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FRATELLI D’ITALIA SEMPRE PIU’ RIDICOLI, ORA VOGLIONO L’AUTARCHIA LINGUISTICA: MULTE FINO A 100.000 EURO A CHI USA PAROLE STRANIERE

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

MA SE AVETE CREATO VOI IL MINISTERO DEL “MADE IN ITALY” E LA MELONI SI ERA DEFINITA “UNDERDOG”, PROVVEDETE A VERSARE 100.000 EURO ALLORA… PS: MA CHE IN SECOLO VIVETE? NEL MEDIOEVO ERANO PIU’ EVOLUTI

“Una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro”. E’ quanto rischierà – secondo una proposta di legge presentata a Montecitorio dall’esponente di FdI, Fabio Rampelli, con la firma di una ventina di deputati del suo partito – chi continuerà a macchiarsi di ‘forestierismò linguistico, ovvero ad utilizzare termini non della lingua italiana innanzitutto nella pubblica amministrazione.
FdI ha anche presentato a novembre un ddl a palazzo Madama (firmatario il senatore Menia) per ‘costituzionalizzare’ l’italiano come la lingua ufficiale della Repubblica. Lo stesso Rampelli aveva annunciato qualche mese fa l’intenzione di affiancare alla proposta di legge costituzionale una ordinaria per obbligare tutte le amministrazioni partecipate dallo Stato a utilizzare l’italiano.
Ecco il dettaglio della proposta di legge. Articolo 1: “La Repubblica garantisce l’uso della lingua italiana in tutti i rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nonché in ogni sede giurisdizionale”. Articolo 2: “La lingua italiana è obbligatoria per la promozione e la fruizione di beni e di servizi pubblici nel territorio nazionale”. Ovvero gli enti pubblici e privati “sono tenuti a presentare” in lingua italiana qualsiasi documentazione “relativa ai beni materiali e immateriali prodotti e distribuiti sul territorio nazionale”. E ogni informazione presente in un luogo pubblico “ovvero derivante da fondi pubblici” deve essere trasmessa in lingua italiana. Inoltre, per ogni manifestazione, conferenza o riunione pubblica organizzata nel territorio italiano è obbligatorio “l’utilizzo di strumenti di traduzione” per garantire “la perfetta comprensione in lingua italiana dei contenuti dell’evento”. Articolo 4: “Chiunque ricopre cariche” all’interno delle istituzioni italiane, della pubblica amministrazione, di società a maggioranza pubblica e di fondazioni “è tenuto” alla conoscenza e alla padronanza scritta e orale della lingua italiana, “le sigle e le denominazioni delle funzioni ricoperte nelle aziende che operano nel territorio nazionale” devono essere in lingua italiana. E anche i “regolamenti interni delle imprese che operano nel territorio nazionale” devono essere redatti in lingua italiana. Con l’articolo 5 si punta a modificare l’articolo 1346 del codice civile, ovvero diventa obbligatorio l’utilizzo della lingua italiana nei contratti di lavoro: “Il contratto deve essere stipulato nella lingua italiana”. L’articolo 6 della pdl prevede che negli istituti scolastici di ogni ordine e grado e nelle università pubbliche italiane “le offerte formative non specificamente rivolte all’apprendimento delle lingue straniere devono essere in lingua italiana”. Con l’articolo 7 si istituisce presso il ministero della cultura “il Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana nel territorio nazionale e all’estero”: sarà presieduto da rappresentanti dell’Accademia della Crusca, della società Dante Alighieri, dell’istituto Treccani, del ministero degli affari esteri, del ministero dell’istruzione e del merito, dell’università e della ricerca, del dipartimento per l’editoria della presidenza del Consiglio e della Rai. Dovranno promuovere “la conoscenza delle strutture grammaticali e lessicali della lingua italiana”, l’uso “corretto della lingua italiana e della sua pronunzia” nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità; l’insegnamento della lingua italiana nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università; “l’arricchimento della lingua italiana allo scopo primario di mettere a disposizione dei cittadini termini idonei a esprimere tutte le nozioni del mondo contemporaneo, favorendo la presenza della lingua italiana nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione”; nell’ambito delle amministrazioni pubbliche “forme di espressione linguistica semplici, efficaci e immediatamente comprensibili, al fine di agevolare e di rendere chiara la comunicazione con i cittadini anche attraverso strumenti informatici”. L’articolo 8 tratta il tema delle sanzioni: “La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro”.
“Pensavamo di averne viste già molte di proposte sconclusionate e al limite del ridicolo da parte di questa maggioranza, ma quella che giunge con apposito disegno di legge da parte del vice presidente della Camera Rampelli le batte tutte. L’alfiere di Fratelli d’Italia porta in Parlamento una crociata contro i ‘forestierismi’, prevedendo sanzioni da 5.000 a 100.000 per chi dovesse violare l’italico idioma. Peccato che sia proprio il suo governo ad aver istituito il Ministero del ‘made in Italy’. Rampelli denuncerà il collega di partito Urso che è a capo di un siffatto ministero, tanto incline al forestierismo perfino nel suo nome?”. Così gli esponenti del Movimento 5 Stelle in commissione cultura alla Camera e al Senato.
(da agenzie)

