Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
LA VITTIMA ERA UN RAGAZZO DI ORIGINI GHANESI, INDIVIDUATO L’INVESTITORE: UN 39ENNE OPERAIO DELLA ZONA CON PRECEDENTI IN STATO DI EBREZZA E SPACCIO DI STUPEFACENTI… OVVIAMENTE E’ STATO SOLO “DENUNCIATO A PIEDE LIBERO”
Un ragazzo di 13 anni, Chris Obeng Abom di origini ghanesi, è stato investito e ucciso lunedì sera introno alle 23.30 a San Vito di Negrar, in provincia di Verona, lungo la strada provinciale 12 dell’Aquilio.
Il giovane è morto dopo essere stato investito da un’auto pirata, fuggita dopo aver provocato l’incidente. Dalle prime ricostruzioni, il giovane stava camminando sulla strada quando è stato colpito dalla vettura,che poi si è allontanata senza prestare soccorso. Trasportato in gravissime condizioni a Verona all’ospedale di Borgo Trento, il 13enne (avrebbe compiuto 14 anni a settembre) è morto martedì mattina a causa delle lesioni riportate nell’impatto.
Denunciato il pirata della strada
I carabinieri di Negrar di Valpolicella e del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Caprino Veronese hanno individuato e denunciato a piede libero per omicidio stradale, fuga e omissione di soccorso il conducente dell’auto che ieri sera ha investito Chris Obeng Abom. Si tratta di un 39enne del posto, operaio, con piccoli precedenti fra cui spaccio di stupefacenti e guida in stato di ebrezza. I carabinieri sono risaliti a lui grazie al sistema di videosorveglianza comunale e ai detriti dell’auto che sono stati trovati sull’asfalto dai militari.
Il ritardo nei soccorsi
“Poteva essere salvato se fosse stato soccorso” dopo l’incidente. Lo affermano i medici della terapia intensiva e d’emergenza dell’Azienda Ospedaliera universitaria di Verona, che la notte scorsa avevano accolto la giovane vittima. Secondo i sanitari le lesioni riportate dal giovane non sarebbero da sole “compatibili con il decesso”, causato invece da “arresto cardiaco per ipossia da schiacciamento”. In sostanza, prima di essere notato da un passante, il 13enne è rimasto a terra per un periodo di tempo che potrebbe essere risultato fatale.
Il giovane calciatore Chris Obeng Abom
Sognava di fare il calciatore in qualche grande squadra. L’adolescente era tesserato con le giovanili del Negrar, che con la formazione maggiore partecipa al campionato di terza categoria. Da 4 anni frequentava la Polisportiva Negrar ed era sua abitudine andare al centro sportivo da solo, in bus dalla sua città di San Vito. I genitori del giovane – il padre è operaio in un’azienda metalmeccanica – sono in Italia da una ventina d’anni, e qui sono nati anche gli altri due loro figli, un maschio e una femmina.
Il dolore della preside della scuola
“Non ho parole e lacrime, ho tanta rabbia, la vita del nostro carissimo alunno Abom Chris è stata falciata da una auto pirata, non hanno avuto pietà, lo hanno lasciato solo e morente sul ciglio della strada, gioia di vivere, speranze, riscatto falciati in pochi attimi. Il tuo abbraccio con il mazzo di fiori, a conclusione del concerto di fine anno scolastico, rimarrà indelebile nei miei ricordi”.
É il ricordo affidato a Facebook della preside dell’Istituto Comprensivo di Negrar di Valpolicella del 14enne rimasto ucciso da un’auto pirata ieri sera. “Tutta la comunità scolastica dell’Istituto Comprensivo di Negrar ti ricorderà sempre e si stringe al dolore della tua famiglia. Addio Chris, continua a calciare fra le nuvole”, conclude il post.
(da agenzie)
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Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
I SOLDI ORA ANDRANNO AI FIGLI DELLA COPPIA, MA LA VICENDA NON È ANCORA CHIUSA, C’E’ ANCORA L’APPELLO: SIAMO UN PAESE TRAGICO E RIDICOLO AL TEMPO STESSO
Dodici anni per una sentenza civile, per un risarcimento, per una moglie ricoverata ad Arezzo e morta a Siena, a 77 anni, in quella che doveva essere un’operazione di routine e invece è finita con un coma irriversibile, col dolore, quello più grande, quello della perdita della persona amata.
Nel frattempo lui, il marito è morto a sua volta. Perché dodici anni sono tanti, sono troppi, per ottenere giustizia e anche un indennizzo di 750mila euro (che adesso andranno ai figli della coppia, ma non è questo il punto: il punto è che i tempi infiniti dei nostri tribunali, specie di quelli civili, sono una vergogna senza fine). Inizia tutto a gennaio del 2011.
Dodici anni, cioè, e c’è solo il primo verdetto, che con ogni probabilità verrà impugnato (quindi la vicenda non è nemmeno conclusa qui) anche in vista della decisione penale. Lui, il marito, intanto non c’è più, è morto ed è morta anche la sorella della donna. Adesso sono rimasti solo i figli (e la nipote) che non possono far altro che attendere (ancora) e vedere e sperare. Dodici anni e tutte le carte sono ancora sul tavolo, compresa quella dell’accordo extragiudiziale che è una possibilità (concreta) a cui potrebbero aggrapparsi.
