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MIGLIAIA DI GIOVANI SI METTONO IN FILA A MILANO PER COMPRARE VESTITI USATI A 18 EURO

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

SI CHIAMA ALL YOU CAN WEAR E CON 18 EURO PUOI PRENDERE TUTTI I VESTITI DI SECONDA MANO CHE RIESCI A INFILARE IN UNA BORSA

Centinaia di ragazzi e ragazze, se non migliaia, si sono messe in coda alle prime ore del mattino di ieri, sabato 9 settembre, in viale Espinasse a Milano. Al civico 99, infatti, c’è la sede di Di mano in mano, un negozio e mercato di compravendita che per il secondo anno ha organizzato l’evento ‘All you can wear‘.
Più conosciuto come “la scorpacciata di shopping sostenibile”, permette a chiunque di comprare tutti gli abiti vintage e di seconda mano che si riesce a infilare in una borsa al prezzo fisso di 18 euro. Un’idea da qualcuno criticata, ma che ha avuto un’adesione tale da convincere gli organizzatori ad aprire le porte anche per oggi, domenica, 10 settembre, fino a esaurimento scorte, o borse.
La formula All you can
Il primo evento di questo tipo è stato organizzato nel 2019. Con il nome ‘All you can read‘, Di mano in mano ha provato a portare il concetto dell’all you can eat tipico dei ristoranti orientali nel mondo dei libri. Poi, dall’anno scorso, si è passati anche all’abbigliamento e agli accessori.
L’idea di base è sempre la stessa. Ti metti in fila e aspetti il tuo turno. Poi, un’addetta di consegnerà una borsa di tela che potrai riempire fino all’orlo con tutto ciò che trovi all’interno del magazzino. Libri, ma ora anche vestiti, per lo più usati, di seconda mano, o di stock. Una volta riempita la borsa, vai alla casa e paghi un prezzo che è fisso indipendentemente da cosa e da quanto sei riuscito a infilarci dentro.
Il successo grazie ai social
Il costo fisso, di solito, è basso e accessibile a tutti. In particolare ai giovani, che vedono in questo tipo di evento un’occasione per andare a caccia di tesori nascosti e per rimpolpare la propria libreria o guardaroba per pochi euro. Sui social, soprattutto TikTok e Instagram, spopolano i video in cui influencer e utenti di ogni tipo svuotano di fronte alla telecamera la propria borsa mostrando il bottino.
Così parte l’ondata social che ieri ha portato migliaia di giovani in via Espinasse in attesa del proprio turno per poter saccheggiare il magazzino. L’adesione, hanno riferito gli organizzatori, è stata tale che ad un certo punto hanno dovuto chiudere la fila e annunciare che per oggi avrebbero aperto di nuovo fino a esaurimento scorte.
La sostenibilità e le critiche
Di mano in mano, per la sua natura di mercato di compravendita, punta sul concetto del riuso, quindi dell’evitare di gettare nella spazzatura un oggetto che per altri potrebbe tornare utile. La stessa borsa che viene consegnata al cliente dicono sia stata realizzata con tessuti vintage o, appunto, riusati.
Tuttavia, anche in questo caso non mancano le polemiche. C’è, infatti, chi sostiene che far pagare una cifra bassa per prendere quanta più roba possibile sia un modo per incentivare la mentalità consumistica e dell’accumulo.
(da Fanpage)

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AMBIGUITA’, OMISSSIONI E NESSUNA ABIURA: COSI’ FRATELLI D’ITALIA GESTISCE IL RAPPORTO CON L’INGOMBRANTE PASSATO

