Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile IL GOVERNO MELONI HA SOSPESO LA NORMA CHE IMPEDIVA AI PENSIONATI DI LAVORARE (SE NON GRATIS) PER LA PA: LA MODIFICA SERVE A PROROGARE IL MANDATO DEL PRESIDENTE DELL’ISTAT IN QUOTA LEGA, GIAN CARLO BLANGIARDO
Tornano i pensionati d’oro ai vertici dello Stato: nelle
amministrazioni pubbliche, negli enti, negli Istituti, nelle Authority, alla Consob. Il governo Meloni ha depositato un emendamento al decreto Milleproroghe in discussione al Senato, bollinato dalla Ragioneria, che sospende fino al 31 dicembre 2026 il decreto Madia del 2014. Quello che impediva a tutti i pensionati, sia pubblici che privati, di lavorare per la Pa: niente consulenze, incarichi di studio o dirigenziali, tantomeno direttivi, a meno che gratuiti.
Ebbene la stretta viene tolta per quattro anni, fino alla fine del 2026. Non per tutti: resta per le consulenze, ad esempio. Salta invece per “gli incarichi di vertice presso enti, istituti o aziende di carattere nazionale” conferiti da “organi costituzionali […] “. In pratica, si toglie il tappo alle nomine che contano fatte dal governo e ratificate dal Parlamento.
A partire da una che sta molto a cuore al governo Meloni, in particolare al leader della Lega Matteo Salvini: il presidente dell’Istat, ruolo ricoperto da Gian Carlo Blangiardo, nominato dal governo gialloverde il 4 febbraio 2019, scaduto ieri e ora in prorogatio per 90 giorni. L’esecutivo vorrebbe riconfermarlo, ma lui avrebbe comunicato la sua indisponibilità a proseguire per altri quattro anni a stipendio zero.
E questo perché Blangiardo, classe 1948, è in pensione dal primo novembre 2019 come professore universitario di Demografia. E quindi da allora […] dirige l’Istat a titolo gratuito. Solo il primo anno – tra febbraio e ottobre 2019 – ha incassato 171 mila euro, come quota parte dello stipendio annuale che anche per Istat è pari al tetto della Pa di 240 mila euro lordi. Poi dopo, da pensionato, non ha più preso nulla.
Blangiardo ha fatto notare ai suoi interlocutori che quella norma del 2014 gode di importanti e pesanti eccezioni: il presidente della Consob e il garante per la Privacy. Paolo Savona, classe 1936, ha 86 anni e guida la Consob dall’8 marzo 2019, nominato dal governo Lega-M5S per un incarico settennale. In barba alla norma Madia cumula i 240 mila euro con una pensione da 113 mila euro […]. Pasquale Stanzione, classe 1945, ha 77 anni ed è stato nominato alla guida della Privacy per un settennio il 29 luglio 2020 dal governo Conte II.
Se l’emendamento infilato dal governo al Milleproroghe […] fosse approvato, servirebbe anche per altre due nomine da fare a maggio, quando scadranno i presidenti di Inps e Inail, Pasquale Tridico e Franco Bettoni, che il governo non vuole riconfermare. Non è detto che Palazzo Chigi punti a un pensionato d’oro per questi due Istituti. Ma il paracadute è aperto.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile IL PRESIDENTE DI UNO STATO IN GUERRA AVEVA LA POSSIBILITÀ DI FARE UN LEGITTIMO APPELLO IN VIDEO, IN PRIMA PERSONA, PER CHIEDERE AIUTI MILITARI ED ECONOMICI, E INVECE SE GLI VA BENE PUÒ AL MASSIMO MANDARE UNA LETTERA: DALLA TRAGEDIA ALLA BARZELLETTA
Roberto Dagospia è la coscienza critica di Sanremo. Anticipa le anticipazioni, presenta i presentatori, critica i leccazampe, esalta i critici, dà consistenza al gossip, sgonfia la retorica: sul suo sito Dagospia commenta, beffeggia, spiffera, ci racconta scena, proscenio e retroscena del festival.
D’Agostino: prima la Rai annuncia un video di Zelensky, poi arriva una bufera di polemiche, adesso non è un video ma una lettera; Mosca che si fa beffe del Festival e una cosa seria come la guerra diventa una mezza pagliacciata Cosa sta succedendo a Sanremo?
«L’ho scritto una settimana fa, il 1° febbraio, sul mio sito. Le demenziali polemiche sull’intervento di Zelensky a Sanremo sono arrivate all’orecchio dei funzionari di Kiev, e il presidente ucraino che pure è un ex comico e conosce le regole dello show è rimasto sbigottito. Nessuno ha mai preteso che il suo discorso fosse sottoposto a lettura da parte di un funzionario televisivo. Ma che roba è?
Si è mai visto un direttore di rete che può esercitare una qualsiasi forma di controllo su un messaggio di un presidente di una nazione in guerra? Zelensky ha parlato all’Onu, alla notte degli Oscar, a Cannes, alla mostra del cinema di Venezia senza colpo ferire; però alla tv di Stato italiana vogliono sapere cosa dirà. Demenziale. Qualcuno dentro la Rai ha voluto sabotare l’evento».
