Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile LA SPARATA DEL PREMIER UNGHERESE, VIKTOR ORBAN
L’accordo è storico: per la prima volta, dopo sette anni di
negoziati su due diverse proposte, i governi dell’Unione europea hanno trovato un’intesa per cambiare le norme che regolano il diritto d’asilo. Una riforma che introduce elementi di solidarietà per aiutare i Paesi di primo approdo (chi rifiuta la ridistribuzione dovrà pagare 20 mila euro a migrante), ma anche più vincoli per far sì che gli Stati come l’Italia si assumano le loro responsabilità nella gestione degli arrivi, seguendo una procedura accelerata per l’esame delle domande d’asilo. In cambio, Roma ha chiesto più margini per espellere gli “irregolari”: non solo verso i Paesi di origine, ma anche verso quelli in cui sono transitati
Un passaggio cruciale che, insieme ad altri piccoli correttivi, ha convinto il ministro Matteo Piantedosi a sostenere quella che in mattinata aveva definito «una riforma destinata a fallire». Per il via libera definitivo bisognerà ora negoziare con il Parlamento europeo, ma la parte più difficile è ormai alle spalle.
L’intesa è arrivata ieri sera alle 20 al Consiglio Affari Interni convocato a Lussemburgo, ma non è stato affatto semplice raggiungerla. Il braccio di ferro è durato per tutta la giornata. Da una parte il ministro Matteo Piantedosi, dall’altra parte la sua collega tedesca Nancy Faeser. Un confronto-scontro decisamente duro, a tratti molto teso, andato in scena proprio nelle ore in cui a Roma la premier Giorgia Meloni riceveva il cancelliere Olaf Scholz.
A dividere i due ministri, la questione dei diritti dei migranti. Di qua – con il sostegno della Francia – il governo della coalizione semaforo formata da socialisti, liberali e verdi, preoccupato per le espulsioni verso Paesi che non garantiscono il rispetto dei diritti umani. Di là l’esecutivo nazionalista che si è battuto per avere mano libera sulle espulsioni. «Non vogliamo diventare il centro di raccolta degli immigrati per conto dell’Europa» ha sbottato il titolare del Viminale.
«Abbiamo scongiurato l’ipotesi che l’Italia e tutti gli Stati membri di primo ingresso venissero pagati per mantenere i migranti irregolari nei propri territori» ha spiegato in serata il ministro, che ha rivendicato l’atteggiamento di «responsabilità» del governo italiano. Cosa che non hanno fatto i Paesi guidati dai governi “amici”: Polonia e Ungheria hanno votato contro. Si sono invece astenute la Slovacchia, la Lituania, Malta e la Bulgaria. Ma non è servito a molto: la riforma è stata approvata con un voto a maggioranza qualificata. Durissimo Viktor Orban: «Bruxelles abusa del suo potere. Vogliono ricollocare i migranti in Ungheria con la forza. Questo è inaccettabile» scrive su Facebook
Tra i punti più critici, i concetti di “connessione” e di “Paese terzo sicuro” nel quadro dei rimpatri. Di fronte all’impossibilità di espellere i migranti nei loro Stati d’origine, l’Italia vorrebbe poterli mandare nei Paesi in cui sono transitati e con i quali hanno avuto “connessioni”, per esempio la Tunisia. il compromesso finale consentirà ai singoli Stati membri di avere piena autonomia nel definire un Paese come sicuro e anche nello stabilire le eventuali “connessioni”, che saranno molto blande
Sul fronte della responsabilità, la riforma prevede per tutti gli Stati l’obbligo di contribuire, ma con la facoltà di scegliere tra ridistribuzione e contributi finanziari: chi non intende accogliere i richiedenti asilo dovrà pagare 20 mila euro a migrante. Finiranno in un fondo comune che servirà per finanziare interventi sulla dimensione esterna. […]
Sul fronte della responsabilità, invece, vengono introdotti nuovi obblighi per gli Stati di primo approdo come l’Italia. L’esame delle domande d’asilo dei migranti che arrivano da Paesi con un tasso di riconoscimento inferiore al 20%, dunque con poca probabilità di essere accolte, dovrà essere effettuato attraverso una “procedura di frontiera” e concludersi entro 12 settimane, durante le quali i richiedenti potranno essere detenuti.