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

INCAPACI DI PROPORRE UNA NARRAZIONE ALTERNATIVA

Dopo un decennio segnato da una politica senza Storia, dominato da partiti (e leader politici) che percepivano la Storia come un ingombro del quale fare volentieri a meno, ora, con la destra di Fratelli d’Italia al governo, sembra di essere tornati alla vecchia rassicurante abitudine di una politica che saccheggia e manipola la Storia. In fondo si dirà, i partiti l’hanno sempre fatto, anche e soprattutto nella cosiddetta Prima Repubblica, nulla di nuovo sotto il sole. E tuttavia, nel recente e ripetuto uso politico del passato da parte di Giorgia Meloni e dei suoi uomini (è il caso di dirlo) ci sono elementi di novità che vale la pena iniziare a mettere a fuoco.
Nella Prima Repubblica si utilizzava il passato per dimostrare la primazia del proprio partito nel ciclo storico. La Storia e il suo studio erano funzionali a restituire a cittadini ed elettori il senso dell’indispensabile ruolo svolto dal partito nel panorama politico italiano e mondiale. Lo fece naturalmente il Pci di Togliatti (e quello di Berlinguer) con l’obiettivo di presentare la vicenda del Partito comunista italiano come l’inveramento della parte migliore della storia nazionale e internazionale dei decenni precedenti. Ma lo fecero, in modi solo parzialmente diversi, anche il Psi e la Dc. Il primo, il Partito socialista italiano, promosse, anche e soprattutto per contrastare i rivali comunisti, la causa di una Storia intesa come un grande, onnicomprensivo contenitore dal quale attingere gli ingredienti utili alla costruzione di una tradizione politica funzionale alla battaglia politica del presente.
La seconda, la Democrazia cristiana, seppur meno interessata alla Storia e più in generale al mondo della cultura (non foss’altro perché l’occupazione dei posti di governo e la copertura offerta dalla Chiesa cattolica gli garantiva di per sé un ampio consenso culturale) finì per condividere la stessa visione teleologica della storia avallata dalle grandi ideologie di matrice marxista, promuovendo il progetto di una “nuova cristianità” di ispirazione maritainiana (e montiniana), anch’esso figlio di una concezione deterministica della Storia secondo la quale gli uomini possono prevedere e dominare gli eventi nel loro sviluppo di lungo periodo.
Con la cosiddetta Seconda Repubblica venne il tempo dell’“invenzione della tradizione”, per usare una nota definizione di Hobsbawm e Ranger. Le forze protagoniste della stagione politica post-Mani pulite usarono la Storia per legittimare il nuovo corso agli occhi dell’opinione pubblica. Gli eredi del Pci, travolti dal crollo del comunismo ma sopravvissuti, unico partito della Prima Repubblica, allo scandalo di Tangentopoli, si trovarono nella scomoda posizione di dover ripensare radicalmente la propria storia, stretti tra la necessità di respingere il passato (comunista) e l’istinto di inventarsi nuovi riferimenti storici. Gianfranco Fini si assunse il compito, con Alleanza nazionale, di cancellare le tracce di un ingombrante passato e di scrivere una pagina inedita della storia della destra italiana, intraprendendo un percorso tanto radicale e repentino quanto solitario e incompreso. L’esigenza di costruirsi un passato ex novo fu condivisa a maggior ragione dalla Lega Nord di Umberto Bossi, impegnata allora nell’affannosa ricerca di miti fondativi capaci di dare una qualche (illusoria) prospettiva storica alla lotta secessionista padana contro il centralismo romano.
E fu condivisa naturalmente da Silvio Berlusconi che, soprattutto nella prima fase della vicenda politica di Forza Italia, si diede un gran da fare per inventare la genealogia di una tradizione politica conservatrice liberale di massa che il nostro paese non aveva mai conosciuto. Per qualche anno provò a mettere insieme icone della destra liberale anglosassone quali Margaret Thatcher e Ronald Reagan con figure di riferimento del mondo cattolico come il fondatore del Partito popolare italiano, don Luigi Sturzo, presentato per l’occasione come l’eroe dell’antistatalismo. Quando capì che creare dal nulla un passato inesistente era un’operazione difficile da comunicare al suo elettorato, Berlusconi scelse di demolire il passato degli avversari: nel vuoto di Storia che accompagnò la nascita e la crescita del suo partito-azienda l’anticomunismo divenne così l’unico possibile collante identitario.
