Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile OCCHIO ALLA SCHLEIN: PER IL 42% PUO’ ESSERE UN’OPPORTUNITA’ DI RINASCITA DEL PD
È sempre tempo di sondaggi. E lo è ogni martedì sera a DiMartedì, nel segmento della trasmissione condotta da Giovanni Floris su La7 dove sale in cattedra Nando Pagnoncelli, il sondaggista di Ipsos.
Si parte da un quesito tranchant: “Il governo Meloni è all’altezza della situazione?”. Per il 42% no, per il 41% sì è la risposta del campione.
Ma Pagnoncelli spiega che la risposta è orientata dall’appartenenza politica e “l’ago della bilancia lo fa la parte che si astiene”.
Si parla poi della festa di compleanno per i 50 anni di Matteo Salvini.
E secondo il campione di Pagnoncelli, “il 44% ritiene che sia stata una brutta scivolata, meglio evitare”; mentre “il 40% ritiene che non ci fosse nulla di male. Il 16% non si è espresso”
Per ultima Elly Schlein, la segretaria del Pd. E si scopre un poco a sorpresa che per il 42% del campione rappresenta un’opportunità di rinascita per il partito, mentre per il 31% è una leadership che durerà poco. Il 27%, infine, non sa o non indica.
(da agenzie)
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Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile “SIAMO MOLTO SECCATI PER IL SUO INVITO”… LA MAGLIETTA “MELONI PENSATI SGRADITA”
Non tutti i sindacalisti sembrano aver preso bene la decisione
del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, di invitare la premier Giorgia Meloni al congresso del sindacato storico della sinistra italiana «Il lavoro crea il futuro» a Rimini.
Un gruppo, più o meno nutrito, di delegati ha infatti espresso la propria opposizione.
Tra questi, Eliana Como, dirigente nazionale della Cgil che, in diretta con Rai Radio 1 dalla provincia romagnola, ha fatto sapere di essere «molto seccata per il suo invito. Questo è il congresso della Cgil, non avevamo nessun obbligo istituzionale nei suoi confronti. Lei è la maggiore esponente di Fratelli d’Italia, ha una storia e un’identità dichiaratamente ed esplicitamente fascista», ha detto Como a Un Giorno da Pecora.
L’ipotesi concreta è che un gruppo di delegati del congresso della Cgil, abbandoni la sala quando, venerdì 17 marzo, la presidente del Consiglio prenderà parola. «Non staremo lì fermi in silenzio a sentire: protesteremo».
In quale modo? «Lasceremo la sala e inviteremo anche gli altri a non ascoltare la premier. Credo che saremo in tanti, io e il mio gruppo saremo una trentina – ha affermato a Rai Radio 1 Como – saremo seduti a metà della sala e ce ne andremo quando verrà annunciata. Vi assicuro che saremo visibili».
La protesta dei delegati, però, non si limiterà a un abbandono, annunciato, della sala dove avverrà l’intervento di Meloni.
Stando alle parole di Como, infatti, la dirigente nazionale si presenterà a Rimini con una mantella di protesta, sullo stile di quella usata da Chiara Ferragni durante il Festival di Sanremo, nella quale ci sarà scritto «Meloni pensati sgradita», ha concluso la sindacalista, mostrandola ai conduttori del programma radiofonico della Rai.
(da agenzie)
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Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile NOVE ANNI FA SCRISSE SU FACEBOOK: “CARA GIORGIA, IL TUO ABBIGLIAMENTO NON SI ADDICE AL TUO RUOLO… CAMBIA STILISTA”
Di Giorgia Meloni fino a qualche anno fa condivideva assai poco. Non l’aveva convinta l’idea di dar vita a Fratelli d’Italia e alzava il sopracciglio anche davanti al look dell’attuale premier.
Ma il tempo passa e l’assessora Luisa Regimenti, dopo essere passata dall’appoggio al Movimento Pro Life a posizioni molto più progressiste anche in tema di famiglia, dopo aver detto addio alla Lega con cui nel 2019 era entrata al Parlamento europeo e aver aderito a Forza Italia, ora è entrata anche nella giunta regionale a trazione Fratelli d’Italia.
È diventata esponente di un esecutivo che ha come stella polare quella stessa Meloni di cui la delegata al Personale, polizia locale, enti locali e sicurezza urbana criticava persino il modo di vestirsi.
Stimato medico legale e professoressa alle università di Tor Vergata, Parma e Catania, Luisa Regimenti nel 2009, ormai 14 anni fa, sembrava molto più a destra di tanti suoi attuali colleghi e, scrivendo sui social a «Tutti i camerati di Fb si trovano a Napoli», per partecipare a un incontro, auspicava che venisse scelto un «luogo piuttosto grande» per ospitare tutti.
Nove anni fa, quando Giorgia Meloni venne scelta come presidente di Fratelli d’Italia, all’epoca un partitino nato da una scissione del Popolo della libertà, l’assessora attaccava: «Cara Giorgia, il tuo abbigliamento non si addice al tuo ruolo… Anche l’abito in chi fa politica è un mezzo di comunicazione, al quale non fai troppo caso, ma che oggi in modo particolare stride con i contenuti del tuo intervento… sei malconsigliata… cambia stilista».
