Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile COME PER INCANTO, L’EUROPA È DIVENTATA PER MELONI UN INTERLOCUTORE CON CUI DIALOGARE VOLENTIERI… LA MELONI DI UN TEMPO SVANISCE E AL SUO VOLTO SI SOVRAPPONE QUELLO DI DRAGHI
E se l’underdog fosse già diventato il watchdog dell’Europa? Tanto per restare
all’anglicismo scelto da Giorgia Meloni il giorno della fiducia in Parlamento: la sfavorita che diventa il cane da guardia dei conti e degli equilibri di Bruxelles.
A ripercorrere i primi cento giorni del governo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia, che cadranno il 30 gennaio, la parabola sembrerebbe proprio questa. Nulla di nuovo. Tutto già visto in Italia. Dove la marcia in più di chi entra nel palazzo di governo è la retromarcia, e i fiammeggianti propositi di quando si è all’opposizione si spengono, uno dopo l’altro.
Questi cento giorni di giravolte e ripensamenti cominciano con un battesimo speciale, sulla giustizia. Sull’ergastolo ostativo. Durante il governo Draghi, Meloni si oppose al compromesso raggiunto dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Troppo poco, disse, astenendosi al momento del voto: troppo poco per chi a destra aveva fondato la propria storia sull’emozione di rabbia provata di fronte alla strage mafiosa di Capaci. Passano pochi mesi, passano le elezioni, Meloni siede a Palazzo Chigi.
Prima conferenza stampa, primo passo indietro. Il governo di FdI dà il via libera alla riformulazione dell’ergastolo ostativo che FdI aveva respinto. Lo fa per scelta obbligata, per fretta: dopo pochi giorni sarebbe scaduta la tagliola imposta al Parlamento dalla Consulta. È solo l’inizio.
La sovranista Meloni che non voleva le trivelle nei mari d’Italia («un regalo alle lobby») è diventata la principale sostenitrice del gas patrio già durante il discorso programmatico
Come per le accise sulla benzina. Gli archivi ai tempi dei social sono impietosi. Spunta un video del 2019 in cui la futura premier si faceva beffe delle vecchie imposte risalenti anche a 70 anni fa, promettendo un taglio netto una volta che FdI avrebbe conquistato il governo.
Anche nel programma con cui il partito si lancia verso la vittoria del 2022 è scritto che il taglio ci sarà. Condizionato a maggiori entrate, ma ci sarà. E invece: lo sconto previsto da Draghi sulle accise va a scadenza al 31 dicembre e non viene rinnovato.
La risposta è quella di prima. Il contesto: «Non sfugge ai più che il mondo è cambiato rispetto al 2019 e stiamo affrontando una situazione emergenziale. Io non ho promesso di tagliare le accise sulla benzina in questa campagna elettorale perché sapevo in che situazione mi sarei trovata».
Il caso più eclatante è la norma sul limite all’utilizzo obbligatorio del Pos. La destra lo vuole portare a 60 euro. E annuncia che lo farà in manovra. Un’enormità che secondo la Commissione europea rischia di vanificare la lotta all’evasione, prevista come obiettivo del Pnrr.
Bruxelles soffoca la norma sul nascere, ma questo non impedisce a Meloni di scatenare il sempre vigile e fidato Fazzolari contro Bankitalia, accusata di favorire le speculazioni delle banche. Fino alla capitolazione.
Nel rapporto con l’Europa c’è un po’ il senso della svolta che sta tentando Meloni, da fiera erede della fiamma post-fascista a conservatrice del nuovo Millennio. Non urla più contro l’Unione europea dei «burocrati franco-tedeschi» che schiacciano il tacco sulla debole Italia. L’amore per l’autocrate di Budapest Viktor Orban si è un po’ appannato. Sceglie Bruxelles e le istituzioni europee per la sua prima visita ufficiale, e non le capitali dei duri di Visegrad. Entrata a Palazzo Chigi, Meloni ha scoperto quanto sia necessario muoversi lungo l’asse Parigi-Berlino.
Come per incanto, l’Europa è diventata per Meloni un interlocutore con cui dialogare volentieri, senza avventurarsi sull’extradeficit come qualche tempo fa, non troppo tempo fa, prometteva di fare. Il sovranismo ha trovato la sua nemesi e il suo paradosso. Oggi è la Germania a chiedere meno vincoli sugli aiuti di Stato alle imprese, e l’Italia cerca alleati per strutturare un nuovo fondo sul modello del Recovery contro la pandemia, e non restare impiccata al proprio debito.
Con l’Europa Meloni – un tempo anche no-euro – si deve rimangiare tutto o quasi.Il blocco navale per fermare il flusso dei migranti è già diventato altro. Ora tocca al Mes e alle concessioni balneari. Basta inserire una delle due parole online per imbattersi facilmente nella gemella sovranista di Meloni.
Nella costruzione del Grande Nemico, in questi anni, la leader ha avuto una certa predilezione per la grande finanza internazionale, per George Soros, immancabile bersaglio, per i banchieri che avrebbero allungato gli artigli «sull’oro del popolo italiano».
Ebbene, come nuovo direttore generale del Tesoro ha scelto Riccardo Barbieri Hermitte, una carriera passata tra J. P. Morgan, Morgan Stanley e Merril Lynch. Segno che anche sulle nomine non c’è stata una polverizzazione delle relazioni di sistema, e i profili vengono scelti sempre con un occhio rassicurante rivolto all’Ue.
La politica italiana è un romanzo di realismo magico. Nello specchio in cui la leader si riflette, Meloni di un tempo svanisce e al suo volto si sovrappone quello di Draghi, confondendosi in esso. «Cara Europa, la pacchia è finita», disse la futura premier in campagna elettorale, e lo fece un po’per risvegliare le pulsioni di un tempo. Ma sapeva già che a Bruxelles stavano pensando la stessa cosa, riferendosi a lei.
(da La Stampa)
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Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile L’IRA DI ANKARA: “QUESTA NON E’ LIBERTA’ DI PENSIERO”
Dura condanna da parte del ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu dopo che in Svezia questo pomeriggio il leader del partito Stram Kurs di estrema destra, Rasmus Paludan, ha bruciato il Corano proprio di fronte all’ambasciata turca.
“Nonostante tutti gli avvertimenti arrivati dal nostro Paese, oggi il nostro libro sacro, il Corano, è stato attaccato in maniera volgare. Un attacco che condanniamo con la più assoluta fermezza. Si fa passare sotto il nome di libertà di espressione una manifestazione apertamente provocatoria e razzista, che prende di mira l’Islam e i nostri valori. Siamo dinanzi a un crimine d’odio che mostra ancora uno volta il clima di islamofobia raggiunto in Europa”, si legge nel comunicato.
In precedenza il ministro degli Esteri turco aveva rimproverato le autorità svedesi per aver concesso il permesso di manifestare al leader di estrema destra che, aveva ricordato, si era già reso protagonista di gesti simili lo scorso aprile, causando ore di scontri e tensioni.
