Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile L’UCRAINA DOVRÀ ATTENDERE QUASI DUE MESI: ARRIVERANNO ENTRO LA FINE DI MARZO, SOLO CHE LA RUSSIA PREPARA L’OFFENSIVA GIÀ A PARTIRE DALLA PROSSIMA SETTIMANA
«Il primo Leopard 2 è arrivato a Kiev» e lo ha portato il ministro
della Difesa tedesco Boris Pistorius in persona. Ma si tratta di un modellino. A pubblicare la foto con l’annuncio è stato il suo omologo ucraino Oleksii Reknikov, sempre più in bilico per le accuse di corruzione al ministero da lui guidato. Ma, oltre al modellino, Pistorius ha portato con sé anche buone notizie: la Germania, i Paesi Bassi e la Danimarca hanno siglato un accordo per esportare in Ucraina «fino a 178 carri armati Leopard 1A5», in aggiunta ai più moderni Leopard 2, il cui invio era già stato autorizzato.
Per riceverli, però, l’Ucraina dovrà attendere quasi due mesi: «I Leopard 2 arriveranno entro la fine di marzo» ha spiegato Pistorius. Ma la Russia prepara l’offensiva già a partire dalla prossima settimana. Il vice-capo dell’intelligence di Kiev, Vadym Skibitskyi, ha detto alla Cnn che nei prossimi mesi Mosca «mobiliterà 300-500 mila persone per compiere le operazioni nel Sud e nell’Est del Paese».
E che per questo l’Ucraina avrà bisogno anche di aerei da combattimento: «Gli F16 arriveranno sicuramente – ha aggiunto – è soltanto una questione di tempo». Da parte degli alleati, soprattutto quelli europei, l’ipotesi di fornire caccia non è al momento in discussione.
Il sostegno all’Ucraina sarà uno dei tre temi del vertice Ue, insieme con la situazione economica e la gestione dei flussi migratori. Nella videoconferenza preparatoria con Charles Michel e con altri leader europei, il premier ungherese Viktor Orban ha chiesto di discutere anche il tema delle sanzioni alla Russia. Non per mettere a punto il decimo pacchetto di misure restrittive – come vorrebbe Ursula von der Leyen e come chiede Volodymyr Zelensky -, ma per porre fine a quelle già adottate: «Stanno distruggendo l’economia europea» si è lamentato il premier ungherese
I premier di Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia hanno scritto una lettera a Ursula von der Leyen, Charles Michel e al premier svedese Ulf Kristersson per chiedere di accelerare i lavori al fine di rendere possibile l’uso dei beni congelati alla Russia per finanziare la ricostruzione dell’Ucraina. «Gli Stati hanno congelato più di 300 miliardi di euro alla Banca centrale russa» si legge nel documento, che invita a «esaminare tutte le opzioni» per utilizzare quei soldi.
(da La Stampa)
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Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile SCACCHI DA ANNI DIFENDE IL SINDACATO UGL E DURIGON E HA ASSISTITO FRANCESCO ROCCA AI TEMPI DELLA CROCE ROSSA – E L’AVVOCATO PENALISTA HA COMPRATO UN APPARTAMENTO DA 190 METRI QUADRI
La “Scontopoli” dell’Enpaia, l’ente previdenziale dei periti agrari che ha svenduto a politici, potenti e amici degli amici parte del suo patrimonio immobiliare si è arricchita ieri di un dettaglio non banale. L’acquisto da parte dello stesso direttore generale della fondazione, Roberto Diacetti, di un attico ai Parioli a prezzo stracciato, compravendita scoperta da Domani.
L’Enpaia ha aggiunto che «per evitare conflitti di interesse il dg ha persino evitato di partecipare alle riunioni in cui si è parlato di dismissioni immobiliari».
Pur di comprare un appartamento a quasi metà del prezzo di mercato (e usufruendo di uno conto certo del 20 per cento) Diacetti avrebbe dunque rinunciato a parte del mandato che lo statuto Enpaia assegna al suo dirigente lautamente stipendiato, come la cura dell’«attività diretta al conseguimento dei risultati e degli obiettivi» (a cui contribuisce anche la gestione dell’enorme patrimonio immobiliare)
La spiegazione di Diacetti convince poco, anche perché il numero uno di Enpaia risulta citato in una delibera del cda del gennaio 2020 che fa riferimento diretto «alla relazione del direttore generale», e che ha definito «i criteri e limiti di investimento» del patrimonio Enpaia, comprese case e appartamenti.