Il decennio successivo, il secondo del XXI secolo, è stato il decennio dei partiti senza Storia. Dopo aver utilizzato e manipolato la Storia in ogni modo e misura, la politica realizzò che poteva fare a meno della Storia, anzi scelse convintamente di metterla da parte. Era stato Berlusconi, sempre lui, ad anticipare i tempi, segnando il passaggio dalla Storia allo storytelling: dall’ambiguo e artificiale tentativo di inventare una cultura politica coerente con la vicenda storica del paese all’esaltazione della biografia individuale del leader politico, la sua naturalmente, nel caso specifico. Quella “visione privatistica della storia”, come è stata definita, fatta di “aneddoti” familiari e personali e “dettagli insignificanti”, centrata sulla figura del self-made man venuto dall’imprenditoria ed entrato nel teatro della politica italiana per liberarla dai soffocanti lacci che ne ostacolavano lo sviluppo, mise una pietra tombale sulla visione didattico-pedagogico della Storia propria della classe dirigente politica della Prima Repubblica, aprendo definitivamente la strada alla nuova stagione della politica senza Storia. I partiti italiani non concepirono più la Storia come un serbatoio dal quale estrarre liberamente gli ingredienti atti a legittimare la propria identità politica presente e futura, bensì come un fastidioso ingombro del quale fare volentieri a meno.
La forza politica più capace di interpretare il sentimento e l’orizzonte mentale del cosiddetto presentismo fu senza dubbio – nell’Italia del XXI secolo – il Movimento 5 stelle. La sistematica esclusione, nel processo di costruzione identitaria del Movimento di Beppe Grillo, di qualsiasi cenno alla vicenda storica italiana divenne il carattere distintivo di una forza che rifiutava consapevolmente il peso della Storia per aderire più agevolmente ai cangianti umori del presente, in altre parole alle mutevoli preferenze dei cittadini-consumatori. Anche la leadership di Matteo Salvini dimenticò e fece dimenticare ogni ragione storica legata alle origini della Lega Nord, convincendo gli elettori che il suo partito avrebbe riportato l’ordine all’interno di un paese minacciato dalla crescente ondata migratoria verso le coste italiane: solo in un clima di allegra amnesia collettiva, la Lega del secessionismo padano poteva affermarsi nelle regioni del Centro e del Sud Italia come una delle principali forze politiche nazionali. Anche Matteo Renzi, l’ex sindaco di Firenze asceso alla guida del Partito democratico nel 2013, incarnò lo spirito di una politica vissuta all’insegna di un eterno presente, di una politica che guardava solo all’oggi e non chiedeva spiegazioni al passato. L’azione politica si contrappose nella sua visione alla dimensione della memoria storica, presentata all’opinione pubblica come un fardello destinato ad appesantire l’attività di governo, un peso di cui sbarazzarsi per agire più velocemente e più liberamente.
Con Fratelli d’Italia si è aperto oggi un nuovo capitolo del tormentato rapporto tra la politica italiana e la Storia. Tutt’altro che disinteressata alla vicenda storica nazionale, Giorgia Meloni è intervenuta spesso, nel corso del suo primo anno di governo, su temi storici. Non era così scontato. Con l’ingombrante passato che si ritrova alle spalle, una vicenda inevitabilmente segnata dall’eredità del fascismo e dall’isolamento vissuto dal Msi nell’ambito dell’arco costituzionale italiano della Prima Repubblica, la destra italiana era potenzialmente candidata a dimenticare, rimuovere, azzerare la storia più o meno recente, a proseguire in altre parole la tradizione dei partiti senza storia. Giorgia Meloni invece ha scelto una strada diversa. Troppo intrecciata la sua storia politica personale con quella del Msi e del Fronte della Gioventù per mettere a tacere il rumore del passato. Il tentativo, esercitato sin dagli anni della lunga campagna elettorale che ha preceduto la vittoria alle politiche dello scorso settembre, è stato quello di provare a riscrivere alcuni dei nodi più delicati della nostra storia repubblicana, sovvertendo la narrazione che la destra, a suo modo di vedere, sarebbe stata costretta a subire negli ultimi decenni.
L’unico ostacolo rispetto a questo generoso tentativo è che non c’era granché da sovvertire. Il lavoro degli storici ha consolidato negli ultimi decenni ricostruzioni e interpretazioni oggi difficilmente confutabili, riscrivendo le pagine di storia che erano da riscrivere, a cominciare dalle foibe e dal clima di scontro e violenza dell’immediato secondo Dopoguerra. La destra dunque non aveva nulla da rovesciare, il paradigma vittimistico non ha trovato terreno fertile. E Giorgia Meloni e i suoi uomini si sono ritrovati a praticare così un nuovo genere ludico, la Storia per omissioni. Incapaci di proporre una narrazione alternativa, a parte il goffo tentativo di ascrivere Dante Alighieri alla storia della destra italiana, hanno messo in campo una strategia tutta difensiva, fatta di piccoli grandi silenzi, reticenze, ambiguità.
