Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile JAGUAR SORPASSATA PER MANCANZA DI COMPONENTI
Prima i britannici? No, prima i tedeschi, almeno in questo caso. Perché siccome c’è la Brexit, il governo britannico non potrà più ricorrere a costruttori casalinghi per il parco auto ministeriale, almeno per qualche tempo. Nella fattispecie, la Jaguar. Che per il prossimo lotto sarà sostituita dalla teutonica Audi. Motivo: a causa dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, le cause automobilistiche britanniche non hanno avuto i parametri e i requisiti necessari per la produzione e la consegna delle prossime vetture blindate atte a trasportare il primo ministro Rishi Sunak e i suoi ministri di governo. Causa: alcuni componenti fondamentali, a causa delle frizioni alla frontiera post Brexit, non sarebbero comunque arrivate nelle tempistiche richieste dal governo britannico che ha pubblicato l’appalto.
Così, come riporta l’Independent, nessuna casa automobilistica britannica ha presentato la sua candidatura per l’appalto dell’ultimo lotto di auto governative blindate. Appalto nello specifico pubblicato dalla Metropolitan Police di Londra che si occupa del trasporto e della sicurezza dei membri dell’esecutivo. È la prima volta in 30 anni che la Jaguar non si assicura una gara di questo tipo indetta dallo Stato britannico. Ma stavolta ha dovuto dare forfait perché, secondo il quotidiano inglese, negli ultimi tempi ha dovuto bloccare più volte la filiera produttiva e la produzione di auto a causa della difficoltà di ottenere componenti dall’estero con le stesse tempistiche precedenti all’uscita dall’Ue. Dunque, niente più Jaguar XJ per lo scopo, ma Audi A8, poiché la casa automobilistica del Baden-Würrtemberg ha invece dimostrato di possedere tutti i requisiti necessari.
Attacca il partito laburista. Non cita la Brexit, come spesso capita da tempo, per non riaprire una ferita dolorosa per la nazione e per lo stesso Labour lacerato negli ultimi anni dall’uscita dall’Ue. Ma il ministro ombra dello Sviluppo Economico, Jonathan Reynolds, dichiara: “Dodici anni di instabilità e incertezza dei governi tory hanno fatto sì che ora il nostro settore automobilistico”, fiore all’occhiello dell’era di Margaret Thatcher tra l’altro, “stia soffrendo in questo modo. La produzione delle case britanniche è pari a meno della metà dei livelli di sei anni fa: è una situazione molto preoccupante”.
Sei anni fa, ossia l’anno della Brexit. In effetti, secondo gli ultimi dati della Società di produttori di auto britannici, le industrie automobilistiche oltremanica sono passate da 1,7 milioni di vetture prodotte all’anno alle attuali 786mila. Proprio la Jaguar tempo fa aveva messo in guardia il Paese riguardo alla Brexit, dopo che il referendum del 23 giugno 2016 l’ha sancita con il 52% dei voti: “Una Brexit cattiva”, aveva dichiarato all’epoca il ceo Ralf Speth, “ci costringerebbe a cambiare Paese”. Ciò non è ancora successo. Ma certo un settore fondamentale per l’economia britannico, orgoglio della Lady di Ferro e di tutti i conservatori, sta soffrendo come non mai negli ultimi anni.
(da La Repubblica)
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Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile MA IN ITALIA NE MANDIAMO ANCORA 2,2 MILIONI
Dal primo gennaio 2023, i tedeschi perdono un fedele compagno di
strada. Deutsche Poste manda in pensione il telegramma. Il gigante nazionale delle comunicazioni postali non ne spedirà più in Germania, dopo aver interrotto il servizio di consegna internazionale già nel 2018.
Il primo ad Amburgo
Felicitazioni agli sposi, auguri di compleanno, assunzioni, licenziamenti, condoglianze: queste comunicazioni non saranno più trasmesse con il telegramma, che così esce di scena. Siamo a 175 anni dal primo telegramma mai inviato nel Paese. Fu scritto ad Amburgo nel 1847, ovviamente in Codice Morse.