“In Svezia questo tipo di malsane manifestazioni hanno luogo, il Corano e l’Islam sono stati ingiuriati già in passato. Si tratta di una manifestazione che è sia un crimine d’odio che una dimostrazione di razzismo che viene fatta passare come libertà di manifestazione. Tuttavia succede solo con il Corano, non con gli altri testi sacri di altre religioni”, ha rincarato la dose il capo della diplomazia di Ankara.
L’annuncio della manifestazione e del permesso accordato aveva già causato la convocazione nella tarda serata di ieri dell’ambasciatore svedese ad Ankara, Staffan Herrstrom, presentatosi presso il ministero degli Esteri di Ankara per la seconda volta in una settimana.
L’11 gennaio infatti una manifestazione a Stoccolma aveva mandato su tutte le furie la Turchia. Durante il corteo era stato appeso a testa in giù un manichino del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
E come diretta conseguenza oggi il ministro della Difesa turco ha annunciato la cancellazione della prevista visita ad Ankara dell’omologo svedese Pal Jonson. “Abbiamo raggiunto una fase in cui non vi è importanza né senso nella visita di Jonson in Turchia il 27 gennaio. Pertanto, abbiamo annullato la visita”, ha detto Hulusi Akar. Jonson avrebbe dovuto discutere con Akar della richiesta di adesione alla Nato di Stoccolma, che deve ancora essere avallata dalla Turchia.
Le polemiche chiaramente pesano sul futuro dell’allargamento Nato e sul rispetto dell’intesa siglata da Turchia, Svezia e Finlandia lo scorso giugno a Madrid. Un protocollo in cui i due Paesi scandinavi, aspiranti membri Nato, per convincere Erdogan a togliere il veto all’allargamento hanno promesso non solo l’estradizione di alcune persone accusate di terrorismo dalla Turchia, ma anche di vietare manifestazioni di sostegno ai curdi del Pkk/Ypg e raccolte fondi a favore dei separatisti curdi. Dall’eventuale via libera di Ankara dipende l’ingresso della Svezia nella Nato.
Anche il leader dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu, probabile sfidante del presidente Erdoğan alle prossime elezioni, ha definito “fascista” e “disumano” il rogo del Corano.
“Sappiamo bene che l’obiettivo è mancare di rispetto e far male a miliardi di musulmani. Condanniamo questo picco di fascismo che rappresenta un crimine d’odio”, ha detto Kılıçdaroğlu, leader del partito repubblicano Chp, principale forza della coalizione di sei partiti che sfiderà Erdogan nelle elezioni previste il 14 maggio 2023.
(da agenzie)
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Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile IN AUMENTO DEL 22% RISPETTO ALL’ANNO PRECEDENTE… ANCHE I LICENZIAMENTI SONO CRESCIUTI DEL 44%
Le dimissioni in Italia 2022 rappresentano un record, visto poche volte in
precedenza. È questo il concetto che filtra conseguentemente alla nota trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. Gli italiani sembrano avere più ‘coraggio’ sotto questo punto di vista: stiamo parlando di un fenomeno che evidenzia 1.66 milioni di dimissioni nei primi nove mesi del 2022, per un aumento – rispetto allo stesso periodo del 2021 – del 22%, quando il numero di dimissioni si era fermato a quota 1.36 milioni.
C’è anche da dire che il terzo trimestre 2022 risulta essere superiore solo del 6.6% rispetto al terzo trimestre 2021.
Il periodo post-covid ha certamente portato aria di cambiamento anche rispetto alle scelte degli italiani che – oggi – chiedono più flessibilità lavorativa, con maggior accesso allo strumento dello smart working. La nota del ministero del Lavoro sottolinea, poi, che tra le cessazioni dei rapporti di lavoro, le dimissioni sono al secondo posto, dietro solo ai contratti a termine.
Queste le parole del segretario confederale della Cisl, Giulio Romani, il quale ha provato ad indicare i motivi che hanno portato gli italiani a dimettersi con più frequenza e meno paura: “Il fenomeno delle dimissioni volontarie che, apparentemente in contraddizione con l’alto tasso di disoccupazione, continua a crescere nel nostro Paese, e ci interroga profondamente sul cambiamento del mercato del lavoro indotto anche dal periodo di riflessione consentito dal lockdown durante la pandemia. Le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro risulterebbero essere una minoranza, non casualmente le stesse, per classe dimensionale (da 10 a 250 dipendenti) e modelli organizzativi, in cui la produttività risulta particolarmente elevata, la più alta d’Europa.”
Infine, resta da sottolineare anche un aumento dei licenziamenti: nei primi 9 mesi del 2022 ci sono stati 557mila tagli. Un aumento vertiginoso (47%) rispetto allo stesso periodo del 2021, quando si erano registrati 379.000 licenziamenti.
(da Tag24)
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Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile LA CALUNNIA E LA DIFFAMAZIONE E’ ASSURTA A MODELLO GIORNALISTICO PER DISTRUGGERE IL PROSSIMO
Tutto ciò lo dico a quattro giorni dall’intervista pubblicata mercoledì su Quotidiano Nazionale, un’intervista che suo malgrado ha avuto l’effetto di innescare una reazione a catena che ha trascinato Giuseppina Giugliano, una collaboratrice scolastica di 29 anni di Napoli, assunta a tempo indeterminato al liceo artistico Boccioni di Milano (dove lavora dal 2021), in un tritacarne vergognoso.
La colpa di Giugliano? “Essere una bugiarda”. Così ha sentenziato il tribunale del popolo. Così la sua condanna è stata cavalcata, rilanciata, rimasticata e rigurgitata. Del resto è molto facile prendersela con chi non ha mezzi per difendersi.
Ripercorriamo allora la vicenda, perché la sua abnormità può essere utile a capire quale sia, tristemente, il mondo in cui ci troviamo.
Giuseppina Giugliano racconta, nell’intervista, che il suo stipendio da 1.165 euro al mese non le consente di vivere in una città come Milano e che – conti alla mano e a fronte di insindacabili scelte di vita personali – le è più conveniente fare la pendolare che trasferirsi nel capoluogo lombardo.
Preferisce, dunque, muoversi tra Napoli e Milano, malgrado i quasi 1.600 chilometri di treno. Sfruttando le promozioni di Italo, acquistando i biglietti con larghissimo anticipo e incrociando le offerte, Giugliano dice di riuscire ad abbattere i costi di quasi il 70% e a spendere mediamente 400 euro al mese.
La storia di Giugliano ci viene segnalata da un’insegnante che lavora nel suo liceo, la professoressa Francesca Alparone, ed è una storia che – in maniera estrema per via della scelta di vita estrema della protagonista – fotografa una realtà amara e del tutto comune della nostra società: e cioè il fatto che i salari in Italia, e specie nel mondo della scuola, sono inadeguati, fanalino di coda di ogni classifica europea, e soprattutto ormai completamente inadatti a sostenere il costo della vita. Rendendo poco dignitoso, per usare un eufemismo, il proprio lavoro.