A Via Gramsci, nel cuore del quartiere Parioli, nello stesso condominio di Diacetti, altri personaggi noti hanno affittato e comprato da Enpaia. C’è per esempio Alessandro Casali, noto lobbista e buon amico di Massimo D’Alema, finito in alcune registrazioni del caso Amara oggi oggetto d’indagine alla procura di Milano.
Al piano di sotto abita anche Fabrizio Centofanti. Amico di Luca Palamara, è finito al centro della vicenda giudiziaria che ha travolto l’ex magistrato romano. L’imprenditore ha comprato dall’ente previdenziale a giugno del 2022, portandosi a casa un grande appartamento simile a quello di Casali a 950mila euro, godendo di una riduzione di prezzo del 30 per cento. «Ma io ero in affitto sin dal 2015 con la mia società Energie Nuove, di cui ero anche presidente. Successivamente, nel 2017, ho volturato il contratto alla mia persona» scrive Centofanti in una mail, allegando la registrazione del contratto di affitto.
Enpaia ribadisce, nonostante le polemiche sulla vicenda, di aver «rispettato i principi di trasparenza e di imparzialità». Sia nei casi suddetti, sia in quelli di Claudio Durigon (che ha potuto comprato insieme alla compagna Alessia Botti, anche grazie a nuove linee guida emanate dall’ente nel gennaio del 2021) e di Francesco Rocca, candidato per il centrodestra alla presidenza della regione Lazio, che ha comprato con uno sconto del 30 per cento nel dicembre 2022.
I maligni ipotizzano l’esistenza di un sistema per favorire i soliti noti, di cui avrebbe beneficiato anche Francesco Scacchi, importante avvocato penalista della capitale che l’anno scorso ha comprato un appartamento sullo stesso pianerottolo di quello di Rocca: quasi 190 metri quadrati più box auto a 560mila euro nella zona della Camilluccia. Scacchi è finito sui giornali perché è da anni anche avvocato del sindacato Ugl e di Durigon. E perché assiste civilmente Rocca, che ha dichiarato di aver affittato grazie alla consultazione del sito internet della fondazione e non «grazie a raccomandazioni o informazioni privilegiate».
Scacchi è consulente pure di Enpaia, che lo indica in un comunicato di qualche giorno fa come l’uomo che «ha fornito un supporto» alla scrittura delle «linee guida predisposte dalla direzione immobiliare dell’ente». Quelle stesse linee guida che hanno permesso all’Ugl, ufficialmente conduttore del contratto d’affitto della casa di Durigon, di indicare il sottosegretario al ministero del Lavoro (con delega sugli enti previdenziali Enpaia compresa) come «soggetto utilizzatore dell’immobile». E che determinano che, oltre ai familiari dell’affittuario, possono comprare case con lo sconto anche «i conviventi di fatto».
Sentito da Domani, Scacchi – che ha anche difeso Raffaele Marra, arrestato per corruzione per una vicenda immobiliare scoperta da chi scrive, finita con una condanna in appello ora prescritta – spiega però che l’apparenza inganna. «Innanzitutto io sono stato inquilino di Enpaia dal lontano 2007, quindi molti anni prima della decisione della fondazione di vendere il plesso di via Calalzo» dice il legale.
«È vero che ho avuto un incarico per le linee guida dall’Enpaia nel marzo 2020, ma faccio la conoscenza di Rocca solo quando diventa per puro caso mio vicino di casa nel 2019. Prima lo avrò incontrato al massimo in qualche evento. Ammetto che è nato un buon rapporto, e che oggi lo assisto in una causa su fatti riguardanti la Croce rossa».
Scacchi però è da anni anche avvocato di Durigon e dell’Ugl. Per la precisione dal lontano 2011, quando è stato chiamato dall’allora segretaria del sindacato Renata Polverini. Non solo. Dell’Ugl Durigon è stato (lo è ancora?) vicesegretario e uomo forte: il sottosegretario leghista avrebbe beneficiato di linee guida a cui ha lavorato anche Scacchi.
Non c’è dunque il rischio di un conflitto d’interesse gigantesco? «No. Io di Durigon mi reputo buon amico, e se capita lo assisto personalmente. Ma le linee guida dell’Enpaia non le ho proposte io, ma il consiglio di amministrazione. Non ho scritto io né dell’entità degli sconti né quali parenti potevano comprare. Capisco che dentro Enpaia forse vogliono scaricare la situazione su altri: io sono anche avvocato del direttore generale Diacetti (quest’ultimo era all’Atac nel 2012, Scacchi era legale della partecipata ndr), uno che ha deciso di dismettere immobili che permettevano a qualcuno di fare guadagni sui lavori di manutenzione delle case».