Con un duplice obiettivo: evitare di dare ragione ai propri interlocutori di sinistra pronunciando parole che altri avrebbero voluto sentirgli dire, e alimentare una zona d’ombra, diciamo pure una zona di ambiguità atta a lasciare libertà di manovra a simpatizzanti ed elettori, oltre che alla classe dirigente con la quale Meloni si ritrova a governare.
In nome di questa strategia, si può scrivere un’autobiografia senza mai nominare la parola fascismo e il sostantivo fascista, brutti epiteti destinati a comparire, oggi come allora, solo sulla bocca dei propri avversari politici. Si può parlare della persecuzione degli ebrei come di qualcosa di incomprensibile, un avvenimento astorico accaduto in Italia “durante il fascismo”, e non per esempio a opera del regime fascista. Si può raccontare che il razzismo, tranne rare eccezioni, non ha nulla a che fare con la storia della destra italiana. Si possono ricordare nostalgicamente i camerati missini degli anni Settanta e Ottanta come campioni di pace e mitezza, vittime sacrificali della violenza prevaricatrice dei loro oppositori politici senza menzionare il clima di scontri violenti che vide il Fronte della Gioventù e il Msi in prima linea. Si può ricordare la strage di Bologna del 2 agosto 1980 come una strage “per terrorismo”, senza fare menzione alcuna delle inchieste giudiziarie e delle ricerche storiche che hanno accertato in modo inoppugnabile le responsabilità neofasciste. Si può celebrare il 25 aprile senza mai pronunciare la parola antifascismo. Si può celebrare la Costituzione repubblicana come una costituzione afascista. Si può ricordare la resistenza senza mai pronunciare la parola partigiano (sostituita per l’occasione dal sostantivo patriota). Si può esaltare la resistenza cattolica e quella monarchica citando la componente comunista solo quale esclusiva responsabile della spirale di odio e di esecuzioni sommarie seguita alla fine del fascismo. Si può esaltare il ruolo del Movimento sociale italiano come traghettatore di milioni di italiani nella Repubblica parlamentare senza citarne minimamente l’anima. Si può celebrare la giornata della liberazione dai nazifascisti esaltando Jan Palach, l’eroe della resistenza praghese contro il regime sovietico. Si può ricordare la strage delle Fosse ardeatine come un evento organizzato dai nazisti ai danni degli italiani senza menzionare le pesanti responsabilità dei vertici del regime fascista. Si può insomma giocare con la Storia sul filo di silenzi, reticenze, ambiguità, omissioni.
E’ al riparo di questa zona d’ombra che il presidente del Senato La Russa, dopo aver celebrato la costituzione afascista e festeggiato il 25 aprile a Praga davanti alla statua di Palach, può pensare di figurare come un grande statista semplicemente chiarendo a favore di stampa che “la Costituzione italiana nasce proprio dalla sconfitta della dittatura”. Ed è grazie a questo perimetro di ambiguità che i tanti De Angelis di cui FdI è pieno si sentono in fondo liberi di definire come una grande truffa le acquisizioni della magistratura e della storiografia sulla strage di Bologna, e i (pochi, ma non pochissimi) nostalgici del fascismo possono continuare a coltivare, più o meno apertamente, i loro vecchi rituali nonostante la formale “incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo” affermata dalla stessa Meloni nella sua nota lettera al Corriere della Sera del 25 aprile scorso.
Nel momento in cui l’esperienza di governo la induce a scelte limpidamente europeiste e atlantiste lontane anni luce dalle proposte politiche avanzate negli ultimi anni, nell’attimo stesso in cui si trova a rinnegare il proprio passato su molte delle questioni al centro dell’agenda politica, dalla questione climatica all’eredità trumpiana all’alleanza sovranista, nell’istante stesso cioè in cui si trova a rimangiarsi gran parte di quanto urlato negli ultimi anni di campagna elettorale, Meloni evita in ogni modo di rinnegare anche la storia politica del proprio partito: specie la storia di quelli, e non sono pochi, che ai tempi di Fiuggi e poi ancora anni dopo, etichettarono Gianfranco Fini come un traditore, lei per prima. Se solo a sinistra non si abusasse del termine fascista per bollare come tale ogni episodio di violenza, razzismo, antisemitismo, con il serio rischio collaterale di non riuscire a contrastare queste degenerazioni in modo efficace, sarebbe probabilmente più facile smascherare questo esercizio di Storia per omissioni praticato ormai quotidianamente dalla destra di governo.
(da ilfoglio.it)