Il primo giorno Giuseppina Giugliano viene circondata da un’onda di solidarietà e affetto, e da molte offerte di aiuto, ma fin dalla sera di mercoledì qualcosa inizia a scricchiolare nel tribunale social.
Tra chi mette in dubbio la verità del suo racconto e chi strumentalizza politicamente la vicenda, adducendo che Giugliano sarebbe un modello di sacrificio contro chi, sfruttando il reddito di cittadinanza, rinuncia a lavorare. Vabbè.
Ma bisogna aspettare ventiquattro ore perché inizi ad alzarsi il primo venticello della calunnia.
Funziona così: la mattina dopo, giovedì, un utente Facebook pubblica un post in cui sostiene di aver sentito, durante un’importante trasmissione radiofonica nazionale, un’intervista alla preside del Boccioni secondo cui Giugliano avrebbe lavorato solo due giorni dall’inizio dell’anno scolastico.
Poco importa che questa intervista, semplicemente, non fosse mai avvenuta (al punto che lo stesso utente sarà costretto a modificare il messaggio qualche ora dopo): in men che non si dica quel post viene rilanciato centinaia e poi migliaia di volte.
In men che non si dica, insomma, il vento della calunnia è già diventato un tornado. Il tribunale del popolo ha già emesso la sentenza: Giugliano è una bugiarda, Giugliano non lavora.
Qualche minuto dopo, questa volta su Twitter, un altro utente dice di aver sentito insegnanti della scuola (tutti ovviamente anonimi, perché la calunnia è sempre anonima) confermare l’anonima versione: “È andata a lavorare solo due volte”.
Anche in questo caso, nessuno si preoccupa del fatto che una dichiarazione anonima non ha alcun peso a fronte di chi, mettendoci la faccia il nome e il cognome – come hanno fatto, sempre dalle colonne di questo giornale, la professoressa Alparone e gli studenti del Boccioni – difende Giugliano: il tornado della calunnia è l’unica verità accettabile per i social.
Il passaggio di livello avviene nel pomeriggio di giovedì. Quando addirittura alcuni giornali online dedicano articoli di “fact-checking” alla versione di Giuseppina Giugliano.
Peccato che in questi articoli vengano riportate solo dichiarazioni anonime. Così è tutto un: fuori da scuola si dice, si vocifera, si racconta che Giugliano non va a lavorare. Ora, deve essere sfuggito che accusare qualcuno senza prove – “si dice, si mormora, si sussurra che Giuseppina Giugliano non lavori” – è diffamazione.
Così, per giorni, il diffamante chiacchiericcio sulle presunte bugie e sul presunto assenteismo non di un capo di Stato, non di un politico corrotto, non di un pericoloso criminale, ma di una collaboratrice scolastica di 29 anni, è diventato il principale tema di un dibattito pubblico rozzo, classista e perfino vagamente razzista.
Ignorando completamente l’unica cosa su cui ci sarebbe stato da dibattere. E da riflettere.
E cioè che una paga da 1.165 euro al mese non è dignitosa in un Paese cosiddetto civile. Meglio dunque accanirsi per fare il conto su quanti euro in più, esattamente, avrebbe speso Giugliano per pagare i suoi biglietti del treno piuttosto che denunciare un sistema salariale che condanna i cittadini a fare scelte che non possono in alcun caso definirsi dignitose.
Così Giuseppina Giugliano è finita alla gogna, senza appello. Benvenuti nel medioevo digitale, nei suoi anni più bui. Posso solo augurarmi che riusciremo a riaccendere presto la luce. E il cervello.
(da Quotidiano.net)
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Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile COSI’ IL CAPITALISMO PREDATORIO METTE A RISCHIO I POPOLI INDIGENI… PENETRA ILLEGALMENTE NELLA FORESTA PER 150 KM, TUTTO PER ESTRARRE ORO DI CONTRABBANDO
Un cratere, color del grano, affonda in Amazzonia in mezzo a chilometri di
foresta vergine. Non è un fenomeno naturale ma uno scavo prodotto da diversi mezzi pesanti, che hanno dissotterrato una miniera d’oro nei pressi del fiume Catrimani, non lontano dal confine tra Brasile e Venezuela. Tutto in maniera illegale.
Ma come hanno potuto degli escavatori idraulici così pesanti raggiungere il cuore della foresta? Semplice: attraverso una strada – anch’essa completamente illegale – che “buca” l’Amazzonia e penetra nel territorio indigeno Yanomami, abitato da diversi popoli e da alcune comunità che non hanno alcun contatto con il mondo esterno.
L’esistenza dell’arteria, ribattezza “estrada para o caos” (letteralmente: la strada per il caos), è stata denunciata dalla brasiliana Rede Globo e da Greenpeace, che hanno sorvolato l’area scattando queste immagini impressionanti, scattate da Valentina Ricardo per l’organizzazione ambientalista.
Verso l’inferno industriale
È un percorso di quasi 150 chilometri che collega le regioni occidentali dello stato brasiliano di Roraima alla Terra Indígena Yanomami. Qui, in un’area grande come il Portogallo, abitano 27mila persone appartenenti ai popoli Yanomami e Ye’kwana. Tra queste comunità, alcune sono del tutto isolate o almeno lo sono state finora. La strada illegale arriva infatti a meno di 16 chilometri da uno di questi villaggi, minacciando le vite oltre che il territorio dei popoli indigeni.
Minatori incrostati di fango, macchinari pesanti, impalcature, tubature idrauliche ad alta pressione: il paesaggio creato dall’estrazione illegale di oro e altri minerali somiglia a un vero e proprio inferno industriale la cui unica occupazione è distruggere il territorio per profitto. E non si tratta di un’esagerazione.
Le comunità locali accusano i garimpeiros, alcuni con sospetti legami con noti narcotrafficanti, di violenze sessuali e di aver provocato una serie di focolai di malaria e la chiusura di vari presidi sanitari. La loro presenza è dannosa sia per la salute degli abitanti che per l’ambiente: i fiumi presentano livelli di mercurio mai visti prima, dovuti al passaggio di una flotta illegale di un centinaio di navi impiegate nel contrabbando di minerali. Così, a causa delle devastazioni, i minori soffrono di malnutrizione e tante altre malattie. E sono proprio le donne Yanomami a denunciarlo, come hanno scritto al neo-presidente Lula in una lettera aperta pubblicata a fine novembre dalla comunità Rokoari: «Oggi la foresta è malata e quando la nostra foresta è malata, tutti noi ci ammaliamo», si legge nella missiva divulgata dalla Hutukara Associação Yanomami. «È piena di scavi. In passato l’acqua era pulita mentre oggi è sporca, i fiumi sono gialli e persino gli occhi dei pesci stanno cambiando, appaiono sfatti e anche altri animali sembrano diversi, magri, malati».