Scacchi aggiunge poi che il suo cliente Diacetti non ha fatto nulla di male a comprare l’attico «visto che si è astenuto», e che lui da consulente Enpaia ha solo «aiutato a revisionare» le linee guida, approvate poi dal cda guidato da Giorgio Piazza.
Giovanni Tizian e Emiliano Fittipaldi
(da “Domani”)
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Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile LE INDAGINI PUNTANO A VERIFICARE SE NEL PASSAGGIO DI INFORMAZIONI DAL DAP A DALMASTRO E POI A DONZELLI SIA STATO COMMESSA “VIOLAZIONE E UTILIZZAZIONE DEL SEGRETO D’UFFICIO”… IL LEADER DEI VERDI, BONELLI: “A ME SONO STATI NEGATI GLI ATTI PERCHÉ RISERVATI. NORDIO È CONFUSO”
È destinata a crescere l’inchiesta della Procura di Roma sulle
rivelazioni, in Parlamento, da parte del vicepresidente del Copasir Giovanni Donzelli, di Fdi, in merito alle conversazioni tra l’anarchico Alfredo Cospito e alcuni boss rinchiusi come lui al 41 bis nel carcere di Sassari.
Quelle notizie, contenute in una relazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), sono state comunicate a Donzelli dal suo compagno di partito e coinquilino Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia con delega proprio al Dap
Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Paolo Ielo puntano a verificare, come anticipato da La Stampa venerdì scorso, se in questo passaggio e diffusione di informazioni sia stato commessa «violazione e utilizzazione del segreto d’ufficio».
Questa è infatti l’ipotesi di reato su cui si sta investigando. Un illecito penale che prevede una pena da 6 mesi a tre anni di reclusione. Si lavora per ricostruire tutti i vari step che hanno portato all’intervento di Donzelli. A questo scopo, nei giorni scorsi, sono stati interrogati in procura, in qualità di persone informate sui fatti, il capo del Dap Giovanni Russo, l’ex capo del Gruppo operativo mobile (Gom) della polizia penitenziaria, Mauro D’Amico e l’attuale direttore, Augusto Zaccariello.
Dal loro racconto dei fatti è emerso che il Gom aveva comunicato al Dap i colloqui captati, nel senso di ascoltati ma non intercettati, tra Cospito e alcuni boss mafiosi. E che Delmastro ha chiesto, più di una volta, al direttore del Dap di poter ricevere il documento con il dettaglio di quelle conversazioni.
I magistrati sono intervenuti dopo l’esposto del deputato dei Verdi e co-portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli. Che ora annuncia l’intenzione di integrare quella denuncia con un’altra. Il motivo? La definizione di «atti inaccessibili» in merito proprio a quelle conversazioni. «Ho chiesto espressamente sia al ministro della Giustizia Carlo Nordio sia al direttore del Dap Russo di avere quei documenti – spiega – ma stamattina (ieri per chi legge, ndr) il Gabinetto del ministro mi ha consegnato solo lo stenografato dell’intervento di Donzelli in Parlamento.
E per giustificare il rifiuto di darmi tutte le 54 pagine sono stati citate due norme: l’articolo 24 della legge 241 del ’90 e il Decreto ministeriale 115 del 25 gennaio 1996. Ebbene il primo attiene all’inaccessibilità degli atti in quanto riservati e così anche il secondo, che riguarda il regolamento del Dap. E allora mi faccio una domanda: ma se quelle conversazioni sono inaccessibili per me, come ha potuto Donzelli divulgarle alla Camera senza incorrere nella violazione e utilizzazione del segreto d’ufficio? Consegnerò la relazione che ho ottenuto dal ministero della Giustizia in procura».
(da La Stampa)
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Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile I RINCARI STANNO COSTRINGENDO SEMPRE PIÙ STRUTTURE ALLA CHIUSURA… NEL 2020 GLI ASILI IN ITALIA COPRIVANO SOLO IL 26% DEL FABBISOGNO DELLE FAMIGLIE. CON GLI INVESTIMENTI TRAINATI DAL PNRR LA QUOTA DOVREBBE SALIRE AL 44% NEL 2026. MA CHI SE LI POTRÀ PERMETTERE?