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CATENO DE LUCA HA SCOPERTO CHE A VENEZIA HANNO PREZZI FOLLI: “PIATTI PICCOLI E PREZZI ALTI, IL MIO AMICO DOPO E’ ANDATO AL MCDONALD’S”

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

UN PIATTO DI RISO E BISI DA 50 GRAMMI 48 EURO, UNO DI PASTA AL POMODORO 30 EURO, LA SOLITA VERGOGNA IN LAGUNA

E poi dicono che Taormina è cara. Così il sindaco della città siciliana Cateno De Luca commenta il conto di un ristorante a Venezia che assieme alla moglie e due amici ha deciso di provare mentre si trovava nella città lagunare in vacanza. Cifra finale: 309 euro. Le portate principali? Due piatti di risi e bisi (riso con i piselli, una ricetta povera della tradizione veneziana) a 48 euro l’uno, e una piatto di pasta al pomodoro, a 30 euro.
Ora De Luca racconta al Gazzettino com’è andata, e la ragione del suo disappunto. «Abbiamo deciso di provare un ristorante bellino in centro a Venezia, un locale di caratura medio-alta. E questa è stata una nostra scelta. Ma quando sono arrivati due piatti di ‘risi e bisi’ da 48 euro l’uno così piccoli da sembrare un assaggino siamo rimasti basiti. Per non parlare della porzione di pasta al pomodoro da 30 euro. Un mio amico corpulento alla fine aveva talmente fame che è andato a mangiare al McDonald’s».
Risi e bisi a 48 euro
Il sindaco siciliano si trovava «in laguna per ritirare un premio alla carriera come sindaco, un evento collegato alla Mostra del Cinema – spiega il primo cittadino – e così ho unito l’utile al dilettevole, passando qualche giorno con mia moglie e i nostri amici a visitare la città. Una sera abbiamo adocchiato quel ristorantino, i prezzi erano piuttosto alti ma comunque decidiamo di provarlo. Una persona del gruppo però non si sentiva bene con lo stomaco e così ha chiesto un fuori menù, pasta al pomodoro. Pasta di cui solo dopo abbiamo scoperto il costo, ben 30 euro. Del resto delle pietanze avevamo letto i prezzi nel menù, 96 euro per due piatti di riso mantecato con piselli e due (di numero) gamberoni di Mazara, 50 euro per un rombo e 48 euro per tre dessert».
«Queste cose rovinano il brand di Venezia»
Sia chiaro: «Non ne faccio solo una questione di prezzo – precisa De Luca – anche Taormina è una città cara. Ma è il rapporto quantità-costo che ci ha lasciato senza parole. Io posso anche scegliere di pagare un conto salato ma devo essere soddisfatto, mi devo sentire sfamato. Le porzioni di riso arrivavano a malapena a 50 grammi. Il rombo da 50 euro a 100 grammi, neanche un’aragosta costa così».
Con la sua denuncia De Luca non intende sollevare polemica. Piuttosto, stimolare una riflessione. «Al momento di pagare non abbiamo fatto una piega. Nessuna storia con il ristoratore. La mia è una riflessione più generale su un brand importante come Venezia. Capisco che la città d’acqua abbia una logistica più complicata e di conseguenza costi maggiori. Ma ci sono proporzioni da mantenere. E in termini di quantità di cibo offerto rispetto a Taormina siamo lontani anni luce. Se vado a mangiare fuori mi aspetto di ricevere una bella porzione, si paga per la soddisfazione».
(da agenzie)

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TERREMOTO IN MAROCCO, SI SCAVA TRA LE MACERIE, OLTRE 2.000 MORTI

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

A MARRAKECH SI DORME IN STRADA

La prima notte dal sisma che alle 23.11 di venerdì 8 settembre ha fatto tremare il Marocco e i paesi limitrofi è alle spalle. E anche il primo giorno di ricerca e soccorso, con un bilancio tragico. Il sisma più forte che abbia mai colpito il Paese nordafricano, di magnitudo 6,8 sulla scala Richter – 7,2 secondo alcune rilevazioni locali – e a 18,5 chilometri di profondità ha provocato la morte di oltre 2mila persone, mentre è ancora imprecisato il numero di feriti. L’ultimo bollettino della protezione civile diceva 2.012 morti, 2.059 feriti di cui 1.404 in gravi condizioni e oltre 20mila sfollati. Numeri destinati a crescere, è questa la convinzione degli esperti, perché le scosse hanno provocato i danni maggiori nelle zone rurali, soprattutto a sud sulle pendici dell’Alto Atlante e nella regione di Al-Haouz, dove si concentra almeno la metà delle vittime. A Marrakech e nelle città limitrofe migliaia di persone hanno dormito in strada, per paura di nuovi movimenti della terra e di nuovi crolli, preferendo l’auto o un giaciglio di fortuna alla propria abitazione. Intanto il re Mohammad VI ha annunciato di aver coinvolto l’esercito nelle operazioni di soccorso, dispiegando circa 50mila unità. Nel Paese ci sarebbero circa 500 italiani, nessuno dei quali – ha comunicato la Farnesina – rimasto ferito.
Le operazioni di soccorso
Le province più colpite sono quelle di Taroudant, Agadir, Chichaoua, Ouarzazate, e le sollecitazioni sono state avvertite fino a Lisbona. Persino la vicina Algeria, rivale storico con la quale dal 2021 sono interrotte le relazioni diplomatiche, ha deciso di aprire il proprio spazio aereo ai voli con aiuti umanitari verso il «fraterno popolo marocchino». Ad al-Haouz è stato allestito un ospedale da campo, per prestare soccorso più immediato alle popolazioni locali. È in queste zone che le case sono costruite prevalentemente di paglia e fango e sassi, ed è per questo che qui sono maggiori le vittime. A Marrakech, racconta la Repubblica, regna una calma apparente. C’è la voglia di lasciare la paura alle spalle, in nome del turismo e della necessità di non fermare ‘economia, già pesantemente colpita in questi anni da siccità e crisi. E quindi accanto alle file di sfollati che dormono in strada, riapre il mercato e riaprono i bar storici, la Medina brulica come al solito e i turisti scattano foto.
(da agenzie)

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L’ANNUNCIO DI BONETTI: “LASCIO IV DI RENZI E LA SUA IDEA DI CENTRO, ORA UN TICKET CON CALENDA”

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

“IL CAMMMINO DEL TERZO POLO SI E’ INTERROTTO, MA IO VOGLIO PENSARE AL RILANCIO”

