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REGIONALI LOMBARDIA, VERSO LO STRAPPO TRA LEGA E BOSSIANI

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

LA TRATTATIVA CON MORATTI APPOGGIATA DA UNA LISTA DI COMITATO NORD

Senza apertura da parte di Attilio Fontana, i bossiani espulsi dalla Lega si preparerebbero a formare una lista autonoma con il simbolo del Comitato nord per appoggiare la candidata del Terzo Polo in Lombardia
Tra Letizia Moratti e il Comitato Nord sarebbe in corso una «trattativa che si chiuderà a giorni», dicono fonti bossiane citate dal Corriere della Sera, e che potrebbe prevedere la formazione di una lista autonoma dei leghisti vicini a Umberto Bossi a sostegno dell’ex vicepresidente della Regione Lombardia.
Le prossime elezioni Regionali sotto il Pirellone rischiano di infiammare ancora di più il fronte leghista, dove sarebbe in corso un vero e proprio strappo interno.
Con la lista Moratti ormai chiusa ieri, 5 gennaio, è arrivata la prima conferma che non ci sono i quattro consiglieri regionali espulsi dalla Lega dopo aver formato un gruppo autonomo.
Esclusa quindi la strada della candidatura singola nella lista civica, resta quella della trattativa per un appoggio di una vera e propria lista a Moratti. Opzione che non piacerebbe a Bossi, ma che avrebbe visto finora i quattro consiglieri al lavoro.
L’ex assessora regionale al Welfare avrebbe «chiesto tempo per eventualmente fare un accordo con i singoli su ogni provincia», per poi non trovare alcuna intesa visto che intanto la lista si è chiusa.
Ma la stessa Moratti «gradirebbe di più la lista a suo supporto» aggiunge il Corriere: un’ipotesi ancora percorribile per quanto con tempi strettissimi, cioè entro martedì. I consiglieri sono invece esentati dalla raccolta delle firme, avendo già un gruppo in Consiglio regionale.
(da agenzie)

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NESSUNO PUO’ VIETARE A UN UOMO DI SOCCORRERNE UN ALTRO: IL DECRETO ONG DI MELONI E’ SOLO PROPAGANDA