(da Libero)
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Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
L’ALLARME CONTENUTO NEL RAPPORTO IPSOS
Il caro vita corre, gli stipendi sono fermi al palo e agli italiani non resta altro da fare che risparmiare sul consumo energetico, sullo shopping e sulle attività di svago. Questa la desolante fotografia emersa dal report FragilItalia, elaborato da Area Studi Legacoop e Ipsos, in base ai risultati di un sondaggio condotto su un campione rappresentativo della popolazione, per testarne le opinioni relative al tema “Inflazione e consumi”.
Contrariamente a quanto si possa pensare, il fenomeno non è ristretto a una piccola quota di italiani ma, dati alla mano, coinvolge quasi 6 italiani su 10. Per quanto riguarda le risorse destinate allo shopping ben il 57% del campione analizzato ha rivelato di averle drasticamente ridotte. Male anche i consumi di energia elettrica visto che il 53% degli italiani è stato costretto a ridurli in modo significativo mentre il 44% ha tagliato il consumo di gas. In tempi di magra, il 51% del campione ha rivelato di aver fortemente diminuito le spese per attività culturali e di svago.
Purtroppo la situazione, secondo il rapporto FragilItalia, non è destinata a migliorare nel breve periodo. Il 57% degli italiani ha spiegato che sarà inevitabile ridurre o evitare le spese in divertimenti, il 52% le cene fuori e i viaggi, il 48% i prodotti in delivery e il 47% i piatti pronti. A seguire le riduzioni riguarderanno la spesa per l’acquisto per prodotti di elettronica che rischia di frenare del 46%, quella della cultura in calo del 45%, quella dell’abbigliamento in flessione del 41%, poi quella in prodotti di bellezza in discesa del 40% e per l’acquisto di scarpe che freneranno del 39%.
Per quanto riguarda le strategie di acquisto, il 51% degli intervistati dichiara di aver cambiato le proprie abitudini riducendo l’acquisto di prodotti superflui di 7 punti percentuali rispetto a settembre 2022, di aver tentato di limitare gli sprechi di cibo di 4 punti percentuali e di acquistare sempre più prodotti in promozione.
Dall’analisi dei risultati appare evidente che per gli italiani l’inflazione è una vera e propria ‘tassa’ che colpisce tutti indiscriminatamente, anche se a pagarne il prezzo maggiore sono, come al solito, i ceti più deboli. “L’impatto dell’incremento dei costi e dei prezzi nell’ultimo anno è stato forte e ha aumentato le diseguaglianze nel nostro Paese”, spiega il presidente di Legacoop Simone Gamberini.
“È infatti vero che l’inflazione è la tassa più ingiusta, perché colpisce indiscriminatamente tutti i cittadini, e quindi penalizza i più deboli, ma è altrettanto vero che, come più volte abbiamo detto, le politiche monetarie in corso rischiano di aggravare ulteriormente la situazione pesando, oltreché sul sistema produttivo, proprio su quegli stessi cittadini”.
Il riferimento è ai recenti “aumenti dei tassi nuovamente messi in atto” dalla Banca centrale europea e che “sono la via opposta a quella ora necessaria nel nostro Paese. Cultura, svaghi, viaggi, acquisti non alimentari: su tutto ciò si era basata la rapida ripresa che ci ha condotto fuori dalla pandemia” ha aggiunto Gamberini. Lo stesso spiega che bisogna cambiare rotta al più presto: “Occorrono politiche pubbliche coraggiose, perché ulteriori cali nei consumi alimentano il rischio di recessione economica e di disagio sociale”.
(da La Notizia)
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Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
I PESSIMI DATI SUL PIL NEL SECONDO TRIMESTRE (-0,3%) COSTRINGONO IL TESORO A RIVEDERE I CONTI IN VISTA DELLA MANOVRA DI BILANCIO. OVVERO, ADDIO AL MARGINE DI 4 MILIARDI DA SPENDERE IN JOLLY, BONUS E “MANCETTE” VARIE
Alle dieci del mattino, quando le agenzie battono il dato del Pil in retromarcia, Giorgia Meloni ha chiara una cosa: la narrazione della crescita italiana formidabile, superiore a quella di Francia e Germania, non regge più. Non almeno nella formula assoluta – «stiamo crescendo più delle altre economie» – affidata meno di 24 ore prima ai microfoni internazionali di Fox News.
La stima negativa dell’Istat era stata messa in conto, ma non la portata: le previsioni dei tecnici del Tesoro erano più ottimistiche, con qualche decimale di crescita in più.
Sceglie il silenzio, la premier. Affida a Giancarlo Giorgetti la gestione dell’effetto collaterale che ha generato il segno meno nel secondo trimestre: che ne sarà della legge di bilancio? La nota del ministero dell’Economia, diffusa alle sei di sera, prova a mettere un argine alla grande paura che corre dentro le stanze del governo.
Quanto durerà?, è l’interrogativo da cui dipende la possibilità di tenere in piedi l’impianto dei conti pubblici messo nero su bianco ad aprile, con il Documento di economia e finanza. Dove i margini per la manovra erano già esigui, appena 4 miliardi. E dove già era affiorata la consapevolezza che le promesse elettorali, da quota 41 per le pensioni alla flat tax, dovevano essere messe da parte.