I Paesi dovranno assicurare un numero predefinito di “posti” a livello europeo: 30 mila (l’Italia chiedeva 20 mila) per arrivare a processare fino a 120 mila domande l’anno, con un tetto massimo per ogni singolo Paese, superato il quale i governi potranno sospendere l’applicazione della procedura speciale.
Viene inoltre esteso il periodo durante il quale uno Stato ha la responsabilità dei migranti arrivati sul suo territorio: 24 mesi contro i 12 previsti dalla legislazione vigente
(da agenzie)
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Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile LE MILIZIE IN CAMPO SONO TROPPE E C’È GRAN CONFUSIONE, TRA PRIGOZHIN E LA WAGNER, ESERCITO REGOLARE, CECENI E LE BRIGATE MESSE SU DAGLI OLIGARCHI… RISULTATO? DI FRONTE ALLA SCONFITTA, PARTIREBBE LA LOTTA FRATRICIDA PER IL POTERE
Che l’attacco ucraino sia un trionfo o la guerra diventi senza fine,
quanto resisterà al potere Vladimir Putin? Il controllo sul Paese sembra ferreo. Ma la minaccia al regime non viene dal fronte di guerra né da quello interno di una società civile cloroformizzata. Viene da dentro il regime.
Le milizie sono pericolosamente troppe. La Wagner di Yevgeny Prigozhin; i ceneni che vanno e vengono dal campo di battaglia a piacere; le milizie separatiste di Donetsk e Luhansk guidate da capi con la loro agenda politica. Ci sono quelle russe anti-Putin. In un eventuale crollo di regime a Mosca, anche loro rivendicherebbero un ruolo.
Ormai un numero imprecisato di oligarchi si è creato la sua milizia. «Stanno cercando di capire cosa fare per preservare ricchezza, posizione e potere», spiega al Financial Times un esperto di sicurezza. Anche le diverse fazioni dell’Fsb, l’ex Kgb, si starebbero organizzando per affrontare le incertezze del futuro.
L’ultima volta che la Russia subì una sconfitta disastrosa, nel 1917, un gruppo minore di estremisti, i bolscevichi, prese il potere con la violenza; ci furono cinque anni di guerra civile; alla morte di Lenin iniziò una sanguinosa resa dei conti nel partito: purghe, processi, esecuzioni e omicidi. Infine Stalin. Allora la Russia era un Paese alla fame. Oggi è una superpotenza, per quanto in evidente declino economico, e possiede il più grande arsenale nucleare al mondo.
A primavera, secondo i calcoli del Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago, le testate nucleari erano 4.489. Di queste 1.674 sono strategiche e operative, montate su missili balistici, cioè intercontinentali, pronte per un uso immediato.
Il comportamento mediocre delle forze convenzionali in Ucraina ha ulteriormente spinto la Russia ad affidarsi al nucleare per mantenere credibilità e deterrenza. Per questo Putin ne ha minacciato l’uso come non era mai avvenuto neanche nelle ore peggiori della Guerra Fredda.
Secondo i servizi segreti inglesi la Russia ha già lanciato sull’Ucraina diversi vecchi missili dell’arsenale balistico sovietico: naturalmente senza testata atomica. In Russia 834 testate strategiche sono nelle basi terrestri ; altre 640 sono nei sottomarini e circa 200 negli aeroporti degli squadroni dei bombardieri strategici. Se Vladimir Putin non avesse più il controllo, se l’Fsb, Prigozhin e gli oligarchi rischiassero di perdere il loro potere, quanto seducente sarebbe il grande arsenale nucleare russo?
(da il Sole 24 Ore)
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Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile IL CONCETTO DI “SOLIDARIETÀ OBBLIGATORIA” NON PREVEDE LA PARTECIPAZIONE ATTIVA DEGLI ALLEATI NELLA REDISTRIBUZIONE DEI MIGRANTI – PEGGIORA LA GESTIONE DEI MOVIMENTI SECONDARI
Un accordo senza sostanza. Nonostante il volto duro e i pugni
metaforicamente sbattuti sul tavolo, alla fine il governo Meloni esce con le ossa rotte dall’ultima trattativa sul nuovo Patto per l’Asilo e i Migranti. Il nostro Paese, infatti, non ha ottenuto nulla di quello che riguarda il nucleo dell’emergenza migranti.