All’appello dei rincari trainati dall’inflazione mancavano solo i servizi all’infanzia. All’aumento delle retribuzioni minime di tate e badanti – che sono state adeguate all’aggiornamento Istat con aumento a carico delle famiglie fino a 100 euro al mese – si aggiunge quello degli asili nido e delle mense scolastiche. Un’altra stangata sul conto economico di cittadini e consumatori vessati dalla corsa dei prezzi saliti del 10,1% rispetto allo scorso anno.
Nel 2022 il Parlamento delegava il governo a trovare risorse per aumentare i posti negli asili nido e tagliando progressivamente il peso delle rette; quest’anno i costi crescono.
Il comune di Milano ha varato un aumento sulle rette dell’8,1% a partire da gennaio – con conguaglio a carico di chi ha pagato l’intera retta in anticipo per beneficiare dello sconto del 10% -, altri si sono mossi la scorsa estate deliberando rincari medi legati all’inflazione, mentre gli istituti privati stanno studiando aumenti anche superiori al 10 per cento.
Con un distinguo: «Si può intervenire sulle rette solo quando una revisione delle tariffe è prevista dai bandi o dai contratti. Altrimenti devono rimanere invariate per tutto l’anno scolastico» spiega un avvocato che preferisce rimanere anonimo che però nota come dal bando pubblicato dal Comune di Milano non siano esplicitate possibili revisioni al rialzo. Un nodo che potrebbe aprire la strada a contenziosi amministrativi.
Già oggi le strutture lavorano in perdita o quasi e quelle che potrebbero decidere di chiudere i battenti aumentano giorno dopo giorno. «Stiamo studiando tutte le soluzioni possibili per non interrompere il servizio, ma la situazione è insostenibile» spiega Giampiero Redaelli, presidente di Fism, la Federazione italiana scuole materne che rappresenta circa novemila realtà educative in tutto il Paese, frequentate da circa mezzo milione di bambini e dove lavorano oltre quarantamila insegnanti e addetti.
Oltre all’aumento della bolletta, del riscaldamento, della lavanderia, dei prodotti di carta – dai fogli ai fazzoletti monouso che all’asilo si consumano in un lampo – vanno considerate le più che legittime richieste di adeguamenti salariali da parte dei dipendenti. Un circolo vizioso dal quale rischia di essere sempre più difficile uscire senza un intervento statale.
E se le scuole rischiano di dover alzare bandiera bianca, soffocate dell’aumento di costi non completamente trasferibile sui consumatori, a restare a piedi rischiano di essere le stesse famiglie: nel 2020 gli asili nido sul territorio coprivano solo il 26% del fabbisogno; con gli investimenti trainati dal Pnrr la quota dovrebbe salire al 44% nel 2026. A patto di poterselo permettere. Perché mentre le rette registrano aumenti a due cifre, i salari della collettività restano fermi e bonus e assegni unici vengono rapidamente erosi dalla corsa dell’inflazione.
(da agenzie)
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Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile ”CON QUEL GESTO HA DIMOSTRATO TUTTA LA SUA POCHEZZA. BLANCO NON HA COMPRESO I SACRIFICI CHE OCCORRONO PER RENDERE BELLO UN FIORE”
”I fiori rendono bella la nostra vita. Il gesto di Blanco non ammette
scusanti. Prendendo a calci quelle rose sul palco dell’Ariston di Sanremo ha dimostrato tutta la sua pochezza”.
Sono le parole di Vincenzo Malafronte, presidente del consorzio produttori florovivaisti campani nel commentare le gesta del vincitore del Festival di Sanremo, sul palco del teatro Ariston, dove ieri sera ha letteralmente distrutto le composizioni floreali presenti sulla scenografia della prima serata della kermesse canora in segno di protesta per il fatto che non riusciva ad ascoltare bene l’audio.”
Quel gesto – prosegue Malafronte – è un ‘calcio’ all’impegno quotidiano di tante persone che lavorano nel settore florovivaistico. Blanco non ha compreso minimamente i tanti sacrifici, la devozione e l’amore che occorre per rendere bello un fiore. Se voleva manifestare la sua insoddisfazione per un problema tecnico, avrebbe fatto più bella figura se quelle rose le avesse regalate all’orchestra o al pubblico. Con quei calci ha solo mortificato tutta la nostra categoria e soprattutto un’eccellenza del made in Italy”.
(da agenzie)
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Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile IL VIROLOGO HA ESPRESSO IL SUO DISAPPUNTO PER LA CIALTRONATA DEL CANTANTE CHE HA DISTRUTTO I FIORI SUL PLACO DELL’ARISTON
La performance inaspettata di Blanco, che ha interrotto la sua esibizione per prendere a calci i fiori sul palco dell’Ariston nel corso della prima serata del Festival di Sanremo, non sembra aver riscosso particolare simpatia nel pubblico.