Ma la prudenza, allora, era stata volutamente accentuata: tra i diversi scenari elaborati al Mef era stato scelto quello più cauto. Non solo per dare un segnale all’Europa e ai mercati, ma anche per tenersi buona una carta, da mettere sul tavolo a pochi mesi dalle elezioni europee: la crescita migliore delle attese.
E quindi più spazio fiscale, nella legge di bilancio, per giocarsi qualche jolly, come il bonus per chi ha o fa figli, assai gradito alla presidente del Consiglio perché espressione di quella natalità che vuole elevare a principio del sistema fiscale. Nel frattempo, però, la carta si è stropicciata. E per questo, oggi, gli obiettivi sono stati ridimensionati: ben che vada – è il ragionamento – si riuscirà a portare a casa l’impegno preso con il Def.
L’economista Fedele De Novellis, partner di Ref Ricerche, delinea lo scenario avverso: «Se quest’anno – spiega a Repubblica – dovessimo perdere 2-3 decimi di Pil rispetto alle previsioni del Def e l’anno prossimo andare sotto la previsione dell’1,5% portandoci verso una crescita inferiore all’1%, il deficit tendenziale salirebbe dal 3,5% a oltre il 4%: mantenendo il deficit programmatico al 3,7%, bisognerebbe intervenire con una manovra correttiva».
Altro che tesoretto da 4 miliardi: tagli alla spesa o aumento delle tasse. Il governo prova ad allontanare questa prospettiva. Giorgetti invoca «politiche economiche di responsabilità prudente», ricorda i margini stretti ai colleghi che negli ultimi giorni si stanno presentando a via XX settembre con la lista della spesa per la manovra. E assicura che l’obiettivo di crescita, fissato in primavera all’1%, è «ancora pienamente alla portata».
A molti, nel governo, non è sfuggito il suo silenzio prudente, quando il Fondo monetario internazionale, la settimana scorsa, ha alzato le stime per la crescita per quest’anno, abbassando però quelle per il 2024. Non si è unito al ritornello meloniano, che i ministri più vicini alla premier hanno intonato. Anche troppo, per alcuni esponenti di Fratelli d’Italia: l’indiziato è il ministro delle Imprese Adolfo Urso. Il passo cauto, però, non può cancellare i rischi, al massimo può ridurne l’impatto, per quanto possibile.
Soprattutto Meloni ha un’esigenza immediata, in attesa di capire, a settembre, fino a che punto potrà contenere i danni con la Nota di aggiornamento al Def, la cornice della manovra. Deve provare a ribaltare subito il contraccolpo del Pil a – 0,3%. Per farlo si aggrappa al terzo, all’estate trainata dal turismo: l’auspicio è che possa ribaltare il quadro; un recente report di Confindustria dice però che l’economia, a giugno, è partita con il piede sbagliato. Insomma ci si affida al rimbalzo che possono garantire gli ombrelloni e gli hotel pieni di turisti. Ma le variabili esterne sono nettamente più pesanti, sulla bilancia ballerina dei conti pubblici.
(da La Repubblica)
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Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
SCHLEIN ATTACCA IL GOVERNO: “IL PARLAMENTO E’ STATI ESAUTORATO, CI AVETE MESSO 10 MESI PER DECIDERE DI CANCELLARE I PROGETTI”
Dura quasi un’ora l’intervento di Raffaele Fitto, alla Camera, la mattina del primo agosto. Si discute la rimodulazione del Piano di ripresa e resilienza proposta dal governo Meloni. E il fuoco dell’attenzione è sempre acceso sui quasi 16 miliardi di euro di progetti stralciati dal Piano. Non erano realizzabili nelle tempistiche imposte dall’Unione europea, sostiene il ministro per il Pnrr.
Ma garantisce che, attingendo da altre risorse nazionali ed europee, ciascuno di quei progetti, prima o poi, vedrà la luce.
Intanto quei 16 miliardi vengono dirottati altrove, senza garanzie scritte o indicazioni precise su come verranno foraggiati gli obiettivi definanziati nel Pnrr.
I dubbi non sono nutriti solo dalle opposizioni, ma anche da alcuni amministratori locali dei partiti di maggioranza.
Persino il Servizio studi del Parlamento, con una relazione, mette in allarme sulla rimodulazione del piano: «Si sottolinea come il rapporto del governo non specifichi quali saranno gli strumenti e le modalità attraverso i quali sarà mutata la fonte di finanziamento delle risorse definanziate dal Pnrr».
A oggi, dunque, mancano le coperture alternative per i 16 miliardi di progetti tagliati. La relazione è una sorta di biasimo della ricostruzione in Aula di Fitto: il Servizio studi ammonisce l’esecutivo perché «una determinazione appare fondamentale al fine di verificare che le fonti alternative di finanziamento dispongano di una adeguata dotazione di competenza e di cassa nell’ambito del bilancio dello Stato».
Le critiche di Elly Schlein
Tradotto? Non c’è alcuna certezza che i progetti tagliati dal Pnrr, per un valore complessivo di circa 16 miliardi, troveranno una copertura in futuro. Si tratta, ad esempio, delle iniziative di contrasto al dissesto idrogeologico, di rigenerazione urbana, di decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto, di valorizzazione dei beni confiscati alle mafie.