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

L’EX SENATORE GREGORIO DE FALCO ANALIZZA GLI EFFETTI DELLE NUOVE REGOLE

Finché non ha raggiunto la soglia di palazzo Chigi, Giorgia Meloni come un disco rotto ha chiesto ossessivamente che fosse imposto un blocco navale, per fermare i migranti.
In realtà, nonostante qualche cattivo consiglio, lei ben sapeva che si trattava solo di propaganda e che lo Stato non può imporre un blocco navale. Per attuarlo, infatti, occorrerebbe essere disposti anche all’uso della forza, nei confronti di persone inermi ed inoffensive. Era solo propaganda, utile da usare, dai banchi dell’opposizione.
Una volta al governo, Meloni è intervenuta sulla materia in modo differente. Dopo le “dolorose” censure politiche e giuridiche, internazionali e nazionali, alla normativa che parte dai decreti sicurezza di Salvini – volti ad interdire la navigazione delle Ong nelle acque territoriali e a sanzionare il Comandante della nave che effettuava un soccorso in mare -, il decreto legge n. 1 del 3 gennaio 2023 ha portato innovazioni piuttosto rilevanti, sia politicamente, che giuridicamente.
Meloni smentisce Salvini
Ai tempi del cosiddetto decreto Salvini bis, l’allora ministro degli Interni sostenne davanti al Senato, di aver trattenuto per giorni e giorni, anche con 40 gradi all’ombra, centinaia di persone a bordo delle varie navi soccorritrici (bloccando anche unità navali della Guardia Costiera), per difendere le coste nazionali. Il nuovo decreto di Meloni contraddice l’impostazione difensiva di Salvini
Viene infatti sgomberato il campo da ogni ipotetico dubbio e si conferma che il fine della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica non regge alla comparazione con la esigenza immediata di assicurare l’incolumità dei naufraghi. Infatti, qualunque pubblica finalità cede dinanzi al preminente diritto alla vita ed alla integrità fisica ed al correlativo dovere dello Stato stesso di assicurare tutela a quei beni.
D’altro lato, però, il governo Meloni ha ritenuto di avere la potestà di estendere, per decreto, la giurisdizione nazionale alle navi straniere nel mare internazionale. In linea con i precedenti governi, l’esecutivo ha perpetuato in materia una tradizione di errori goffi ed imbarazzanti e la norma, evidentemente, non può trovare applicazione.
I nuovi limiti ai soccorsi
Molti autorevoli commentatori ritengono che il nuovo decreto metta un limite astratto e preventivo al numero dei soccorsi effettuabili, quale condizione per considerare “inoffensiva” e quindi ammissibile, la navigazione nelle acque territoriali delle navi ONG. Insomma si ritiene che il testo istituisca l’obbligo del “mono-soccorso”, cioè che il soccorso debba essere occasionale e che una nave che ne abbia effettuato uno, non possa trarre in salvo altri naufraghi.
Una regola siffatta sarebbe giuridicamente aberrante (e quindi da disapplicare), ma soprattutto sarebbe umanamente indecente. Personalmente però nutro qualche dubbio sul fatto che sia questo il reale effetto giuridico della nuova norma. Infatti, nell’imporre alla nave soccorritrice di fare rotta “senza ritardo” verso il porto di sbarco, il decreto non sembra in realtà dire nulla di nuovo, se non confermare come l’esigenza di completare celermente il soccorso sia prioritaria.
Viceversa, non sarebbe ammissibile che si ponesse una deroga implicita, all’obbligo giuridico, sanzionato da norma penale, che vincola gli Stati ad imporre ai comandanti delle proprie navi di prestare soccorso alla vita umana in pericolo in mare. Una normativa convenzionale e quindi di rango superiore alla legge nella gerarchia delle fonti. Il soccorso in mare è un obbligo che non può soffrire alcun limite giuridico predeterminato in astratto, potendo il Comandante fermare la possibile azione di soccorso, solo in caso di grave rischio per la nave soccorritrice, l’equipaggio o per i suoi passeggeri.
Mi conforta che nemmeno il presidente della Repubblica sembra aver ritenuto che effetto del decreto sia l’obbligo del “mono-soccorso”, poiché altrimenti siffatta norma si sarebbe posta in un insanabile ed evidente contrasto con l’articolo 117 della Costituzione ed il Presidente non avrebbe promulgato il decreto o comunque sarebbe intervenuto a riguardo.
Cosa rimane sotto la propaganda
Invece, con la innovazione normativa rimane esplicitamente confermato che, contrariamente a quanto sosteneva il ministro Salvini, il nostro Paese ha la responsabilità del soccorso e del coordinamento in quella zona di mare libero in cui oggi operano le navi umanitarie e si rafforza anche l’obbligo di indicare (senza ritardo) un porto di sbarco, in Italia, e consentire il completamento a terra delle operazioni di soccorso.
I porti della Libia e della Tunisia, ma anche di Malta vanno esclusi, perché, come è noto, i Paesi del Nord Africa non sono in grado di garantire tempestivamente luoghi sicuri di sbarco, mentre Malta non ha mai ratificato gli emendamenti IMO alle Convenzioni Sar e Solas del 2004.
Il governo Meloni aveva già dovuto precipitosamente abbandonare la recente ed imbarazzante tattica degli “sbarchi selettivi”, ideata dal ministro degli Interni, nonché la pretesa di far presentare la domanda di asilo allo Stato di bandiera della nave soccorritrice, tramite lo stesso equipaggio dell’imbarcazione, poiché il Regolamento di Dublino non si applica in mare. La Giurisprudenza ha ben chiarito da tempo che la richiesta d’asilo va presentata dopo lo sbarco nel più vicino “porto sicuro”
Come si vede, anche in questa materia, la complessiva azione politica del Governo si caratterizza per approssimazione, incertezza e contraddittorietà, poiché tenta di nascondere la necessità di doversi adeguare alle censure ricevute in materia, in particolare dalle Corti nazionali ed europee (rivolte anche ai precedenti governi Conte e Draghi), sotto la coltre della solita pervicace e miserevole propaganda politica, fatta sulla pelle di pochi e disgraziati naufraghi.
Al riguardo, è stato ribadito in giudizio che, quando si ha a che fare con persone in pericolo in mare, si tratta di naufraghi, anche qualora la situazione di soccorso sia eventualmente connessa con un fatto migratorio. Inoltre, è il Comandante della nave soccorritrice, l’unica autorità titolata a qualificare la situazione in atto dinnanzi ai suoi occhi in mare, come situazione di pericolo o meno.
Ed è il Comandante che, caso per caso, ha la potestà per stabilire preventivamente, tenendo conto di tutte le circostanze concrete esistenti (condizioni di efficienza della nave, stabilità, carico a bordo, stato e previsioni meteo marine, etc..) quale sia il “numero massimo di naufraghi imbarcabili”, poiché l’obbligo di soccorso alla vita umana in mare prevale sulla normativa tecnica.
Il decreto legge n. 1 del 2023 modificando il c.d. decreto Salvini bis, sembra stabilire le condizioni a cui sottoporre il transito della nave nelle acque territoriali, per considerare quella navigazione inoffensiva ed autorizzare la nave a sbarcare i naufraghi. Ma in realtà è solo fumo negli occhi, è propaganda, in quanto la navigazione di una nave che ha operato un soccorso in mare verso un “posto sicuro” è sempre legittima e deve essere sempre considerata inoffensiva, essendo parte dell’adempimento dell’obbligo (di diritto internazionale, oltre che interno) di salvare la vita umana in mare. Per questo non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione.
L’eccesso di poteri nelle mani del prefetto
Ciò che desta preoccupazione nella nuova normativa è il pregiudizio insito nella circostanza che si individua nel prefetto, l’autorità che dovrebbe verificare, se nell’evento marittimo ricorrano o meno le circostanze che integrano una fattispecie di soccorso alla vita umana in mare. Ma quale competenza, giuridica, tecnica o amministrativa ha il prefetto in ambito marittimo?
E in ogni caso, è un rovesciamento gerarchico assurdo attribuire ad una autorità amministrativa, peraltro assolutamente incompetente per materia, la potestà di limitare diritti ed obblighi, previsti da norme giuridiche di rango costituzionale, che hanno la forza di vincolare lo stesso legislatore e quindi, a maggior ragione le autorità amministrative.
In definitiva, un governo che impedisse il soccorso alla vita di un uomo in pericolo in mare (perché questi non ha avuto la “fortuna” di essere vittima del primo naufragio, su cui interviene la nave soccorritrice), se non assumesse direttamente ed efficacemente la responsabilità del coordinamento o anche dell’esecuzione del soccorso in mare, violerebbe i principi umani e giuridici su cui si basa la stessa delega politica e travalicherebbe quindi i limiti del mandato ricevuto.
Nessuno infatti ha l’autorità per vietare ad un uomo di soccorrerne un altro, tantomeno lo Stato, perché in tal modo, esso giunge al paradosso di rinnegare il proprio fondamento costitutivo, ovvero il principio – umano, prima che giuridico – di solidarietà.
Gregorio De Falco
(da Fanpage)