Sia in quello presente fisicamente alla serata inaugurale della kermesse musicale, sia in quello che da casa ha assistito la scena e ha voluto commentarla sui social.
Tra loro, c’è anche il virologo Matteo Bassetti, che su Facebook non ha risparmiato dure parole di biasimo nei confronti del cantante.
«Che schifo lo spettacolo di Blanco stanotte al Festival di Sanremo. Mi auguro che chi lo ha fatto salire su quel palco chieda scusa a tutti gli italiani», ha scritto in un messaggio pubblicato sul suo profilo social personale. Per poi insinuare che il giovane non fosse perfettamente lucido: .«..dopo avergli fatto fare un esame tossicologico». Conclude infine: «Ottimo spot: antimodello per i giovani».
(da agenzie)
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Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile PARLARE DEL 41 BIS NON COMPORTA ALCUNA “RESA DELLO STATO” A PRESSIONI, PROVIAMO A FARE CHIAREZZA IN UN CLIMA INTOSSICATO DA PROPAGANDA, POPULISMO E MALAFEDE
Non è mai stato semplice parlare serenamente e lucidamente di
giustizia e diritti delle persone in stato di detenzione in questo Paese. Nel tempo del populismo penale e del trionfo dello storytelling emozionale nella comunicazione politica, sta diventando oltremodo complesso.
Farlo nel momento in cui viene arrestato il superlatitante Matteo Messina Denaro, il boss mafioso che quasi per definizione è meritevole di punizioni esemplari, pare davvero impresa impossibile. Se poi interviene il pericolo anarchico e si prospetta la saldatura tra “mafiosi, terroristi, jihadisti e brigatisti” (sto citando un parlamentare), siamo al punto da non poter neanche cominciare un discorso razionale. Eppure, ne avremmo davvero bisogno, perché rinunciare a porre domande e sollevare dubbi è sempre una sconfitta.
Il problema è lasciare che ogni ragionamento sia inficiato dal sacrosanto impegno di combattere in modo duro e inflessibile i fenomeni mafiosi o legati al terrorismo. Perché se poi ci prendessimo la briga di scendere più in profondità, allora potremmo avere un’idea radicalmente diversa della questione e renderci conto dei danni del populismo penale e delle semplificazioni a uso e consumo dell’opinione pubblica. Sul 41 bis, per esempio, dovremmo essere più lucidi, tutti.
Il 41 bis in Italia, storia e ragioni
È il 9 giugno del 1992 quando entra in vigore il decreto legge numero 306, “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”. L’Italia, manco a dirlo, è un Paese molto diverso: l’omicidio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, ha sconvolto l’opinione pubblica. Serve una reazione forte e immediata, qualcosa più di un segnale.
Il governo emana un decreto per “rafforzare gli strumenti processuali, di prevenzione e di repressione nei confronti della criminalità organizzata”, che contiene una revisione complessiva delle norme in materia di esecuzione della pena. Con l’articolo 19 del decreto si modifica l’articolo 41 bis della legge numero 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), stabilendo la possibilità per il ministro della Giustizia (anche su richiesta di quello dell’Interno) di “sospendere, in tutto o in parte” le normali regole di trattamento dei detenuti che abbiano riportato condanne per particolari reati, quando “ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”.
Dietro questa formulazione si nascondono alcune pratiche che principalmente servono a impedire ogni forma di comunicazione con l’esterno per particolari tipologie di detenuti.
In buona sostanza, si cerca di impedire agli affiliati a organizzazioni criminali di mantenere contatti con l’esterno, in modo da spezzare le catene di comando e il passaggio di informazioni. Perché un detenuto sia sottoposto al 41bis deve esserci una ragione oggettiva (l’aver commesso una determinata tipologia di delitti), sia una soggettiva, ovvero tale “da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva”. È uno strumento importante, da maneggiare però con grande attenzione, come più volte ricordato da osservatori internazionali e non solo.
Come vivono i detenuti al 41 bis
Una cella singola, in cui rimanere da soli per 22 ore al giorno, senza possibilità persino di vedere le celle degli altri detenuti. Due ore al giorno in compagnia al massimo di altri tre detenuti, scelti dall’autorità giudiziaria, sempre se possibile.