Durante le dichiarazioni di voto sulle risoluzioni presentate a corredo delle comunicazioni del ministro Fitto, per il Partito democratico, prende parola la segretaria Elly Schlein: «Ministro, ha detto che le critiche delle opposizione non sono arrivate nel merito di misure concrete. Eccole. Avete deciso di cancellare i piani urbani integrati, di dire addio ai progetti di riqualificazione di Scampia, addio a Bari al parco della Rinascita al posto della fabbrica dell’amianto, addio a Fiumicino alla rigenerazione di un palazzetto dello sport che cade a pezzi, addio al polo scolastico del Ponente a Genova. Ci state rubando futuro in modo molto concreto».
L’attacco della leader del Nazareno comprende anche l’operato della presidente del Consiglio: «È sempre più evidente che vi siano due diverse Giorgia Meloni, una che qualche giorno fa un video per annunciare la necessità di un grande piano di prevenzione del dissesto idrogeologico e un’altra, quella che guida un governo che ha appena scelto di tagliare risorse destinate esattamente a questo scopo».
Sul dirottamento delle risorse dai progetti del Pnrr ai capitoli del REPowerEU, Schlein ritiene che «Non sia una grande idea accrescere il REPowerEU con pochi progetti affidati alle grandi partecipate dello Stato se lo si fa a danno di tante piccole opere degli enti locali sul dissesto, sulla rigenerazione, sul verde urbano. Peraltro, penalizzando anche piccole imprese di costruzione, penalizzando interventi che aiutino a rendere le nostre città più vivibili nelle ondate di calore. Anche questa è sicurezza. È sempre facile negare i cambiamenti climatici al fresco dei propri condizionatori. Mentre lavoratrici e lavoratori, come è successo negli ultimi giorni a due braccianti, muoiono di caldo nelle ore di lavoro».
La segretaria del Pd definisce quelle del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin «delle lacrime di coccodrillo». E conclude la sua arringa: «Ci avete fatto attendere 10 mesi queste modifiche del Pnrr sulle quali il Parlamento è stato esautorato, perché la governance prevede che non basti una comunicazione d’ufficio come quella di oggi, ma che serva un voto preventivo delle Camere» prima di modificare il piano.
«Avete passato 10 mesi a decidere la cancellazione di tanti progetti, spiegando che verranno rifinanziati successivamente, ma pensate di metterci 10 anni a realizzarli? Ci dovete spiegare cosa avete contro i Comuni visto che state scaricando tutto su di loro: dai tagli al Pnrr, all’accoglienza diffusa, fino alle procedure sul Reddito. Ci state rubando il futuro».
(da Open)
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Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
COSI’ I PRONTO SOCCORSO IN ITALIA SONO DESTINATI A SCOPPIARE.. LE CASE DI COMUNITA’ PASSANO DA 1350 A 936, GLI OSPEDALI DA 400 A 304
Non solo le misure per arginare le alluvioni e ridurre il rischio idrogeologico. A sparire dal “nuovo” Piano nazionale di ripresa e resilienza sono anche i fondi per la medicina territoriale.
Nella rimodulazione del piano del ministro per gli Affari europei e il Pnrr, Raffaele Fitto, sono stati ridotti i già scarsi finanziamenti previsti per la sanità pubblica.
Eppure, il collasso del sistema sanitario a cui abbiamo assistito durante la pandemia avrebbe dovuto insegnare qualcosa: senza strutture adeguate e senza un livello intermedio di assistenza, gli ospedali – e in special modo i pronto soccorso, già molto in affanno – sono destinati a scoppiare. In effetti, il Pnrr è stato ideato proprio per rilanciare il Paese dopo lo shock economico e sociale causato dal Covid.
Porre rimedio alle lacune che l’emergenza ha portato a galla è uno degli obiettivi principali del Recovery Plan. Il governo Meloni giustifica lo slittamento delle misure dando la colpa al “contesto attuale” e promette di realizzare comunque i progetti, attraverso altre risorse.
Ma le associazioni di categoria non dormono sonni tranquilli: “Serve una sanità territoriale forte, una medicina più vicina ai cittadini. Tutto questo è destinato a rimanere sulla carta?”, ha denunciato Pietro Dattolo, presidente dell’Ordine dei medici di Firenze. Con la revisione del Piano, le Case della Comunità finanziate dai fondi europei passano da 1.350 a 936, gli Ospedali di Comunità da 400 a 304. Le Centrali Operative territoriali da 600 a 524. Vista la grave carenza di medici, in molti erano preoccupati che non fosse possibile garantire un organico sufficiente a queste nuove strutture. La buona notizia è che ora il rischio “cattedrale vuota” sembra essere scongiurato. Per il momento non si sa neanche quando verrà costruita la cattedrale.
I progetti rimandati di tre anni a causa dei costi
Secondo il governo era impossibile utilizzare i fondi europei per realizzare tutte le opere di medicina territoriale previste inizialmente dal Piano. I costi sono lievitati troppo negli ultimi due anni, a causa del rialzo dei prezzi delle materie prime ed energetiche. Secondo le stime dell’esecutivo, per esempio, per la costruzione di strutture sanitarie come le Case di Comunità, l’aumento dei costi oscilla tra il 24% e il 66%, a seconda delle regioni considerate. Per questo è stato necessario ridurre gli interventi previsti dal Pnrr.
Tutti progetti espunti sono rimandati di tre anni, dopo giugno 2026. Solo allora le strutture saranno realizzate, grazie alle risorse nazionali del programma di investimenti in edilizia sanitaria e ammodernamento tecnologico (ex art. 20 della legge n. 67/1988), o mediante la riprogrammazione delle risorse della politica di coesione (FSC).