«L’arrivo dei minatori alimenta la malaria», prosegue la lettera. «Prima, quando non ce n’erano così tanti, le malattie erano poche. Ora i bambini muoiono di malaria, malnutrizione, polmonite e infestazione da vermi». È un ambiente prospero per la criminalità: «I garimpeiros ci minacciano. Molestano le ragazze e offrono denaro in cambio di sesso, ma non vogliamo che le nostre figlie e nipoti vengano consegnate loro. Attirano i giovani e le loro mogli e li rendono dipendenti dal poco cibo lavorato che ricevono come pagamento». Insomma, è un vero e proprio inferno che dura però da decenni.
Moltiplicatore della violenza
Tra il 1987 e il 1990, secondo il ministero della Salute brasiliano, quasi il 14 per cento degli Yanomami è morto per malattie trasmesse dai minatori, le cui attività hanno causato la distruzione dei letti dei fiumi, la contaminazione da mercurio e idrocarburi dei terreni e delle falde acquifere e un’esplosione di criminalità. Fenomeni destinati ad aggravarsi a causa della nuova strada costruita illegalmente nella foresta. La nuova arteria infatti, secondo Greenpeace, può aumentare di oltre dieci volte gli effetti distruttivi dell’estrazione mineraria illegale nelle terre indigene. I garimpeiros dipendono spesso dal trasporto fluviale o aereo, che aumentano i costi di produzione, ma l’apertura della nuova via consente l’arrivo via terra di mezzi, uomini e materiali permettendo inoltre la costruzione di strutture che agevolano lo sfruttamento del territorio come distributori di benzina, campi di volo e strade secondarie.
E non è una novità: secondo il progetto MapBiomas, tra il 2010 e il 2020, le aree minerarie all’interno dei territori indigeni brasiliani sono aumentare del 495 per cento, soprattutto nelle zone abitate dai popoli Munduruku, Kayapó e Yanomami. Proprio qui la situazione sta degenerando. Un rapporto pubblicato nell’aprile scorso dall’Instituto Socioambiental (Isa) sostiene che gli anni del governo Bolsonaro sono stati i peggiori per la Terra Indígena Yanomami da quando fu istituita nel 1992. Le attività estrattive hanno già interessato oltre 44mila ettari di territorio colpendo il 56 per cento della popolazione. Secondo la Hutukara Associação Yanomami, sono almeno 20mila i garimpeiros attualmente attivi nell’area, dove nel 2021 è stata accertata anche la presenza del Primeiro Comando da Capital (Pcc), una delle principali organizzazioni criminali del Brasile, dedita al traffico di minerali preziosi, stupefacenti e armi.
Gli indigeni però sperano in Lula, che con i suoi primi decreti ha abrogato il piano di Bolsonaro che favoriva il garimpo. D’altronde, con la missione di Greenpeace, c’era anche la deputata Sonia Guajajara, nominata dal presidente alla guida del nuovo ministero per la Tutela dei Popoli Indigeni. Nella speranza che i bolsonaristi non riescano nei loro tentativi di golpe. Boa sorte!
(da TPI)
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Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile E’ IL SUO LASCITO POLITICO AI DEM
«Le amarezze e le ingenerosità le tengo per me», sospira Enrico Letta rivolto a chi lo aveva implorato di tornare da Parigi. È il suo lascito politico ai dem convenuti per benedire la nuova fase.
E in questo addio non risparmia fendenti, chiama in causa sia il nemico Matteo Renzi che l’amico Pierluigi Bersani: «Vi assicuro, non darò vita ad un partito alternativo al Pd».
Già l’emiciclo dell’Antoniano dove è riunito il Parlamentino dem dà un’immagine di smobilitazione: su seicento posti ne sono occupati al massimo centocinquanta. «Bastava farlo al Nazareno dicendo che era anche da remoto, per evitare questa figura», sbuffa uno degli esperti di comunicazione. Altri cinquecento delegati (su mille) voteranno da casa, numero legale salvo. Per giunta, una cinquantina dei presenti sono ex scissionisti tornati all’ovile. Ecco, in questo clima, dove Letta ricorda San Sebastiano trafitto dalle frecce, la paura di non risollevarsi è forte.
Big ed ex ministri latitano, se pure giustificati dal voto on line: Pierluigi Bersani ha preferito non farsi inserire tra i delegati; non c’è l’altro ex segretario Nicola Zingaretti, che si è dimesso dicendo di provare «vergogna» per un partito avvitato su sé stesso; vota da remoto, con tanto di prova documentale l’ex ministro e presidente del Copasir, Lorenzo Guerini. Dario Franceschini se ne va prima di pranzo, senza ascoltare i candidati. Assente Graziano Delrio. Tutto ciò conforta chi vuole un cambio di fase, ma colpisce lo stesso.
Incassa l’applauso quando avverte che il leader «non può passare la giornata a reggere equilibri interni, perché così siamo condannati». Ma quando dice «sono stati mesi difficili anche per il tentativo di sostituire il Pd, che oggi si può dire fallito», molti non paiono d’accordo.
Lui termina con un atto d’amore per il Pd e con un segno di speranza. «Vorrei che con questo primo giorno cominciasse una nuova stagione, che mettessimo dietro le spalle questo inverno faticoso».
(da agenzie)
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Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile LE SIGLE CRITICANO LE PAROLE DEL MINISTRO CHE AVEVA CHIESTO LA REVOCA
Lo sciopero dei benzinai «danneggia i cittadini» e il settore ha «zone d’ombra
che danneggiano chi lavora in piena onestà», ha detto il ministro Urso intervistato da Maria Latella al Caffè della Domenica, su Radio24. E non si è fatta attendere la risposta dei benzinai, delusi dalle parole dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, che «rischiano seriamente di chiudere ogni residua possibilità di concludere positivamente la vertenza in atto».
Secondo i presidenti di Faib, Fegica e Figisc/Anisa, le principali associazioni di categoria dei benzinai, «le dichiarazioni del ministro Urso sono l’ennesima dimostrazione della confusione in cui si muove il governo in questa vicenda».
I rappresentanti dei gestori delle pompe di benzina non colgono l’invito del ministro a revocare lo sciopero, che «era e resta confermato». Nella nota, vengono ribaditi i motivi dello stop all’erogazione del carburante, che si protrarrà per 48 ore, a partire dalle ore 19 del 24 gennaio: «Il governo continua a chiedere trasparenza – scrivono le rappresentanze – e noi l’abbiamo offerta in tutti i modi. Quello che non ci si può chiedere è di autorizzare nuovi adempimenti e nuove sanzioni a carico dei gestori. Questo No. Al ministro abbiamo avanzato proposte concrete, le valorizzi senza scaricare la responsabilità delle sue esclusive scelte sulla pelle dei benzinai».
(da agenzie)
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Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile SONDAGGIO TERMOMETRO POLITICO: FDI 29,1%, M5S 17,3%, PD 16,4%, LEGA 8,4%. AZIONE 8,1%, FORZA ITALIA 7,2%
Il largo consenso di cui ha goduto fino ad ora la presidente del Consiglio Giorgia Meloni inizia a scricchiolare. È possibile che questa leggera flessione dipenda dal malcontento per il caro carburanti, aggravato dalla mancata conferma da parte dell’esecutivo dei tagli sulle accise.