Un solo colloquio al mese della durata di un’ora (in luogo dei sei concessi agli altri detenuti), sotto stretto controllo di un agente di polizia penitenziaria.
Nessuna possibilità di contatto umano (c’è un vetro divisorio), un colloquio telefonico al mese con i familiari (in alternativa alla visita e solo se gli interlocutori si recano in un istituto penitenziario).
Non si può lasciare il carcere neanche per recarsi alle udienze. Si è soggetti ad altri divieti specifici, stabiliti di volta in volta dalle autorità, come il numero di oggetti da poter avere in cella o l’accesso a beni di consumo quotidiano. Ci sono casi in cui ai detenuti è negata la possibilità di esporre le foto dei propri familiari in cella.
In linea teorica, si tratterebbe di uno strumento preventivo: lo scopo è quello di impedire che un capo di un’organizzazione criminale continui a comandare anche se in regime di detenzione. In tal senso viene considerato essenziale l’isolamento del detenuto, non solo rispetto ai membri della sua organizzazione criminale che non sono in carcere, ma anche agli altri detenuti.
Come spiega bene un report della Fondazione Antigone, però, “vista la rigidità del suo contenuto è evidente che assuma anche un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà”.
È, per l’appunto, il carcere duro, che evoca l’idea dello stato che punisce in modo intransigente non tanto (o non solo) chi si è macchiato di reati di particolare gravità, ma chi è inserito all’interno di organizzazioni criminali e si rifiuta di collaborare con la giustizia.
Questo è un aspetto particolarmente interessante della questione, perché, come si legge sempre nel report, il regime di carcere duro sembra pensato per “puntare alla redenzione”: far crollare sul piano psicofisico il detenuto in modo da spingerlo a collaborare con la giustizia, il solo vero “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata”, come scrive la Corte Costituzionale.
Cosa non va nel dibattito sul 41 bis
Patrizio Gonnella qualche tempo fa scriveva sul Manifesto:
Il 41 bis è un regime penitenziario pesantissimo che proprio a causa della sua estrema durezza la Corte Costituzionale ha affermato che debba necessariamente essere temporaneo. L’isolamento prolungato a cui i detenuti sono sottoposti produce effetti irreversibili di de-socializzazione e de-localizzazione. I vetri divisori ai colloqui, la negazione di ogni forma di socialità, la chiusura di ogni rapporto con l’esterno sono giuridicamente e costituzionalmente tollerabili solo se limitati nel tempo.
Agli inizi degli anni Novanta, ossia a pochi anni dalla sua introduzione, un funzionario dell’amministrazione penitenziaria italiana nel rispondere agli ispettori del Comitato europeo per la prevenzione della tortura di Strasburgo, affermava che il 41 bis serviva a far parlare i detenuti. Una pratica che assomiglia tanto alla tortura. Tortura che in Italia non è reato.
Luigi Manconi evidenzia con grande lucidità come il 41 bis sia ormai diventato altro rispetto alla propria ragion d’essere, quella di impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna.
Ossia, è diventato “carcere duro”, nonostante non esista nel nostro ordinamento una “detenzione aggravata da un surplus di afflizione” e dunque non dovrebbe esistere “un carcere al quale va aggiunto un trattamento che introduce la sofferenza come pena addizionale, o divieti tali da ridurre gli spazi di vita, socializzazione ed espressione della persona reclusa”.
È un punto essenziale, che spesso si tende a eludere dai ragionamenti complessivi: il 41 bis ha una precisa funzione preventiva, la cui unica finalità dovrebbe essere quella di “recidere i legami tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza”.
Si tratta di uno scopo che potrebbe essere raggiunto con gli strumenti attualmente a disposizione (controlli, tracciamenti eccetera), senza “infliggere sanzioni e limiti che offendono la dignità della persona e che non hanno alcuna giustificazione razionale” (sempre Manconi in una intervista per Fanpage.it). Ci sono già, in definitiva, alternative valide e aree di alta sicurezza che possono ospitare detenuti con specifiche caratteristiche.
Sul punto anche il magistrato Piergiorgio Morosini invitava a “capire se tutte le prescrizioni previste dalla normativa sono compatibili con i diritti dei reclusi”, parlando senza mezzi termini della configurazione odierna come “un regime carcerario terribile, dove il rispetto dei diritti umani è veramente a forte rischio”. Peraltro, la natura temporanea del regime del 41 bis sembra cozzare in qualche modo con la situazione attuale, che riguarda circa 300 condannati all’ergastolo.