Questi fondi coprirebbero i maggiori costi dei progetti a complessità realizzativa – come nuovi edifici, lavori che hanno maturato ritardi a causa di ricorsi o indisponibilità, lavori complessi sotto il profilo logistico organizzativo dei cantieri di adeguamento sismico. Per questi, il governo non è in grado di garantire il completamento entro giugno 2026. Ed è così che i cittadini, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare ancora degli anni prima di veder realizzato quello che dopo il Covid sembrava una priorità per tutti: un sistema efficiente di medicina territoriale. Ma non saranno solo i progetti delle strutture sanitarie a essere ridotti. Anche la transizione digitale dei Sistema Sanitario Nazionale è stata rimandata. Telemedicina, ammodernamento delle grandi apparecchiature, digitalizzazione dei Dipartimento Emergenza e Accettazione di I e II livello: tutte le misure che richiedono lavori edili per la preparazione dei locali sono destinate a slittare.
L’Ordine dei medici di Firenze: “Incertezza sui tempi”
Ad attirare l’attenzione sui tagli previsti dall’esecutivo è stato Pietro Dattolo, presidente dell’Ordine dei medici di Firenze: “Siamo molto preoccupati per il possibile slittamento dei fondi del Pnrr per la realizzazione delle Case di comunità”, ha dichiarato, dopo aver appreso che alla Toscana mancheranno 570 milioni di euro, necessari per realizzare 132 strutture locali. A mettere in apprensione l’Ordine dei medici è l’incertezza nei tempi di realizzazione dei progetti. La Regione ha assicurato di essere pronta ad aprire nuovi cantieri tra fine 2023 e inizio 2024. Ma per il presidente dell’Omceo fiorentina il rischio è che si accumulino ulteriori ritardi. “L’assistenza sanitaria deve essere una priorità sempre e comunque – ha continuato Dattolo -. Serve una sanità territoriale forte, una medicina più vicina ai cittadini, così da non intasare i pronto soccorso. Tutto questo è destinato a rimanere sulla carta? Il Covid non ci ha proprio insegnato niente?”.
L’allarme dei territori: “Una scorrettezza irresponsabile”
Tra le voci più critiche rispetto alla decisione di Fitto e del governo, c’è quella di Vincenzo De Luca, presidente della regione Campania. Il governatore, nel corso di una diretta Facebook, ha definito “gravissima” la scelta di ridurre i fondi europei per la medicina territoriale: “Le risorse erano già estremamente limitate, 7 miliardi su 200 miliardi del Pnrr – ha denunciato -. Ora il governo decide di tagliare, senza alcun confronto con le regioni e senza nessuna valutazione di merito”. De Luca ha ricordato che la Campania è la regione che avrebbe dovuto realizzare più case di comunità, 170 per la precisione, necessarie “per recuperare decenni di ritardo sulla medicina territoriale”.
Inoltre, De Luca lamenta il fatto che i fondi nazionali previsti dal governo per sopperire ai tagli del Pnrr servano in realtà per altri progetti: “Dovrebbero rimanere intatte e utilizzate per le manutenzioni e gli ospedali da realizzare. È qualcosa di sconvolgente, per il livello di scorrettezza e di irresponsabilità”.
Anche la senatrice del Partito Democratico, Ylenia Zambito, ha messo in dubbio l’idea di Fitto di realizzare le misure con i fondi nazionali: “Quante volte pensa di poter spendere le stesse risorse? È grave e triste che la destra, quando c’è da tagliare e sacrificare, decida di partire sempre dalla sanità pubblica”, ha concluso la senatrice. Dalla Liguria, protesta Luca Garibaldi, capogruppo del Partito Democratico in Regione, che parla di “duro colpo” per il territorio.
Mentre Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato nelle fila del Movimento 5 Stelle, pone l’attenzione sulle possibili ripercussioni per il Sud. “Ammesso e non concesso che sia praticabile il recupero di risorse dai Fondi di coesione per tornare a finanziare i progetti attualmente esclusi – ha scritto la senatrice in un post su Facebook -, si rischia comunque di togliere per altra via risorse che dovrebbero andare a sostenere il Mezzogiorno. Perché proprio a questo servono i Fondi di coesione. È una specie di partita di giro giocata sulla pelle dei cittadini”, scrive. E conclude: “Uno scenario inaccettabile, a maggior ragione dopo il dramma della pandemia“.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
UN PATRIMONIO FONDATO SUI SOLDI VERSATI DAI MILITANTI DEL VECCHIO MSI NEL CORSO DEGLI ANNI (CHISSA’ COSA NE PENSEREBBERO)
Qualcuno l’ha ribattezzato lo ‘scrigno’ di Giorgia Meloni. Anche se c’è un legame strettamente politico e non propriamente giuridico con Fdi, di fatto il partito della premier può usufruire del suo vasto portafoglio case.
Stiamo parlando della Fondazione Alleanza Nazionale, costituita il 18 novembre 2011 con apposito rogito notarile, che oltre al ‘tesoro’ dell’ex Msi (formato da immobili del valore di 27 milioni di euro e circa 30 milioni di euro in Fondi di deposito bancari), custodisce il patrimonio culturale dei ‘patrioti’, a cominciare dallo storico simbolo della Fiamma tricolore.