Anche in Italia il servizio di telegrammi è in declino, nell’era delle email e delle chat. Nel 2022 – rispetto al 2021 – Poste Italiane accusa un’emorragia del 20% in termini di volumi spediti e del 16%, alla voce ricavi.
Da noi uno zoccolo duro
Eppure Poste Italiane conserverà il servizio perché uno zoccolo duro di italiane e italiani lo utilizza ancora. Si stima che, solo attraverso Poste, siano partiti e arrivati 2,2 milioni di telegrammi, quest’anno. Un volume di traffico che ha generato comunque oltre 12 milioni di euro di ricavi.
Ecco i dati sulle modalità di spedizione, nel nostro Paese:
– il 23% dei telegrammi viene fatto negli uffici postali,
– il 39% da canale telefonico,
– il 38% da canale online (Internet e applicazione).
Ai telegrammi di Poste Italiane, vanno aggiunti quelli gestiti da agenzie minori, che pure organizzano questo servizio.
Il taglio in Francia
La Germania non è il primo Paese europeo a tagliare il cordone ombelicale con il telegramma. Anche i francesi, il 30 aprile del 2018, hanno dato un colpo a questo mezzo. Alle 23 e 59 di quel giorno, un irriducibile ha spedito l’ultimo telegramma. Purtroppo di condiglianze.
Da quel momento, l’operatore telefonico Orange ha interrotto il servizio. Permetteva alle persone di telefonare, di dettare il telegramma e di vederlo consegnato, su carta, dopo un solo giorno. In Francia resta in piedi un servizio simile, che fa capo a La Poste.
A La Poste, i francesi possono inviare il testo di una lettera via web. Lettera che viene stampata e poi recapitata. Somiglia a un telegramma, con tutte le differenze del caso.
Le cartoline allegate
In Germania, inviare un telegramma costa – anzi, costava – da 12,57 euro fino a 21,98. Non poco. I telegrammi più costosi arrivavano con una cartolina allegata, che mostrava
– due bicchieri nel caso di compleanno o anniversario,
– fiori, per la Festa della Mamma o San Valentino,
– un muffin con candela, suggerita per le nascite,
– una ragazza che salta, per Cresima o Comunione,
– una scalinata coperta di foglie, in caso di lutto.
(da La Repubblica)
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Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile ORA ANCHE IL GOVERNO DI SUNAK DEVE FARE I CONTI CON I RISULTATI DI QUELLA SCELTA
Londra. Che qualcosa sia cambiato Oltremanica lo si nota dalla Bbc, che ha iniziato apertamente a sospettare che sia proprio la Brexit il motivo della recente e pessima performance economica del Regno Unito. Ovvero il Paese del G20 (Russia esclusa) con la peggiore crescita per l’anno prossimo secondo le stime del Fondo monetario internazionale e una recessione che potrebbe durare due anni. Se infatti sinora la gloriosa emittente di Stato ha eluso l’argomento in nome della neutralità, ora, con la fine dell’emergenza Covid e l’impietoso confronto con le altre nazioni occidentali, il tema è ineludibile.
Sono passati esattamente due anni dall’uscita definitiva del Regno Unito dall’Unione europea, il 31 dicembre 2020, dopo una fase di transizione iniziata il 30 gennaio dello stesso anno. E ora anche il governo di Rishi Sunak, pragmatico brexiter della prima ora, deve fare i conti con i risultati di quella operazione fortemente voluta anche da colui che lo ha preceduto a Downing Street, Boris Johnson, che siglò buona parte degli accordi con la Ue nel 2019. Sunak è di fronte a un bivio: riavvicinarsi all’Europa? Oppure, distanziarsi e deregolamentare il più possibile, con l’obiettivo di rendere la City una Singapore sul Tamigi e il resto del Regno Unito un Paese con standard sempre più bassi ma appetibili agli investitori stranieri?
Trovare la quadra sarà un’impresa. Per esempio, sulla deregulation della City, persino il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, ha lanciato l’allarme: “C’è il rischio di un altro crash finanziario, come nel 2008”. C’è poi chi, come il ministro delle Finanze, Jeremy Hunt, vuole il riavvicinamento all’Ue e più migranti europei per colmare l’1,4 milioni di posti di lavoro vacanti. E chi vuole un accordo stile Svizzera: fuori dall’Ue ma dentro il mercato unico, ingoiando l’amarissimo boccone del ritorno della libera circolazione delle merci Ue. Inaccettabile per l’ala dura del partito conservatore.