Queste sono solo alcune delle considerazioni che ci fanno capire come in realtà il dibattito sul 41 bis sia viziato da una serie di distorsioni argomentative. Quella per cui si è costretti a schierarsi pro o contro il 41 bis parlando di un qualcosa di radicalmente diverso, tanto per cominciare. Nessuno potrebbe ragionevolmente dirsi contrario all’interruzione delle comunicazioni fra un boss di camorra e la sua organizzazione. Ma il 41 bis non è (più) solo questo. È una forma di afflizione aggiuntiva, che, complice la lentezza dei passaggi burocratici di revisione/eliminazione, finisce per riguardare un numero molto ampio di detenuti.
Tanti di noi, del tutto comprensibilmente, sono influenzati dal curriculum criminale e dalla pericolosità di una persona detenuta: la sete di giustizia è così forte da oscurare tutto il resto.
Le immagini degli atroci crimini commessi da mafiosi o terroristi rintuzzano ogni tentativo di scendere in profondità, come se esistesse una zona franca del pensiero, in cui principi e pratiche di civiltà possono passare in secondo piano, in nome di una sorta di giustizialismo morale. Persino le luci guida della nostra comunità, la Costituzione e i codici che tutelano diritti, possono essere calpestate se ciò appare utile a punire il supercattivo di turno.
La cui vita, ci hanno spiegato in loop in queste settimane, non può avere lo stesso valore delle altre, semplicemente perché lui non ha mostrato rispetto per quelle che ha preso o ha minacciato. In che baratro ci porterà questa spirale non lo sappiamo fino in fondo.
Non è un discorso di pietas, intendiamoci; non è la comprensione della sofferenza umana che dovrebbe spingerci a una seria riflessione sugli strumenti legislativi (non solo, almeno).
Il punto è che l’estensione o l’applicazione delle leggi dovrebbe andare oltre il singolo caso, resistendo alla spinta emozionale del momento in nome di equità, giustizia ed equilibrio. In linea di principio, non dovremmo considerare accettabile punire in modo mostruoso neanche chi si è macchiato di crimini mostruosi; dovremmo invece reputare sempre e comunque indegna la violenza psicologica, le privazioni ingiustificate e le torture vere e proprie.
Non essere consapevoli di cosa è la detenzione in regime di 41 bis, o peggio ancora, considerarne le distorsioni come meri effetti collaterali di una punizione comunque necessaria per soggetti reputati spregevoli, è un cedimento a quel populismo penale che tanti danni ha fatto e sta ancora facendo alla nostra società.
Parlare del 41 bis non significa rimodulare il giudizio sui crimini di Matteo Messina Denaro o sulle scelte di Alfredo Cospito. Né ha alcun senso porre la discussione sui metodi di protesta come “un ricatto cui lo Stato non deve cedere”, mettendo nello stesso calderone forme di lotta (come lo sciopero della fame, le manifestazioni e le occupazioni) e azioni delittuose compiute da organizzazioni criminali, come purtroppo stiamo assistendo in queste settimane dominate da una narrazione tossica che sta raggiungendo vette surreali (con tutta la cautela del caso, è oltremodo ridicolo dipingere l’Italia come un Paese le cui istituzioni democratiche rischiano di cedere sotto i colpi delle manifestazioni degli anarchici).
(da Fanpage)
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Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile LE AUTORITÀ LANCIANO L’ALLARME PER L’ELEVATA DIFFUSIONE DELLE ARMI: “È NECESSARIO RIVEDERE E IRRIGIDIRE I CRITERI DI ASSEGNAZIONE DEI PORTO D’ARMA”
Italiani, brava gente, ma con il porto d’arma. Gli ultimi dati ufficiali dicono che sono 1.222.537 le licenze di porto d’armi […] quasi una metà di quelli con porto d’armi, pari a 543.803 licenze, sono di uso sportivo. Il resto sono 600mila cacciatori, 33mila guardie giurate e poi 12.500 persone che hanno un porto d’arma per difesa personale. […] E si stima che ci siano in circolazione almeno 10 milioni di pistole.
Una licenza per il porto d’armi, peraltro, dura 5 anni, va rinnovata in prefettura, occorre una certificazione medica, e dal 2021 c’è stata anche una minima stretta in quanto non è più possibile avere armi per chi sia stato sottoposto a un Trattamento sanitario obbligatorio. Accadeva infatti anche questo: che i prefetti, per motivi di privacy, non potessero avere accesso ai dati sanitari dei richiedenti.