Un logo che identifica anche il ‘partito di Giorgia’ e ne rappresenta la continuità con il passato. Non solo. La vicinanza con la leader di Fratelli d’Italia è anche ‘fisica’ e ‘familiare’: la Fondazione ha i suoi uffici e l’archivio in via della Scrofa 39, stesso luogo della sede nazionale dei ‘meloniani’ e nel suo organigramma (come componente del cda) spunta il nome della sorella del presidente del Consiglio, Arianna, attuale responsabile del tesseramento di Fdi (subentrata a uno dei consiglieri di amministrazione divenuto ministro nell’autunno scorso).
Secondo l’ultimo bilancio chiuso il 31 dicembre 2022, la Fondazione presenta un “disavanzo di esercizio” pari a 1 milione 339mila 629 euro ma non c’è un allarme conti. “E’ un disavanzo strutturale”, garantisce all’Adnkronos il deputato Antonio Giordano, vicepresidente vicario della Fondazione, che spiega le ‘uscite di cassa’: “Facciamo molta attività istituzionale per promuovere la cultura della destra italiana, attraverso varie iniziative ed eventi sul territorio, e lavoriamo tanto per la diffusione del ‘Secolo d’Italia’, che resta uno dei nostri principali costi, giornale on line diventato nel tempo una delle testate di riferimento per l’intera area valoriale”.
Il principale asset, dunque, è rappresentato dai beni immobili: appartamenti e palazzi, sedi di sezioni (la maggior parte periferiche) ma anche garage e scantinati (circa una settantina in tutto) disseminati sull’intero territorio nazionale, compresa la sede storica di via della Scrofa al numero civico 39, provenienti da contributi e risparmi dei militanti del vecchio Movimento sociale italiano, che hanno sempre garantito sonni tranquilli ad An.
Una sorta di polizza a vita per superare indenni qualsiasi tempesta politica. Nel verbale dell’assemblea dei soci che accompagna l’ultimo rendiconto della ‘Italimmobili srl’, la società che fa capo alla Fondazione An, si fa riferimento a una delle ultime operazioni di rilievo: l’acquisto di un negozio situato in vicolo della Vaccarella 12 autorizzato dalla Fondazione ed effettuato, tramite la srl, grazie a un finanziamento della Fondazione stessa.
“Allo stato attuale si aggira intorno ai 27 milioni di euro il valore degli immobili di An confluiti interamente nella società ‘Italimmobili srl’”, precisa Giordano, impegnato, insieme a tutto il Consiglio di amministrazione, ad assicurare una gestione oculata e redditizia dei vari cespiti.
A questa somma vanno aggiunti i circa 30 milioni di euro in ‘titoli immobilizzati’, ovvero ‘Fondi di deposito’ presso istituti di credito (da Unicredit a Intesa San Paolo), che investono prevalentemente in titoli di Stato. Per l’esattezza si tratta di 29 milioni 548mila 102 euro, previsti nella voce ‘Altri titoli’ del rendiconto finanziario. “Abbiamo preferito fare degli investimenti a lungo termine, è stata una scelta di estrema prudenza e trasparenza”, dice Giordano che precisa: “Nessuna scelta arbitraria, nessuna banca amica, semplicemente le banche top italiane e la migliore in Europa”.
Nel dettaglio, i circa 30 milioni di euro di ‘titoli immobilizzati’, si legge nella nota integrativa, sono: “Fondi deposito presso la Banca popolare di Milano (4 milioni 756mila 604 euro); Unicredit/Fineco (4 milioni 998mila 991 euro); Intesa San Paolo/Fideuram (4milioni 999mila 999 euro); Deutsche Invest (5 milioni 45mila 683 euro); Banca Generali (5 milioni 549mila 363 euro); Unicredit Fondi 964 (1 milione 891mila 110 euro); Unicredit Fondi 618 (306mila 352 euro) e Bpm Fondi (2milioni di euro)”.
In particolare, la Fondazione An, presieduta da Giuseppe Valentino, che può contare anche su una liquidità di oltre un milione di euro, detiene il 100 per cento di ‘Italimmobili srl’ con sede legale a Roma, un capitale sociale di 1 milione 530mila euro e un patrimonio netto di 1 milione 341mila 865 euro al 31 dicembre scorso.
Non solo: nel suo portafogli c’è pure il 100 per cento del ‘Secolo d’Italia srl’, con sede legale sempre a Roma, un capitale sociale di 87mila 300 euro e un patrimonio netto di 2 milioni 261mila 646 euro.
Inoltre, nel cda della Fondazione An non compaiono solo i nomi di big Fdi (da Ignazio La Russa a Roberto Menia e Fabio Rampelli, solo per citare i parlamentari di lungo corso, ma anche Italo Bocchino attuale direttore del Secolo d’Italia) ma anche di altri partiti di centrodestra come l’azzurro Maurizio Gasparri
(da Adnkronos)
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Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
LA PETIZIONE PER RIMANDARE 40 MINORI ORFANI SOTTO LE BOMBE “PERCHE’ DISTURBANO”… LE COLPE DEL GOVERNO CHE NON HA PIU’ VERSATO I CONTRIBUTI PROMESSI
L’ondata di solidarietà nei confronti della popolazione ucraina è già finita. L’incapacità di gestire l’accoglienza dei profughi ha represso quella spinta ad accogliere gli stranieri in fuga dalla guerra che aveva coinvolto molti italiani e che aveva anche un po’ sorpreso, se paragonata al razzismo nei confronti di chi fugge da altri conflitti.
