLTA IN QUARANT’ANNI
Nessun cronista in redazione. Interviste rinviate. Fotografi a casa. Solo tweet,
appelli ai lettori a disertare i giochi online, come Wordle e i cruciverba, in segno di solidarietà, più di mille dipendenti del New York Times non si sono presentati al lavoro. È il primo sciopero in quarant’ anni. A centinaia manifestano davanti alla sede, tra la 40 e l’Ottava Avenue, in mezzo al vento e al via vai dei newyorkesi. Urlano slogan, mostrano cartelli con scritto ” New York Times walks out “, il giornale più celebre al mondo sciopera.
La protesta arriva in coda ai negoziati del sindacato della News Guild, che rappresenta 1450 lavoratori del Times , tra cui 1.270 giornalisti, bloccati da due anni su salario, trattamento pensionistico e benefit. La trattativa è saltata mercoledì sera. Il contratto è scaduto nel marzo 2021.
In due comunicati separati, l’amministratore delegato Meredith Kopit Levien e il direttore Joseph Kahn hanno manifestato delusione. «È un’azione drastica e deludente », ha commentato Levien. «Gli scioperi – ha scritto Kahn in una email interna – scattano quando il dialogo si interrompe, ma non è il caso di oggi». Il sindacato aveva posto una condizione: chiedeva passi avanti entro mercoledì o sarebbe partita la protesta. Il giornale uscirà lo stesso, anche l’edizione cartacea non è a rischio.
Picchetto e sciopero erano quasi parole sconosciute a gran parte dei giornalisti. L’ultimo sciopero risale all’81, quando i lavoratori si fermarono per sei ore e mezzo. Da allora il massimo della protesta era stato nel 2017, quando i giornalisti avevano lasciato l’edificio per venti minuti, in segno di protesta per i tagli alla redazione.
La tensione arriva nel mezzo di un processo di cambiamento dell’azienda, che ha acquisito per 550 milioni di dollari la testata sportiva The Athletic. Il New York Times rappresenta un raro successo editoriale. Entro fine anno sono previsti profitti operativi tra i 320 e i 330 milioni di dollari. Ma se il Times si è costruito un nome per il suo giornalismo rigoroso è perché chi ci lavora non scende a compromessi.
Lo sciopero, dicono, è un prolungamento del modo di essere giornalisti: non piegarsi al potere, non farlo neanche se quel potere ce l’hai in casa e ti garantisce da vivere. Lo stipendio medio è di circa centomila dollari l’anno, ma l’azienda può vantarsi di stare seduta su una montagna di denaro grazie al lavoro dei suoi dipendenti.
Il sindacato aveva chiesto un aumento medio del 5,5% nel 2023 e nel 2024, la compagnia aveva risposto con il 3%. C’è disaccordo anche su salario minimo e bonus.
(da La Repubblica)
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