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PICHETTO FRATIN HA AGGIUNTO TROPPE POLTRONE AL MINISTERO: LA CORTE DEI CONTI LO BACCHETTA

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

NEL MIRINO L’INCARICO DIRIGENZIALE A MARIA ROSARIA MESIANO E LA CONSULENZA ESTERNA AFFIDATA AL “MCKINSEY BOY”, PAOLO D’APRILE… LA RAGIONERIA DELLO STATO HA POI BLOCCATO LA NOMINA DI LAURA D’APRILE COME CAPO DEL DIPARTIMENTO DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE, PERCHÉ È STATO SUPERATO IL NUMERO MASSIMO DI ASSUNZIONI NEL MINISTERO

Quante difficoltà al ministero di Pichetto Fratin: l’Ambiente e la Sicurezza Energetica sono sferzati da continui rilievi sugli incarichi, da nomine bloccate, da sommovimenti interni e lotte di potere. Uno dei presidi più importanti del Pnrr e del piano energetico è insomma tutt’altro che immerso in un’aria serena.
L’ultimo rilievo della Corte dei Conti è stato pubblicato qualche giorno fa. La magistratura contabile ha chiesto al ministero chiarimenti su un decreto dipartimentale di febbraio con cui è stato conferito un incarico dirigenziale di livello non generale (Divisione IV “Infrastrutture Energetiche”) a Maria Rosaria Mesiano. I magistrati contabili fanno notare che dalla decisione non emergono le motivazioni per le quali il Mase abbia preferito Mesiano all’altra concorrente esaminata e chiedono di vedere la documentazione
Soprattutto, la Corte vuole sapere perché i dirigenti interessati a ricoprire quelle posizioni non siano stati consultati. Il Mase ha ora 30 giorni per rispondere ma si tratta comunque solo di una ennesima contestazione.
Come ha rilevato anche Staffetta Quotidiana, infatti, le contestazioni sugli esperti per l’attuazione del Pnrr sono praticamente arrivate quasi a quota 40 in poco più di due mesi. La richiesta è quasi sempre di capire se, prima di procedere con nuove nomine, il ministero avesse verificato che non ci fosse già dentro all’amministrazione qualcuno che avesse quelle competenze.
L’ultimo caso, raccontato dal Fatto, riguardava Paolo D’Aprile, ex manager McKinsey e già capo dipartimento per il Pnrr sotto Cingolani, sostituito con Fabrizio Penna, ma reclutato come esperto esterno. In una lettera del 13 marzo, la Corte ha chiesto al Mase di fornire “dettagliati chiarimenti” sull’assenza nei ruoli dell’amministrazione di profili adeguati allo stesso incarico e sulla reale esistenza delle condizioni per la retribuzione di 100 mila euro che è attribuito a esperti esteri ma in casi particolari.
Come se non bastasse, poi, la Ragioneria dello Stato – in una lettera che il Fatto ha potuto visionare – ha comunicato al ministero di non poter autorizzare la nomina di Laura D’Aprile a dirigente di livello generale come capo del dipartimento dello Sviluppo sostenibile perché Pichetto era già arrivato al limite (10%) del contingente di dirigenti esterni nominabili per legge, percentuale che al Mase corrisponde a una persona sola.
Questo significa anche che la casella che la D’Aprile sta coprendo da gennaio, da quando cioè è stata approvata in Consiglio dei ministri, è ballerina e forse pure contestabile
(da il Fatto Quotidiano)