E ora, in provincia di Bergamo, c’è chi vuole rimandare 40 minori a rischiare di morire sotto le bombe.
Gli orfani ucraini ospitati a Rota d’Imagna
Il piccolo paesino di Rota d’Imagna, in provincia di Bergamo, non appena è scoppiata la guerra si è subito dichiarato disponibile a ospitare i profughi provenienti dall’Ucraina. In particolare hanno accolto un centinaio di minori provenienti da alcuni orfanotrofi.
“Eravamo partiti convinti: non si potevano abbandonare quegli orfani e nemmeno andava bene che venissero spezzettati in tanti gruppi qua e là nella provincia. Avevano già tanti traumi da superare”, aveva raccontato uno dei volontari che supportava il comune nella gestione di questi ragazzi.
Inizialmente sembrava una grande opportunità di rinascita per il piccolo borgo, popolato ormai da un migliaio di persone, per lo più anziane. Quei cento giovani stavano ridando vita a un luogo, immerso nel verde della Valle d’Imagna, ma che si stava sempre più svuotando. Tanto che il sindaco Giovanni Locatelli, uno dei pochi a rispondere all’appello della prefettura di ospitare i rifugiati, voleva offrirgli la possibilità di restare lì anche dopo la fine della guerra.
“Questi ragazzi – aveva detto il primo cittadino – possono rappresentare anche il nostro futuro. Il paese ha una buona vocazione turistica che si potrebbe anche sviluppare ulteriormente. Se questi nuovi “figli“ nati da una guerra assurda restassero tra noi, intanto incrementeremmo i 900 abitanti attuali arrivando a mille, e poi, chi vorrà, potrebbe specializzarsi frequentando dei corsi di formazione nell’ambito della ristorazione e del settore alberghiero e in questo modo inserirsi definitivamente in paese”.
La petizione per rimandarli in Ucraina, dove c’è ancora la guerra
Belle intenzioni che, però, purtroppo sono rimaste soltanto tali, soprattutto per mancanza di fondi. Già ad aprile, infatti, l’amministrazione comunale aveva denunciato di aver ricevuto, dopo un anno dall’inizio dell’accoglienza, soldi utili per coprire le spese soltanto dei primi tre mesi. Il risultato è che, nonostante lo sforzo dei volontari e del Comune, questi giovani sono stati abbandonati a loro stessi. Non ci sono mediatori culturali che li seguono, non hanno attività da fare e nessun percorso di reale inserimento e integrazione.
Il risultato è che, a maggior ragione da quando è finita la scuola, gironzolano per il paese senza avere nulla da fare, senza alcuna possibilità. E i cittadini hanno iniziato a lamentarsi, perché – a loro dire – disturberebbero la quiete pubblica. Nulla di particolarmente grave, sia chiaro, ma probabilmente qualcosa che può risultare fastidioso: piccoli atteggiamenti di chi già ha un passato difficile (provengono tutti da orfanotrofi ucraini) e poi si è pure ritrovato a dover scappare dalla guerra.
Il risultato è che ora i residenti hanno fatto una raccolta firme per chiedere il rimpatrio in Ucraina di questi giovani, per rimandarli nel loro Paese nonostante sia ancora in corso la guerra con la Russia.
“Si possono gestire fino a un certo punto – ha spiegato il sindaco -. Quindi ho sollecitato un cambio di marcia, una soluzione che potrebbe essere quella del rimpatrio. Nei prossimi giorni avremo un quadro più chiaro, quando il consolato ci farà sapere dove i ragazzi saranno diretti, con l’assicurazione che venga garantito loro un luogo sicuro, lontano dalla zone calde del conflitto”.
Le zone non interessate, per ora, dal conflitto sarebbero quelle in cui in questo momento non cadono le bombe e non ci sono le battaglie fra i due eserciti, ma questo non vuol dire che non possano arrivare anche lì i bombardamenti, qualora la situazione dovesse precipitare, e soprattutto non vuol dire che si viva bene, con l’elettricità razionata durante la giornata, carenza di acqua, i campi profughi ancora stracolmi delle persone provenienti dalle zone in guerra.
Ma questo poco importa a chi deve ritrovare la propria serenità, che invece di prendersela con chi non ha mandato i fondi necessari per accogliere, integrare, gestire e perfino controllare questi ragazzi, preferisce prendersela con chi, senza genitori, è in fuga dalla guerra.
Il fallimento della più importante operazione di accoglienza degli ucraini in Italia è la dimostrazione di come la cattiva gestione, soprattutto da parte della politica, dell’immigrazione e dell’integrazione provochi gravi situazioni di disagio sia per chi accoglie che per chi viene accolto.
Ma è anche lo specchio di una società che preferisce dare le colpe a chi non ha nulla da perdere piuttosto che a chi non è capace di governarci.
(da Fanpage)
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Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile
LA PROTESTA DI CHI HA PERSO IL SUSSIDIO: “PRONTI A QUALSIASI LAVORO, MA NESSUNO CI CHIAMA”
«Guardi che mani da lavoratrice». La signora Maria Rosaria Coraggio lo dice con un sorriso metà fiero, metà amaro. «Le offro il caffè al bar, almeno quello me lo posso permettere». Davanti alla tazzina invece scandisce una frase a voce più bassa: «Mi sento inutile». Maria Rosaria ha 59 anni ed è sola, non ha né disabili né minorenni a carico. Tecnicamente occupabile, secondo i criteri stabiliti dal governo Meloni.