Non era convinta neppure del simbolo scelto per il partito e presentato alla Camera da Meloni insieme a Guido Crosetto, Francesco Lollobrigida, Ignazio La Russa, Gianni Alemanno e Fabio Rampelli: «Potevano lasciare il simbolo di An dove era… Gli avrebbero almeno conservato la dignità di un passato glorioso e sincero».
(da La Repubblica)
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Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile LE PRESSIONI DI LA RUSSA PER L’AMICO FLAVIO CATTANEO, LE MOSSE NELL’OMBRA DI GAETANO CAPUTI E QUELLE DELL’INSOSPETTABILE “EX COMUNISTA” LUCIANO VIOLANTE
A parte qualche eccezione l’incastro dei nomi che guideranno
per i prossimi tre anni colossi dell’energia come Eni ed Enel, la big delle armi Leonardo, il gigante Poste, la banca Monte dei Paschi di Siena e società di peso come Terna ed Enav non è ancora chiuso.
Meloni ha chiare due cose: il peso politico e strategico di scelte che verranno addossate a lei e solo a lei (gli ad di Enel, Eni e Leonardo hanno oggi più rilevanza di un ministro con portafoglio di fascia alta).
E il pericolo che lei considera esiziale di aprire “tavoli” o “tavolini” con le altre forze della maggioranza, strumento abitualmente usato dai partiti per spartirsi società e consigli di amministrazione. «Meloni rifugge il manuale Cencelli: lei vuole premiare le competenze migliori e individuare le persone più adeguate, senza badare alle loro tendenze politiche» spiegano dal suo entourage.
L’intento finale della premier è quello di affrontare le richieste di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, entrambi ridimensionati dopo elezioni politiche e regionali e affamati di posti, provando a respingere desiderata considerati a oggi inaccettabili. «Anche davanti a minacce di ripercussioni e sfaceli da parte dei nostri alleati Meloni non cambierà idea».
A ora il piano di Meloni è questo: lei e i suoi uomini più fidati indicheranno quasi tutti gli amministratori delegati, mentre sarà lasciata mano più libera a Lega e Forza Italia sulle presidenze. I cda saranno invece divisi dai partiti con il classico sistema delle quote, tanto che le candidature da settimane vengono infilate nell’urna conservata gelosamente dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari.
Salvini, forte anche del risultato non negativo preso alle ultime regionali in Lombardia, spera di piegarla a più miti consigli costringendo la compagna di karaoke a dare alla Lega almeno un ad di fascia alta. Al netto delle tensioni in maggioranza, […] quello che oggi gli osservatori interessati temono di più (dal Quirinale a Confindustria, dai pochi poteri forti rimasti ai fondi stranieri che investono in Italia) è che la destra sbagli la selezione, cannando uomini e manager.
Il discrimine tra successo e fallimento sarà responsabilità dei pochissimi che incideranno sul dossier. Su tutti, la premier. Presuntuosa e autoritaria, secondo qualche ministro di FdI «eccessivamente sicura di sé in un campo di cui sa poco o nulla», nelle scelte ascolterà come sempre solo i fedelissimi, decidendo infine tutto da sola.
Qualche candidato ha avuto però una dritta sul un riflesso pavolviano che caratterizza la presidente del Consiglio: raccontare una cosa negativa di un possibile rivale ha un valore dieci volte più alto di una raccomandazione. «Più che caldeggiare persone, con Giorgia bisogna “zappettare” intorno agli altri candidati per farli cadere».
Un metodo, per esempio, che ha portato di recente nei servizi segreti alla defenestrazione di Roberto Baldoni, fino a pochi giorni fa capo dell’agenzia per la cybersicurezza, e alla mancata conferma di altri vertici dei servizi, dirigenti silurati che potrebbero rientrare ora in qualche cda o nuove posizioni pubbliche.
Meloni tratta la partita delle nomine con un cerchio magico. Dove conta moltissimo la sorella Arianna, non solo in quanto parente prossima ma come consigliera politica d’antan. Già in passato fautrice della candidatura di Enrico Michetti a sindaco di Roma, sostenitrice del ministro della Salute Orazio Schillaci, qualche mese fa Arianna ha salvato – secondo quanto scoperto da Domani – la candidatura di Francesco Rocca a presidente della regione Lazio, a un certo punto messa in bilico da una sfilza di indiscrezioni malevole arrivate a palazzo Chigi.
L’altra pretoriana di Meloni è Patrizia Scurti, da lustri segretaria particolare della leader. Già vice della segretaria di Gianfranco Fini, non ha però lo standing per occuparsi di nomine, né la velleità di determinarle nonostante qualcuno la descriva come una sorta di novella Rasputin.