Che cosa farà Sunak? Potrebbe riavvicinarsi all’Ue vendendo pubblicamente fumo euroscettico ai brexiter, ma è un percorso pieno di insidie. Di certo, rimpiazzare l’addio del mercato unico non è possibile: per esempio, l’accordo di libero scambio tra Regno Unito e Australia produrrà soltanto un +0,08 per cento per il Pil entro il 2035. Quello con il Giappone lo 0,07 per cento. E l’organismo governativo Obr (Office for Budget Responsability) ha ammesso che la Brexit ha conseguenze negative sul commercio: i danni saranno pari ad almeno il 4 per cento di Pil in meno entro il 2026. Ossia 100 miliardi di scambi commerciali e altri 40 miliardi di tasse non pagate all’erario entro la fine del decennio. Buon 2023.
(da La Repubblica)
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Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile FESTA A ZAGABRIA
Da oggi, 1 gennaio 2023, la Croazia adotta ufficialmente l’euro ed entra
nell’area di libera circolazione Schengen. Con la mezzanotte il Paese ha detto addio anche alla sua valuta, la kuna, diventando così il 20esimo membro dell’Eurozona e la 27esima nazione della zona Schengen. Quest’ultima permette agli Stati che ne fanno parte di circolare senza passaporto.
Non sono mancati i festeggiamenti per l’occasione, che si sono concentrati in due principali valichi di confine, con la Slovenia e con l’Ungheria, e in un bancomat nel centro della capitale Zagabria.
Il ministro degli Interni Davor Bozinović ha premuto simbolicamente per l’ultima volta il pulsante per alzare la rampa e lasciar poco dopo passare le prime automobili senza controlli, al valico di Bregana-Brežice, sull’autostrada Zagabria-Lubiana. «Abbiamo aperto le porte all’Europa senza frontiere e definitivamente affermato la nostra identità europea per la quale si sono battute generazioni di croati», ha poi dichiarato il ministro croato. La presidente della commissione europea Ursula von der Leyen ci ha tenuto a sottolineare che «È la stagione dei nuovi inizi. E non c’è posto in Europa dove questo è più vero che qui in Croazia. Due traguardi immensi. Sono così felice di essere qui, in questo giorno di gioia e orgoglio per la Croazia».
Cerimonia simile anche al confine croato-ungherese, al valico Goričan-Letenye, dove ad alzare la rampa è stato il ministro degli Esteri, Goran Grlić Radman. «Questo è un momento storico e va festeggiato», ha detto. «Da oggi la Croazia si assume anche la grande responsabilità per la protezione di più di 1.300 chilometri del confine esterno dell’Ue», con la Serbia, il Montenegro e la Bosnia-Erzegovina. Sono in tutto 73 i valichi di confine terrestri che sono stati soppressi e 12 quelli nei porti marittimi. Per il traffico aereo, invece, si dovrà aspettare fino al 26 marzo quando scatterà l’orario di volo estivo. Per i pagamenti in contanti il periodo di transizione durerà fino al 14 gennaio 2023. Il tasso di conversione è stato fissato a 7,53450 kune croate per 1 euro.
Lagarde: «L’euro porta stabilità ai suoi membri»
«La Croazia ha lavorato duro per diventare il ventesimo membro dell’area euro, e ci è riuscita. È la dimostrazione che l’euro è una valuta attraente che porta stabilità ai suoi membri». Così la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha commentato la notizia per poi dare il suo benvenuto alla Croazia «nella famiglia dell’euro e al tavolo del consiglio dei governatori della Bce a Francoforte». La banca centrale croata, la Hrvatska narodna banka, entrando nell’Eurozona diventa ufficialmente e a tutti gli effetti un membro del meccanismo di supervisione unica delle banche (Ssm), con cui da ottobre 2020 ha cooperato.