E perché
«Perché l’idea di portare Zelensky sul palco dell’Ariston è di un signore che si chiama Bruno Vespa, oggi accreditato come gran consigliori di Giorgia Meloni per le questioni Rai, e qualche nemico interno gli ha voluto fare lo sgambetto».
E adesso?
«Adesso Amadeus e Stefano Coletta, il direttore della prima serata Rai, invece di avere Zelensky si devono accontentare di Fedez… Il presidente di uno Stato in guerra, invaso e bombardato, aveva la possibilità di fare un legittimo appello in video, in prima persona, per chiedere aiuti militari ed economici, e invece se gli va bene può al massimo mandare una lettera… Dalla tragedia alla barzelletta».
La portavoce del ministero degli Esteri russo ha ironizzando sul mancato video del presidente ucraino. Ha detto: «Peccato per Zelensky, forse poteva vincere Sanremo».
«Siamo a un livello sotto la vergogna. C’è una guerra, neanche a troppi chilometri da qui, ci sono bombardamenti, morti, minacce nucleari, si poteva sfruttare un messaggio di pace, e questi stanno a ballare sul palco… Sembra la repubblica Weimar. Qui cantano, e là arrivano i nazisti… Pensa a Kiev cosa possono pensare… Saranno inferociti».
Amadeus ha detto che è più romantico leggere una lettera di Zelensky anziché mandare un video.
«Romantico?! Ma si rende conto? Ma stiamo parlando di una guerra! Non giochiamo con le parole. Posso farlo io, sul mio sito disgraziato, ma non la televisione di Stato… Senti, io la prima volta che sono andato a seguire il Festival di Sanremo era il 1978, ho fatto persino un Dopofestival… E ho capito una cosa in tutti questi anni. Il Festival peggio è, meglio è. Più riesci ad avere canzoni pessime, macchiette che salgono sul palco, stecche e polemiche, meglio funziona.
A Sanremo adesso stanno festeggiando. il Festival rappresenta l’identità di un Paese fatto di paesi, dove il divertimento maggiore è lo struscio: c’è chi passeggia e si mette in mostra, e chi guarda e giudica. Il Festival è quello: tu vai lì a farti guardare, io ti guardo e ti sbertuccio, tutto in tre minuti, il tempo di una canzone. Se porti solo belle persone, abiti eleganti e buoni brani, che divertimento c’è? Siamo un Paese di guardoni e pettegoli. E Sanremo è il Festival dei guardoni e dei pettegoli».
(da Dagoreport)
argomento: Politica | Commenta »
Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile NON AVREBBE GRADITO LA PIANIFICAZIONE DELL’INTERVENTO, COSÌ COME L’EVENTUALITÀ DI CONOSCERNE IN ANTICIPO DURATA E CONTENUTI, CHE DOVEVANO ESSERE “BOLLINATI” DA COLETTA
In Rai assicurano che no, loro non c’entrano: la decisione di inviare
un testo scritto al Festival di Sanremo, anziché il videomessaggio che Volodymyr Zelensky avrebbe dovuto registrare per la serata conclusiva, è stata presa dalle autorità ucraine.
Comunicata giovedì scorso dall’ambasciatore in Italia, Yaroslav Melnyk, al direttore dell’Intrattenimento Prime time Stefano Coletta, che con il diplomatico aveva già qualche giorno intavolato una trattativa sul tenore del contributo previsto al clou dell’evento nazionalpopolare più atteso della tv.
Matteo Salvini era stato il primo ad augurarsi che «il palcoscenico della città dei fiori rimanga riservato alla musica».
Seguito da Carlo Calenda — «Parrebbe molto strano vedere un presidente impegnato a difendere il suo Paese tra una canzone e l’altra» — e pure da Giuseppe Conte: «Non è necessario avere Zelensky in un contesto così leggero». Posizioni ostili, che non sono passate inosservate.
«Mi sembra complicato poterlo censurare. Il controllo di noi dirigenti è preventivo alla messa in onda di ogni programma», taglia corto Coletta, «ma sorrido all’idea di un dirigente Rai che possa censurare un presidente».
Alla fine, è l’ambasciata d’Ucraina in Italia a chiudere il caso. E lo fa comunicando ai vertici Rai di aver deciso che la partecipazione di Volodymyr Zelensky a Sanremo si sarebbe risolta con una lettera del Presidente. Questa, confidano fonti diplomatiche ucraine, rappresenterebbe una soluzione condivisa, presumibilmente con il governo di Roma.
Con l’obiettivo, aggiungono le stesse fonti, di evitare di dividere l’opinione pubblica italiana sulla guerra in Ucraina. È l’ultimo tassello di una vicenda che oscilla come un pendolo tra l’incidente diplomatico e il caso politico. Un caso che in alcuni dettagli si tinge di giallo, chiamando in causa i vertici della televisione pubblica, l’esecutivo e le diplomazie di entrambi i Paesi. Vale la pena provare a ricostruirlo.
La versione della Rai ridimensiona l’accaduto a un’interlocuzione senza tensioni o sbavature.