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VLADIMIR OSECHKIN, DISSIDENTE ANTI-PUTIN: “A FAR EVADERE DAI DOMICILIARI NELLA SUA CASA VICINO MILANO “L’IMPRENDITORE” RUSSO SONO STATI GLI 007 DELL’FSB”

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

IL GIORNO PRIMA DELLA SUA FUGA ERA ARRIVATO L’OK PER ESSERE ESTRADATO NEGLI STATI UNITI… INCREDIBILE CHE UNO AI DOMICILIARI CON DIVIETO DI COMUNICARE RICEVESSE PERSONE A CASA SENZA CHE IL VIMINALE E I SERVIZI SEGRETI MUOVESSERO UN DITO

«Abbiamo ricevuto informazioni da whistleblowers nei Servizi di intelligence: Uss è stato fatto scappare con l’aiuto di agenti russi». Vladimir Osechkin, attivista per i diritti umani e dissidente anti-Putin, indica nell’Fsb, il servizio segreto russo, la mente del piano di «esfiltrazione» dell’imprenditore russo Artem Uss, evaso da Borgo Vione (Basiglio) mercoledì 22 marzo.
La notizia, riportata da Bloomberg, non ha per ora trovato altri riscontri anche se le indagini dei carabinieri e della procura di Milano non escludono affatto quella direzione. Anzi, tra i filoni dell’indagine c’è anche la verifica della presenza di possibili 007 di Mosca a Milano in quei giorni. Del resto l’evasione del 40enne, figlio del governatore della regione di Krasnoyarsk nella Siberia centrale, ha ormai tutti i contorni di un intrigo internazionale.
Se così fosse, ossia se venisse confermato un ruolo dei Servizi segreti russi in terra italiana, il caso sarebbe non solo un notevole incidente diplomatico ma qualcosa di più. Anche perché Uss era in attesa di essere estradato – dopo il sì arrivato il giorno prima della scomparsa dai giudici della Corte d’Appello – negli Usa.
Un’operazione di guerra a bassa intensità, verrebbe da pensare, vista la situazione geopolitica tra Putin e l’occidente nel pieno del conflitto ucraino. Per assurdo, proprio il fatto che la vicenda abbia avuto finora un clamore molto limitato, sembra una implicita conferma di scenari ben più complicati e delicati di una semplice evasione.
Finora solo il membro del Copasir Enrico Borghi (Pd) ha chiesto chiarimenti. Ma la sua richiesta sembra caduta nel vuoto. Il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha anzi rapidamente cercato di smorzare le polemiche caso: «Se la Corte d’Appello aveva deciso per i domiciliari, è giusto che i provvedimenti siano rispettati. La politica deve fare la politica, la giurisdizione la giurisdizione, senza interferenze».
C’è poi da chiarire quante persone – si parla di «numerose persone» – abbiano avuto in questi mesi il permesso di frequentare quella casa nonostante il divieto di comunicazione imposto dai giudici. Sicuramente i suoi legali (di diritto) e il traduttore (Uss non parla una parola di italiano), ma anche un fantomatico tuttofare bulgaro di Borgo Vione che si è occupato di lui nei periodi di assenza della moglie (che rientrava in Russia ad accudire il figlio), personale diplomatico del consolato russo di Milano e diverse altre figure.
Riletta oggi la circostanza appare molto suggestiva, visto che parliamo di una persona ristretta ai domiciliari e per la quale il Dipartimento di Giustizia americano aveva indicato «una elevata pericolosità» e «un elevato rischio di fuga». C’è poi da capire cosa Uss facesse in Italia prima di essere fermato a Malpensa il 17 ottobre dalla Polaria mentre si imbarcava per la Russia via Turchia. Pare fosse entrato in Italia solo pochi giorni prima, ma a fare cosa? E dove ha soggiornato?
Gli americani avevano emesso nei suoi confronti un mandato di arresto il 29 settembre, ben prima quindi che arrivasse a Milano. Possibile che nessuno lo abbia bloccato al suo ingresso alla frontiera di Malpensa, né lo abbia «monitorato» durante il suo soggiorno in Italia per fermarlo solo mentre stava per imbarcarsi sul volo di ritorno?
Che ruolo hanno avuto i Servizi segreti italiani? Possibile che la Cia o le autorità americane non abbiano avvertito che Uss – accusato di vari reati tra i quali l’aver acquistato tecnologie per uso militare dagli Stati Uniti – poteva trovarsi in Italia, visto che qui ha due società ed è solito trascorrere periodi di vacanza e viaggi d’affari? Misteri e domande ancora senza risposta.
(da Il Corriere della Sera)