(da Open)
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Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile LA VITTIMA HA RITIRATO LA QUERELA… LE STORTURE DELLA RIFORMA DEL PROCESSO PENALE
Sono a processo per aver rapito, legato e imbavagliato un 22enne che terrorizzavano con continue richieste di denaro, costringendolo a salire in macchina e chiudendolo in un appartamento per diverse ore. Ma per la riforma Cartabia il loro comportamento non costituisce più un reato punibile.
E perciò due imputati con precedenti, che hanno dimostrato, secondo l’accusa, “una sorprendente pervicacia nelle condotte criminose“, dovranno essere prosciolti dall’accusa di sequestro di persona, e la custodia in carcere disposta nei loro confronti per quel reato dovrà decadere.
Arriva da Savona un altro caso-limite che mostra i primi effetti della riforma del processo penale firmata dell’ex Guardasigilli, entrata completamente in vigore il 30 dicembre dopo il rinvio deciso dal governo: tra le altre cose, infatti, la legge trasforma una serie di reati da “perseguibili d’ufficio” a “perseguibili a querela“, cioè solo su richiesta formale della vittima. E non si tratta di fattispecie di poco conto: ci sono i furti aggravati, le lesioni personali stradali gravi o gravissime, le truffe, le violenze private e, appunto, i sequestri di persona non aggravati, previsti dall’articolo 605 del codice penale e puniti con la reclusione da sei mesi a otto anni. In mancanza di una querela (o se la querela è ritirata) i fascicoli per questi reati vanno automaticamente in fumo, così come le misure cautelari già applicate.
Un caso eclatante già raccontato dal Fatto è quello milanese che coinvolge il trapper Simba La Rue, arrestato per aver rapito e malmenato il rivale Baby Touché e appena liberato per mancanza di querela. Qui la dinamica è simile: nel dicembre 2017, a Loano (Savona), un giovane albanese viene avvicinato da tre connazionali più anziani da cui in passato aveva comprato della marijuana, e che da allora – scrive la Procura – lo “costringevano a corrispondere continue somme di denaro”, sostenendo che il prezzo della vendita non fosse stato saldato. I tre – si legge nel capo d’imputazione – “lo colpivano più volte con schiaffi e pugni, lo caricavano su un’Audi scura, lo legavano e lo trasportavano a casa” di un loro complice a Genova, dove lo “picchiavano nuovamente, tenendolo chiuso in casa per alcune ore” e “infine lo liberavano dopo avergli fatto promettere il pagamento di migliaia di euro“.
Per questo e per altri due episodi di rapina ed estorsione ai danni della stessa vittima – descritta come ridotta in uno “stato di soggiogazione” – nei mesi scorsi il pm Luca Traversa ha chiesto e ottenuto dal gip la misura cautelare della custodia in carcere per due di loro, sottolineando “il concreto e attuale pericolo che commettano delitti della stessa specie” e la “totale indifferenza, da parte degli indagati, per le norme che regolano la civile convivenza“.
Il quadro accusatorio è talmente solido che l’accusa ottiene dal gip il giudizio immediato, cioè il passaggio al dibattimento saltando l’udienza preliminare, consentito solo quando la prova “appare evidente“. Poco prima di Natale, però, la vittima decide di ritirare la querela nei confronti dei suoi aggressori, forse per paura o forse per senso di “solidarietà” verso persone del suo stesso contesto sociale. E così, grazie all’entrata in vigore della riforma Cartabia, l’accusa di sequestro di persona è finita in una bolla di sapone: alla prossima udienza il pm dovrà chiedere la cessazione dell’efficacia della misura cautelare e il proscioglimento dall’accusa, per sopravvenuta mancanza di una condizione di procedibilità.
Nel caso specifico probabilmente gli imputati resteranno comunque in carcere, perché la misura resta valida per le accuse di rapina ed estorsione. Ma la condanna potrà essere sensibilmente ridotta. E più in generale la vicenda fa da un campanello d’allarme su una delle conseguenze più pesanti della nuova legge: l’impossibilità di perseguire reati anche molto gravi, e di grande allarme sociale, in mancanza di una querela della vittima. Una stortura che però, a differenza di presunte emergenze su intercettazioni o abuso d’ufficio, per il ministro Carlo Nordio non è una priorità.