Le ultime analisi, secondo l’ultimo sondaggio di Termometro politico, realizzato tra il 17 e il 19 gennaio, ci dicono che il lungo periodo di idillio tra italiani e Meloni abbiamo iniziato una fase calante, con l’indice di fiducia della premier ora al 43,8%.
Per quanto riguarda in generale le percentuali dei partiti, le intenzioni di voto registrate dall’ultima rilevazione danno Fdi al 29,1%, il M5S al 17,3%, mentre il Pd arresta la sua caduta al 16,4%.
In flessione la Lega all’8,4%, tallonata da Azione/Italia Viva che avanza all’8,1%, così come Forza Italia al 7,2%.
Sinistra Italiana/Verdi scende al 3%, seguono +Europa al 2,6%, Italexit al 2,3%, Unione Popolare all’1,6% e Italia Sovrana all’1,5%.
Cosa pensano gli italiani della cattura di Matteo Messina Denaro
Il 51% degli italiani ritiene che la cattura del boss Messina Denaro sia stata una vittoria per lo Stato.
Di diverso avviso il 26,8% secondo cui si tratta solo della cattura di un latitante malato e alla fine della carriera. C’è anche un 20,3% che ipotizza che la cattura sia stata concordata con Cosa Nostra.
Come è vista la proposta di introdurre il limite di 30km in città
Sulla possibile introduzione nelle maggiori città del limite di 30km all’ora sono più i contrari che i favorevoli. Tra chi dice no, il 27,1% obietta che i limiti attuali vadano già bene, mentre il 23,7% ritiene che si stia esagerando. Il 33% è d’accordo ma solo se introdotto nelle vie più residenziali e non in quelle a maggiore scorrimento mentre il 14,5% sposa l’idea totalmente.
(da Fanpage)
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Gennaio 22nd, 2023 Riccardo Fucile PER L’OFFENSIVA DI PRIMAVERA SONO ESSENZIALI I CARRI ARMATI TEDESCHI LEOPARD 2
Nelle ultime settimane si sente sempre di più parlare della necessità da parte
occidentale di fornire nuove armi all’Ucraina. L’urgenza è diventata particolarmente evidente negli ultimi giorni, in vista della riunione avvenuta venerdì a Ramstein tra i Paesi donatori di armi all’Ucraina che però sembra aver portato ad un nulla di fatto, in particolare sulla fornitura dei carri armati pesanti così tanto richiesti dal governo di Kyiv.
Ma da dove sorge questa nuova urgenza? Anzitutto dalla situazione attuale sul fronte: “in uno stato di impasse”. È così che il Ministero della Difesa britannico ha valutato nel suo report giornaliero di sabato la situazione nella zona di guerra in Ucraina.
Come sta andando la guerra
Nei giorni scorsi i combattimenti più feroci, secondo il Ministero di Londra, si sono svolti su tre settori principali del fronte:
Nel nord-est, nella regione di Luhansk vicino a Kreminna, dove l’Ucraina probabilmente ha fatto pochi progressi ma si è difesa con successo contro un contrattacco russo;
Nella regione di Donetsk, nel settore di Bakhmut, la zona più calda del fronte, dove è probabile che le forze russe e le PMC di Wagner stiano ricostituendo le proprie forze nella città di Soledar dopo le alte perdite subite per la sua cattura all’inizio di questa settimana
Nel sud, nella regione di Zaporozhye, dove entrambe le parti hanno concentrato forze significative impegnate in scambi di artiglieria, ma evitando per ora qualsiasi offensiva su larga scala.
“In generale, il conflitto è in uno stato di stallo”, affermano dal Ministero della Difesa britannico. Tuttavia, si sottolinea, esiste una reale possibilità di un’avanzata locale delle truppe russe intorno a Bakhmut.
Come afferma Meduza in una sua separata analisi, la cattura di Soledar avvenuta nelle scorse settimane ha rappresentato sicuramente un successo militare e politico per il Cremlino (Soledar è la prima città conquistata dalla Russia dall’inizio di luglio 2022), ed allo stesso tempo anche personale di Yevgeny Prigozhin, il fondatore del gruppo PMC Wagner che è stato la chiave per la riuscita di questa offensiva.
Con la conquista di Soledar, per i russi si apre però anche la concreta prospettiva di raggiungere l’obiettivo principale della loro operazione militare invernale in corso: l’occupazione della città di Bakhmut (che si trova 10 km a sud di Soledar), nonché per un attacco a Seversk (circa 20 km più a nord).
Ma tutto ciò è ancora lontano dal diventare realtà: anche se le forze russe fossero in grado di tagliare in due la strada che collega direttamente Bakhmut con Seversk, le due città restano collegate in modo affidabile attraverso altre strade che passano per il quartier generale delle Forze Armate ucraine nel Donbass, a Kramatorsk.
Per poter isolare Bakhmut, è necessario quindi per i russi catturare sia la strada che passa per Krasnaya Gora a nord della città che l’area fortificata nel villaggio di Kleshcheevka a sud di essa.
In entrambi i casi i russi stanno cercando di avanzare, ma a durissimo prezzo in termini di vite umane, in quanto si trovano di fronte a zone fortificate dalle quali l’artiglieria ucraina colpisce senza pietà le truppe russe in avanzata.
Ancora più difficile invece è cercare di avanzare verso Seversk, in quanto sarebbe necessaria una manovra a tenaglia con un secondo segmento proveniente da nord, vale a dire dalla zona di Kreminna, dove invece al momento sono gli ucraini all’attacco (anche se con molta difficoltà, come detto).
Va inoltre ricordato che per ottenere successo in questa eventuale manovra, le forze russe dovrebbero superare indenni anche il fiume Seversky Donets, che già l’anno scorso ha rappresentato un formidabile ostacolo naturale alle loro avanzate nel Donbass durante la prima fase della guerra.
In tutto ciò, l’Ucraina non sta certamente a guardare dalla finestra: si sta invece preparando ad una possibile offensiva primaverile con l’obiettivo dichiaratamente ambizioso di “liberare” tutti i territori occupati a sud dell’Ucraina, tagliare in due il fronte russo ed isolando la Crimea.
Prima di allora sarà sicuramente obbligata a prendere una importante decisione proprio sul futuro di Bakhmut. Come afferma un alto funzionario dell’Amministrazione Biden la difesa a tutti i costi di Bakhmut sta ostacolando l’Ucraina nel compito di preparare la sua offensiva di primavera nel sud del Paese.
Secondo il funzionario il tempo favorisce la Russia a Bakhmut, date le sue maggiori risorse di artiglieria e il numero di truppe. Tuttavia, afferma, “la vittoria russa non comporterebbe alcun cambiamento significativo nella guerra, perché le forze ucraine si ritirerebbero su posizioni ben difese”.