È una dei 21.500 percettori di reddito napoletani a cui lo stop al sussidio è stato notificato dall’Inps con un messaggio, prima ancora che sia stata predisposta la misura-ponte di 350 euro per chi si inserisce nei piani di formazione.
Per questo si trova davanti alla sede dell’Inps di Napoli in via Alcide De Gasperi al presidio organizzato da Potere al popolo e Usb: «In piazza per la sopravvivenza», lo slogan degli organizzatori. Con le «mani da lavoratrice» crea piccoli oggetti d’argilla. Ogni tanto – ma il periodo migliore è Natale – la chiamano a giornata nelle fabbriche di ceramica della zona: l’ultima per cui ha lavorato come decoratrice la pagava 3 euro 50 all’ora, per una media di 12 ore al giorno. Quando ha chiesto di arrivare a 200 euro a settimana le hanno detto di no.
Mi fa vedere gli ultimi due annunci a cui si è candidata: una ditta di pulizie l’ha scartata quando ha saputo l’età; per la portineria di un palazzo le hanno detto che cercavano solo uomini e di massimo 30 anni. Paga 100 euro una stanza in un appartamento condiviso con altre signore che come lei hanno le stesse difficoltà. La figlia di 34 anni le passa i buoni pasti del lavoro, ma più di questo non accetta: «Potevo stare a casa sua, ma non ho voluto – spiega – mia figlia mi deve ricordare sempre con il sorriso e mai come un peso».
Dice una frase che ripetono tutti i presenti: «Farei qualsiasi lavoro purché onesto». Ciro Stasi, 50 anni, lo dice così: «Mi avessero mai detto “c’è un posto di lavoro”, il reddito lo davo a loro, dicevo “mangiatavill vù, mangiatevelo voi».
Di fianco Lucio Ricci, 58 anni, ventisette dei quali passati a lavorare come autista prima che l’azienda decidesse di lasciarlo a casa, gli dà ragione: «Se trovassi un lavoro anche di 1000 euro al mese lo accetterei». Una signora che non dice il suo nome (e minaccia querele) urla: «Dobbiamo fare la Francia». Ma davanti all’Inps di viale De Gasperi la Francia non si fa, la situazione è tranquilla. Una rappresentanza di percettori viene ricevuta dal direttore Roberto Bafundi che li rimanda giù con una buona intenzione e nessuna risposta aggiuntiva: «Nessuno verrà lasciato solo».
La domanda implicita nelle storie dei beneficiari sospesi o esclusi la articola qualche ora dopo Luca Trapanese, assessore alle Politiche sociali del comune di Napoli: «Ma una persona che ha più di 50 anni oggi veramente può trovare lavoro in Italia con uno stipendio adeguato?». Roberto Fico, ex presidente della Camera, impegnato nella politica napoletana dai primi passi nel Movimento 5 stelle, ne fa un elemento da inserire in un’analisi ampia: «È un attacco al Sud, ma soprattutto allo stato sociale di tutto il Paese», commenta Fico.
«Il dubbio è che se la maggioranza di chi riceve il sussidio fosse concentrata al Nord, lo stop all’erogazione non sarebbe avvenuto in questo modo e così velocemente».
Ma il sospetto di un governo a trazione settentrionale ha più indizi, secondo l’ex presidente della Camera: «Lo vediamo dal progetto di autonomia differenziata, dai tagli e dalla rimodulazione al Pnrr». E quindi, l’affondo dell’esponente Cinque stelle, «i falsi patrioti devono andare via prima possibile perché stanno facendo danni seri a tutto il Paese, a partire dalla struttura di welfare».
E le strutture di welfare sono effettivamente in tilt: «C’è molta confusione e preoccupazione, non è chiaro quali siano le responsabilità e di chi», evidenzia l’assessore Trapanese. Un comunicato dell’Inps Campania specifica che i Centri per l’impiego «non hanno il compito, né potrebbero averlo, di segnalare ai Comuni quanti presentino situazioni di particolare disagio per la conseguente presa in carico da parte dei servizi sociali». E quindi non si sa chi debba valutarli i casi per i servizi sociali, affollati dai giorni di beneficiari frustrati e liquidati da un sms che proponeva una vaga «presa in carico». Lo spiegano allargando le braccia le cinque dipendenti degli uffici di Scampia, che non sono autorizzate a parlare e non dicono i propri nomi.
«Venerdì è stato il giorno peggiore, è andata bene perché ci siamo prese al massimo qualche imprecazione». Il timore c’è stato: «Oggi ci siamo sentite più tranquille perché girava una pattuglia». Senza nessuna accusa verso chi magari se la prende pure con loro: «Quasi tutti hanno capito che non è colpa nostra». E alla fine: «Ci sentiamo più compresi dalla gente che da chi ha mandato quell’sms». Lo confermano le parole della signora Maria, 58 anni, anche lei fra gli ultimi rivalutati “occupabili”: «Gentilissimi gli assistenti sociali che purtroppo non c’azzeccano niente. Devono ancora attivare ‘ste piattaforme».
(da agenzie)
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