(da il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile CONTROLLA TUTTO: DECRETI, DISEGNI DI LEGGE, CIRCOLARI. COMANDA TUTTI… LE MANCA UN GIANNI LETTA
Non avevamo mai avuto nemmeno una regina. Sapere che a Palazzo
Chigi c’è Giorgia Meloni continua a scatenare inevitabili botte di notevole stupore. La premier (“il premier”, come chiede di essere definita, francamente no: suona davvero troppo male) vive dentro un meraviglioso incantesimo politico.
Partendo dalla catacomba di Colle Oppio, la sezione missina dove s’infilò appena quattordicenne, bomberino verde e scarponcini Dr. Martens, è arrivata alla guida del Paese.
Nella vita, come sempre, la domanda che segue a un grande successo è: e adesso? Calma, questa storia ha una sua innegabile complessità. Per capirci: secondo la classifica World’s Most Powerful Women stilata da Forbes, Giorgia Meloni è addirittura la settima donna più potente del pianeta (le prime tre sono: la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, quella della Banca centrale europea, Christine Lagarde, e la vice-presidente degli Stati Uniti, Kamala Harris).
Dal 2004, quando Forbes ha iniziato a stilare la classifica delle 100 donne più influenti del mondo, nessuna italiana aveva mai occupato una delle prime dieci posizioni. Bene, no? Insomma.
Leggete cosa c’è scritto in un articolo pubblicato su Forbes.com: «Come capo del governo italiano più a destra dalla fine della Seconda guerra mondiale, Meloni è una figura controversa, il cui futuro rimane incerto».
Ecco, il punto è questo: restare lassù non sarà facile. E lei – tra qualche riga capirete perché – ne è consapevole. Del resto gli italiani hanno sempre avuto una straordinaria capacità di blandire e poi odiare, adulare e poi abbattere. Mussolini, Craxi, Berlusconi. Negli ultimi anni, però, tutto avviene con efferata rapidità.
Matteo Renzi, da segretario del Pd, alle europee del 2014 arrivò al 41%, e sapete com’è finito. Matteo Salvini, nell’estate del 2019, prima di mettersi a torso nudo dietro la consolle del Papeete Beach, sudato, barcollante, tracannando mojito ghiacciati e chiedendo “poteri assoluti” (era ministro dell’Interno, eh), nei sondaggi veniva quotato intorno al 36%; e adesso, vabbé, non solo è precipitato intorno al 9%, ma c’è mezza Lega, l’Umbertone Bossi in testa, che lo manderebbe volentieri a casa.
Quanto al M5S: appena quattro anni fa, con un clamoroso 32% fece sbarcare in Parlamento centinaia di deputati e senatori, la maggior parte dei quali sono però poi dovuti tornare, com’è noto, a cercarsi un lavoro. La Meloni sa tutto, ha visto tutto. Le vittorie elettorali, nel nostro Paese, possono rivelarsi effimere. Le coalizioni, spesso, hanno la solidità del pongo. Per questo, la sua prima preoccupazione è stata: tenere la macchina del partito sempre ben oliata e pronta per ogni evenienza
La festa per il decennale della fondazione di FdI organizzata a Roma, a piazza del Popolo, è servita anche e soprattutto a questo: a contarsi, a stringere i ranghi, tre giorni di kermesse che dessero a tutti, dirigenti e militanti, il senso di un’allerta costante.
Poi, certo: è stato anche un grande e compiaciuto esercizio di memoria collettiva per ricordarsi di quando, nel primo passaggio elettorale, FdI non arrivò neppure al 2%. Uno stato d’animo destrorso, più che un partito. Ma poiché sono stati dieci anni lunghi e faticosi, incerti, testardi, visionari, è chiaro che, adesso, per le truppe meloniane il rischio di sprofondare nell’ovatta dell’appagamento è enorme. E non solo.