«Patrizia segue Giorgia come un ombra, le cura meticolosamente l’agenda, ne difende strenuamente la privacy, ma nulla di più», dicono da Fratelli d’Italia. In tema di fiducia e privacy, non è un caso, forse, che proprio il marito di Scurti – risulta a chi scrive – sia stato chiamato a fare il capo scorta della presidente del Consiglio.
Se Scurti inciderà poco sulla scelta dei manager, molti danno credito al potere emergente del capo di gabinetto Gaetano Caputi. In realtà il magistrato ha avuto finora un campo d’azione assai più limitato rispetto a quello che fu del suo predecessore Antonio Funiciello. Preparato e capace, carattere fumantino, Caputi è finora stato relegato dalla premier nell’angolo delle pure valutazioni giuridiche sui provvedimenti del governo: «parla una lingua che gli altri cortigiani non capiscono, e non si è ancora amalgamato del tutto all’ambiente di Chigi», dice chi lo stima da sempre.
Il principale spin doctor del gioco delle sedie è invece l’ex missino Gianbattista Fazzolari, oggi l’unico vero braccio destro e sinistro di Meloni. È il sottosegretario l’incaricato a raccogliere il curriculum di tutti i candidati, ed è lui a essere stato autorizzato a coordinare la partita delle partecipate con i maggiorenti di Lega e Forza Italia.
Teorico del blocco navale sui migranti, francofono antifrancese, colto ma considerato da molti «uomo dal pensiero indeformabile», Meloni lo considera il più affidabile tra i suoi affezionati. Gaffeur di razza, Fazzolari è avulso dalle logiche di sistema, dai salotti romani e dai potentati economici di Milano, e divide ancora il mondo «tra chi è con noi e chi è contro di noi», tra «questo è nostro, e questo è vostro».
In realtà fosse confermata l’ipotesi meloniana di lasciare al suo posto l’ad di Eni Claudio Descalzi (supererebbe per longevità il mandato di Enrico Mattei) e Matteo Del Fante, il manager voluto da Matteo Renzi a Terna che ha poi rilanciato le Poste, la premier da un lato ammetterebbe di non avere nomi adeguati a sostituire manager scelti dall’opposizione. Ma dall’altro mostrerebbe saggezza.
«Fazzolari, potesse agire in autonomia, prenderebbe tutto il prendibile», dicono i suoi antipatizzanti. «Anche a rischio di far saltare i delicati equilibri nella maggioranza e i rapporti con il deep state, emarginando mondi, poteri e civil servant che nel medio-lungo periodo possono fartela pagare cara».
L’altro dioscuro della Meloni dentro Fratelli d’Italia è Francesco Lollobrigida, cognato e marito della sorella Arianna, e ha invece un approccio meno ruvido del sottosegretario. Democristiano di indole, capo del partito e oggi ministro dell’Agricoltura, “Lollo” di recente ha piazzato a 85mila euro l’anno l’esperto di fund raising ed ex comandante della Gdf Alessio Marchi come capo della strategica Sin, srl pubblico-privata che gestisce il sistema informatico sul quale passano i miliardi dei fondi europei destinati alle aziende agricole italiane.
Mentre nelle posizioni di vertice delle partecipate di stato sta pensando ad outsider come Maurizio Ferrante, manager poco conosciuto di Consip ma suo conoscente, che mira a un posto alle Poste. Lollobrigida non direbbe mai no nemmeno alle ambizioni segrete del più quotato Flavio Valeri, banchiere ex Deutsche Bank oggi presidente di Lazard Italia che – secondo alcune fonti non confermate – avrebbe incontrato Meloni in tempi non sospetti.
Qualcuno crede che il rapporto privilegiato con la società francese ne mini le chance di vincere il gioco della sedia (quella di Montepaschi?), ma l’ingegnere con l’Mba ad Harvard potrebbe essere una delle carte coperte del governo.
Lollobrigida, nella partita delle nomine, avrà però meno voce in capitolo di quanto si creda. Le sorelle Meloni non hanno infatti apprezzato alcune decisioni del ministro in termini di scelte prese in solitaria e non concordate in famiglia. «Il rapporto (politico) si è raffreddato, e per questo Francesco non ha oggi la forza di determinare decisioni cruciali come faceva fino a pochissimo tempo fa», dice un senatore di Fratelli d’Italia.
Tra i decisori di Fratelli d’Italia, in posizione più defilata rispetto al cerchio magico della premier, c’è il ministro della Difesa Guido Crosetto (che proverà fino alla fine a far prevalere il suo candidato in Leonardo, ad ora Lorenzo Mariani) e il potente presidente del Senato Ignazio La Russa: se suo figlio Cochis e la sua ex segretaria sono stati assunti di recente alla Fondazione Milano-Cortina mentre la partner dello studio dell’altro figlio, Geronimo, tre giorni fa è diventata assessora alla Cultura in regione Lombardia, nella partita delle nomine La Russa appoggia solo un nome. Quello del suo vecchio amico Flavio Cattaneo, che vorrebbe ad di Enel o Poste.