Chi si occupa di sicurezza ritiene che sia un errore strategico diffondere le armi. Poco tempo fa, Domenico Pianese, segretario generale del sindacato Coisp: «È più che mai necessario rivedere e irrigidire i criteri di assegnazione dei porto d’arma e dei nullaosta all’acquisto ai privati cittadini».
Già, perché molti hanno un semplice nullaosta, il che permette loro tranquillamente di tenere le armi in casa. «E mentre il porto d’armi viene concesso in seguito a un’istruttoria, e in casi di necessità comprovata, il nullaosta all’acquisto è molto più semplice da ottenere dal momento che decadono i requisiti della straordinarietà. Con un nullaosta è possibile acquistare in una qualsiasi armeria fino a sei fucili, due pistole e 1.500 proiettili da tenere in casa».
Un altro dato salta agli occhi: il Censis recentemente ha sondato le paure degli italiani e ha scoperto che il 9,6% dei residenti ritiene di dover difendere la propria abitazione con un’arma da fuoco. Sono circa 4 milioni di persone. Molte più di quelle autorizzate dal ministero dell’Interno. Palesemente è da questo bacino che vengono fuori i 543mila che dichiarano un uso sportivo e vanno regolarmente ad addestrarsi al poligono.
L’allarme è carsico e riemerge ad ogni tragedia. Due anni fa, ci fu un triplice allucinante delitto ad Ardea, terminato con il suicidio dell’assassino, un giovane con palesi problemi psichici. Quella storia fece rabbrividire l’Italia perché furono uccisi due bambini al parco. Quella volta, il giovane Andrea Appignani si era impadronito dell’arma del padre.
«In un Paese con 10 milioni di pistole e una crisi sociale già grave da anni, acuita dalla pandemia, un’Italia spaventata e armata, quante Ardea rischiamo nei prossimi tempi?», si domandava con angoscia Luca Di Bartolomei, figlio di Agostino, lo storico capitano della Roma suicidatosi nel 1994, che al fenomeno delle armi ha dedicato un libro, «Dritto al cuore».
(da la Stampa)
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Febbraio 8th, 2023 Riccardo Fucile “NON LO VOGLIO, NON CONSIDERA IL GENERE NEUTRO”… L’ESPONENTE DI FORZA ITALIA SI SMARCA DAL CENTRODESTRA
“Il passaporto del Parlamento europeo? Non è inclusivo, e per
protesta ho cancellato la mia domanda di lasciapassare perché non intendo rispondere al fatto di essere un maschio o una femmina”.
Con queste parole Alessandra Mussolini, eurodeputata di Forza Italia e componente del gruppo del Pe, ha rifiutato il documento di viaggio dell’Ue rilasciato da Bruxelles. Per avere il passaporto bisogna indicare il proprio genere, indicato però solo con due opzioni: maschio o femmina. “Non c’è l’opzione ‘altro’ oppure ‘non voglio menzionarlo'”, ha spiegato Mussolini, che ha chiesto invece di mettere una ‘x’ nella casella che indica il genere. Ma, spiega l’eurodeputata, all’ufficio competente “dicono che non si può fare perché è illegale” e che bisogna obbligatoriamente “inserirsi nella categoria ‘maschio’ o ‘femmina’”.
A questo punto Mussolini domanda provocatoriamente: “Ma l’Unione europea non è sovranazionale e serve proprio per andare avanti e superare gli steccati? Quante volte facciamo testi contro le discriminazioni di genere e via dicendo?”.
Parole che lasciano quasi stupiti, considerando che Mussolini è stata eletta al Parlamento europeo nelle liste di Forza Italia e proprio FI al governo è alleata, nella maggioranza, con Fratelli d’Italia.
Partito di cui fa parte quelle a difesa dei diritti gender, che si distanziano molto da quelle pronunciate da Maddalena Morgante, deputata di Fdi che nell’Aula della Camera nei giorni scorsi ha chiesto l’esclusione del rapper Rosa Chemical, al secolo Manuel Franco Rocati, dal Festival di Sanremo perchè rappresenta un esempio del “gender fluid”.
Dopo il rifiuto del funzionario del Parlamento europeo alla sua richiesta di inserire una ‘x’ nella casella in cui indicare il genere, Mussolini spiega di aver cancellato la sua domanda di passaporto “perché se si accettano sempre le convenzioni, non faremo passi in avanti. E poi ho mandato una email dicendo che questo è un atteggiamento discriminatorio di genere e che per questo io non intendo ricevere il lasciapassare dall’Ue”.
(da agenzie)
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