La deputata ed ex ministra di Italia Viva, Elena Bonetti, lascia il partito di Matteo Renzi: “Il cammino del Terzo polo si è interrotto, ma io voglio pensare al rilancio”. E il rilancio “non è delimitare uno spazio in cui raccogliere adesioni per le elezioni”, cioè il Centro di Renzi, “ma attivare un processo per far incontrare idee e tradizioni diverse”, annuncia Bonetti in un’intervista al Corriere della Sera e oggi in un lungo post su Fb.
“Non entro in Azione, ma in ticket con Carlo Calenda, con il quale già lavoravo alla federazione tra Italia viva e Azione, collaboro per la nascita di un nuovo soggetto aggregativo più ampio”, spiega l’ex ministra. Il suo percorso con Renzi si interrompe: “È la mia storia e la rivendico con tutte le sue ragioni. Ma voglio portarle avanti per una strada diversa da quella che ha scelto Renzi. Io penso al centro non come a uno spazio da occupare ma come a un processo di partecipazione da liberare per essere forza che superi il bipolarismo – ribadisce Bonetti – È l’obiettivo con cui ci siamo presentati alle elezioni del 25 settembre”, precisa l’ex renziana. “Con Calenda ho già collaborato efficacemente. Ritrovo anche Gelmini e Carfagna con le quali, nel governo Draghi, ho sperimentato un metodo che va ripreso. Sarà un lavoro di squadra”, aggiunge.
“Ho scritto a Matteo e ai colleghi di Italia viva. D’altra parte in questi mesi non ho fatto mistero – ricorda la deputata -, né con loro né pubblicamente, delle diverse posizioni che avevo sia sulle singole sfide che sul progetto d’insieme”. E in merito a una sua candidatura alle elezioni europee: “Davvero prematuro parlare di questo – dice Bonetti -. Io ho un mandato chiaro nel gruppo parlamentare che mi auguro resti unito”.
Sui social arriva la risposta di Calenda: “Felici di poter tornare a lavorare con Elena Bonetti alla costruzione di un grande fronte liberale, popolare e riformatore. Un progetto che era quello del Terzo Polo che abbiamo insieme guidato con passione e dedizione. Grazie a Elena per il coraggio e la coerenza. Avanti”.
(da agenzie)

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TRUMP, UNA DOMANDA NELL’ARIA: DOV’E’ MELANIA?

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

L’AEREO CON LO STRISCIONE PASSA SULLO STADIO E L’INTERROGATIVO DIVENTA VIRALE… L’EX FIRST LADY NON APPARE MAI ACCANTO AL MARITO DA TEMPO

Hanno giocato un brutto scherzo a Donald Trump, e hanno scelto, in modo perfido, il momento meno atteso per trollarlo: prima della partita di football tra gli Iowa Hawkeyes e gli Iowa State Cyclones, a cui era atteso l’ex presidente degli Stati Uniti pronto a godersi la sua popolarità in uno Stato in cui è padrone incontrastato, nel cielo è comparso un piccolo aereo che portava uno striscione con scritto a caratteri giganti e rossi “Where’s Melania?”, dov’è Melania, riferimento all’ex first lady sparita dai radar da quando il tycoon ha lasciato la Casa Bianca. Molte persone attorno al Jack Trice Stadium di Ames hanno guardato in su. Il passaggio dell’aereo è stato ripreso con i cellulari ed è diventato uno dei momenti virali del giorno.
Le immagini sono finite su tutti i social. L’hashtag “wheresmelania” ha fatto il giro. Sono apparsi messaggi in cui gli utenti di X, l’ex Twitter, si chiedevano dove fosse davvero Melania.
Già, dove è finita? L’ex first lady non ha mai partecipato agli eventi pubblici elettorali del marito, e si è tenuta lontana tutte le volte che il marito si è dovuto presentare in tribunale per rispondere delle incriminazioni, quattro in cinque mesi, da Manhattan a Miami, da Washington a Fulton County, in Georgia. Melania ufficialmente sostiene la candidatura di Trump ma ha tenuto un profilo molto basso. Nel corso della prima incriminazione, a inizio aprile, con un tempismo sospetto l’ex modella era entrata nella Trump Tower, sulla Fifth Avenue, a Manhattan, pochi minuti dopo che Trump era uscito con la scorta per dirigersi in tribunale. Di immagini pubbliche con i due uno accanto all’altro neanche l’ombra. Non è la prima volta, in questi mesi, che un candidato presidenziale repubblicano viene trollato. Durante l’Iowa State Fair, la fiera agricola dello Stato, era apparso in cielo un aereo che trasportava uno striscione con scritto, “Ron, cerca di essere simpatico”, rivolto al governatore della Florida Ron DeSantis, apparso sempre più irascibile con i reporter e con i contestatori. Ma è la prima volta che a essere trollato è Trump. L’assenza della moglie è uno dei punti sensibili della sua campagna. Rare anche le immagini in cui i due si scambiano gesti di tenerezza in pubblico. Melania si sarebbe infuriata dopo le rivelazioni legate alla prima incriminazione: secondo l’accusa il tycoon aveva frequentato una coniglietta di Playboy e una pornostar nel periodo in cui la moglie era in attesa del loro figlio, Barron. Da tempo i due fanno vita separata: lui gira gli Stati Uniti per parlare ai suoi sostenitori, lei va dal parrucchiere, si consulta con Hervé Pierre, il suo stilista, e solo a volte cena con il marito il venerdì sera nel loro resort di Mar-a-Lago, in Florida. Al momento la campagna di Trump non ha annunciato la presenza dell’ex first lady a eventi elettorali.
(da agenzie)