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I SINDACI CHIEDONO A MATTARELLA: “FERMI L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA”

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

“DETERMINERA’ PROFONDE SPACCATURE IN UN PAESE GIA’ DIVISO DA TROPPO TEMPO”

Cresce di ora in ora e di giorno in giorno – ad oggi sono più di cento – il numero dei sindaci del Sud – di sinistra, di destra, dei 5 Stelle e civici – che in queste ore stanno scrivendo al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, per chiedere di fermare l’Autonomia differenziata.
A comunicarlo sui social è il movimento “Recovery Sud”. La rete di sindaci si dice contraria alla bozza di riforma presentata dal ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, alla Presidenza del Consiglio, peraltro senza prima prevedere un passaggio nella conferenza Stato-Regioni.
“Riteniamo che l’autonomia differenziata possa determinare profonde spaccature in un Paese già diviso da troppo tempo, siamo pronti ad autodenunciarci – si legge nel comunicato dei primi cittadini – affermando che sì, l’autonomia differenziata rischia di spaccare l’Italia e noi siamo molto preoccupati”.
E ancora: “Chiediamo che il ministro dimostri con i fatti la sua volontà di non creare ulteriori fratture ritirando la bozza e aprendosi a un confronto serio con i Comuni per la realizzazione condivisa di riforme che possano portare a una crescita armonica di tutto il Paese, attuando il dettato costituzionale a cominciare dal principio di coesione nazionale”.
Interviene anche Matteo Ricci: “Un Calderoli infastidito e una maggioranza rigida trasformano l’Autonomia in ciò che temevamo: un’altra inutile divisione. Questa riforma spezza l’Italia, dimentica i Comuni e rafforza ulteriormente il centralismo regionale. Fermiamola subito”, dice il sindaco di Pesaro e coordinatore dei sindaci del Pd.
Il presidente della Calabria, il forzista Roberto Occhiuto è il portavoce delle tante riserve sulla riforma del Carroccio che arrivano anche dal centrodestra. Le sue parole sono chiarissime: “Il Sud non si farà fregare”, ha promesso in un’intervista alla Stampa. “Sì all’autonomia differenziata – sottolinea Occhiuto – ma a patto che siano garantiti anche gli obblighi previsti dalla Costituzione. Quindi si deve fare insieme ai Lep e alla perequazione”.
Quindi punta i piedi su un passaggio decisivo, lanciando una sorta di ultimatum al ministro e all’esecutivo: “Se alla fine dell’approfondimento che farà la Cabina di Regia si dovesse confermare la spesa storica, per quel che mi riguarda – ammonisce il governatore azzurro – sarebbe un risultato inaccettabile”.
A nutrire dubbi sulla riforma del Carroccio sono anche i suoi alleati
A nutrire dubbi sulla riforma del Carroccio sono dunque anche i suoi alleati. Da tempo Fratelli d’Italia insiste sull’esigenza di portare avanti “di pari passo”, il nodo dell’autonomia con quello del presidenzialismo. Un atteggiamento dietro il quale la Lega intravede la volontà di frenare. Tanto che Calderoli ha precisato che mentre la riforma presidenziale modifica la Costituzione e dunque richiede più passaggi parlamentari quella dell’Autonomia è tutt’altra storia e dunque legarle non ha senso.
La premier e leader di FdI in realtà teme che il governo e soprattutto il suo partito possano perdere consensi al Sud dove ormai spopola il M5S contrario al ddl leghista. Idem Forza Italia che se è riuscita a reggere l’urto delle elezioni del 25 settembre è stato soprattutto per i favori che ancora ha incontrato nel Mezzogiorno. Le opposizioni, in modo compatto, annunciano le barricate.
Il dem Francesco Boccia attacca il ministro leghista sia nel merito delle sue proposte, sia il metodo scelto per discuterle. “Calderoli ci dica quali risorse ci sono per il Mezzogiorno”. Insomma, è il ragionamento del dirigente pugliese, “prima la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) su scuola, sanità, assistenza e trasporto e poi l’autonomia”. Poi, insiste, chiedendo il coinvolgimento del Parlamento e delle Regioni.
Il leader del M5S, Giuseppe Conte, ha detto che con lo “scellerato progetto di Autonomia” la maggioranza “intende allargare le disuguaglianze che già dividono Nord e Sud del Paese”, “vuole spaccare l’Italia e far correre a due velocità una comunità nazionale che invece nelle difficoltà ha imparato ad essere unita e a tenersi per mano”. Ma a preoccupare Calderoli sono soprattutto i dubbi di Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi.
(da lanotiziagiornale.it)