Invece di spendere così tanti soldati e così tante munizioni per un obiettivo strategicamente non importante, gli Stati Uniti stanno quindi consigliando all’Ucraina di inviare queste forze all’estero per partecipare a programmi di addestramento guidati dagli Stati Uniti per formare una forza mobile in grado di compiere offensive di successo.
A tale scopo, le armi stanno già affluendo in Ucraina, ma è necessario del tempo per addestrarsi; quindi, gli ucraini devono prendere una decisione il prima possibile tenendo in conto che potrebbero non avere le risorse per affrontare entrambe le sfide.
In parole povere, dunque, le Forze Armate ucraine, che ovviamente non vorrebbero abbandonare la propria roccaforte nel Donbass, devono decidere se continuare a spendere – ora e in un ambiente sempre più sfavorevole come quello di Bakhmut – riserve e risorse che potrebbero invece utilizzare per una grande offensiva in primavera.
Va detto inoltre che la decisione potrebbe diventare obbligata: se i russi continueranno ad avanzare nonostante tutte le loro perdite è probabile che gli ucraini saranno prima o poi costretti ad abbandonare lo stesso Bakhmut perché diventata infendibile.
La notizia buona per Kyiv è che l’eventuale conquista di Bakhmut sarebbe una vittoria di Pirro per i russi con tutta probabilità: direttamente ad ovest di Bakhmut si trova infatti la prossima linea di difesa delle Forze Armate dell’Ucraina, già ben fortificata ed equipaggiata sulle colline vicino alla città di Chasov Yar.
Considerando che si tratta di un terreno elevato, allo stesso ritmo di avanzamento che le forze russe hanno mostrato in questi ultimi periodi ci vorranno mesi per superare questa nuova linea di difesa, anche nella migliore delle ipotesi per loro.
C’è quindi il serio rischio per Mosca che l’attacco a Bakhmut si trasformi in una sorta di Battaglia di Verdun degli Anni Duemila: un enorme massacro di uomini e mezzi per ottenere una vittoria che cambierebbe poco o nulla dal punto di vista strategico, drenando anzi ulteriormente le forze dell’esercito russo già indebolite da 11 mesi di guerra.
Le consegne di armi già annunciate
Si torna, perciò, alla questione della fornitura di armi occidentali. Per prevenire sia una nuova potenziale offensiva russa, che per posizionare Kyiv in grado di respingere i russi fino ai confini precedenti l’invasione dello scorso anno, l’Ucraina ha assoluto bisogno di più armi pesanti ed in grande quantità.
Valery Zaluzhny, comandante in capo delle Forze Armate ucraine, ha dichiarato all’Economist a dicembre che solo per “tornare alle linee del 23 febbraio” – in poche parole, per riprendere il territorio che l’Ucraina deteneva prima dell’invasione russa – Kyiv avrebbe bisogno di almeno 300 carri armati, oltre a 600-700 veicoli da combattimento per la fanteria e 500 obici.
Per tornare alle linee del 2014 – cioè per riconquistare la Crimea e tutto il Donbass – ci vorrebbero presumibilmente ancora più carri armati e veicoli corazzati.
Questo compito diventerà ancora più difficile nei prossimi mesi, quando altri soldati mobilitati nell’esercito russo lo scorso autunno verranno schierati sul campo di battaglia, e questo senza tenere conto del fatto che alcuni analisti occidentali e l’intelligence ucraina ritengono che possa essere ordinata un’altra mobilitazione a breve.
In questo contesto, diversi Paesi occidentali hanno già promesso nuovi aiuti militari anche prima della riunione di venerdì a Ramstein. Ad esempio, la Finlandia ha annunciato un pacchetto di aiuti militari da 400 milioni di euro, il più consistente finora, che comprende artiglieria pesante e munizioni, mentre l’Estonia ha annunciato aiuti pari a circa l’1% del suo PIL.
Anche altri Paesi si sono mossi: la Gran Bretagna ha annunciato l’invio di 600 missili Brimstone, la Danimarca ha dichiarato che donerà 19 obici Caesar di fabbricazione francese e la Svezia ha promesso il suo sistema di artiglieria Archer.
Da parte sua, il Canada invierà 200 veicoli per il trasporto di personale, mentre Berlino ha offerto 40 veicoli da combattimento per la fanteria Marder e l’Italia si è impegnata a donare assieme alla Francia un sistema di difesa aerea avanzato SAMP/T.
Tutto questo succede dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato a loro volta un nuovo grande pacchetto di aiuti militari per un valore complessivo di 2,5 miliardi di dollari, che comprende decine di veicoli da combattimento Bradley e Strykers, veicoli corazzati per il trasporto di personale, sistemi di difesa aerea e decine di migliaia di missili e proiettili d’artiglieria.
Da questa lunga lista di aiuti, però, come potete vedere manca ciò che più è atteso da Kyiv, vale a dire i carri armati pesanti.
Perché all’Ucraina servono i carri armati Occidentali
Dopo il fallimento della prima fase dell’invasione russa su larga scala lo scorso anno, è aumentato il numero di coloro che erroneamente avevano previsto la scomparsa del carro armato come arma fondamentale sul campo di battaglia. Di recente anche Elon Musk è stato duramente criticato per aver definito i carri armati come una trappola mortale per i propri equipaggi.
Da una parte, è sicuramente vero che di recente i carri armati sono diventati sempre più vulnerabili al fuoco di alta precisione e alle armi anticarro occidentali portatili come il Javelin o ai droni come il Bayraktar TB2. I carri armati russi T-72 e T-80 hanno avuto la peggio nella maggior parte delle battaglie in Ucraina.
Ma la verità è che i carri armati sono sempre stati vulnerabili, sin da quando sono stati inventati negli ultimi anni della Prima Guerra Mondiale, più di un secolo fa. Eppure, questo non ha impedito che diventassero fondamentali sul campo di battaglia, come ben ricordiamo durante la Seconda Guerra Mondiale.
E così come le armi progettate per distruggerli, anche gli stessi carri armati si sono continuamente evoluti, e quelli avanzati posseduti dai Paesi della NATO sono i candidati ideali per aiutare l’Ucraina a vincere.
Questo per una serie di motivi: anzitutto i carri armati occidentali sono stati progettati con l’obiettivo di sconfiggere i carri armati russi. Con corazze reattive, potenti cannoni principali e contromisure sempre più efficaci, tali carri armati sono stati costruiti per rimanere in battaglia e tenere il più al sicuro possibile i propri equipaggi.
L’Ucraina meridionale che dovrebbe essere obiettivo della prossima offensiva, in particolare, è un territorio pianeggiante e ideale per i carri armati. Ma è anche il luogo in cui la Russia ha costruito file di trincee e bunker fortificati proprio per poter fermare una eventuale avanzata ucraina.
In una ipotetica offensiva ucraina, dovrebbero perciò essere proprio i carri armati pesanti ad avanzare in prima linea insieme alle truppe protette da veicoli da combattimento di fanteria come il Bradley americano, il Mardar tedesco e persino il BMP-2 di fabbricazione russa, diverse unità del quale sono state catturate dagli ucraini nel corso delle loro offensive di successo nello scorso autunno.