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LE BUGIE DI LA RUSSA: “BANDA MUSICALE” E “SEMIPENSIONATI”? FALSO, ECCO PERCHE’

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

IL MENO GIOVANE AVEVA 42 ANNI

Le parole di Ignazio La Russa sui fatti di via Rasella sono palesemente false.
Il presidente del Senato, infatti, ha dichiarato che i nazisti morti nell’esplosione erano “una banda musicale” di “semi pensionati”. Falso.
Si trattava, infatti, del terzo battaglione del Polizeiregiment Bozen, appartenente alla polizia nazista e formato da reclute arruolate con la forza in Alto Adige.
Il 23 marzo 1944 stavano marciando per le vie di Roma cantando Hupf, mein Mädel (Salta, ragazza mia), ma non per questo si trattava di una banda musicale.
Come detto, si trattava di un reparto militare della Ordnungspolizei creato in Alto Adige dai nazisti nell’autunno 1943.
Per quanto riguarda i “semi pensionati” poi, la bugia è evidente a prima vista. Tra gli uomini coinvolti nell’attentato, infatti, il più ‘vecchio’ aveva 42 anni.
(da Globalist)

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IL BATTAGLIONE BOZEN E LA STORIA DELL’ATTENTATO DI VIA RASELLA

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

LA STORIA DEL “POLIZEIREGIMENT” E DELL’AGGUATO DI VIA RASELLA CHE SCATENO’ LA VENDETTA NAZISTA

Il Polizeiregiment “Bozen”, conosciuto come Battaglione Bozen era un reparto militare della Ordnungspolzei (polizia d’ordine) creato in Alto Adige nell’autunno 1943, durante l’occupazione tedesca della regione.
La truppa era formata da coscritti altoatesini mentre gli ufficiali e i sottufficiali provenivano dalla Germania nazista.
Composto da tre battaglioni, il più noto è sicuramente il terzo che venne impiegato con compiti di guardia e sorveglianza nella Roma occupata, dove il 23 marzo 1944 l’11esima Compagnia fu colpita in via Rasella da partigiani gappisti.
Nell’attentato morirono 33 soldati mentre 55 rimasero fertiti. Per rappresaglia, il giorno seguente i tedeschi perpetrarono l’eccidio delle Fosse Ardeatine alla cui esecuzione i sopravvissuti della compagnia attaccata non parteciparono, nonostante in base alla consuetudine militare germanica spettasse a loro “vendicare” i commilitoni caduti.
Il Polizeiregiment “Bozen” era un reparto subordinato come tutte le forze di polizia del Reich al comando delle SS sin dal 17 giugno 1936 da quando Heinrich Himmler, già capo delle SS, era stato nominato anche capo della polizia, suddivisa in Ordnungspolizei e Sicherheispolizei (polizia di sicurezza).
L’inserimento della polizia all’interno della struttura di comando delle SS rientrava nel processo di “sincronizzazione” con il regime nazista di tutte le componenti della società tedesca.
Dal bollettino dei comandanti della polizia relativo all’anno 1944 risulta peraltro che al nome del “Bozen” fu aggiunto il prefisso “SS-” solo ventiquattro giorni dopo via Rasella, il 16 aprile. Anche nel caso del Polizeiregiment “Alpenvorland” il provvedimento fu applicato con molto ritardo, il 29 gennaio 1945, mentre il “Brixen” e lo “Schlanders” nacquero direttamente come SS-Polizeiregimenter.
Il primo battaglione Bozen fu operativo in Istria e il secondo nel Bellunese dove fu coinvolto nella strage della Valle del Biois dell’agosto 1944. Entrambi svolsero prevalentemente attività antipartigiane, compito a cui fu adibito anche il terzo battaglione dopo il suo ritiro da Roma e trasferimento al nord. Tutti e tre si arresero negli ultimi giorni di guerra agli eserciti alleati o ai partigiani.
(da La Repubblica)