Tutto nasce dalla missione di Bruno Vespa a Kiev, per intervistare il Presidente ucraino. Il direttore e conduttore di Porta a Porta ottiene la disponibilità a un intervento del leader ucraino al Festival. Tornato in Italia, riporta questa possibilità all’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes e al conduttore del Festival Amadeus.
L’opzione su cui si tratta è quella di un video registrato della durata di due minuti.
Nel frattempo, però, in Italia scoppia una polemica politica durissima. Capofila degli scettici è Matteo Salvini, notoriamente vicino alle posizioni di Mosca. Mostrano dubbi anche Carlo Calenda e Giuseppe Conte. E va registrato tra l’altro anche l’intervento di Piersilvio Berlusconi. Finché, il 2 febbraio, la diplomazia ucraina comunica alla Rai che il format dell’apparizione sarebbe stato quello del testo scritto.
Le stesse fonti della tv pubblica sostengono che non sia credibile che dietro alla scelta si nasconda anche un fastidio di Zelensky, culminato nella mossa asettica di una lettera al posto del video, che certamente avrebbe garantito una resa televisiva migliore. A differenza degli ucraini, inoltre, le fonti di Viale Mazzini negano che ci sia stato un intervento della Farnesina per ricomporre il caso.
Tutte le fonti ufficiali, a sera, si attestano sostanzialmente su questa linea. Palazzo Chigi si tira fuori dalla partita, mentre il ministero degli Esteri è netto: non siamo intervenuti.
Per un giorno intero, si rincorre un’altra ricostruzione dei fatti. La gestione della partecipazione di Zelensky sarebbe stata effettivamente portata avanti dall’ambasciata ucraina. Ma il polverone politico avrebbe fatto inceppare la trattativa. Gli ucraini non avrebbero gradito neanche la pianificazione, fin nei dettagli, dell’intervento del leader, così come l’eventualità di conoscere in anticipo le modalità, la durata e i contenuti dell’intervento.
Secondo alcune fonti, si sarebbe arrivati vicini alla defezione di Zelensky: non solo niente video, ma anche nessuna lettera. Un passo indietro capace di generare un vero caso diplomatico, soprattutto a pochi giorni dall’annunciata visita di Meloni a Kiev. La premier, d’altra parte, non può certo essere sospettata – a differenza di Lega e Forza Italia – di essere tra quelli che avrebbero frenato l’intervento del presidente ucraino.
La spiegazione fornita dal direttore del Prime Time Stefano Coletta, che sarebbe stata una scelta di Zelensky riferita all’ambasciatore ucraino in Italia, accrediterebbe la pista diplomatica. E cioè che sarebbe stato davvero il leader ucraino a preferire un’apparizione più discreta in una sede come il Festival
Emergono quei mal di pancia nella maggioranza, sopiti ma mai placati, che secondo alcuni avrebbero prodotto la decisione comune di «abbassare i toni». Paventa questa interpretazione Maurizio Lupi (Noi moderati) quando dice: «Siamo stupiti da questa scelta che, ci auguriamo, non sia dovuta a motivi “politici” perché in questa guerra c’è un aggressore e c’è un aggredito»
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile COSI’ SI INSULTA L’INTELLIGENZA DEGLI ELETTORI
Nord virtuoso? La mia regione, la Liguria, ha un poco invidiabile record: il primo presidente di regione condannato: Alberto Teardo iscritto alla P2. Poi è toccato a Lombardia (Roberto Formigoni) e Veneto (Giancarlo Galan). I legami con la mafia (attraverso Marcello Dell’Utri) suggellano un’alleanza nord-sud nella discesa in campo del milanesissimo Silvio Berlusconi, successore di un altro milanese, Bettino Craxi – fuggito all’estero per sottrarsi a una condanna definitiva. Intendiamoci: il sud non è da meno. Basta pensare alla Sicilia del condannato Totò Cuffaro, anche lui presidente di regione. Da decenni riceve fiumi di denaro (ora ci sono i fondi dell’Obiettivo 1 dell’Unione Europea), ma capita spesso che siano spesi male (cattedrali nel deserto, oppure gestioni mafiose) o non siano spesi. E le condizioni non migliorano. Molti politici operano con la finalità di ottenere i fondi dell’Obiettivo 1. L’azione politica dovrebbe mirare a non averne più bisogno avendoli utilizzati proficuamente. Se l’obiettivo è di continuare ad averne bisogno, non ci siamo.
Purtroppo, da nord a sud, l’Italia è governata (con le dovute eccezioni) da predoni della cosa pubblica che fanno capo a sodalizi occulti riconducibili alla malavita organizzata e a massonerie deviate. E non solo: il Banco Ambrosiano era capitanato dal milanese Roberto Calvi, detto il banchiere di Dio. Molte banche hanno gestito “allegramente” il denaro ad esse affidato, con il caso emblematico del Monte dei Paschi di Siena, tanto per dare un colpo anche al centro. L’enorme debito pubblico è frutto di questa attività predatoria che ha “coltivato” il consenso con il clientelismo, la concessione di posti di lavoro fittizi, pensioni, sussidi e molto altro. Per non parlare della impunibilità, di fatto, dell’evasione fiscale.