Ma l’astro nascente è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, che Meloni ha voluto – sorta di primus inter pares – pure segretario del Consiglio dei ministri. Mantovano ha la delega sui servizi segreti, ma metterà il becco su ogni nomina riguardante ruoli inerenti la sicurezza, le forze dell’ordine e la magistratura. Conversatore doc e ultracattolico secondo qualche ministro «si sta allargando troppo».
Perfino il ministro dello Sport Andrea Abodi non ha visto di buon occhio la recente nomina di Ugo Taucer a consigliere politico di Mantovano, per 30mila euro l’anno: prefetto, Taucer è da anni procuratore generale dello Sport al Coni, e qualcuno crede che potrebbe essere anche lui a proporre nomi (in lizza ci sarebbe anche il figlio di Ciriaco De Mita, Giuseppe, che vanta un passato come direttore generale dell’Avellino) per la prestigiosa poltrona della spa Sport & Salute, dove l’uscente Vito Cozzoli sogna una difficile riconferma.
Carattere diffidente e autoritario, oltre a Taucer Mantovano ascolta pochissime persone. Tra queste l’altro suo consigliere politico Alessandro Monteduro. E “l’insospettabile” ex comunista Luciano Violante.
L’ex presidente della Camera ha in questa fase un ruolo simile a quello che Massimo D’Alema ha avuto nel Conte II: amico di Mantovano da quando quest’ultimo era sottosegretario all’Interno, è un sostenitore di Meloni, che consiglia in segreto e blandisce pubblicamente. «Altro che fascismo. Pinuccio Tatarella pensava a un partito conservatore moderno, ovvero quello che sta cercando di mettere in piedi oggi Giorgia Meloni», ha ribadito pochi giorni fa in un’intervista a Formiche.
Antesignano sostenitore della riconciliazione tra antifascisti ed eredi della Repubblica di Salò, Violante dal 2019 è presidente della fondazione “Civiltà delle Macchine” in pancia a Leonardo, dove fu chiamato dall’allora presidente del colosso pubblico Gianni De Gennaro. […] De Gennaro è persona capacissima, non avrà strada facile. Non solo perché non è impossibile che l’attuale numero uno Giuseppe Zafarana (stimato dal Quirinale) venga di nuovo riconfermato, ma perché il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti (che ha delega sulla Gdf) sta pensando anche ad altri nomi per la successione. In primis, a quello del generale Umberto Sirico.
Giorgetti è, fuori dal cerchio nero della Meloni, uno dei pochissimi che influirà sul gioco delle sedie. E, fosse ufficializzato un tavolo che Meloni non vuole, sarà uno dei quattro big a stilare profili e proposte. Insieme a Meloni, a Matteo Salvini per la Lega e ad Antonio Tajani per Forza Italia.
Giorgetti da capo del Mef è di fatto controllore delle partecipate, e Meloni spera di usarlo come contrappeso alle richieste del segretario della Lega. Non è scontato ci riesca: Salvini e Giorgetti ultimamente hanno trovato un equilibrio a due insperato.
Il draghiano sta lavorando per trovare manager e dirigenti “nordisti” del mondo produttivo di riferimento da mettere nei cda, mentre il capitano – che spera ancora di poter intestarsi l’ad di una big come Leonardo – è ministro delle Infrastrutture e sa che potrà portare a casa non l’ad di Fs (Luigi Ferraris scade l’anno prossimo ed è saldo al comando) ma quello di Rfi, la società della rete ferroviaria che deve investire oltre 20 miliardi di fondi del Pnrr. Il leghista vorrebbe però mettere becco anche sui vertici di Trenitalia. «Questo non è possibile» dice un meloniano. «Se Lega prende Rfi, l’altra tocca a noi».
E Forza Italia? Il partito di Berlusconi è diviso e frastagliato. Sono in due a gestire la partita: il frontman Tajani (che qualche giorno fa è stato visto in un hotel a chiacchierare con Paolo Scaroni, che Berlusconi vuole spendere come presidente di Enel) e il solito Gianni Letta. Il vecchio braccio destro del Cavaliere è stato richiamato in servizio solo poche settimane fa, quando Licia Ronzulli ha litigato con Marta Fascina e ha perso molti dei suoi privilegi.
(da Editoriale Domani)
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Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile ELLY ATTACCA SUL SALARIO MINIMO, MELONI CONTRARIA, MA LA DIFFERENZA TRA LE DUE COMINCIA A VEDERSI: “LEI’ E’ AL GOVERNO, NON PIU’ ALL’OPPOSIZIONE, E’ IL MOMENTO CHE DEVE DARE DELLE RISPOSTE AGLI ITALIANE”
Sono i primi due partiti per consenso presenti nel parlamento italiano, Fratelli d’Italia e Partito democratico. A guidarli, ci sono due donne. Giorgia Meloni, la cui foto è stata affissa una settimana fa nella Sala delle Donne di Montecitorio, in quanto prima presidente del Consiglio donna che l’Italia abbia mai avuto. Ed Elly Schlein, prima segretaria di genere femminile nella storia del Nazareno.