La Meloni (non dimenticate che divenne ministro a 31 anni) sa che arrivare al potere e finalmente toccarlo, gestirlo, sentirne l’odore penetrante, provoca un senso di inevitabile vertigine: del resto, dopo essere rimasti fuori dai governi gialloverde e giallorosso, e all’opposizione persino con l’esecutivo guidato da Mario Draghi, capi e capetti ai suoi ordini ora sprofondano eccitati nei sedili in pelle delle auto blu con i lampeggianti accesi, braccati dalle telecamere dei tg e riveriti da manager e banchieri, inseguiti dalla solita folla che implora, sfacciatamente, di poter salire sul carrozzone.
La Meloni continua, perciò, a fare la Meloni. Come se non fosse premier: e questo, ecco, è il primo grosso limite. Veloce, decisa, ruvida. Controlla tutto: decreti, disegni di legge, circolari. Comanda tutti: non c’è decisione dei suoi ministri che non debba essere prima valutata da lei, in persona.
Sentiamo Giorgia. Giorgia che pensa? Guarda che prima devo fare una telefonata a Giorgia. Giorgia non vuole. Giorgia vuole. C’è da dire che lei, di suo, per puro istinto e complessa storia familiare, è una che tende a fidarsi davvero di una sola persona: la sorella Arianna. Poi, forse, ma proprio forse, diciamo se un po’ obbligata, ascolta anche il marito di Arianna, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida; e, con lui, il ministro della Difesa Guido Crosetto (di cui apprezza la pragmatica visione del mondo economico), il presidente del Senato Ignazio La Russa (per gli intrighi strettamente parlamentari) e il sottosegretario alla Presidenza Giovanbattista Fazzolari (per i dossier roventi).
Troppo poco. S’intuisce una certa, pericolosa solitudine. Infatti, spesso, sembra quasi che le manchino tremendamente quei piccoli consigli che a un premier fanno evitare grandi problemi. Tipo: porta la figlia Ginevra, di 6 anni, al G20 di Bali; è una bella mossa mediatica, furba, zuppa di retorica, ma anche funzionale: guardatemi, sono una di voi, sono una donna che lavora e comunque non rinuncia ad essere mamma. Ovviamente, la notizia fa il giro del web: gli odiatori dei social, qualche avversario politico, imbecilli di passaggio, subito si scatenano. Ecco: lì serviva qualcuno che le suggerisse di fregarsene, di lasciar correre, e invece no, la Meloni va di pancia,
Meloni ha visto tutto, sa tutto. Per esempio, che le vittorie elettorali possono rivelarsi davvero effimere risponde affilata – «Ho il diritto di fare la madre come ritengo opportuno!» – e allora tutto si sporca, diventa polemica arruffata, e soprattutto inutile.
Altro passo falso (si fanno esempi per capirci meglio, sia chiaro): conferenza stampa, un paio di giornalisti vorrebbero porre altre domande, lei dice di avere fretta, forse è vero, forse no, probabilmente è solo di cattivo umore (capita) e così risponde un filo scocciata, tra fastidio e scherno, e ci mette pure un accento romanesco che non l’aiuta. Polverone, altra baruffa. E anche qui: non sarebbe stato più opportuno un po’ di distacco?
La sensazione è che, di fronte a queste situazioni inevitabili per una premier, non abbia accanto qualcuno con l’esperienza e l’autorevolezza necessarie per dirle: frena, scala la marcia, sterza. Un Gianni Letta, per intenderci (qualcuno aveva ipotizzato che in quel ruolo potesse giocare Fazzolari: ma, dopo l’imbarazzante frontale avuto con la Banca d’Italia, è opinione diffusa che Fazzolari non sia dotato della necessaria diplomazia, e scaltrezza, mettiamola così).
Detto questo: è chiaro che la Meloni ha intenzione di durare cinque anni. Certo è consapevole che sui temi delle politiche sociali e dell’economia, un po’ per la modestia delle risorse del portafoglio, un po’ per i vincoli europei (clamoroso il passo indietro cui è stata costretta anche sulla minuscola ma simbolica faccenda del Pos), molto per la guerra in Ucraina e la crisi energetica, non le sarà facile dare un senso al suo governo di centro destra.