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PORTABORSE SOTTO ATTACCO, I DEPUTATI FRENANO LA RIFORMA PER TENERSI 1.800 EURO

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

CONTINUA LA BAGARRE SUI DIRITTI DEI PORTABORSE

Prima di Natale l’ufficio di presidenza di Montecitorio aveva cercato di cancellare la delibera firmata da Roberto Fico che garantisce un minimo di diritti ai collaboratori parlamentari, i cosiddetti portaborse.
Così gli onorevoli possono tenersi in tasca 1.800 euro senza problemi. A breve, secondo indiscrezioni, ci sarà un nuovo tentativo di mettere mano alla riforma.
Un nuovo assalto è pronto, dopo il fallito blitz di Natale: l’ufficio di presidenza della Camera non ha abbandonato l’idea di giungere a una modifica della disciplina dei collaboratori parlamentari, i cosiddetti portaborse.
Un modo, da parte degli onorevoli, per fare cassa e tenersi in tasca un bel po’ di risorse, circa 1.800 euro al mese. Ed è ormai diventato un obiettivo dichiarato, in particolare per la maggioranza di centrodestra. Ma con qualche sponda tra le opposizioni. Secondo i rumors l’operazione subirà un’accelerazione al primo appuntamento utile. Dunque alla convocazione dell’ufficio di presidenza, dopo che la lunga riunione di dicembre si è chiusa con un nulla di fatto.
Sfruttamento alla Camera
Ma andiamo con ordine: proprio agli sgoccioli della scorsa legislatura, l’allora presidente della Camera, Roberto Fico, ha mantenuto la promessa di mettere mano alla situazione, che vedeva i collaboratori degli onorevoli spesso sfruttati con contratti senza alcuna tutela e inadeguati. Una condizione ben diversa dall’immagine stereotipata del portaborse che si gode i soldi pubblici. Anche perché, al netto dei casi degli amici piazzati dal deputato di turno, si parla tante volte di professionisti che svolgono un lavoro prezioso, preparando gli emendamenti, scrivendo le interrogazioni e predisponendo le proposte di legge
Insomma, un pezzo importante dell’attività parlamentare.
Ciononostante fino ad agosto i collaboratori non avevano alcun quadro legislativo di riferimento, né un contratto-base. Del resto sono sempre stati considerati una voce – tra cui ci sono gli affitti di locali per eventi, stampa e comunicazione per specifici appuntamenti – delle spese dell’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro, elargiti mensilmente a ogni eletto a Montecitorio. Di questa somma solo la metà va rendicontata, l’altra può essere spesa senza conoscere la destinazione. Chiaro quale sia l’interesse del deputato.
L’accordo sui portaborse
La delibera voluta da Fico, e approvata dall’ufficio di presidenza nell’ultima riunione utile, ha introdotto un minimo garantito: poco meno di 1.700 euro netti al mese, pari al 50 per cento dell’esercizio del mandato. Una cifra che poteva aumentare sulla base dei singoli accordi, fino addirittura al 100 per cento, tutti i 3.690. Una prospettiva utopistica, ma contemplata.
E soprattutto la riforma ha fatto in modo che non fosse più il parlamentare a pagare materialmente lo stipendio, bensì la Camera diventata sostituto di imposta, per garantire la puntualità nella corresponsione dello stipendio.
Un cambiamento salutato con favore dall’Aicp, l’Associazione italiana collaboratori parlamentari, che da anni si era battuta per una regolamentazione più chiara. Non era il “modello Europarlamento” da sempre richiesto, ma un un passo in avanti.
Solo che, al momento dell’applicazione, è scattato una sorta di sabotaggio di massa. In totale, infatti, sono stati circa 70 i contratti sottoscritti su un un numero di 400 deputati. Meno di un quarto, insomma. Meno di mille euro al mese
La ragione di tanta prudenza è emersa gradualmente: in molti attendevano una revisione, ossia una sostanziale cancellazione della delibera Fico, per tornare al passato. E avere mano libera negli accordi con i collaboratori.
A dicembre, infatti, in ufficio di presidenza è approdata una proposta che ha fatto insorgere l’Aicp. La possibilità di fare contratti al 25 per cento dell’esercizio del mandato. Questo significa sottoscrivere accordi da meno di mille euro. Proprio nel Palazzo in cui tante volte si parla di diritti dei lavoratori.
Scatenando l’ira dell’Aicp che ha polemizzato sull’approccio del presidente della Camera, Lorenzo Fontana, che non ha avviato una «riflessione su come assicurare un miglior funzionamento dell’istituzione parlamentare a partire dalla dotazione per gli staff» e non ha avanzato delle proposte nemmeno «sulle revolving-door degli ex-parlamentari o sulla qualità delle regole sui portatori d’interesse adottate». E invece ha avallato l’ipotesi di colpire i diritti acquisiti, di recente, dai collaboratori parlamentari. Un affondo che a breve dovrebbe ripartire.
(da true-news.it)