Oggi, nell’Aula della Camera, le due leader si affrontano in un inedito confronto ravvicinato.
La deputata Dem interroga la presidente del Consiglio su un suo cavallo di battaglia delle campagna delle primarie, il salario minimo. Ancora, nella lista dei primati della politica che, in questo 15 marzo, si allunga, va detto che Meloni non aveva mai sostenuto un question time da capo del governo. E sono passati quasi cinque mesi dalla sua nomina.
Schlein recupera una dichiarazione passata di Meloni per introdurre la sua interrogazione: «Lei qualche tempo fa ha definito il salario minimo uno specchietto per le allodole. Vada a dirlo a chi ha uno stipendio da fame. Mi stupisce che non vediate il nesso tra la denatalità e la condizione precaria delle donne. Perché non approviamo subito salario minimo e congedo paritario di almeno tre mesi? Aiuterebbe anche il lavoro delle donne, noi ci siamo».
Meloni, rispondendo a Schlein, ribadisce il suo giudizio negativo sull’introduzione del salario minimo: ritiene la misura ininfluente per risolvere il problema dei cosiddetti lavoratori poveri.
«Chi ha governato fino ad ora ha reso più poveri i lavoratori italiani – afferma Meloni -. Questo governo deve fare quello che può per invertire la rotta. Abbiamo dato segnali in questo senso, dei primi passi verso l’obiettivo. Però, per raggiungerlo, in un contesto come quello italiano caratterizzato da una alta copertura della contrattazione collettiva e da molto lavoro irregolare, il governo non è convinto che il salario minimo sia la soluzione. Su questa materia, non ho un approccio ideologico. Ma il salario minimo rischia di fare un favore alle grandi concentrazioni economiche per rivedere a ribasso i diritti dei lavoratori. Io credo sia più efficace estendere la contrattazione collettiva a quei lavoratori per cui oggi non è prevista. Sui congedi parentali – conclude Meloni, dando un segnale di apertura -, sono sempre disponibile a confrontarmi».
La replica di Schlein: «Le emergenze per voi sono i rave, i condoni e colpire i figli delle famiglie lgbt»
Partendo dalle conclusioni della replica di Schlein, la segretaria del Pd attacca Meloni con tre dichiarazioni forti.
La prima: «Rappresentate una destra ossessionata dall’immigrazione, ma che non vede l’emigrazione dei giovani italiani». La seconda: «Le emergenze per voi sono i rave, i condoni e colpire i figli delle famiglie lgbt». E infine: «Sul piano sociale dimostrate incapacità, approssimazione e insensibilità».
Ecco la replica integrale della segretaria Dem: «Le sue risposte non ci soddisfano, signora presidente. Non è più il tempo di dare le responsabilità ad altri, adesso spetta a voi dare queste risposte agli italiani ed alle italiane. Non si nasconda dietro ad un dito, presidente. È vero, lei è in carica da soli cinque mesi, ma sta andando in direzione opposta e sbagliata. Siete la destra che è ossessionata dall’immigrazione, ma che non vede l’emigrazione di tanti giovani che sono costretti dai salari così bassi e dai contratti così precari a costruirsi un futuro altrove. Avete colpito e quasi cancellato “opzione donna”. I vostri veri punti di emergenza sono i rave, i condoni, la guerra alle ong, e da ieri colpite ideologicamente i diritti dei figli e delle figlie delle famiglie omogenitoriali, che hanno diritti come tutti i bambini e tutte le bambine che fanno parte della nostra comunità. Sul piano sociale, la vostra azione si definisce con tre parole: incapacità, approssimazione ed insensibilità, ma la vostra propaganda sta sfumando».