Le serviranno altri terreni. Per questo punterà sulla riforma in senso presidenziale della Repubblica; e, come ha già spiegato il Guardasigilli, Carlo Nordio, lavora per rifondare, radicalmente, la giustizia. Colpo d’occhio: la premier sale verso il 2023 arrampicandosi su per un sentiero stretto, ripido, di strapiombi pericolosi.
(da Oggi)
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Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile INSULTI E PARODIE CONTRO GLI UCRAINI
La propaganda russa non si ferma nemmeno la notte di Capodanno. Dopo che l’orologio della Torre Spassky del Cremlino ha segnato la mezzanotte, i festeggiamenti sono iniziati anche in televisione. Secondo quanto riportato dalla Bbc, Channel One TV ha inaugurato il 2023 con una canzone pop che recitava: «Sono russo e andrò fino in fondo… sono russo, per far dispetto al mondo. Sono nato in Unione Sovietica, sono stato creato in URSS!».
Anche su Russia-1 è andata in onda una festa per Capodanno, durante la quale è intervenuto uno dei corrispondenti di guerra più famosi dell’emittente.
Aveva in mano un bicchiere di champagne, e ha brindato al nuovo anno augurando «più buone che cattive notizie dal fronte». Seduti con lui c’erano uomini in divisa militare.
Nonostante i lustrini, i colori sgargianti e la musica infatti, è chiaro che per il Paese questo non è il solito 31 gennaio. Lo conferma anche lo speciale di Capodanno prodotto dalla Tv di Stato russa. Come segnalato su Twitter dalla giornalista Julia Davis, infatti, «i migliori propagandisti si sono seduti accanto a ospiti militari, hanno definito l’Ucraina ‘terra della Russia meridionale’ e hanno riso dicendo che ‘non puoi fare il borscht (minestra ucraina, ndr) senza il gas russo’. Poi hanno massacrato una canzone ucraina, Chervona Ruta».
Ai commenti indignati si sono aggiunti quelli che ironizzavano sulle facce contrite degli ospiti. È stato per esempio deriso il muso lungo di Vladimir Rudolfovich Solovyov – tra i più popolari anchorman russi -, in evidente imbarazzo in quel clima di festa.
E c’è anche chi ricorda quando, dieci anni fa, lo stesso Solovyov festeggiò il capodanno in diretta sulla tv russa con Volodymyr Zelensky. Oggi il conduttore chiede lo sterminio dell’Ucraina.
(da agenzie)
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Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile BOLSONARO DISERTA LA CERIMONIA
Dopo oltre 11 anni di attesa, oggi 1° gennaio 2023 Luiz Inácio Lula da
Silva – per tutti Lula – ritorna alla guida del Brasile: per la gioia del popolo di sinistra che lo ha sempre sostenuto e osannato, anche negli anni bui della condanna e della prigionia per corruzione, e per l’amarezza dei suoi oppositori e in particolare dei fan di Jaìr Bolsonaro, che lo detestano e in parte non ne accettano la vittoria.
Il leader del Partito dei lavoratori ha infatti battuto alle elezioni dello scorso 30 ottobre il presidente uscente, seppur di misura: 50,9% contro 49,1%.
Oggi dunque a Brasilia Lula, 77 anni, si re-insedia come presidente del Paese. Nonostante la cerimonia blindata, però, in queste ore la polizia militare brasiliana – all’ingresso della zona dove è in corso la celebrazione – ha bloccato un uomo armato di un coltello e di esplosivo. A riferirlo è stato il portale G1 Globo, che ha citato in una nota gli stessi agenti del Distretto federale di Brasilia. Il brasiliano – riporta il comunicato – è stato arrestato grazie alle perquisizioni che vengono effettuate a tutte le persone che partecipano ai festeggiamenti.
A celebrare l’ascesa dell’ex sindacalista a Palácio do Planalto ci sono più di 60 artisti, 17 capi di Stato, 53 delegazioni, ma anche 8mila agenti. Un dispositivo stringente di sicurezza sulla Explanada dos Ministerios previsto dopo il fatto più inquietante verificatosi la scorsa settimana: il tentativo da parte di un sostenitore di Bolsonaro di far saltare in aria con dell’esplosivo un’autocisterna diretta all’aeroporto di Brasilia, alla vigilia di Natale. «Speravo di seminare il caos prima dell’insediamento di Lula», ha ammesso candidamente il bolsonarista, arrestato dalle autorità brasiliane.