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LA RUSSA SULL’ATTENTATO DI VIA RASELLA LA SPARA GROSSA: “I PARTIGIANI HANNO UCCISI DEI MUSICISTI PENSIONATI, NON DEI NAZISTI. PAGINA INGLORIOSA”

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

MA DOCUMENTARSI PRIMA DI DIRE FALSITA’, MAI?… ELLY SCHLEIN : “PAROLE INDECENTI, INACCETTABILI PER IL SUO RUOLO”

“Via Rasella è stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi pensionati e non nazisti delle SS”. Ignazio La Russa, presidente del Senato, descrive così l’attacco partigiano a cui i tedeschi reagirono con l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il 23 marzo – anniversario della strage in cui vennero trucidate 335 persone, tra cui ebrei, partigiani e antifascista – quest’anno è diventato un caso per la frase della premier Giorgia Meloni (“uccisi solo perché italiani”). Ora è scoppiata una nuova polemica per le dichiarazioni La Russa. Dal Pd all’Anpi, la denuncia: “Parole indegne per l’alta carica che ricopre”.
“Via Rasella non è stata una pagina gloriosa della Resistenza”
La Russa: “L’attentato di via Rasella non è stata una delle pagine più gloriose della Resistenza partigiana, quelli che i partigiani hanno ucciso non erano biechi nazisti delle SS ma una banda musicale di semipensionati, altoatesini (in quel momento mezzi tedeschi, mezzi italiani), sapendo benissimo il rischio di rappresaglia al quale esponevano i cittdini romani, antifascisti e non”.
Parole che fanno discutere. Le reazioni
“È grave che il presidente del Senato, seconda carica di uno Stato nato dalla Resistenza e dalla guerra di liberazione, parli di via Rasella nel modo in cui lo ha fatto nell’intervista a Libero. Siamo di fronte ad un esempio di revisionismo storico che, inoltre, sposa il punto di vista dei fascisti. Mi dispiace per La Russa ma non è accettabile mettere sullo stesso piano i partigiani che combattevano per liberare l’Italia e i nazifascisti”, il commento del presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia.
Chiede “rispetto” il senatore dem Francesco Verducci, della Commissione Cultura a palazzo madama: “Alla forze politiche che organizzarono la Resistenza, e tra esse ai comunisti italiani, tutti noi dobbiamo la conquista della libertà e della democrazia, che la tirannide fascista aveva uccise, e la fondazione della nostra Repubblica. La Costituzione italiana è firmata, insieme ai presidenti De Gasperi e Einaudi, da un comunista italiano, il presidente Umberto Terracini. La Russa porti rispetto alla storia di chi ha fondato la Repubblica. È in base al sacrificio dei partigiani, e tra loro tanti comunisti, che lui oggi può sedere ai vertici della nostra Repubblica”.
Le parole di La Russa sono “semplicemente indegne per l’alta carica che ricopre e rappresentano un ennesimo, gravissimo strappo teso ad assolvere il fascismo e delegittimare la Resistenza – denuncia Gianfranco Pagliarulo, presidente di Anpi – Il terzo battaglione del Polizeiregiment colpito a via Rasella mentre sfilava armato fino ai denti stava completando l’addestramento per andare poi a combattere gli Alleati e i partigiani, come effettivamente avvenne. Gli altri due battaglioni del Polizeiregiment – prosegue – erano da tempo impegnati in Istria e in Veneto contro i partigiani. L’attacco di via Rasella, pubblicamente elogiato dai comandi angloamericani, fu la più importante azione di guerra realizzata in una capitale europea. Dopo la presidente del Consiglio, anche il presidente del Senato fa finta di ignorare che non furono i soli nazisti a organizzare il massacro delle Fosse Ardeatine, perché ebbero il fondamentale supporto di autorità fasciste italiane”.
“Il presidente del Senato insiste nell’operazione di voler riscrivere la storia, con grave danno per la credibilità dell’Italia e delle sue istituzioni delle quali, è bene ricordarlo, egli è espressione rilevante”, afferma in una nota Osvaldo Napoli, della segreteria nazionale di Azione. “Con sentenza del 7 agosto 2007 la Corte di Cassazione ha chiarito che i militari nazisti uccisi in via Rasella erano “soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e ‘Maschinenpistolen’ ” e non dei musicanti pensionati alto-atesini, come sostiene La Russa”.
All’attacco anche Riccardo Magi, segretario di +Europa: “La seconda carica dello Stato avvia così le proprie celebrazioni per il 25 Aprile, con un mix di falso storico e mancanza di senso dello Stato e della democrazia. Non sono le celebrazioni ufficiali, certo, e neanche lui dovrebbe essere la seconda carica ufficiale del Paese”.
Angelo Bonelli, il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Verdi e Sinistra, chiede le dimissioni del presidente del Senato: “Sono parole indegne quelle di Ignazio La Russa, un non pentito e nostalgico del ventennio fascista che deve grazie alla vita dei partigiani che si sono battuti per la democrazia e per liberare l’Italia dal fascismo la sua fortuna politica ed arrivare ad essere eletto, ahimè, Presidente del Senato, una istituzione che esiste proprio grazie ai partigiani che lui oggi insulta – commenta Bonelli – Le sue sono parole ignobili che offendono la storia del nostro Paese e la memoria di tutti i partigiani che si sono sacrificati con la vita per liberare l’Italia dal fascismo e per riportare la democrazia. Per queste parole ignobili La Russa si deve dimettere: non è degno di rappresentare la seconda carica dello Stato italiano”.
(da La Repubblica)