Il concetto di «solidarietà obbligatoria », infatti, non ha nulla a che vedere con una partecipazione attiva degli alleati nella redistribuzione dei migranti. Anzi, rimane il concetto di volontarietà legato alla possibilità di pagare 20 mila euro per ogni migrante rifiutato in base alla definizione annuale della quota di extracomunitari da ricollocare. Roma ottiene una regola più elastica sui “Paesi Terzi” cui rimandare indietro i migranti illegali che abbiano avviato la loro partenza proprio da quelle aree. Ma si tratta di una procedura dall’attuazione complicatissima. Che richiederà la definizione di accordi. E che necessita dell’individuazione di una vera «connessione» tra quel Paese e il migrante. Meccanismo complicatissimo.
Ci sono due aspetti che restano sulle spalle dei Paesi di primo approdo come l’Italia. Il carico di lavoro, amministrativo ed economico, per identificare i nuovi arrivi. Anche se ci saranno degli aiuti in questo senso dal punto di vista economico e di collaborazione amministrativa. Ma si impone un termine di tre mesi che può essere rischiosissimo per una macchina burocratica farraginosa come quella italiana.
Poi rimane immutata, anzi peggiora, la gestione dei cosiddetti movimenti secondari. L’Italia è accusata dai partner – soprattutto Austria, Francia e Germania – di permettere volontariamente il trasferimento negli altri Paesi degli extracomunitari approdati illegalmente. Sostanzialmente l’Italia lascia che il nostro Paese sia solo di passaggio, scaricando sugli altri la gestione definitiva del migrante. Circostanza confermata anche dai dati ufficiali in base ai quali si dimostra che il numero di stranieri – legali e illegali – presenti in Italia negli ultimi dieci anni non è mai aumentato.
Nel nuovo testo è prevista la possibilità di restituire il ”movimento secondario” nei due anni successivi al trasferimento. Un rischio ulteriore per il nostro Paese che perde così di fatto uno degli strumenti principali con cui ha controllato i flussi. C’è poi un aspetto strettamente politico che rende fragile il patto e anche il perimetro delle alleanza del governo Meloni. Anche il voto finale di ieri segna l’incoerenza delle “amicizie” con Ungheria e Polonia, ossia con i governi sovranisti
Anche la Svezia, ormai conquistata dalla destra, ha fatto capire che esiste una distanza gigantesca negli interessi di quei Paesi rispetto al nostro. L’interesse nazionale di Giorgia Meloni si scontra concretamente con quello degli alleati di Visegrad. […] Palazzo Chigi […] non riesce a ottenere nulla dalla vicinanza ideologica con Orban e Moraviecki. […] l’Italia. […] non ottiene nulla di davvero concreto in questo nuovo Patto. Se non una vittoria “estetica” […]: un passo avanti nell’interpretare la lotta alla migrazione illegale come una questione europea. È il segno che il giudizio di benevola attesa con cui le istituzioni europee avevano accolto l’esecutivo Meloni inzia a esaurirsi. E si rifletterà sui dossier più importanti dei prossimi mesi: a cominciare dalla riforma del Patto di Stabilità.
(da La Stampa)
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Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile IERI I MINISTRI DEI PAESI UE HANNO TRASCORSO L’INTERA GIORNATA A DISCUTERE DI COME DISFARSI DI QUESTI FASTIDIOSI MIGRANTI
Ieri i ministri dei Paesi membri dell’Unione europea hanno
trascorso l’intera giornata a discutere di come disfarsi di questi fastidiosi disperati, per di più neri, che si permettono il lusso di sperare di scappare dalla disperazione. Si è trattato di serrato confronto travestito da diplomazia che ha cercato, ad esempio, di dare un prezzo ai migranti non accolti.
Proprio così: uomini che vengono venduti come schiavi nei Paesi da cui scappano si ritrovano a essere quotati in Europa. Non vanno al chilo, no. I leader europei hanno fissato un prezzo che consenta di fottersene del diritto universale di essere accolto e salvato. Con ventimila euro si può lasciare il fastidioso disperato al Paese vicino o a quello in cui è entrato in Europa (via mare è l’Italia).