Il grande assente
Chi non sarà presente alla cerimonia è proprio l’ex presidente Jair Bolsonaro, volato negli Stati Uniti a bordo di un aereo dell’aeronautica militare. È la prima volta che un presidente uscente non consegna la fascia presidenziale al suo successore. Un gesto che mescola indifferenza e disprezzo, che ricorda da vicino quello compiuto da Donald Trump nei confronti di Joe Biden nella caotica transizione di potere negli Usa del 2020, e prima ancora quello di Cristina Kirchner con Mauricio Macri in Argentina.
Programma e uomini (e donne)
Battersi contro la povertà, le disuguaglianze e l’indebolimento dello stato sociale con delle misure economiche inclusive è il progetto dell’agenda Lula. Per farlo, il rappresentante del Partido dos trabalhadores ha costruito una squadra di governo composta da 37 ministri – annunciati questa settimana – in linea con questa mission. Per la prima volta, nella squadra ci sono 11 donne, la presenza femminile più grande di sempre. Tra queste: Sonia Guajajara, l’attivista indigena che guiderà il dicastero per i popoli originari e Marina Silva all’Ambiente, ecologista tra le più note in ambito latinoamericano, che dovrà fare i conti con la tutela dell’Amazzonia dove la deforestazione ha raggiunto livelli preoccupanti a causa delle decisioni prese dall’ex amministrazione bolsonarista.
(da La Repubblica)
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Gennaio 1st, 2023 Riccardo Fucile LA DENUNCIA DI AMNESTY INTERNATIONAL
«Mehdi Zare Ashkzari aveva studiato Farmacia a Bologna. Due anni fa era tornato in Iran, dove ora è morto, dopo 20 giorni di coma a seguito di torture».
A denunciarlo è il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, che ha deciso di diffondere l’allarme ricevuto da un’attivista iraniana.
Mehdi, poco più che 30enne, sarebbe stato rilasciato dalle autorità iraniane dopo diversi pestaggi per evitare che si sentisse male mentre era in cella. Ma il giovane sarebbe entrato subito dopo in coma, che lo ha condotto dopo circa tre settimane alla morte.
Secondo la testimonianza di Noury – raccolta dal quotidiano Domani – Ashkzari era stato fermato durante le proteste a Teheran, scoppiate nel Paese a settembre 2022 dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne curda uccisa perché non indossava correttamente il velo.
I manifestanti iraniani, nonostante la repressione violenta delle autorità locali, non hanno mai smesso di esprimere il proprio dissenso. «Il fatto che le impiccagioni si siano fermate, e che in almeno un caso ci sia stato un annullamento della condanna con il ritorno del dossier a un tribunale di primo grado, è il segnale che è in corso una valutazione», assicura il portavoce italiano di Amnesty. La sospensione delle esecuzioni, però, «non è ufficiale, e ci sono 26 persone attualmente nel braccio della morte».
Il dolore di Patrick Zaki
«Il nuovo anno inizia con questa notizia per darci un avviso sulle violazioni dei diritti umani che si verificano nella regione di Swana e in particolare in Iran. Unibo ha ora una nuova vittima della libertà di espressione. Purtroppo, questa volta, era troppo tardi per salvarlo». A parlare è Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna che venne arrestato il 7 febbraio 2020 al suo rientro in Egitto, poi liberato, e tuttora sotto processo per reati d’opinione.
«Da Bologna mandiamo un pensiero molto forte alla famiglia di Mehdi Zare Ashkzari, torturato e morto in Iran dopo 20 giorni in coma. A tutta quella popolazione che lotta per quella libertà di donne e uomini in Iran. Mandiamo un forte abbraccio di fratellanza e sorellanza alla comunità iraniana che vedo qui», ha dichiarato la vicesindaca di Bologna Emily Clancy, intervenendo sul palco di piazza Nettuno per la marcia della pace. In queste settimane anche il governo italiano ha preso posizione contro la repressione delle manifestazioni in Iran.
(da La Repubblica)
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