Il testo integrale dell’interrogazione depositata da Schlein
Al presidente del Consiglio dei ministri. Premesso che: sono tanti i lavoratori in Italia annoverabili tra i cosiddetti «lavoratori poveri», in contrasto con il principio sancito dall’articolo 36 della Costituzione; il Fondo monetario internazionale ha calcolato che dal 1980 al 2017 la quota del prodotto interno lordo destinata ai salari e stipendi è diminuita in 26 Paesi industrializzati, passando dal 66,1 al 61,7 per cento e, nel caso italiano, si è passati dal 68 al 59 per cento; l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9 per cento) nonostante l’aumento della produttività, sebbene meno significativa rispetto a quella degli altri Paesi dell’area; puntando sui bassi salari, il sistema economico italiano ha finito per attestarsi, salvo alcune lodevoli eccezioni, su modelli produttivi a basso tasso di innovazione e scarsa concorrenzialità sui mercati internazionali; il 30 novembre 2022 l’attuale maggioranza ha bocciato la mozione del Partito democratico finalizzata ad introdurre anche in Italia il salario minimo legale. A tutt’oggi, non risulta assunta nessuna delle misure indicate nella mozione approvata nella medesima seduta, quali l’estensione dell’efficacia dei contratti nazionali comparativamente più rappresentativi, il contrasto alla contrattazione pirata o assicurare retribuzioni dignitose anche nelle gare indette dalle pubbliche amministrazioni; lo stesso intervento di riduzione del cuneo fiscale si è rivelato del tutto inadeguato a migliorare significativamente le retribuzioni di milioni di lavoratori, con benefìci dai 19 ai 32 euro lordi al mese, ampiamente insufficienti a contrastare il solo tasso di inflazione; una famiglia di due adulti e un minore di età compresa tra i 4 e i 10 anni viene considerata «assolutamente povera» dall’Istat se sostiene una spesa mensile per consumi inferiore a 1.434 euro, un importo spesso superiore alla retribuzione di troppi lavoratori; in tale contesto, riveste una speciale gravità la condizione delle lavoratrici e dei giovani che, senza i dovuti servizi di sostegno alla genitorialità – basti pensare che il congedo paritario è ancora fermo a soli 10 giorni, contro i tre mesi della Spagna – o con inquadramenti contrattuali penalizzanti o l’applicazione indebita di forme contrattuali fintamente autonome, si vedono pregiudicata ogni possibilità di una vita indipendente ed economicamente dignitosa: quali siano le ragioni della contrarietà alla sperimentazione del salario minimo legale, tenuto conto della mancata adozione di misure alternative, nonché di interventi volti a migliorare realmente la condizione delle lavoratrici e dei giovani lavoratori, quali un significativo ampliamento del congedo paritario, coerentemente con le migliori prassi europee.
(da agenzie)
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Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile IL PRESUNTO ALLARME DEI SERVIZI SU PRESUNTI SICARI DI WAGNER IN EUROPA… CI CREDIAMO SUBITO
L’intelligence italiana avverte che il Cremlino avrebbe messo
una taglia da 15 milioni di dollari sul ministro della Difesa italiano Guido Crosetto. Lo rivela un’indiscrezione de Il Foglio che spiega come la segnalazione sia arrivata ai vertici del governo.
L’allarme è arrivato la scorsa settimana e dietro l’avviso dei servizi segreti italiani ci sarebbero «gli sfoghi di rabbia contro gli italiani da parte del vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione russa Dmitry Medvedev, da mesi ormai all’avanguardia della propaganda ultranazionalista e militaresca russa».
E – stando a quanto appreso dall’intelligence italiana – ci sarebbe una vera e propria filiera strutturata nella catena di trasmissione degli ordini che dalla Russia devono arrivare all’Italia.
Il gruppo Wagner – scrive ancora Il Foglio – «ha almeno due cellule in Europa: una nei Balcani, che si muove tra la Serbia e l’Albania; l’altra nei baltici, con sede in Estonia. Due manipoli di alcune decine di effettivi, da cui potrebbe staccarsi una pattuglia con l’obiettivo di compiere azioni mirate in Italia».
E timori simili li sono stati avanzati anche altri Paesi, come la Polonia o la Francia. Nei giorni scorsi, Crosetto aveva accusato i mercenari di Wagner di voler mettere in atto una «guerra ibrida» contro il nostro Paese, favorendo la migrazione dai Paesi africani in cui è impegnato. Accuse che il fondatore e capo della brigata Yevgeny Prigozhin ha respinto, per poi insultare il ministro della difesa bollandolo come «stronzo».
(da agenzie)
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Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile TRA I DUE LITIGANTI, POTREBBE SPUNTARLA SALVINI, CHE È ALLA FINESTRA
La premier ha giurato un posto sicuro al gran ballo delle società pubbliche anche a due manager di valore, del tutto estranei al cerchio nero del partito. Cioè a Stefano Donnarumma, ad di Terna a cui Meloni ha assicurato il grande salto in Enel. E a Roberto Cingolani, ex ministro della Transizione ecologica che da mesi ha instaurato un flirt istituzionale con la leader di Fratelli d’Italia, che adesso lo vuole ad ogni costo alla guida di Leonardo. Una promessa che rischia però di creare frizioni non banali all’interno del governo.
Oggi Cingolani è di fatto “advisor per l’energia” di palazzo Chigi, un ruolo che tra l’altro il nuovo capo del dicastero Gilberto Pichetto Fratin non ha mai digerito (qualcuno gli ha detto che talvolta Cingolani lo chiama, per lapsus linguae s’intende, “Pochetto”), e da mesi pregusta il salto a Piazza Montegrappa.
La nomina del nuovo numero uno del nostro colosso degli armamenti è da sempre una delle decisione chiave della partita delle partecipate. Questa volta la scelta è più delicata del solito: siamo in guerra, la tensione tra Nato e Russia non ha precedenti dalla fine della Guerra fredda, e l’ex Finmeccanica gioca un ruolo cruciale.
Per gli strettissimi rapporti che l’azienda ha con i nostri servizi segreti e le gerarchie militari. Per gli investimenti miliardari previsti dall’aumento delle spese in armi fino al 2 per cento del Pil. Per i legami (industriali e di sicurezza strategica) che Leonardo mantiene con i nostri alleati, Usa in primis.