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DAI TRASPORTI ALLA TV, TUTTI I BONUS CANCELLATI DAL GOVERNO MELONI

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

ADDIO ALLE MISURE DEL GOVERNO DRAGHI

Il 2023 si apre con diversi bonus in meno.
L’aiuto una tantum in busta paga (da 200 e poi da 150 euro) è saltato, il bonus tv non è stato rinnovato, il bonus facciate non esiste più così come il bonus trasporti.
Il governo Meloni ha deciso di cancellare una serie di misure che si traducevano in uno sconto diretto per i consumatori.
Come sottolinea Money.it, l’esecutivo ha cancellato alcuni bonus per il 2023, decidendo di tagliare sconti e aiuti di cui milioni di italiani hanno beneficiato negli ultimi mesi.
È il caso sicuramente del taglio delle accise sui carburanti: il prezzo di benzina e diesel, dal primo gennaio 2023, è salito di circa 20 centesimi al litro.
Non sono stati rinnovati i bonus in busta paga: né quello da 200 euro per i redditi inferiori a 35mila euro né quello da 150 euro per chi guadagna meno di 20mila euro, entrambe misure una tantum introdotte dal governo Draghi contro la crisi energetica. Non è stato rinnovato neanche il bonus trasporti da 60 euro per gli abbonamenti di autobus e metropolitane.§
Per quanto riguarda il settore edilizio, nel 2023 non ci sarà più il bonus facciate, mentre il Superbonus viene ridotto dal 110% al 90%. Infine niente proroga per i due bonus tv: salta sia il contributo da 50 euro (legato all’Isee) per acquistare televisori e decoder abilitati per il nuovo digitale terrestre sia quello fino a 100 euro per chi rottamava un vecchio apparecchio.
(da agenzie)

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INFILTRAZIONI, TAPPETI DIVELTI E QUADRI MANCANTI

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

ECCO COME BOLSONARO HA LASCIATO IL PALAZZO PRESIDENZIALE DI BRASILIA PIENO DI DANNI

Ferito nell’orgoglio per la sconfitta di misura alle ultime elezioni presidenziali in Brasile, Jair Bolsonaro non ha scatenato i suoi contro il rieletto Lula, come fece due anni fa negli Usa Donald Trump con Joe Biden, ma come il suo amico e modello americano ha disertato platealmente la cerimonia d’insediamento del successore, svoltasi domenica 1° gennaio.
Ma non è stato l’unico sgarbo del presidente uscente nei confronti di Lula, si apprende ora.
La catena televisiva brasiliana GloboNews ha infatti testimoniato lo stato in cui Bolsonaro ha lasciato l’Alvorada, il palazzo presidenziale di Brasilia. Deteriorato.
A invitare la giornalista Natuza Nery a vedere la situazione coi suoi occhi è stata la first lady, Janja Lula da Silva, che ha raccontato lo stupore provato da lei e dal marito una volta rientrati nel palazzo, dove avevano già vissuto per sette anni, dal 2003 al 2010, durante i primi due mandati di Lula alla guida del Brasile.
L’Alvorada è considerato uno dei capolavori dell’architetto brasiliano Oscar Niemeyer (scomparso nel 2012), che negli anni ’50 del 1900 progettò e poi guidò la costruzione della nuova capitale del Paese, Brasilia.
Danni collaterali
La signora Lula ha detto a GloboNews di voler riaprire presto alle visite la parte pubblica del Palazzo. Ma non prima che saranno stati eseguiti i necessari lavori di riparazione.
Nelle sale dell’Alvorada, infatti, gli anni di Bolsonaro hanno lasciato in eredità tappeti divelti, divani rovinati, infiltrazioni ai muri e finestre danneggiate.
Non solo: secondo le prime verifiche della famiglia e dello staff di Lula, dalle pareti del palazzo mancherebbero all’appello alcune opere d’arte. Mentre altre di quelle presenti nel salone di Stato, una sala per le riunione ufficiali della presidenza, appaiono danneggiate dalla luce del sole. E nello stesso ambiente il pavimento appare rovinato in più punti. Un vero disastro.
Ecco perché Lula, quando ha rimesso piede nel palazzo questo venerdì, è rimasto «scosso», ha ammesso la first lady. Anche per una delusione tutta personale: durante gli anni della sua presidenza, l’ex sindacalista aveva piantato un mandacaru, una specie di cactus tipica del Brasile, che sarebbe dovuto crescere negli anni. Ma tornato all’Alvorada, Lula non lo ha più ritrovato: l’albero è stato nel frattempo rimosso sotto la presidenza di Bolsonaro.
Per mettere una pezza, anzi parecchie, allo stato disastroso del palazzo, i signori Lula si apprestano dunque a iniziare lavori di riparazione e restauro degli ambienti. E il trasloco, almeno per il momento, è così gioco forza rimandato.
(da Open)

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POLTRONE PER EX ULTRA’ E TROMBATI: NEI MINISTERI LA FALANGE DEI CONSULENTI