Questa combinazione è micidiale per l’attacco, soprattutto se abbinata al fuoco a lungo raggio e al massiccio supporto aereo, in particolare da parte dei droni da combattimento.
Ma va detto che solo i carri armati pesanti hanno “la protezione, la mobilità e la potenza di fuoco per mantenere lo slancio anche una volta che entrano in contatto con forze nemiche in forze”, come ha dichiarato anche Nick Reynolds, esperto di guerra terrestre presso il think tank Rusi.
La questione, tuttavia, è quale numero e tipo di carri armati occidentali potrebbe dare a Kyiv la migliore possibilità di organizzare con successo la propria offensiva.
Che tipo di carri armati possono fornire gli Occidentali
Uno dei motivi per cui la fornitura di carri armati è stata sinora poco discussa, rispetto ad altri sistemi di armamenti, è che l’Ucraina ne aveva già una discreta quantità.
L’industria bellica nazionale ha infatti prodotto una versione aggiornata dei carri armati T-64 di epoca sovietica per sostituire quelli danneggiati durante l’invasione russa del 2014 e l’Ucraina è entrata in guerra a febbraio 2022 con circa 800 carri armati pesanti.
Ma gli ucraini, come i russi, hanno subito pesanti perdite in questa guerra. Secondo il gruppo di ricerca open source Oryx, gli ucraini hanno perso circa 450 carri armati, contando quelli distrutti, danneggiati, abbandonati o catturati (per fare un paragone i russi hanno perso 1.630 carri armati, ma partendo da una base di partenza molto più alta).
Ora però, come abbiamo visto, l’Ucraina ha bisogno di carri armati occidentali. I principali in circolazione sono i seguenti:
Il Leopard 2 tedesco
La Germania ha prodotto per la prima volta i Leopard durante la Guerra Fredda e ora ne sono in circolazione migliaia di unità. Secondo l’European Council on Foreign Relations, sono utilizzati da 13 eserciti europei e di Paesi NATO, vale a dire Austria, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Norvegia, Polonia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera e Turchia.
Le varianti 2A4 e 2A5 rappresentano più della metà di questi Leopard. Sebbene non rappresentino le versioni più recenti del Leopard 2 e sia necessario un certo sforzo per riprogrammare le interfacce utente per gli equipaggi dei carri armati ucraini, sarebbero sicuramente la scelta più logica per una brigata di attacco ucraina a causa della loro ampia disponibilità.
Il Leopard 2 tedesco ha due vantaggi principali. Il primo è che si tratta di una tecnologia familiare agli ucraini, utilizzando un motore diesel a turbina. L’altro è che ce ne sono molti in circolazione.
Il Challenger 2 britannico
Il Challenger 2 pesa più di 65 tonnellate ed è stato costruito per la prima volta alla fine degli anni ’90 da BAE Systems e Land Armaments. Può trasportare fino a quattro persone, ha un cannone da 120 mm e può raggiungere una velocità di 37 miglia orarie su strada e di 25 miglia orarie in fuoristrada.
L’esercito britannico ha utilizzato questo modello dal luglio 1994 in Bosnia ed Erzegovina, Kosovo e Iraq. Secondo il governo britannico, “non ha mai subito perdite per mano del nemico”.
“Uno dei suoi punti di forza è la capacità di sconvolgere il nemico mettendolo sotto pressione con un’avanzata rapida e pienamente impegnata, facendolo cedere e arretrare”, si legge nella nota dell’esercito britannico.
L’M1 Abrams americano
L’M1 Abrams ha un motore particolarmente potente. Questo lo aiuta a muoversi sul campo di battaglia e a trasportare il suo potente cannone e la sua pesante armatura, probabilmente la migliore tra tutti i carri armati occidentali.
Il vantaggio del motore a turbina è che è molto potente e molto reattivo, ma il prezzo da pagare è che consuma molto carburante. Questo significa che bisogna avere molti camion serbatoio a disposizione per accompagnarlo in battaglia.
L’esercito americano ha integrato questo aspetto nella sua struttura logistica. Ma ovviamente tutto questo può rendere più complicata la logistica e la manutenzione del carro armato M1 Abrams da parte di altri eserciti.
Proprio per quanto appena detto, l’Amministrazione Biden ha più volte affermato che gli M1 Abrams di fabbricazione americana – per via delle loro peculiari esigenze di carburante specifico, manutenzione frequente e pezzi di ricambio, trasporto e addestramento – non sono adatti all’uso nell’Ucraina orientale, dove le linee di rifornimento potrebbero essere facilmente interrotte.
Una portavoce del Pentagono, Sabrina Singh, ha ribadito anche giovedì scorso ai giornalisti che “non ha senso” fornire all’Ucraina gli M1 Abrams “in questo momento”, perché utilizzano carburante per aerei e sono difficili da mantenere.
La Gran Bretagna, da parte sua, ha invece già fatto sapere che invierà in Ucraina uno squadrone di 14 carri armati Challenger 2. Si tratta di un inizio, ma è ben lungi dall’essere sufficiente e considerando che ve ne sono solo 227 in circolazione, la Gran Bretagna non può promettere granché altro di questo tipo.
Per portare ad una svolta nella guerra, a Kyiv non resta quindi che cercare di ottenere i Leopard 2 di produzione tedesca. Attualmente ve ne sono circa 2.000 in circolazione, oltre circa 300 in deposito. Berlino potrebbe inoltre donare anche un certo numero di vecchi carri armati Leopard 1, entrati in servizio per la prima volta nel 1965 ma attualmente in deposito.
Sebbene alcuni non siano in condizioni di essere forniti, ce ne sono abbastanza per arrivare almeno ad un centinaio da consegnare all’Ucraina nel caso in cui venisse presa la decisione politica di farlo. Oltre la Germania, anche altri Paesi come la Polonia e la Finlandia, ad esempio, si sono già detti pronti ad inviare carri armati Leopard di fabbricazione tedesca.
Per ottenere questo risultato è però necessario l’assenso della Germania che finora non ha ancora voluto impegnarsi in questo senso. È vitale, perciò, per l’Ucraina convincere Berlino a fare questo passo. E visti gli ostacoli logistici e di addestramento che l’Ucraina deve affrontare prima di poter schierare carri armati così pesanti, i tempi sono critici.
Finora la Germania è indecisa, il suo governo di coalizione è apparentemente diviso e i sondaggi indicano che anche l’opinione pubblica tedesca è fortemente divisa sulla questione. Sta di fatto che alla recente riunione di Ramstein non si è trovato alcun accordo su queste consegne e che nel frattempo le pressioni sulla Germania continuano ad aumentare.
La Polonia ha già minacciato di inviare carri armati Leopard 2 all’Ucraina anche senza l’approvazione della Germania per la riesportazione, come ha dichiarato viceministro degli Esteri polacco. “Non escludo che saremo pronti a fare un passo del genere”, ha dichiarato Pawel Jablonski alla stazione radio RMF FM.