Cingolani, anche se dal 2019 al 2021 è stato responsabile della direzione per l’innovazione dentro Leonardo con stipendio da oltre mezzo milione di euro l’anno, per alcuni decisori non sarebbe l’uomo giusto per rilanciare un a multinazionale che la maggioranza, dopo i regni di Mauro Moretti e Alessandro Profumo scelti dal Pd, vuole conquistare con un uomo che faccia riferimento ai nuovi governati. «Roberto è un concettuale, un consigliere che può suggerire visioni sulla digitalizzazione e le mini centrali nucleari, ma di numeri e di prodotti militari non sa nulla. Non ha le skills del capo azienda: per Leonardo il suo arrivo sarebbe un disastro», sostengono alcuni interni che temono la sua scalata.
La premier sul manager stimato per prima da Beppe Grillo ha invece sensazioni diverse. E non è la sola: Cingolani ha in effetti mallevadori influenti come Claudio Descalzi, oggi uno dei consiglieri prediletti di Meloni: l’ad dell’Eni, l’unico timoniere su cui tutti sono sicuri della riconferma, con Cingolani ha stretto un eccellente rapporto personale durante la crisi del gas scoppiata sotto il governo Draghi.
Come è noto però, l’ipotesi non piace affatto a un altro pezzo grosso del governo. Cioè al ministro della Difesa Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia che sul dossier Leonardo sta disputando un braccio di ferro con Meloni, dagli esiti pericolosi.
Crosetto non è per carattere uno yes-man, e ha già detto alla premier che considera Cingolani un bravo teorico, ma mai un manager “di prodotto”, né un esperto di finanza come è stato il banchiere Profumo, che infatti lascia conti affatto negativi.
Per questo spinge per soluzioni meno azzardate, come quella del dirigente interno Lorenzo Mariani, suo unico candidato. Una vita in Leonardo, oggi Mariani è a capo di Mbda Italia, parte del consorzio europeo che progetta missili e tecnologie per la difesa.
Un profilo che piace molto anche a Simone Guerini, ex Leonardo e attualmente consigliere del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quest’ultimo, ricordiamolo, è anche capo delle forze armate, e al Quirinale – pur volendo lasciare autonomia assoluta al governo – sperano che Meloni sulle nomine dei nuovi vertici di Leonardo (per la cronaca Luciano Carta è l’unico tra i presidenti delle “big five” a potersi rigiocarsi una riconferma, benvista per esempio da Matteo Salvini) abbia la cortesia istituzionale di aprire un confronto di vedute.
Secondo voci diffuse tra le stanze di Palazzo Chigi, però, nonostante le proteste di Crosetto il presidente del Consiglio continua a spingere su Cingolani, senza se e senza ma. Non solo per rispettare i patti con il manager. Ma perché sarebbe «preoccupata che una promozione di Mariani possa creare in futuro qualche imbarazzo al governo sulla stampa». Come mai? «Pare che sia stato Mariani a firmare alcuni contratti di consulenza a Crosetto. Proprio voi di Domani avete raccontato che Guido quando era presidente di Aiad ha incassato da Leonardo centinaia di migliaia di euro l’anno».
In realtà, risulta che le consulenze date al ministro vengano direttamente dall’ad Profumo e dalla capogruppo, e che il consorzio missilistico di Mariani non abbia mai fatto contratti all’allora lobbista del comparto. «È una voce maligna messa in giro per fregare Crosetto e il suo candidato» dicono all’unisono due importati generali dell’esercito e dell’aeronautica che non si fidano di «un divulgatore scientifico come Cingolani», e che sperano che il nuovo timoniere «chiunque sia» li tenga in maggior considerazione «di quanto fatto da Profumo negli ultimi sei anni».
Qualcuno crede che alla fine tra i due litiganti potrebbe uscire vincente un terzo candidato, soprattutto se Matteo Salvini riuscisse a spuntarla e dovesse indicare lui l’ad di Leonardo, con Eni, Enel e Poste appannaggio a FdI e Terna destinata a Forza Italia. Sui giornali si è già fatto il nome di Gianpiero Cutillo, capo della direzione elicotteri, ma dentro il Carroccio si segnala che il primo fan del manager è il ministro Giancarlo Giorgetti, e che per rivalità interne al partito sarebbe complicato per Salvini benedirne l’ascesa.
Il capitano e il suo braccio destro Andrea Paganella, pare, non disdegnerebbero la promozione di Giuseppe Giordo, ex Fincantieri finito un anno fa fuori dall’azienda cantieristica dopo il cosiddetto Colombia-gate, di cui è stato protagonista assoluto Massimo D’Alema. Le presunte responsabilità di Giordo, in merito al tentativo da parte di una cordata di negoziatori di vendere al governo di Bogotà aerei di Leonardo e navi prodotte da Fincantieri, non sono però mai state dimostrate. E da tempo l’ex direttore generale aspetta una riabilitazione che il governo di destra potrebbe restituirgli.