Che il nord sia economicamente in condizioni migliori del sud è innegabile, ma durante il Covid-19 le conseguenze delle politiche di privatizzazione della sanità nordica sono state drammatiche, e molti nodi stanno venendo al pettine. Gli asset strategici gestiti (male) dallo stato sono stati gestiti ancora peggio quando sono stati dati in mano ai privati: dalle autostrade all’acciaio, dalle aerolinee alla sanità. Devo continuare? Il privato gestisce nello stesso modo del pubblico e il risultato non cambia. La soluzione dovrebbe essere che il pubblico gestisse meglio del privato affidando le sue imprese non a faccendieri, ma a persone competenti. Come avvenne, ad esempio, con Enrico Mattei.
Ora abbiamo i fondi del Pnrr, ma non siamo preparati a utilizzarli – proprio come quelli per il sud dell’Obiettivo 1. Il successo nella progettazione europea va dalla lettura del bando al confezionamento del progetto, alla sua realizzazione e alle rendicontazioni scientifica e amministrativa. Ho coordinato un progetto complesso, con 22 paesi partner in tre continenti e una decina di milioni di budget: so di che parlo. Nel nostro paese le competenze per queste iniziative sono scarsissime. I ricercatori di altri paesi, invece, ricevono consistenti aiuti tecnici nella preparazione dei progetti e hanno molto più successo di noi. Quando arrivano milioni a seguito di progettualità di successo, poi, l’amministrazione collassa. Con qualche eccezione.
L’autonomia regionale non è una soluzione a garanzia di miglior funzionamento. Dall’esperienza del passato è la garanzia di altre ruberie e di incompetenza. Abbiamo bisogno di una classe politica integra e competente. Se non riusciamo a esprimerla, soprattutto a livello regionale ma non solo (sempre con le dovute eccezioni, ma il trend è quello), abbiamo un problema bello grosso. Chi non va a votare lo sta gridando da anni: non riesco a trovare qualcuno che valga la pena di essere votato! Se arriva qualcuno di “diverso” inizia la delegittimazione da parte degli altri politici e dei media ad essi collegati: il fine è di far pensare che “tanto sono tutti uguali”.
Pensare di risolvere il malfunzionamento dell’amministrazione del potere con l’autonomia differenziata significa non aver capito il problema, oppure si vuole continuare a predare la cosa pubblica. Il ministro Roberto Calderoli, artefice dell’autonomia differenziata, ha un valido curriculum in termini di procedimenti giudiziari e, anche, di iniziative evidentemente fallimentari, tipo la legge elettorale definita Porcellum che lui stesso definì una “porcata” e che fu bocciata dalla Corte costituzionale. Incurante del ridicolo, Calderoli persevera nei suoi intenti mettendo le sue furbe incapacità al servizio della collettività che, immemore della storia, invariabilmente lo conferma in ruoli apicali nella gestione della cosa pubblica ad architettare altre porcate.
Andrea Camilleri, prima, e Nicola Gratteri, dopo, hanno affermato che il potere promuove l’ignoranza e l’analfabetismo per continuare ad agire indisturbato. I tagli alla cultura e all’istruzione dimostrano la correttezza delle loro considerazioni riguardo a una “ignoranza coltivata”. Siamo oggetto di un olocausto culturale in cui le vittime scelgono i carnefici, visto che li eleggono a gestire le loro vite. Davvero si pensa che il rimedio sia l’autonomia differenziata? Con quale coraggio si insulta la presunta intelligenza degli elettori portando ad esempio l’efficienza amministrativa di regioni che hanno visto incarcerare così tanti presidenti?
(da il Foglio)
argomento: Politica | Commenta »
Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile ENTI, FONDAZIONI E SINDACATI GUIDATI IN PASSATO DA ROCCA
Come in un albergo dall’ingresso con porte girevoli, così in Regione
Lazio se prima entrava per perorare gli interessi dei suoi clienti privati, adesso potrebbe trovarsi a prendere decisioni proprio su questi suoi (ex) datori di lavoro, diciamo così.
Tutti ben radicati in un settore che muove da solo quasi 20 miliardi di euro: la sanità laziale. Perché da questo mondo arriva Francesco Rocca, che da avvocato ha guidato fondazioni di ras delle cliniche private: per non parlare della presidenza di Confapi, il sindacato che racchiude i grandi patron della sanità privata, e del ruolo apicale ricoperto fino a ieri in Croce Rossa. Una struttura enorme, quest’ultima, che ha già rapporti con la Regione e ne avrà ancora di più da qui a qualche mese in vista del Giubileo del 2025.
Rocca, candidato alle imminenti regionali nel Lazio dalla destra (con una spruzzatina di centro), sul groppone rischia di portare conflitti di interesse di non poco conto facendo rientrare inoltre nelle tolde di comando i protagonisti delle pessime gestione economiche della sanità durante i governi di Francesco Storace e Renata Polverini.