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L’INFLAZIONE COLPISCE I RISPARMI DEGLI ITALIANI: EROSI 71 MILIARDI DI EURO IN SEI MESI

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

CENTRO STUDI UNIMPRESA: DIMINUISCE IL SALVADAIO DEGLI ITALIANI

In meno di 200 giorni, le riserve di aziende e famiglie italiane sono diminuite del 3,4%.
Dai 2.065 miliardi di euro registrati nel dicembre 2022, si è passati ai 1.994 miliardi dello scorso giugno. A segnalarlo è l’ultimo report del centro studi di Unimpresa. La responsabilità è attribuibile alla spirale inflazionistica nella quale è rimasto imbrigliato il Vecchio Continente. La discesa segnalata è di oltre 71 miliardi, mentre circa 50 miliardi sono stati dirottati dai conti verso depositi e pronti contro termine. L’erosione del denaro si amplia, poi, considerando il periodo che va da dicembre 2021 a giugno 2023: meno 82 miliardi.
L’incremento del costo della vita ha comportato, per le famiglie, la necessità di prelevare dai propri conti correnti quasi 50 miliardi di euro da inizio anno, mentre le imprese, soprattuto per i prezzi delle materie prime schizzati alle stelle, hanno dovuto attingere circa 25 miliardi dai propri fondi. Erano tre anni che il saldo totale delle riserve non scendeva sotto quota 2 mila miliardi: nel 2020, infatti, si era attestato a 1.956 miliardi.
L’Agi, che ha rilanciato lo studio, riporta il commento della presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara: «Quella che abbiamo sotto gli occhi è la fotografia di una situazione drammatica che noi, purtroppo, avevamo prospettato da tempo. Stanno venendo meno le forze e la liquidità, sia per le famiglie sia per le imprese, specie quelle più piccole. I costi sono insostenibili, le bollette energetiche non più gestibili, nonostante i cali delle ultimissime settimane. Ecco perché chi ha la possibilità attinge alle proprie riserve. Al governo segnaliamo l’urgenza di avviare, adesso, un piano straordinario di interventi pubblici e di sostegni. Serve un piano emergenziale che deve essere immediato. La legge di Bilancio 2024 è uno spartiacque e molte delle risorse disponibili andranno destinate al taglio del cuneo fiscale per le aziende, specie per quelle più piccole».
(da agenzie)

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IL NEODIRETTORE DI “LIBERO”, MARIO SECHI, HA LANCIATO LA SFIDA A QUELLO DEL “GIORNALE”, ALESSANDRO SALLUSTI, A CHI È PIÙ MELONIANO

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

NEL SUO PRIMO EDITORIALE, IL DISASTROSO EX CAPO DELLA COMUNICAZIONE DI PALAZZO CHIGI HA VERGATO UN “PEANA” ALLA SORA GIORGIA… IL NUOVO CORSO TARGATO ANGELUCCI LASCIA COSÌ SALVINI SENZA UN GIORNALE DI RIFERIMENTO