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

DA CHI HA DASPO SPORTIVI ALL’EX FINIANO BRIGUGLIO

La corsa è molto più silenziosa di quella alle poltrone di comando dei dipartimenti dei ministeri. In palio in questo caso ci sono poltroncine di minor peso, ma comunque fondamentali per avere un ruolo nel sottogoverno: che per molti significa restare ancora in vita, politicamente parlando. In queste ore si stanno completando le nomine degli staff, degli esperti e dei consulenti dei componenti del governo Meloni.
E i telefoni dei ministri sono incandescenti anche perché compulsati da una pletora di non ricandidati alle elezioni, non eletti o di politici che invece dalla provincia vogliono fare il grande salto nei palazzi romani del potere. In molti hanno raggiungo il traguardo, entrando a buon titolo a fare parte della falange dei gabinettisti e assistenti ministeriali. E tra questi non mancano anche nuovi arrivi con un passato a dir poco turbolento e di destra destra, il fronte che sembra andare per la maggiore di questi tempi.
Un gran movimento si registra al ministero delle Imprese e del made in italy guidato da Adolfo Urso: appena nominato consulente ai rapporti con associazioni imprenditoriali e categorie professionali Umberto Formosa, già segretario particolare dell’ex sindaco di Verona Federico Sboarina di Fratelli d’Italia. Quando venne nominato al Comune di Verona saltarono fuori diversi articoli sul suo passato, tra daspo sportivi e un soprannome non proprio da educando, “il picchiatore”.
Urso come capo di gabinetto ha poi nominato Federico Eichberg, che già aveva svolto il ruolo di suo capo della segreteria tecnica allo Sviluppo economico quando era viceministro nell’ultimo governo Berlusconi. Eichberg è stato anche “direttore relazioni internazionali” della Fondazione Fare futuro, di cui il ministro Urso è presidente. Per il ruolo di consigliere politico in pole Giuseppe Scalia, ex deputato finiano che da anni ha lasciato la politica attiva per lavorare con il banchiere Francesco Maiolini.
Sempre in area Fratelli d’Italia il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida nel suo staff ha indicato Maria Modaffari, già componente commissione nazionale disciplina FdI, e Sergio Marchi ex assessore comunale a Roma in quota di Fratelli d’Italia. Il ministro della Protezione civile e del mare Nello Musumeci ha nominato come responsabile comunicazione del ministero un altro ex deputato finiano, Carmelo Briguglio.
Il ministro dei Beni culturali Gennaro Sangiuliano ha scelto come capo della segreteria Emanuele Merlino, dal 2019 coordinatore cultura di Fratelli d’Italia nel Lazio: nomina che ha sollevato polemiche perché il ministero ha un ruolo nella desecretazione degli atti delle stragi del terrorismo nero, ed Emanuele è figlio di Mario, esponente di Avanguardia Nazionale e poi fondatore del circolo anarchico XXII Marzo in cui militava Pietro Valpreda.
C’è poi chi avrà un doppio ruolo: non solo da deputato ma anche da consulente esperto di un ministro, come Gianluca Caramanna, eletto alla Camera nelle liste di Fratelli d’Italia e scelto come consulente dalla ministra Daniela Santanché.
Forza Italia ha avuto un bel da fare a rimpiazzare non eletti o non candidati. Cosi l’ex senatrice Roberta Toffanin andrà a fare l’esperta economica del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, l’ex senatrice Maria Alessandra Gallone sarà incardinata al ministero dell’Università e della ricerca con Anna Maria Bernini.
Mentre l’ex senatore Sestino Giacomoni andrà nello staff del ministro degli Esteri Antonio Tajani. Attende a breve conferma di un incarico l’ex senatore Marco Perosino. Sempre tra gli azzurri Luciana Scalzi, ex consigliera regionale in Campania in area Nicola Cosentino, è stata nominata consulente al Turismo da Daniela Santanché.
L’ex deputata forzista e non ricandidata Giusi Bartolozzi, passata in zona Terzo Polo, è stata incardinata come vice capo di gabinetto del ministro della Giustizia Carlo Nordio: proprio lei ha propiziato un incontro tra il leader di Azione e il Guardasigilli che vorrebbe affiancarle un secondo vice, il magistrato Gianluca Massaro.
Nordio ha già firmato la richiesta per mettere fuori ruolo Massaro, anche se in casa Lega hanno fatto notare che è stato già braccio destro del ministro 5 stelle Alfonso Bonafede.
Sul fronte Lega Matteo Salvini nello staff al ministero delle Infrastrutture ha voluto come segretario Daniele Bertana, il nuovo curatore dei social della “bestia” dopo l’addio di Luca Morisi.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha invece nominato come suo consigliere Enrico Zanetti, viceministro nello stesso dicastero nel 2016 con il governo Renzi. Il sottosegretario all’Agricoltura in quota Lega Luigi D’Eramo ha scelto come segretario Luca Danaschi, già responsabile della campagna elettorale Lega in Abruzzo alle Politiche. Uno di quelli che prova via ministero a fare il grande salto nella politica nazionale.
(da La Repubblica)

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VLADIMIR PACIFISTA NON INGANNA PIÙ NESSUNO: PUTIN CHIEDE TREGUA PER SE STESSO