A prescindere dalla Croce Rossa, l’ultimo incarico di peso di Rocca è stato quello di presidente del Consiglio di amministrazione della Fondazione San Raffaele fino allo scorso undici novembre, a ridosso dell’incoronazione come candidato arrivata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
“Ma questa Fondazione non gestisce quasi nulla nel Lazio”, dicono dal suo staff. Vero, ma non del tutto. La Fondazione San Raffaele gestisce un centro di cura a Ceglie Messapica in provincia di Brindisi: una struttura da 170 dipendenti per la riabilitazione dell’ospedale Summa. Tutto qui? Non proprio. La Fondazione, si legge sullo statuto, “è stata costituita per volontà della famiglia Angelucci per onorare la memoria di Silvana Piera Angelucci”, moglie del senatore e potente capofamiglia Antonio, onorevole e imprenditore molto attivo in politica, sanità ed editoria: ha già acquistato Il Giornale della famiglia Berlusconi, ha Libero e sta tentando di chiudere l’acquisto de La Verità di Maurizio Belpietro, per avere da solo tutta la filiera mediatica di carta della destra.
Qualcuno sussurra che l’operazione sia la base di lancio per il suo ingresso nella ricca sanità lombarda. Di sicuro con la sua Tosinvest gestisce diverse cliniche in giro per il Centro e Sud Italia. Nel Lazio le sue residenze per ricoveri hanno un budget di 4,4 milioni, ai quali vanno aggiunti 7,5 milioni per le sue strutture di riabilitazione. Soldi erogati dalla Regione, con la quale non sono mancati nel recente passato scontri sulle cifre e gli aumenti richiesti.
Rocca ha guidato una piccola Fondazione della galassia Angelucci, si dirà. Anche qui le cose non stanno proprio così: la Fondazione è il braccio operativo per una serie di eventi benefici che fanno entrare gli Angelucci in relazione con diversi mondi, dal Vaticano ad altre realtà. La statua di Papa Wojtyla davanti alla stazione Termini è stata offerta proprio dalla Fondazione, per dire. Rapporti, legami, come si comporterà Rocca con un imprenditore che gli aveva affidato la guida del suo gioiellino per relazioni che contano?
Rocca però è stato fino a qualche tempo fa anche direttore di un altro ente, la Fondazione Maria Monti che gestisce un centro dermatologico a Rocca di Papa: nel 2016 il candidato della destra tuonava contro i tagli a questa struttura che da sola gestisce un budget erogato dalla Regione Lazio pari a 20 milioni di euro. Fondazione Maria Monti e Tosinvest ricevono dalla Regione 30 milioni di euro all’anno su budget stabiliti dalle giunte regionali. Come si comporterà Rocca di fronte a richieste di nuovi posti letto o di fronte alla necessità di tagli alla sanità privata? Domande legittime, come quelle che riguardano anche i futuri rapporti della Croce Rossa con la Regione stessa.
Due anni fa l’ex governatore Nicola Zingaretti ha dato il via libera a una convenzione, in scadenza a dicembre, per pagare le visite mediche di tutti i volontari della Protezione civile proprio alla Croce Rossa. Cosa farà l’ex presidente Rocca di fronte al rinnovo o meno di questa convenzione? E come gestirà gli appalti milionari per la sicurezza e i soccorsi del prossimo Giubileo del 2025?
La sanità rischia di essere più che il Cavallo di Troia del candidato governatore, il suo tallone di Achille: perché ogni scelta in questa materia rischia di essere vista alla luce dei suoi rapporti in questo mondo. Legami con enti e imprenditori che contano.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile “IL FOGLIO”: “LA SUA VERA FORZA SI CHIAMA COLDIRETTI, L’ASSOCIAZIONE PRESIEDUTA DA ETTORE PRANDINI E DAL SEGRETARIO GENERALE VINCENZO GESMUNDO. E’ LA PORTA D’INGRESSO VERSO IL MONDO DELLA MAGISTRATURA”
Si sono ribaltati i ruoli: non è più lui il “cognato” di lei, ma lei la “cognata” di lui. L’uomo che “governa il governo” è Francesco Lollobrigida e Giorgia Meloni la sorella di sua moglie.
E’ il tutore di tre ministri (Lavoro, Sanità, Mare), fa il corazziere della Repubblica, costruisce relazioni con magistrati, funzionari dello stato, manager e anche con la stampa estera. […] In Italia chi ha oggi un’ambizione si rivolge al ministro dell’Agricoltura. Alla Camera, cammina con il fascicolo delle società partecipate sottobraccio. C’è un faldone ufficiale e poi c’è il suo. E’ il semipremier.
Fino a oggi si è parlato di “rete Lollobrigida”. Siamo di fronte alla selezione di nuova classe dirigente, alla placenta di un nuovo partito. Si fa sempre più necessario per Meloni separare la destra “scervellata”, dalla destra con le bretelle, quella che pensa prima di parlare. […] Se non è possibile cambiare la natura di FdI non resta che fare di FdI un fondaco identitario e favorire la nascita di un partito nuovo, che si affianchi a FdI.
Lollobrigida era destinato a restare capogruppo. Accade qualcosa. Giovanbattista Fazzolari, indicato come naturale sottosegretario alla presidenza, si eclissa. Cancella il suo profilo social dopo un articolo di Susanna Turco dell’Espresso che seleziona alcuni suoi vecchi tweet contro il presidente Sergio Mattarella. Nel ruolo che in passato è stato di Roberto Garofoli viene scelto Alfredo Mantovano. Meloni si accorge di non avere in Cdm uomini di cui si può fidare.