Con qualche migliaio di euro si acquista il diritto di subappaltare la disumanità. Non è molto diversa dalla strategia della presidente Giorgia Meloni che s’affanna per appaltare alle peggiori autarchie il compito di fare da tappo. Gli “aiuti” agli Stati da cui partono sono il modo elegante per non dover dire che, poiché non sono riusciti a chiudere i porti d’arrivo (non è legale e non è fattibile), ora provano a chiudere i porti di partenza. Non ci riusciranno.
E il “patto” europeo non risolverà nulla. Anzi se passerà così com’è metterà ancora più in difficoltà l’Italia. Chemmsidine, un pescatore tunisino, un giorno mi disse: “Vi illudete di fermare le persone che scappano dalla fame e dal piombo senza fermare la fame e il piombo”. L’Ue matrigna non ha imparato la lezione.
(da La Notizia)
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Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile A NOVEMBRE LA MELONI È COMPARSA SUI TELEGIORNALI PUBBLICI PER 485 MINUTI (IL TRIPLO DI MATTARELLA), MENTRE DRAGHI SI ERA FERMATO A 313 MINUTI… I DATI DELL’OSSERVATORIO DI PAVIA
La voce del padrone. Ovvero, i telegiornali Rai nell’era di Giorgia Meloni. Diventati megafono del verbo sovranista ben prima del cambio dei vertici in Viale Mazzini. Fino a raggiungere – fra governo e maggioranza – punte di occupazione degli spazi riservati alla politica superiori al 70 per cento.
A svelarlo è l’Osservatorio di Pavia che da anni monitora i tempi dedicati alle figure istituzionali e ai leader di partito non solo nelle testate nazionali, ma pure nei programmi di approfondimento.
Basta fare un confronto fra gli ultimi tre governi, misurandone l’esposizione sui Tg del servizio pubblico. Nell’ottobre 2019, il primo mese “intero” del Conte2 nato a settembre di quell’anno, l’esecutivo giallorosso totalizza una presenza in voce pari al 30 per cento. Il partito più microfonato risulta tuttavia la Lega (13%) in virtù dello strascico polemico innescato da Salvini dopo la crisi aperta nell’estate del Papeete. Solo dopo vengono Pd e M5S (entrambi al 12) nonostante siano in maggioranza.
Draghi al suo debutto interviene molto di più, ma solo per via dello scoppio della guerra in Ucraina: nel marzo del 2021 la Rai riserva al premier delle larghe intese, ai suoi ministri e sottosegretari il 44 per cento del tempo di parola, che però poi precipita al 31 in aprile. All’incirca la media mantenuta per tutto il resto del mandato: segno che l’exploit iniziale, oltre che dettato dalla indubbia novità, era imputabile a cause contingenti e irripetibili
Quanto alle forze politiche, Pd e M5S si attestano al 10%, FdI nel ruolo di unica opposizione all’8, FI al 6, Lega al 5 e via a scendere, sempre sul filo dell’equilibrio tra centrosinistra e centrodestra.
Ciò che invece impressiona è il dato relativo all’esecutivo Meloni, in carica dal 22 ottobre scorso. A novembre la squadra che guida il Paese copre con i suoi discorsi il 45 per cento dei Tg: assai più della compagine guidata da Conte, persino oltre la soglia registrata dall’ex banchiere centrale alle prese con le bombe su Kiev.
Se a questo si aggiunge il 17 per cento totalizzato dalle forze di maggioranza, ecco che i sovranisti schizzano al 62 e lo squilibrio diventa innegabile, anche all’interno della stessa coalizione.
Va un pochino meglio a dicembre, quando la voce del governo cede due punti e scende al 43 (quello giallorosso, nell’analogo periodo, era al 29). Per risalire di nuovo al 45 di gennaio, allorché si batte ogni record grazie al maggiore spazio offerto ai partiti del centrodestra: 23 per cento.
In sintesi, le esternazioni sovraniste occupano oltre due terzi dell’informazione Rai: in testa si piazza il Tg2, seguito a stretto giro dal Tg1, mentre il Tg3 prova a rispettare la regola aurea del pluralismo informativo.