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APPALTI, PERCHE’ IL CODICE SALVINI E’ CRIMINOGENO, INCORAGGIA CORRUZIONE, SPRECHI E ABUSI DI POTERE

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

AUTORITA’ ANTICORRUZIONE, CONFINDUSTRIA, SINDACATI ARTIGIANI: REAZIONE CONTRARIE DA PARTE DI TUTTI AL MERCATO DELLE VACCHE

Difficile che un testo normativo riesca a suscitare le medesime reazioni avverse in istituzioni e associazioni tanto distanti ed eterogenee (e spesso in disaccordo tra loro) come sindacati, Confindustria, artigiani, Autorità anticorruzione. E’ il primo prodigio realizzato dal nuovo codice degli appalti, già ribattezzato in proprio onore Codice Salvini dal suo fiero promotore – attuale ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Ancora non sappiamo se il nuovo testo di legge riuscirà a velocizzare e sburocratizzare il mercato pubblico, una tavola imbandita di oltre 200 miliardi l’anno, cui si somma una quota non irrilevante delle risorse ulteriori del Pnrr.
Di certo rischia concretamente di trasformarlo in un “mercato delle vacche”, dove il potere apparentemente incontrastato dei funzionari responsabili dei procedimenti – con le nuove regole potrà trattarsi anche di personale a termine, tanto per accrescerne l’irresponsabilità – potrà farsi contropartita in negoziazioni sottobanco aventi ad oggetto l’aggiudicazione delle gare. Anzi: delle non-gare
Nessun bando, nessuna competizione, nessuno trasparenza in oltre il 98% dei futuri contratti pubblici per forniture, servizi, lavori pubblici.
Si tratta, come già evidenziato da molti osservatori, della maggiore criticità della riforma, che istituzionalizza una sorta di “emergenza permanente” – quella vissuta in occasione della pandemia – facendone modello ordinario di gestione del potere di spesa per acquisti della Pubblica amministrazione.
Tra i 150 e i 500mila euro di valore, a seconda del tipo di gare, sarà la soglia al di sotto della quale il funzionario potrà affidare la gare sulla base di una sua personale (e non rendicontatile) valutazione.
Basti pensare che fino a poco più di due anni fa quella soglia era di 40mila euro, e l’Autorità anticorruzione aveva individuato quale “campanello d’allarme” di un alto rischio di manipolazione della gare proprio l’utilizzo abnorme dell’affidamento diretto, anche mediante il “frazionamento” artificioso degli appalti finalizzato a restare sotto-soglia: molti piccoli e identici contratti pubblici da assegnare nell’ombra a chi si vuole, invece di un solo grande contratto che avrebbe imposto un bando pubblico, trasparenza nella scelta, concorrenza tra gli imprenditori, verificabilità del rispetto di una procedura aperta. Quei campanelli d’allarme-corruzione saranno silenziati per sempre, per legge.
Ma il nuovo codice introduce procedure negoziate senza bando e senza concorrenza – saranno consultate discrezionalmente 5 o 10 imprese – per tutti gli appalti fino a 5,3 milioni di euro; autorizza senza più vincoli il subappalto a cascata – da sempre l’eldorado per la penetrazione negli appalti di imprese criminali; rende possibile un ricorso estensivo all’appalto integrato, in cui l’impresa progetta ed esegue l’opera, mentre l’ente pubblico in concreto ostaggio dei privati si limita a staccare l’assegno; reintroduce la revisione prezzi, da sempre uno dei fattori che hanno più contribuito ai tempi interminabili di realizzazione delle opere pubbliche.