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

LA RICHIESTA DI “MAD VLAD” DI UN CESSATE IL FUOCO DI 36 ORE PER IL NATALE ORTODOSSO POTREBBE ESSERE UN TENTATIVO MALDESTRO DI EVITARE UNA NUOVA STRAGE DI SOLDATI

«Non si può nemmeno parlare di una tregua!». È forse la prima volta che i soldati di Putin gli disobbediscono così apertamente, e il fatto che a esplicitare il disaccordo con la proposta di un cessate il fuoco sia proprio un uomo totalmente dipendente dal Cremlino come il governatore dei territori occupati della regione di Donetsk Denis Pushilin è sintomo di qualcosa che si sta incrinando nella piramide del potere russo.
Il presidente diventa improvvisamente “pacifista”, e perfino il suo portavoce Dmitry Peskov sceglie di dare un’altra chance alla tregua rifiutata dai funzionari di Kyiv, mettendo in dubbio che «sia una decisione di Zelensky». Ma a rispondere, ancora prima del presidente, è il popolo dei fedelissimi putiniani, gli “inviati di guerra”, i blogger nazionalisti, i troll manovrati nelle chat delle “vedove dei soldati” e delle “madri del Donbass”, che urlano tutti al «tradimento», al pericolo di «un nuovo accordo di Minsk», parlano di «follia» e si permettono addirittura di considerare l’ordine del presidente di far tacere i cannoni per 36 ore una “fake news”.
Se l’obiettivo di Vladimir Putin era mostrarsi un comandante supremo moderato e dialogante, oltre che un credente che fa un gesto di buona volontà prestando ascolto all’appello di pace del capo della chiesa russa, è proprio la sua base di fedelissimi “dio, patria e famiglia” ad affondare l’idea ancora prima della controparte ucraina, e mentre il patriarca Kirill propone una tregua di Natale in un «conflitto interno al nostro popolo», Pushilin non ha dubbi: «I leader dell’Ucraina non possono essere considerati ortodossi».
I russi considerano dunque la guerra ora anche religiosa, dopo che il governo di Kyiv ha tolto alla chiesa di Mosca l’usufrutto della cattedrale dell’Assunzione, il santuario centrale del leggendario monastero delle Grotte, dove la liturgia del Natale ortodosso verrà officiata oggi dal capo della chiesa ortodossa nazionale ucraina. Resta da capire se Putin abbia lanciato la proposta di tregua come una provocazione, per poi addossare agli ucraini la colpa della sua violazione, o se veramente sognava le 36 ore di cessate il fuoco come una “boccata di ossigeno”, come crede Joe Biden.
L’esordio dell’anno sul fronte è stato tumultuoso per i russi: al massacro di centinaia neocoscritti a Makiivka, nei primi secondi dell’anno nuovo, si sono aggiunti già altri due attacchi mirati alle caserme russe nei territori occupati, con altre decine di soldati morti ancora prima di prendere in mano il fucile.
La rabbia per la clamorosa incompetenza dei militari ha fatto ripartire la girandola di voci moscovite su un imminente cambio al vertice del ministero della Difesa e dello Stato Maggiore, e non è escluso che la proposta di tregua sia anche un tentativo degli esperti di immagine del Cremlino di evitare di aggiungere a una «carneficina di Capodanno» anche una «carneficina di Natale».
Inoltre, sempre più commentatori russi insistevano per una apparizione del presidente al fronte, e la goffa smentita del solito Peskov – «non siamo a conoscenza dei presunti piani di Putin di visitare Donetsk a Natale» – fa pensare che la tregua poteva essere funzionale a creare una finestra di sicurezza per una photo opportunity di Putin in stile Zelensky.
Che la Russia abbia bisogno di una “boccata di ossigeno” è evidente, ed è curioso che la proposta di tregua unilaterale sia venuta fuori nella telefonata di Recep Tayyip Erdogan con Putin, mentre a quanto pare, non se ne è fatta menzione nella successiva conversazione del leader turco con il presidente ucraino, al quale Ankara ha invece promesso una cinquantina di nuovi blindati.
Quasi contemporaneamente anche gli Usa e la Germania hanno annunciato l’invio di altri mezzi militari e missili antiaerei, e la reazione della diplomazia internazionale all’apertura di Putin è stata molto tiepida. È possibile che sia stato proprio Erdogan a insistere con il collega russo per un gesto di buona volontà, dopo che le ripetute ondate di missili e droni russi su Kyiv e altre città ucraine avevano semmai mostrato una totale indifferenza di Mosca verso gli aspetti umanitari e umani della guerra.
Anche l’ennesimo post minaccioso dell’ex presidente Dmitry Medvedev, che ieri ha definito la fregata russa con i missili Zirkon partita verso gli Usa come «il miglior regalo di Capodanno alla Nato» (e promesso di «usare solo il linguaggio della forza e delle armi»), sembra in netto contrasto con l’improvviso “pacifismo” putiniano. Ma anche se Putin avesse deciso veramente per una svolta, scopre ora che aver scommesso, consapevolmente e ripetutamente, sulle correnti più estreme e le retoriche più irriducibili, gli toglie spazio di manovra. Per essere convincente, un cambio di rotta a questo punto deve essere anche un cambio di sostanza del regime.
(da “La Stampa”)