Persino più imbarazzante la sproporzione rispetto agli altri soggetti istituzionali. Sempre a novembre, Giorgia Meloni compare sulle più importanti testate tricolori per la bellezza di 485 minuti, quasi il triplo di Sergio Mattarella fermo a 185, lontana anni luce dai ministri Piantedosi (59) e Tajani, (56), per non parlare del vicepremier Salvini (44 minuti), tallonato dal leader del M5S Giuseppe Conte (37) e dal titolare del Tesoro Giancarlo Giorgetti (35). A paragone, nel suo primo mese, Draghi si ferma a quota 313, nonostante la guerra.
Negli ultimi tempi, le proteste della minoranza hanno imposto una piccola correzione di rotta. In aprile, il Tg1 ancora capitanato da Monica Maggioni ha riservato a governo e maggioranza il 58,5 per cento del tempo di parola –38,5 al primo, 20 all’altra – contro il 15,5 dedicato alle opposizioni. Più o meno la stessa performance del Tg2. Con la premier parlante per “appena” 372 minuti, stavolta più vicina a Mattarella (297 minuti) rispetto agli esordi.
Una fotografia più che soddisfacente per i nuovi vertici della tv pubblica: «Stiamo lavorando bene per garantire un pluralismo che spesso in passato nella Rai non c’è stato», ha affermato in Vigilanza, contro ogni evidenza numerica, il melonianissimo direttore generale Giampaolo Rossi. Un equilibrio fra le varie forze politiche che «non si ottiene per sottrazione ma per somma, con l’aumento possibile e totale del racconto delle diverse culture del Paese: questa è la sfida che raccoglieremo », prosegue.
(da la Repubblica)
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Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile DI FRONTE ALLA LINEA DURA DELLA MELONI, CHE HA VOLUTO LIMITARE I POTERI DELLA CORTE SUI CONTROLLI COSIDDETTI “CONCOMITANTI”, I GIUDICI CAMBIANO PASSO E ABBANDONANO I TONI MORBIDI DEI GIORNI SCORSI
L’affondo al governo passa da una precisazione. Breve, ma
tagliente. In punto di diritto, richiamando la Costituzione. «Anche in corso di esercizio », dice il presidente della Corte dei conti Guido Carlino quando parla del perimetro dei controlli della magistratura contabile sul Pnrr. È la strada sbarrata alla destra che ha deciso di cancellare il controllo concomitante, con un emendamento al decreto per la Pubblica amministrazione
Non solo — è la traccia del contrattacco — il controllo «continuerà ad essere proficuamente esercitato», ma la Corte intende farlo in itinere, seguendo i passi dell’attuazione del Piano di ripresa e resilienza. Non alla fine, «nella modalità del controllo successivo sulla gestione», per usare le parole del ministro con la delega al Pnrr Raffaele Fitto, che ha sintetizzato così la stretta sui giudici contabili.
Le parole di Carlino marcano un cambio di passo della Corte, dopo i toni più morbidi degli scorsi giorni, seppure in un contesto critico per via della proroga dello scudo erariale. Era stato lo stesso presidente ad affermare che non si poteva parlare di un bavaglio del governo.
Ieri, invece, intervenendo a un convegno all’università Cattolica di Milano, ha tirato in ballo la Costituzione per ricordare che «il controllo è garantito dall’articolo 100» della Carta e «come tale non comprimibile». Quindi, è il messaggio a Palazzo Chigi, se si vogliono azzerare i controlli in corso d’opera, bisogna procedere con una legge costituzionale.
C’è un altro monito, nelle parole di Carlino. E cioè la necessità di «un quadro normativo certo e stabile, che agevoli i controlli» se si vuole «scoraggiare e contrastare le molte tipologie di mala gestio». Perché, è il rischio, la portata finanziaria del Pnrr può risultare vulnerabile alle frodi, ma anche alla corruzione e alle infiltrazioni della criminalità organizzata.
(da la Repubblica)
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Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile I REATI CONTESTATI SONO PECULATO, OMESSA DENUNCIA DI REATO, FALSITA’ IN ATTO PUBBLICO
Si è chiusa una seconda indagine sui carabinieri della Caserma Levante di Piacenza, che fu soprannominata “la caserma degli orrori” quando nel 2020 finì sotto sequestro per gravi abusi commessi dai militari, travolgendo il personale dell’Arma.