(da Domani)
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Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile LA PROFEZIA DI ROBERT KIYOSAKI (“CREDIT SUISSE SARÀ LA PROSSIMA A CROLLARE”) E L’AVVERTIMENTO DI LARRY FINK DI BLACKROCK
Il Credit Suisse amplia il calo in Borsa con il titolo che tocca il
minimo storico, con il costo dell’assicurazione sulle insolvenze a livelli molto alti per gli investitori, dopo che il principale azionista Saudi National Bank ha escluso di aumentare la sua partecipazione a causa di vincoli normativi. I sauditi hanno escluso la possibilità di fornire supporto finanziario in caso ulteriori richieste di liquidità. A Zurigo le azioni della banca svizzera cedono il 28% a 1,59 franchi.
Le tensioni attorno alle banche e la fragilità della fiducia degli investitori sono brutalmente riemerse in superficie mercoledì mattina, con un crollo del titolo di Credit Suisse di quasi il 22% attorno a mezzogiorno.
A innescare il brusco movimento di Borsa è stato l’annuncio del principale azionista della banca, la Saudi National Bank, che ha annunciato di non pensare di ricapitalizzare la partecipata con ulteriori risorse. Proprio 24 ore prima Credit Suisse aveva comunicato che il suo revisore dei conti, PwC, ha identificato «debolezze sostanziali» nei controlli sulle sue comunicazioni finanziarie.
A differenza di Silicon Valley Bank, Credit Suisse non sembra oggetto – almeno in questo momento – di una corsa dei creditori e dei depositanti al ritiro delle proprie esposizioni.
Ma la fiducia del mercato è fragile e l’istituto ha dimensioni sostanziali: un bilancio con passività per 486 miliardi di franchi svizzeri (525 miliardi di euro) alla fine del 2022 e una capitalizzazione di Borsa ridotta ormai a soli 7 miliardi.
Gli spread sui «credit default swap» di Credit Suisse, derivati che assicurano sull’insolvenza di un debitore, sono saliti da 350 punti base (3,5%) all’inizio del mese a 565 adesso: il mercato sta facendo pagare di più l’assicurazione sull’insolvenza della banca. Il suo titolo azionario è già caduto del 39% dall’ultimo giorno di febbraio.
Il contagio di Borsa sulle banche è subito ripreso stamattina. Deutsche a metà giornata perde l’8,9%, Unicredit il 7,3% e Société Générale l’11,9%. Il contagio sul settore bancario covava sotto la cenere. E adesso è riemerso alla luce del sole, in attesa delle decisioni della Banca centrale europea e della Federal Reserve nei prossimi giorni.
E le parole di Larry Fink — amministratore delegato di Black Rock — agli investitori fanno pensare a ulteriori smottamenti in arrivo.
Fink — nella sua lettera, che è un appuntamento ormai consolidato, nel mondo della finanza — commenta il contesto in cui si trovano a navigare gli investitori: «Credo che l’inflazione persisterà», scrive, e «per i banchieri centrali, sarà più difficile domarla». E «ulteriore chiusure di banche» non sono da escludere, perché sono il frutto di «anni di denaro facile ».
(da agenzie)
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Marzo 15th, 2023 Riccardo Fucile NEI FILMATI SI VEDONO I POLIZIOTTI CHE INDIETREGGIANO E SI PRENDONO ADDOSSO DI TUTTO, PESSIMA L’ORGANIZZAZIONE DEL VIMINALE…DANNI PER MILIONI, TRA AUTO INCENDIATE E NEGOZI DEVASTATI
Al termine degli scontri, che sono avvenuti in piazza del Gesù a Napoli, tra un gruppo di tifosi napoletani e circa 250 dell’Eintracht, è stata trovata anche una pistola: come si vede in uno dei video che circolano in rete, un agente in borghese recupera l’arma sul selciato.
Un altro poliziotto, che assiste alla scena da dietro a un portone, rivolgendosi ad altri agenti, dice: “la tiene un collega”, facendo riferimento alla pistola. Ora in piazza è iniziata la conta dei danni.
I tifosi tedeschi sono arrivati a Napoli come turisti di un paese Ue – quindi non potevano essere bloccati – e questo nonostante fosse chiaro anche in Germania che non sarebbero potuti entrare allo stadio e che la loro presenza avrebbe potuto provocare incidenti.
Scontri che si sono puntualmente verificati e che hanno visto protagonisti anche ultrà locali.
E’ incredibile che, nonostante il dispiegamento di 1.000 agenti, non si sia riusciti a bloccare 500/600 facinorosi, procedendo a immediati arresti. Abbiamo dovuto assistere invece a poliziotti che ripiegano invece che caricare, ad auto della polizia incendiate, a ultras dell’Atalanta non bloccati a Bergamo e quindi liberi di fornire appoggio a quelli tedeschi, a cittadini terrorizzati che si rifugiavano nei portoni, ad auto e vetrine danneggiate con danni di svariati milioni.
Ina gestione dell’ordine pubblico di cui Piantedosi dovrà rendere conto.
(da agenzie)
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