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FINALMENTE SIAMO TORNATI ALLE VECCHIE ABITUDINI: L’ITALIA IN FONDO ALLA CLASSIFICA

Gennaio 6th, 2023 Riccardo Fucile

INFLAZIONE: LE STIME DELL’ISTAT PARLANO DI UNA CRESCITA DELL’11,6%, CONTRO IL 5,9 DELLA FRANCIA E L’8,6 DELLA GERMANIA

L’inflazione in Italia a dicembre rallenta. Ma molto meno che negli altri principali Paesi europei. E questo complica il sentiero di politica economica sempre più stretto fra le esigenze contrapposte di non far mancare il sostegno a imprese e famiglie e di non deviare dalla prospettiva di contenimento di un deficit oggi molto più caro rispetto agli ultimi anni. Ma partiamo dai dati.
Nei numeri delle stime preliminari diffuse ieri mattina dall’Istat l’indice nazionale dei prezzi al consumo al lordo dei tabacchi è cresciuto nell’ultimo mese del 2022 dello 0,3%, attestando la crescita all’11,6%.
A novembre quest’ ultimo dato era all’11,8%. La frenata è tutta qui, ed è molto più contenuta rispetto per esempio a quella registrata in Francia, dove la variazione mensile è stata addirittura negativa (-0,1%) e la dinamica annuale ha fatto quindi registrare un +5,9% contro il +6,2% di novembre; ma simile è la situazione in Germania, dove le cifre di dicembre hanno fermato il tendenziale 2022 all’8,6%, cioè drasticamente più in basso rispetto al +10% indicato a novembre. Tra i grandi della Ue, insomma, la corsa dei prezzi continua solo in Italia. Come mai?
La spiegazione è nella maggior incidenza della componente energetica, che da noi pesa di più rispetto alla Francia in termini di importazioni e rispetto alla Germania in termini di ricadute fiscali. Anche in questo caso i numeri italiani sono da record.
Chi è a caccia di notizie positive può considerare che il +64,7% registrato dall’energia a dicembre è comunque inferiore al +67,6% del mese precedente: frena un po’ di più la parte non regolamentata, che passa dal +69,9% di novembre al +63,3% di dicembre, mentre quella regolamentata va in direzione contraria passando dal +57,9% al +70,3%. Ma in Germania, Paese che condivide con noi i tassi da primato nella dipendenza dalle importazioni, lo stesso dato si è fermato a dicembre al +37,9% (+42,3% il gas naturale).
Se l’energia è la madre dell’inflazione, i suoi figli crescono in tutti i settori, con tempi diversi a seconda della velocità di trasmissione dei prezzi. Per questa ragione il cosiddetto carrello della spesa, composto dai beni alimentari, per la cura della casa e della persona resta quasi invariato al +12,6% (era +12,7% il mese scorso).
E per le stesse motivazioni ci sono acquisti che non partecipano del pur modesto rallentamento dell’indice generale: oltre agli energetici regolamentati (+7,9% rispetto a novembre), è il caso dei servizi influenzati dai fattori stagionali come quelli ricreativi, culturali e per la cura della persona (+1,4%) o i trasporti (+1,1%), ma spingono al rialzo anche i beni alimentari lavorati (+0,8%) e gli altri beni (+0,6%).
La pioggia delle cifre congiunturali parla chiaro. Ma non deve distrarre dai numeri più importanti, spesso trascurati dal dibattito italiano, che sono quelli strutturali
Il primo è rappresentato dalla media annua dell’indice dei prezzi al consumo: che nella stima preliminare sul 2022 si attesta all’8,1%, tasso più alto dal 1985. E più alto, per esempio, rispetto al 7,3% che guida oggi l’indicizzazione delle pensioni.
Con la conseguenza che la spesa pensionistica, già prevista in crescita di 22,3 miliardi (+7,5%) nel 2023, aumenterà ulteriormente per il conguaglio che a novembre dovrà adeguare gli assegni all’inflazione effettiva (indice Foi).
A volare è anche l’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato che dovrebbe misurare per esempio gli aumenti retributivi nei contratti del pubblico impiego: la sua variazione media annua nel 2022 è dell’8,7% (l’ultima stima ufficiale del governo era 5,8% nel Def di aprile), con una variazione complessiva su base annua del 12,3%: una dinamica del genere farebbe salire sopra i 24 miliardi il costo complessivo dei contratti 2022/24, anche mantenendo per il 2023 e 2024 le stime ormai irrealistiche (rispettivamente +2,1% e +1,8%) scritte nei documenti di finanza pubblica.
Già, perché l’altro problema strutturale confermato dai numeri Istat di ieri è l’effetto trascinamento su quest’ anno. L’inflazione già acquisita, quella cioè che si registrerebbe a fine 2023 anche se per magia i prezzi si congelassero a partire da gennaio, è del 5,1%, cioè 2,8 volte il +1,8% che il 2022 ha ereditato dalle fiammate iniziate nella seconda metà dell’anno precedente. Ma in economia le magie non esistono e i prezzi non sono destinati a fermarsi in fretta: a gennaio, per esempio, si registrerà anche l’impatto del ritorno pieno delle accise sui carburanti. Altra benzina nel motore dell’inflazione.
(da il Sole 24 Ore)

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