Ne dà notizia il quotidiano online ilPiacenza.it, secondo cui la Procura di Piacenza ha notificato a 24 persone l’atto di chiusura delle indagini per il nuovo filone. Ci sarebbero i carabinieri finiti nella prima indagine e condannati in primo e secondo grado, più altri cinque militari, un finanziere e nove civili per fatti commessi negli anni precedenti – dal 2017 al 2019 – e vicende minori emerse durante la prima inchiesta, che non erano state ancora contestate.
Secondo il quotidiano online di Piacenza, le nuove accuse vanno «dall’omessa denuncia di reato a peculato, falsità materiale in atto pubblico, violata consegna, rifiuto o omissione di atti d’ufficio per mancate segnalazioni di assuntori di droga alla Prefettura, fino al falso in atto pubblico in memoriali di servizio e detenzione abusiva di armi. E ancora: arresto illegale, rivelazione di atti d’ufficio, violenza privata, perquisizione arbitraria». I civili coinvolti sarebbero invece quasi tutti pusher e sarebbero indagati per spaccio.
(da agenzie)
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Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile EMERGE IL RUOLO DI UNA POLIZIOTTA
Verona. La telecamera di sorveglianza puntata sulla Sala fermati
del reparto Volanti riprende sistematici abusi, umiliazioni e violenze ai danni degli ultimi della città: tossici, migranti, senzatetto.
Adesso, quei fotogrammi sono riportati nelle carte dell’indagine, prova delle accuse rivolte ai 26 agenti indagati (5 sono ai domiciliari) dalla Procura. Video in cui, secondo quanto riporta Repubblica, i poliziotti ridevano durante i pestaggi, insultavano i fermati, e rievocavano persino – con il sorriso – la vicenda di Stefano Cucchi.
Come la notte tra il 3 e il 4 novembre 2022, quando un 36enne con problemi psichiatrici viene condotto nell’acquario «in evidente stato catatonico».
Con lui ci sono 5 agenti, tra i quali Loris Colpini, ora ai domiciliari, e l’assistente capo Michele Tubaldo (indagato). Quest’ultimo osserva l’uomo fermato attraverso il plexiglas e, scherzando con i colleghi, lo paragona al geometra romano morto mentre era sottoposto a custodia cautelare.
Solo a mezzanotte nell’acquario entrano dei medici. Un’ora dopo dal momento in cui l’uomo si era accasciato. Dalle carte d’indagine depositate dal gip, inoltre, emerge anche il ruolo di una poliziotta. La donna non ha partecipato direttamente ai pestaggi. Ma secondo i pm ci sono le prove della sua «palese adesione e non irrilevante contributo concorsuale alla commissione dell’azione delittuosa, oltreché l’accanimento mostrato nei confronti della persona offesa».
Il riferimento è al fermato Amiri Tororo, marocchino, che sarebbe stato da lei minacciato con lo spray urticante: «Giuro che ti spruzzo adesso». E ancora: «Dai raga, vi prego, un’altra spruzzata!», «Tagliatelo se ti fa male il cazzo», «io lo abbandonerei lì e gli darei quattro calci, lo lascerei steso pieno di spray». Di fronte a questa scena, una sua collega «si sta spaccando dalle risate».
Le precauzioni
A metà novembre nel reparto Volanti si sparge la voce che c’è un’inchiesta in corso (iniziata la scorsa estate). I primi sospetti arrivano quando alcuni indagati sorprendono due colleghi della Squadra Mobile ad analizzare dei filmati interni. I poliziotti sotto osservazione iniziano dunque a prendere precauzioni: controllano che non ci siano telecamere e microspie nelle stanze in cui s’incontravano, iniziano a comunicare mediante bigliettini. «Il sovrintendente S. consiglia ai colleghi di fare domanda di trasferimento ad altri uffici».
L’8 novembre, tre di loro vengono registrati mentre «parlano del fatto che l’ex dirigente dell’Ufficio Volanti, nonostante i vari problemi che coinvolgono gli operatori del Nucleo, dei quali lei era a conoscenza, è stata trasferita al momento giusto senza alcuna ripercussione».