Crosetto, Urso sono della “famiglia” ma indomabili. Fitto è il più preparato ma non conosce le bizzarrie di FdI. L’unico capace di dosare gli elementi, l’appartenenza e la calma, è Lollobrigida. E’ lui ad accompagnarla al Meeting di Rimini, alla Coldiretti, nella prima uscita da vincitrice. Mentre Crosetto invoca il machete, Lollobrigida conferma dirigenti e ridimensiona il ruolo di ex aennini.
Al ministero sceglie come capo di gabinetto Giacomo Aiello, già alle Infrastrutture con Maurizio Lupi e nell’ultimo governo con Mara Carfagna. Nel Cdm che sancisce l’uscita di Alessandro Rivera, come direttore generale del Tesoro, Lollobrigida nomina Stefano Scalera (uno dei nomi che era circolato come sostituto di Rivera) a capo del dipartimento per le Politiche competitive, pesca e ippica.
Lollobrigida lascia al suo posto due direttori come Felice Assenza (Repressione frodi) e Giuseppe Blasi (alle Politiche europee). Conferma anche Stefano Vaccari, direttore del Crea (Consiglio per la ricerca in Agricoltura). Non sostituisce ma “innesta”. Un innesto che nel mondo delle politiche agricole è stato salutato con apprezzamento è quello di Fabio Vitale ad Agea.
Al governo svolge un ulteriore ruolo che non è codificato. E’ quello di “coordinatore dei ministri tecnici” di Sanità e Lavoro. Orazio Schillaci è stato suggerito da lui, mentre con la ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone c’è un antico rapporto di amicizia e coinvolge anche il marito, Rosario De Luca (presiede il cda della Fondazione studi del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro).
C’è un po’ di Lollobrigida anche al ministero del Mare. La scorsa settimana ha “distaccato” un suo dirigente di prima fascia come Riccardo Rigillo nominato capo di gabinetto di Nello Musumeci. La vera forza di Lollobrigida si chiama Coldiretti, l’associazione presieduta da Ettore Prandini (uno dei candidati a fare il ministro al suo posto) e dal potentissimo segretario generale Vincenzo Gesmundo. Non è solo una associazione ma la porta d’ingresso verso il mondo della magistratura.
Il vanto della Coldiretti è infatti il suo Osservatorio sulle agromafie e il comitato scientifico è presieduto da Gian Carlo Caselli. Nell’osservatorio siedono, solo per citare alcuni, Maurizio De Lucia (il pm che ha arrestato Messina Denaro) Giuseppe Chiné (già capo di gabinetto del Mef) Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Cafiero De Raho (oggi deputato del M5s) Bernardo Mattarella, Giovanni Melillo, procuratore nazionale Antimafia.
(da il Foglio)
argomento: Politica | Commenta »
Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile DA GIOVANE ERA UNA SPIA DEL KGB, IN SERVIZIO IN SVIZZERA. IL SUO COMPITO ERA AVVICINARE LE ELITE RELIGIOSE E INTELLETTUALI DEL PAESE ALLA CAUSA SOVIETICA – IL RAPPORTO CON L’ITALIA (TRA I SUOI AMICI C’ERA LA FAMIGLIA DI PIERO SAVORETTI) E QUELLO CON MATTHIAS WARNIG, EX UFFICIALE DELLA STASI MOLTO VICINO A PUTIN
Che Kirill avesse un passato nel Kgb è stato scritto da molti storici e
studiosi, benché lui lo neghi, ma ora emergono nuovi documenti dai servizi segreti svizzeri e dalla polizia federale che testimoniano che il patriarca fu un agente del Kgb in servizio nella cruciale Ginevra per tanti anni, con il compito di avvicinare e far simpatizzare alla causa sovietica le élite religiose e intellettuali del paese. E spiegano di cosa si occupasse.
Già in Russia’s Dead End, una fonte autorevolissima, Andrei Kovalev, ex membro dello staff di Gorbachev, scrisse che Vladimir Mihailovic Gundyaev aveva un passato nel Kgb, l’agente “Mihailov”.
Ovviamente il patriarca lo ha sempre negato. Ora però lo sappiamo da nuovi importanti documenti che sono stati pubblicati dal quotidiano Tages-Anzeiger. Una scheda della polizia federale svizzera racconta molto bene chi fosse, e di cosa occupasse. Prima di raccontarlo, facciamo un passo indietro.
Il bellicoso religioso che il 21 settembre esortò a cancellare dai cuori dei patrioti russi la paura, «la vera fede cancella la paura della morte, e quindi ogni meschinità e tradimento umano», […], esortando russi e ucraini a prendere atto di essere un solo popolo, in realtà ha qualche passione, e soprattutto un passato, assai profani.
Parlando di lui, del patriarca Kirill da giovane, Vadim Melnikov, ex console dell’ambasciata sovietica a Ginevra, in realtà una spia del Kgb, scriveva, liricamente: «Com’era bello da giovane! Purtroppo non è sposato. Ma le donne lo amavano. Era alto, giovane e sempre di buon umore. La gente era attratta da lui».