Si riconosce un non dichiarabile impianto ideologico dietro codice Salvini: una pseudo-semplificazione delle procedure di gara che nonostante la sbandierata matrice neoliberista di fatto sancisce la brutale negazione dei più elementari principi di concorrenza, trasparenza, efficienza. Dietro l’apparente potenziamento dei poteri decisionali dei funzionari nella selezione dei contraenti privati si nasconde infatti una delega in bianco agli interlocutori imprenditoriali e professionali da parte di un’amministrazione debole ed esposta ai possibili “condizionamenti impropri” – anche d’impronta corruttiva o mafiosa – nella selezione del contraente.
Lo stesso modello che ha ispirato la famigerata legge-obiettivo del 2001, o i superpoteri attribuiti alle strutture commissariali della “cricca della protezione civile”, e che ha avuto quale lascito arresti, mazzette milionarie, incrementi fuori controllo di opere inutili, mai completate, o dai tempi eterni di realizzazione.
Quando si nega ogni forma di concorrenza aperta e trasparente, in concreto si consente che valgano le “relazioni” personali, i contatti, le “entrature”, le aspettative di futura “gratitudine” (personale, politica, familiare, associativa…), quale criterio di selezione degli imprenditori che dovranno soddisfare i bisogni della collettività.
Come ha rilevato un preoccupato presidente dell’Autorità anticorruzione, i contratti pubblici potranno essere liberamente affidati al cugino del funzionario, o a chi ha votato (e fatto votare) il candidato “giusto” nelle ultime elezioni locali. Auspicabilmente non sarà questa la pratica corrente: la Pubblica amministrazione italiana è per fortuna ricca di personale motivato, qualificato, benintenzionato, a prova di tentazioni. Ma non c’è bisogno di una Cassandra per prevedere che in molti altri contesti prevarranno logiche differenti. E difficilmente “il cugino” del funzionario, o chiunque altro sia stato in grado di ottenere per vie riparate la sua “benevolente” attenzione, sarà il miglior candidato a fornire servizi pubblici di qualità, o a realizzare l’opera pubblica nei tempi e con le caratteristiche richieste.
I tempi guadagnati grazie all’affidamento diretto e alla cancellazione delle gare d’appalto aperte e concorrenziali, in altre parole, rischiano di avere un prezzo altissimo in termini di successiva dilatazione dei tempi di realizzazione, o di scadente qualità dell’opera.
Si sarebbe potuto investire in competenze, qualificazione, capacità professionali dei funzionari pubblici, specie quelli aventi funzioni tecniche, rafforzando credibilità e capacità di controllo dei corpi dello Stato. Si sarebbe potuto lasciar sedimentare la conoscenza pratica del “vecchio” codice degli appalti, che già prevedeva modalità “facilitate” e accelerare di aggiudicazione, senza rinunciare a concorrenza e controllo. Si è preferito rinnovare la pratica di un’inflazionata produzione normativa sugli appalti, contribuendo così allo smantellamento – già in corso da decenni – della funzione pubblica di individuazione dei bisogni collettivi e di controllo della loro efficace soddisfazione da parte dei soggetti imprenditoriali cui sono state affidate – per contratto – le corrispondenti responsabilità.
In sintesi: il codice Salvini è una legge criminogena, che incoraggia pratiche di corruzione, sprechi e abusi di potere, rischiando concretamente di alimentare circuiti criminali in appalti “a partecipazione mafiosa”. Ricordiamoci l’identità di chi ne è responsabile quando l’evidenza di distorsioni, tangenti, clientele, cattiva gestione di risorse pubbliche verrà alla luce; ha lasciato le sue impronte digitali sulla scena dei crimini futuri.
(da Il Fatto Quotidiano)

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LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO HA CONDANNATO L’ITALIA PER AVER VIOLATO I DIRITTI DI QUATTRO EMIGRANTI TUNISINI