Invece i Ministri degli Esteri dei tre Paesi baltici ex sovietici (Estonia, Lettonia e Lituania) si sono appellati su Twitter invitando la Germania a trasferire immediatamente in Ucraina i carri armati Leopard 2.
“Fornire all’Ucraina carri armati moderni”, ritengono i tre Ministri degli esteri, “è necessario per fermare l’aggressione russa e riportare la pace in Europa. La Germania, in quanto prima potenza europea, ha una responsabilità speciale in questo”, sottolinea l’appello.
“Il momento è adesso. L’Ucraina ha bisogno di più equipaggiamento militare. Sostengo fermamente la consegna di carri armati”, ha dichiarato a sua volta il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel.
Le preoccupazioni maggiori riguardo alla fornitura di carri armati potrebbero essere di natura pratica. Data la velocità con cui sono stati sinora distrutti in Ucraina, Washington e Berlino devono tenere in considerazione la possibilità che i carri armati che vengano forniti per aiutare l’Ucraina andranno persi per sempre, con le conseguenti valutazioni di sicurezza nazionale.
E sebbene i carri armati moderni siano ancora armi formidabili sul campo di battaglia, come abbiamo visto è necessario un enorme sforzo logistico per mantenerli riforniti di carburante ed in funzione, il che significa che occorre anche predisporre un necessario sostegno logistico all’Ucraina in questo senso.
Dal punto di vista ucraino, queste però sono solo scuse che hanno già sentito in precedenti dibattiti su altre richieste di artiglieria e sistemi avanzati di difesa aerea. Secondo Kyiv, questo tipo di dibattiti fanno solo perdere tempo prezioso mentre si perdono sempre più vite umane.
Riferendosi specificamente alla Germania, il Ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha espresso la sua frustrazione in una recente intervista: “È sempre così: Prima dicono ‘no’, poi difendono ferocemente la loro decisione, per poi dire ‘sì’ alla fine”, ha detto. “Stiamo ancora cercando di capire perché il governo tedesco si stia comportando così”.
“Fate presto, il tempo non gioca a favore di Kyiv”
Per un’offensiva di successo nel sud, l’Ucraina dovrebbe addestrare i propri soldati all’uso, almeno basilare, di questi carri armati. Secondo gli esperti dell’IISS, i soldati ucraini potrebbero impiegare dalle tre alle sei settimane solo per raggiungere “una competenza di base” nell’uso dei Leopard 2 (lo stesso vale per i Challenger 2).
Tuttavia, il vero banco di prova sarà se Kyiv sarà in grado di sviluppare un piano per utilizzare efficacemente i carri armati insieme all’artiglieria, per liberare la strada alla fanteria, per proteggere i blindati e sgomberare le posizioni fortificate.
Il generale Mark Milley, capo di Stato Maggiore degli Stati Uniti, ha di recente annunciato un sofisticato programma di addestramento per circa 500 soldati ucraini per quello che nelle Forze Armate americane è noto come programma di “armi combinate” che richiederebbe “tra le cinque e le otto settimane” per entrare in vigore.
Ma lo stesso Milley si è anche detto pessimista sulla possibilità che ciò basti per l’Ucraina per “espellere militarmente le forze russe” dal territorio ucraino e che la cosa migliore che si possa realisticamente sperare è quella di spingere la Russia a un negoziato diplomatico partendo da una posizione di forza per l’Ucraina.
Sta di fatto che ormai per l’Occidente a questo punto è impossibile fare passi indietro. Osservando la situazione dal punto di vista di Washington, la politica, finora di successo, di Biden in Ucraina (che ha permesso a Kyiv di resistere contro ogni previsione contro l’invasione russa del Paese) significherà ben poco se gli Stati Uniti non continueranno a finanziare ed armare le forze di Zelensky fino a quando durerà il conflitto.
Ciò significa che la logica della politica americana spinge sempre di più verso un coinvolgimento più profondo degli Stati Uniti nel conflitto, anche se questo rischia di provocare nuovi attriti con Mosca e con la nuova maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, la cui ala di destra è molto scettica nei confronti di nuovi aiuti militari all’Ucraina.
Questo è anche il motivo per il quale il ritardo da parte della Germania nell’approvare l’invio di carri armati Leopard 2 è stato così frustrante sia per il Segretario alla Difesa americano Lloyd Austin che per altri alti funzionari occidentali che durante tutta la settimana appena passata hanno cercato di raggiungere, per il momento senza successo, un accordo con le loro controparti tedesche per fornire ciò di cui l’Ucraina ha bisogno ora per riconquistare il territorio.
In una conferenza stampa tenutasi dopo l’incontro di venerdì a Ramstein, Austin ha fatto buon viso a cattivo gioco, cercando di sminuire l’importanza dei carri armati Leopard 2 e di sottolineare invece ciò che la Germania ha già fornito – veicoli da combattimento, difese aeree e campi di addestramento per i soldati ucraini – in attesa che Berlino cambi idea anche sui carri armati
Da questo ultimo punto di vista, va detto che sebbene la Germania non abbia ancora dato il suo via libera all’invio dei Leopard in Ucraina, non lo ha nemmeno escluso a priori.
Il Ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, intervistato dai giornalisti a margine della riunione di Ramstein ha infatti detto che i colloqui vanno avanti e che il suo Ministero ha nel frattempo iniziato un inventario dei Leopard in possesso dell’esercito e delle aziende private tedesche per essere pronti in qualsiasi momento a consegnarli all’Ucraina nel caso in cui venisse presa la decisione politica di farlo.
Inoltre, e questo è importante, la Germania non si è neppure opposta alla possibilità di permettere ai Paesi alleati di iniziare ad addestrare i soldati ucraini all’uso dei Leopard. Si tratta in entrambi i casi di segnali che lasciano intravedere la possibilità che alla fine la Germania possa decidere di fornire alla fine i suoi Leopard.
Il problema è però che l’Ucraina ha ormai una finestra di tempo sempre più ristretta per lanciare un’offensiva di primavera potenzialmente decisiva prima che lo facciano i russi, e i carri armati pesanti, come abbiamo visto, sono una parte fondamentale di questo sforzo.
Anche Austin, in conferenza stampa, ha ribadito il punto: stavolta il calendario non è dalla parte dell’Ucraina. “Abbiamo una finestra di opportunità, da qui alla primavera”, ha detto. “Non è un periodo lungo”. “Continueremo a sostenere l’Ucraina e il suo popolo nella resistenza all’aggressione russa e nella difesa del suo territorio sovrano”, ha promesso Austin.
A Kyiv non resta altro che sperare che la decisione di sblocco dei Leopard non arrivi troppo tardi per avere l’impatto atteso sul campo di battaglia e che nel frattempo ciò che è stato già inviato basti per poter mettere in piedi una forza di attacco che sia in grado di compiere attacchi di successo contro le forze russe già nelle prossime settimane.
(da Fanpage)
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