A 24 anni questo giovane brillante e promettente riesce a uscire dalla tetra Unione sovietica brezneviana e ottiene di trasferirsi nel cuore dell’Europa, in Svizzera, a Ginevra. A un passo dall’Italia e dalla Francia. Prende una casa in affitto da una famiglia di medici, in rue de Beaumont a Ginevra, e inizia la sua missione pastorale ortodossa. In realtà Gundyaev, nome in codice “Mihailov”, è un agente del Kgb, e la sua missione svizzera è un po’ diversa.
Nella scheda della polizia federale svizzera c’è scritto testualmente che «Monsignor Kirill» apparteneva al Kgb. In vent’anni, dal luglio 1969 al febbraio 1989, ci sono su di lui 37 voci, per lo più richieste di visti, ma in due casi si dice che compare in una lista di funzionari sovietici «contro i quali sono state prese misure». Non si spiega di quali misure si trattasse, ma è il trattamento di solito riservato ai finti diplomatici e agli agenti sotto copertura
La Chiesa ortodossa ha risposto al quotidiano di Zurigo di non avere «alcuna informazione» in merito, che non è esattamente una smentita.
Melnikov racconta nel suo libro che Kirill amava cognac e champagne, fare tardi la sera, sciare (c’è anche una sua foto apparsa su twitter che lo ritrae sci ai piedi), girare con una appariscente Bmw bianca.
A un certo punto ebbe un’incidente, in montagna, quando la sua Bmw si andò a schiantare contro un palo della luce. Cosa che accese troppo interesse su di loro, costringendoli di lì a poco a lasciare il Paese.
Kirill da giovane affascina. Si fa amici importanti. Passa vacanze a Davos, dove viene ospitato da un professore americano, oggi scomparso. Tra i suoi amici c’è un’importante famiglia italiana, quella di Piero Savoretti. Ma Kyrill è anche amico del patriarca Alessio, che negli anni novanta vendeva le quote petrolifere assegnate dal governo attraverso un misterioso uomo d’affari russo, Vitaly K.
La loro storia non ha portato a condanne, né a connessioni con Kirill, che però era assai vicino ad Alessio, e aveva la disponibilità di firma su uno dei suoi conti.
C’è un altro dettaglio interessante: uno dei presunti appartamenti di Kirill (a Pietroburgo sul canale) gli sarebbe stato donato da un uomo d’affari di nome Alexander Dimitrievich. Tages-Anzeiger racconta che la sua società di Zurigo è stata rilevata nel 2008 da Matthias Warnig, ex ufficiale della Stasi della Germania Est, considerato amico personale di Putin, se non l’amico per eccellenza di Putin in Occidente, poi messo a capo del gasdotto Nord Stream 2. Il mondo e piccolo, e i cerchi s’incontrano.
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile GRANDE SPONSOR DELLE ARMI, IL SOTTOSEGRETARIO FAZZOLARI E’ IL NUMERO DUE DI FDI… POI PROVA A SMENTIRE MA “LA STAMPA” CONFERMA TUTTO
È un caso politico il progetto di insegnamento del tiro a segno nelle scuole del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari. Oltre alle opposizioni, è un altro componente del governo, il vicepremier leghista Matteo Salvini, a non gradire l’iniziativa né a tener conto della smentita dello stesso Fazzolari.
“Ridicolo e infondato”, così l’esponente FdI ha definito l’articolo de la Stampa che riporta la proposta di un tavolo ad hoc formulata al generale Franco Federici, consigliere militare della presidente del Consiglio. “La chiacchierata tra me e il generale Federici verteva su tutt’altro”, precisa Fazzolari. La replica del direttore de la Stampa Massimo Giannini: “Con temerario sprezzo del ridicolo, il sottosegretario Fazzolari ‘sparà letteralmente la palla in tribuna, per smentire ciò che non è smentibile, cioè la sua idea di portare nelle scuole corsi di tiro a segno con le armi. L’articolo del nostro Ilario Lombardo, che confermiamo parola per parola, è inattaccabile e di fonte sicura al cento per cento”.
La polemica politica
Le opposizioni vanno comunque all’attacco. Sarcastici i dem. “Libro e moschetto”, dichiara il senatore Walter Verini. “A quando le adunate del sabato?”, chiede il vicesegretario Peppe Provenzano che parla di “incubo trumpiano” e annuncia un’interrogazione parlamentare. “Dall’umiliazione come metodo educativo all’insegnamento dell’uso delle armi nelle scuole”, così la vice segretaria Irene Tinagli che chiede buonsenso.
Mentre per la capogruppo 5s in Senato Barbara Floridia le parole del numero 2 di Giorgia Meloni sono “gravissime”. Floridia chiede l’opinione della premier e del ministro dell’Istruzione Valditara. Interviene anche il leader del Movimento Giuseppe Conte: “Fazzolari smentisce ma l’amore per le armi mi sembra evidente”.