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

“RESPINTI SENZA CONSIDERARE LA LORO CONDIZIONE INDIVIDUALE”

Tenuti in condizioni che violano i diritti fondamentali dell’uomo, poi respinti senza considerare eventuali rischi nel rimpatrio.
Sei anni dopo si conclude con una sentenza la vicenda di quattro migranti tunisini arrivati in Italia e riportati indietro in maniera arbitraria. La loro storia ne ricorda tante altre, ma in questo caso finisce con una condanna contro l’Italia, che dovrà pagare migliaia di euro di danni per aver violato i loro diritti.
La notizia arriva dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha pubblicato oggi una sentenza che riguarda l’Italia, condannandola per il trattamento subito dai quattro cittadini tunisini nel 2017.
La condanna riguarda le “condizioni materiali precarie in cui i quattro migranti sono stati trattenuti per 10 giorni nel hotspot di Lampedusa a Contrada Imbriacola” e il fatto che siano stati “privati della libertà in modo arbitrario”. Il centro è sempre lo stesso: quello dell’isola siciliana da sempre avamposto delle ondate migratorie. Una condizione di perenne emergenza, al netto dei titoli di giornale che la definiscono periodicamente al collasso. Ma non solo: nei confronti dei quattro migranti è stata effettuata una “espulsione collettiva” che ha violato i loro diritti. Sono stati riportati in Tunisia in gruppo, senza considerare le condizioni individuali. Insomma, nessuno ha controllato se a livello personale corressero dei rischi nell’essere respinti. Se fossero perseguitati, ad esempio.
Il caso è arrivato davanti alla Corte dei diritti dell’uomo, che oggi – appunto – ha condannato l’Italia: Roma dovrà risarcire ciascun migrante con 8.500 euro entro tre mesi per quanto ha subito da parte delle autorità italiane, più 4.000 euro di spese procedurali. Tutto ciò accade nei giorni in cui l’isola di Lampedusa e soprattutto la Tunisia sono tornati ancora una volta al centro dell’attenzione. E la storia, purtroppo, è sempre la stessa.
(da Fanpage)

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DOPO TRE MESI NEGLI STATI UNITI, BOLSONARO TORNA IN BRASILE MA LO ATTENDONO 20 INCHIESTE

Marzo 31st, 2023 Riccardo Fucile

SULLA SUA TESTA PENDONO LE ACCUSE DI SFORAMENTO NEL TETTO DELLE SPESE PER LA CAMPAGNA ELETTORALE, QUELLE PER DIFFUSIONE DI FAKE NEWS, PER LA GESTIONE DELLA PANDEMIA, PER LE NOMINE DI COLLABORATORI… L’ULTIMA INCHIESTA RIGUARDA I GIOIELLI RICEVUTI DAI SAUDITI: INVECE DI CONSEGNARLI ALL’ARCHIVIO DI STATO, HA CERCATO DI PORTARSELI A CASA

«Ho 15 anni di esperienza nell’esercito, 28 anni come deputato e 4 come presidente. Non ho nessuna intenzione di fare il pensionato», ha chiarito ieri Jair Bolsonaro prima di imbarcarsi alla volta del Brasile dopo tre mesi di esilio volontario in Florida.
Il rientro del «Capitano», come ama farsi chiamare, non ha attirato la grande folla che molti si aspettavano: ad attenderlo poche centinaia di persone. l’ex presidente della destra populista ha chiarito che è tornato per sostenere la campagna delle amministrative del prossimo anno.
Bolsonaro è tornato per mettere in difficoltà Lula e di lanciare la riscossa della destra, anche se lui non dovrebbe essere eleggibile.
Perché ci sono oltre 20 inchieste giudiziarie sulla sua testa: da quelle per sforamento nel tetto delle spese per la campagna elettorale e per la diffusione di fake news, a quelle per la gestione della pandemia, per le nomine di collaboratori e altro.
Poi, soprattutto, ci sono le indagini sull’assalto ai palazzi del potere dell’8 gennaio scorso da parte dei suoi sostenitori, dopo la sconfitta alle urne. L’ultima inchiesta riguarda i gioielli ricevuti dagli emiri arabi. Invece di consegnarli all’archivio di Stato, avrebbe cercato di portarseli a casa.
(da Corriere della Sera)

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