(da agenzie)
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Giugno 9th, 2023 Riccardo Fucile MARTEDI’ SI DOVRA’ PRESENTARE IN TRIBUNALE A MIAMI
L’annuncio di Donald Trump arriva direttamente sul suo social Truth: per le carte segrete di Mar-a-Lago è arrivata l’incriminazione per l’ex presidente degli Stati Uniti. «Ho ricevuto una convocazione dal tribunale di Miami martedì alle 3 del pomeriggio», spiega lui. E aggiunge: «Questo è un giorno nero per l’America. Siamo un paese in serio e rapido declino».
I capi d’accusa nei suoi confronti sono sette. I procuratori federali avevano notificato ai legali del tycoon il suo inserimento come potenziale indagato nell’inchiesta sul trasferimento di documenti classificati dalla Casa Bianca al suo resort. Si tratta della seconda incriminazione di Trump dopo il caso Stormy Daniels. In questa caso c’è un presunto pagamento in nero da 130 mila dollari in violazione delle leggi sui finanziamenti elettorali.
La storia
La villa di Trump è stata perquisita nell’agosto scorso. A suo carico c’è anche un file audio in cui afferma di aver tenuto un documento sull’attacco all’Iran. Mentre l’Fbi sospetta che alcune carte siano state spostate successivamente dalla residenza. È la prima volta che un ex presidente viene incriminato per reati federali. Da candidato alle presidenziali dovrà quindi consegnarsi alla corte di Miami. Fra le accuse ci sono la cospirazione e il tentativo di ostacolare la giustizia, ma anche dichiarazioni false e ritenzione volontaria di informazioni di difesa nazionale. Le accuse, scrive il New York Times, mettono gli Stati Uniti in una «posizione straordinaria dato che Trump non solo è un ex presidente ma è anche il front runner alla nomination repubblicana alle elezioni 2024 che potrebbe trovarsi ad affrontare Joe Biden, la cui amministrazione sta ora cercando di incriminarlo».
L’indagine
L’indagine sulle carte segrete di Trump è iniziata nel 2021. Gli Archivi nazionali hanno notato che l’ex presidente non aveva consegnato tutti le carte all’uscita della Casa Bianca. Ne è partito un contenzioso. Poi nella perquisizione dell’Fbi a Mar-a-Lago lo scorso anno e, ora, nell’incriminazione. La Casa Bianca non commenta le accuse, mantenendo così la linea del silenzio sposata da Biden. Per il presidente la partita è particolarmente delicata, visto che si è nel pieno della campagna elettorale per il 2024. I candidati repubblicani alla nomination per ora tacciono, così come il partito. I primi commenti a caldo fra i conservatori arrivano dai fedelissimi dell’ex presidente, che lo difendono a spada tratta e si dicono pronti a dare battaglia.
La bufala degli scatoloni
In un video postato su Truth Trump dice che gli accusatori «vanno contro un presidente popolare» con la «bufala degli scatoloni. Questa è un’interferenza nelle elezioni a livello più alto. Sono un uomo innocente». E ancora: «Vogliono distruggere la mia reputazione perché vogliono vincere le elezioni». Il tucoon ha altre inchieste in corso. Quella sugli asset gonfiati, in cui le autorità di New York lo accusano di aver mentito a banche e assicurazioni chiedendo indennizzi per 250 milioni di dollari. L’obiettivo è vietare ai Trump – l’ex presidente e i tre figli Donald Jr, Eric e Ivanka – la guida di qualsiasi azienda a New York. Per il caso Daniels l’udienza è fissata il 25 marzo, durante le primarie.
Le altre inchieste
Poi c’è l’indagine della Georgia sulle interferenze sul voto. Il rapporto finale del gran giurì è ancora riservato, ma secondo indiscrezioni sono state raccomandate incriminazioni nei confronti di almeno dieci persone. Infine ci sono le inchieste su Capitol Hill. La commissione di indagine sull’assalto al Congresso americano ha concluso che Trump e i suoi hanno partecipato a un piano per capovolgere le elezioni del 2020. Il procuratore speciale Smith sta conducendo la sua indagine sui presunti tentativi dell’ex presidente di capovolgere l’esito del voto. Trump è stato condannato per aggressione sessuale e diffamazione nel caso di Jean Carroll.
(da Open)
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