“Mi auguro la smentita di Fazzolari corrisponda al vero perché saremmo di fronte all’assurdo: tagliare la 18app da un lato e promuovere il tiro a segno nelle scuole dall’altro. Meno libri, più armi”, twitta Raffaella Paita, presidente del gruppo Azione-Italia Viva in Senato. “Allucinante”, il commento di Nicola Fratoianni, dell’Alleanza Verdi Sinistra: “Ma non deve sorprenderci, visto che il governo Meloni è legato a doppio filo con le lobby delle armi”.
Ma il presunto piano Fazzolari non convince neanche il governo. “Non mi sembra illuminata come idea quella di sparare nelle scuole”, commenta il vice premier leghista Matteo Salvini. “Con tutto l’amore e il sostegno al tiro sportivo, al poligono – aggiunge Salvini – che sono passione, sport e business, io sto portando la sicurezza stradale nelle scuole: più che a sparare nelle classi dei ragazzi porterei l’educazione stradale”.
Il ruolo di Fazzolari e la passione per il poligono di tiro
50 anni, senatore rieletto, il sottosegretario Fazzolari è l’uomo che ha scritto il programma elettorale di Giorgia Meloni. Di qui la delega all’attuazione dello stesso. La premier nel suo libro ‘Io sono Giorgià l’ha definito “l’uomo più intelligente e giusto che abbia mai conosciuto”. È nota la sua passione per le armi il poligono di tiro. Nella scorsa legislatura ha presentato una riforma per l’abolizione del divieto di commercializzare armi corte, definito da lui stesso “un’assurdità”. È stato ospite d’onore all’Eos Show di Verona, la fiera dedicata alla caccia.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Febbraio 7th, 2023 Riccardo Fucile SAREBBE QUESTA PER LA MELONI UNA PRIORITA’ DELL’ITALIA?
L’insegnamento del tiro a segno nelle scuole. Il fatto che svela le
intenzioni del numero due di Giorgia Meloni va in scena nella Sala dei Galeoni di Palazzo Chigi, ieri.
Sono appena terminate le dichiarazioni congiunte della premier e del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, Fazzolari si fionda a parlare con il generale Franco Federici, consigliere militare della presidente del Consiglio.
Ed ecco cosa gli dice: «Dobbiamo fare un tavolo per un progetto di insegnamento del tiro a segno nelle scuole. C’è tutta una rete di associazioni che si possono coinvolgere e mettere in contatto con il mondo delle scuole. Ci sono ragazzi molto appassionati e bravi che lo fanno nel tempo libero. Manca una struttura e un riconoscimento ufficiale. È un’attività che io penso meriti la stessa dignità degli altri sport».
Il generale Federici sembra prendere tempo e risponde: «Sì, in effetti è anche una disciplina olimpica. Vediamo cosa possiamo fare. Organizziamo un incontro e mettiamo intorno al tavolo i vari soggetti interessati».
L’idea di Fazzolari, immaginiamo, è di portare gli studenti al poligono per farli esercitare. Un po’ come fanno con il pallone, nei campetti di basket, calcio e pallavolo. Solo che in questo caso imbraccerebbero una pistola.
Le armi sono una vecchia passione del sottosegretario. Sul sito specializzato Armi e Tiro è trattato come una specie di eroe protettore, da quando, nella scorsa legislatura, da senatore semplice di Fratelli d’Italia ha presentato una riforma per «l’abolizione del divieto di commercializzare armi corte in 9×19».
Per celebrare il successo, FdI ha pure preparato un video che si trova su YouTube dove Fazzolari, sotto una musica rock metal, spiega le ragioni della sua battaglia: «Il divieto era un’assurdità. In Italia abbiamo eccellenze, atleti e aziende di riferimento per il tiro sportivo di primissimo piano. E nonostante tutto ciò, l’Italia non poteva ospitare gare internazionali, perché il calibro più diffuso al mondo, il 9×19 o Parabellum, non si poteva utilizzare».
Ma per Fazzolari, le armi sono anche un hobby irrinunciabile: «Mi diverto e mi diletto» ha confessato lo scorso maggio. Sul web si può recuperare la sua intervista, come ospite d’onore all’Eos Show di Verona, la fiera dedicata alla caccia.
Il futuro sottosegretario – «un nome familiare per tutti gli appassionati di armi», lo presenta l’intervistatore – lamenta un clima ostile in Parlamento. Parla di «disegni di legge preoccupanti» di altri partiti. Fazzolari parla dallo stand della Tanfoglio, sotto il logo della famiglia che dal 1948 fabbrica armi, esportate anche nel mercato statunitense. Tra una settimana, il 12 febbraio, è di nuovo atteso a Verona, a un convegno sulla normativa e la gestione delle armi. Con lui interverranno gli amici di Armi e Tiro e il presidente di Assoarmieri, associazione che riunisce i commercianti, intermediari e appassionati.
Sul finale dell’intervista di un anno fa, Fazzolari si congedava con un auspicio. Che una maggioranza differente riuscisse presto capovolgere i pregiudizi contro pistole e tiro a segno. Quel momento è arrivato prima di quanto Fazzolari potesse immaginare.
(da la Stampa)
argomento: Politica | Commenta »