Sarà una gara a chi è più meloniano. Con buona pace di Matteo Salvini. Che rischia di trovarsi senza giornale di riferimento. Sì perché Libero, che negli ultimi anni ha accompagnato l’ascesa del leader leghista, ora, con la rivoluzione nella stampa di destra e l’acquisizione del Giornale da parte degli Angelucci (che ora puntano a La Verità), sembra sterzare nettamente verso Giorgia Meloni.
Almeno a leggere l’editoriale del nuovo direttore Mario Sechi, giunto in Viale Majno insieme a Daniele Capezzone. Un peana alla “sora Giorgia”, anche in campo internazionale, perché si sa, Sechi è uomo di economia ed esteri ancor prima che di politica.
Stavolta, però, nel discorso alla redazione ha evitato lo sproloquio su se stesso, come quello di addio all’Agi, che qualcuno registrò e mandò in giro. “Siamo un’azienda. Il nostro editore non è il governo, la Meloni o Salvini, ma la famiglia Angelucci”, il succo del discorso a Libero. Qui arriva scottato dall’esperienza all’ufficio comunicazione di Palazzo Chigi, non proprio eccellente.
Ma tant’è: Sechi si trova a dirigere uno dei principali quotidiani della destra, dove passò già anni fa come vice di Maurizio Belpietro. Con la nuova veste, pure qualche firma. Su tutti Pietrangelo Buttafuoco, Giordano Bruno Guerri e Annalisa Chirico. Rosicherà invece Filippo Facci che, dopo il guaio con Viale Mazzini, perde la rubrica in prima pagina.
Il foglio su cui Meloni punta per parlare alla borghesia e all’establishment sarà però il Giornale, dove sono tornati per l’ennesima volta Alessandro Sallusti e Vittorio Feltri, con Osvaldo De Paolini vice. La nuova grafica è autorevole e rassicurante, un po’ meno nuovi editorialisti come il vice di Trump, Mike Pompeo, ed Edward Luttwak.
L’operazione “anti-Corriere”, però, sembra fallita: agli Angelucci hanno detto no Galli della Loggia, Luca Ricolfi e chissà chi altro. In prima pagina fanno il loro esordio la vignetta di Federico “Osho” Palmaroli e la rubrica di Luigi Mascheroni, che negli ultimi tempi vergava spassosi e informati ritratti. All’interno, la nota politica è affidata ad Adalberto Signore.
(da agenzie)

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TORNANO AL VIMINALE I CONSULENTI SOCIAL DI SALVINI: PIANTEDOSI PROVA A RILANCIARE LA SUA IMMAGINE: MENO TECNICO E PIÙ POLITICO

Settembre 10th, 2023 Riccardo Fucile

CON GIUSEPPE INCHINGOLO, EX COLLABORATORE DI LUCA MORISI, LA COMUNICAZIONE DEL MINISTRO DELL’INTERNO SI AFFIDA A INSTAGRAM, A FACEBOOK E AGLI ALGORITMI

Magari non farà dirette notturne sui social con barattoloni di Nutella e forse non posterà foto con un mitra in mano come Matteo Salvini. Di sicuro, però, negli ultimi mesi il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha cambiato look. E soprattutto comunicazione perché la Bestia è ritornata al Viminale
L’operazione politica, che il Foglio è in grado di dettagliare, parte dal social media manager. Figura che non era mai stata presente al Viminale se non ai tempi psichedelici di Matteo Salvini quando Piantedosi era il di lui capo di gabinetto nonché l’uomo dei decreti.
Il responsabile della comunicazione social e digital da due mesi è Giuseppe Inchingolo, giornalista pugliese e fondatore della società Artsmedia (sedi ad Andria, Roma e Tirana) e un portafoglio clienti di tutto rispetto.
Da anni è consulente esterno della Lega e in passato, per lungo tempo, ha collaborato spalla a spalla con Luca Morisi, il genietto della Bestia salviniana (“è il suo allievo”, dice chi lo conosce).
Da quando ha preso in mano la situazione c’è stata una svolta: il profilo Facebook del Viminale ha aumentato amici (sono oltre 55mila) e soprattutto è diventato molto meno istituzionale. Anche quello personale del ministro è vivo e iper emozionale. Ovunque, nei due profili, ci sono foto, video e card con la faccia severa di Piantedosi, il tecnico che si fa sempre più politico.
Specie ora che gli sbarchi continuano a fioccare con una intensità che ha impressionato e turbato anche Giorgia Meloni, al punto di avocare a Palazzo Chigi il dossier, attraverso l’inedita convocazione permanente del Comitato interministeriale per la sicurezza della repubblica.
E dunque se è vero che il debutto dall’altra parte della barricata di Piantedosi non è stato facile – con infortuni abbastanza clamorosi come quello sui migranti morti nelle acque di Cutro – dalla Lega, il partito che lo ha indicato, sono corsi ai ripari. Con una bella iniezione di comunicazione per fare diventare l’uomo in grisaglia un personaggio totus politicus.
Oltre alla consulenza social e strategica affidata alla società Artsmedia di Inchingolo, la metamorfosi passa dalle tv. Di questo aspetto, e non solo, se ne occuperà l’ultima arrivata: Paola Tommasi, neo capo della segreteria politica del ministro. E’ un’economista bocconiana, già consulente di Forza Italia alla Camera ai tempi di Renato Brunetta.
Nel 2016 riuscì a entrare nello staff elettorale di Donald Trump, unica italiana nella squadra dell’allora candidato repubblicano alla Casa Bianca. Da anni Tommasi è presente nei talk e scrive sui giornali di centrodestra. Pacata, ma dritta nel tagliare i fatti: così come deve essere il nuovo Piantedosi, il prefetto cresciuto ad Avellino nel mito di Fiorentino Sullo, che ora è costretto a far capolino su Instagram e Facebook come da algoritmo della nuova Bestiolina.
(da il Foglio)

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