Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile IL SOCIOLOGO CHE NON DIPENDEVA DA NESSUNO SE NON DALLA SUA MENTE
Quei sabato pomeriggio a casa sua volavano via in un attimo. Eppure, a risentire una ad una le registrazioni di quegli incontri, duravano due ore e mezzo ciascuno, a volte anche tre. Ubriacati dal fumo del sigaro che ad un certo punto si accendeva ed espirava buffescamente in direzione opposta al divano del salone dove sedeva, l’odore del caffè e il ciambellone fatto in casa dalla moglie Susi.
Alla sua sinistra, affissa al muro, una gigantesca televisione, a destra un grande trumeau con sopra e di fianco fogli, libri, riviste. Anche se non glielo dicevo, ogni volta ricercavo con lo sguardo pure la nostra, di rivista, là in mezzo tra quelle che leggeva e che conservava in perfetto stato.
Tutto ciò che so sul lavoro, sulla guerra, sull’economia lo devo a Domenico De Masi, che chiamavo “prof.” (in pubblico e in privato) perché “Mimmo” era troppo alla pari, per uno come me, davanti a uno come lui. Ho avuto la fortuna e l’onore di incontrare De Masi da vicino per soli due anni. Ma intensissimi.
Un pomeriggio mi ha preso per mano, come ogni tanto faceva lui, e mi ha trascinato, letteralmente, sin fuori il terrazzo davanti il salotto della sua casa in corso Vittorio Emanuele. Non ricordo cosa stesse illustrandomi; quei pomeriggi per me – orfano come la mia generazione di leader, mentori, pensatori – furono il mio liceo, la mia università e il mio master messi insieme.
Questo signore elegante e signorile, affabile e affascinante, basso di statura ma altissimo di mente, è stato una delle persone più brillanti che io abbia conosciuto finora. Colto, forse troppo per scendere a patti con la superficialità dei nostri giorni, ironico e auto-ironico, sembrava il Nonno di Miracolo nella 34ª strada e invece andava a colazione con Lula, girava il Mediterraneo a bordo dello yacht extralusso del suo amico brasiliano erede della rete televisiva Globo, telefonava all’una di notte a premier, ex premier e ministri per donare loro cultura e istruzione. Pillole di saggezza talvolta rivelatesi decisive per la vita del nostro Paese.
Fu celebre una riunione di redazione di TPI in cui si connesse mentre era a bordo dello yacht ultra-lusso di Roberto Marinho. Ma come, si domandarono molti, De Masi – il sociologo degli ultimi, del salario minimo, del Rdc – a bordo di una barca da 100 milioni di euro? E invece sì, perché lui non aveva la necessità di fingere, come quelli che per essere coerenti al proprio pensiero limitano il loro stesso pensiero. In questo era grande: l’unico intellettuale che, dove lo mettetevi, stava. Non aveva la spocchia né tromboneggiava come quei baroni universitari. Toccava le cose con le mani e le trasformava. Era libero, la sua più grande forza. Non dipendeva da nessuno se non dalla sua mente.
Una delle cose che più mi colpirono fu la sua capacità, forse unica, di sapere organizzare il lavoro. Proprio e altrui. Disponeva di un metodo efficace, per molti semplicemente impensabile, studiato e limato negli anni, a partire dal Fordismo. Il metodo è cruciale, in qualsiasi ambito: ti permette di risparmiare tempo, di avere ordine mentale, imparare in fretta, aumentare la produttività. E di estendere quel metodo in larga scala a una serie infinita di attività, compreso il pensiero creativo. L’aveva acquisito negli studi e nella sua esperienza (cruciale) con l’amico Adriano Olivetti, prima in fabbrica, poi come consulente di vari progetti d’impresa.
Lui guardava e osservava tutto. Attentamente. De-strutturava il metodo e lo analizzava. Talvolta facendolo a pezzi, altre volte elogiandolo e migliorandolo. Il che ovviamente era una sorta di mental crisis breakdown per ciascuno dei suoi interlocutori. Ciò gli ha permesso di vedere con largo anticipo una serie di fenomeni che, come diceva lui, erano ormai il segno evidente della fine della società industriale e dell’avvento della società post-industriale: lo smart working, lavorare meno e meglio (a parità di salario), l’ozio creativo.
Ancora: il reddito di cittadinanza, o di esistenza, il salario minimo, il diritto a essere felici. Ciascuno di questi argomenti meriterebbe un trattato di sociologia politica e invece, fatto assai bizzarro ma tristemente vero, tutti i governanti di questo Paese lo hanno trattato – in fin dei conti – come una specie di folkloristico sociologo pieno di idee curiose ma semplicemente inapplicabili al Sistema. Perlopiù perché timorosi di mettere in discussione qualcosa più grande di loro o perché ciò che veniva proposto andava contro gli interessi che dovevano difendere. Un alieno incompreso e non voluto. Apprezzato ma scomodo, trasversalmente elogiato ma ugualmente inutilizzato. Da destra a sinistra, nessuno ha compreso che aveva davanti un leader e un ispiratore, capace di leggere il futuro.
Un aneddoto interessante emerge dal passato della sua famiglia. Al nonno (anche lui Domenico) non toccò sorte poi troppo diversa: fu – mi raccontò De Masi – l’uomo che per primo portò la luce elettrica in Campania, a Sant’Agata dei Goti, prima ancora che questa arrivasse a Napoli. Per farlo, visto che il Comune non finanziò il suo ambizioso progetto, dovette indebitarsi, deviare un torrente, costruire una fitta rete di fili sotterranea per portare la luce e illuminare, simbolicamente nel giorno del Battesimo di suo figlio (il padre di De Masi), tutta la città. Era il 1902. Il Comune non gli restituì mai quei soldi, ma l’amministrazione locale, cento anni più tardi, nel 2002, rese onore ai De Masi regalando la cittadinanza onoraria al prof.
Ciò che Domenico De Masi ha cercato e sta ancora cercando di fare con il suo lavoro è – agli occhi dei governanti e dei decisori odierni – al pari di quanto suo nonno, un secolo fa, dovette fare: convincere un’intera popolazione, abituata da sempre al buio, che era possibile vivere con la luce. Un’impresa incredibile. Impossibile da prevedere allora, impensabile non averla oggi. Ci auguriamo che non si debba aspettare ancora un altro secolo affinché chi decide apra gli occhi e capisca l’importanza del suo pensiero. Grazie prof.
(da TPI)
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Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile LA VITTIMA E’ LA GIORNALISTA SPAGNOLA ISABEL BALADO… LA MINISTRA IRENE MONTERO: “FINO A IERI QUALCUNO PENSAVA CHE FOSSE NORMALE UN ATTO DEL GENERE? SAPPIA CHE ORA E’ FINITA! E’ IL GRIDO DEL NOSTRO PAESE”
Martedì 12 settembre la polizia spagnola ha arrestato un uomo per
aver toccato il sedere a una giornalista galiziana, Isabel Balado, durante un collegamento per il programma televisivo “En boca de todos”. È stato quindi Nacho Abad, il presentatore della trasmissione, a chiamare immediatamente gli agenti per risolvere la situazione.
Come si vede dai video della trasmissione, diffusi sui social network, il giovane si è rivolto alla giornalista, le ha toccato il sedere chiedendole per quale canale televisivo lavorasse ed è rimasto al suo fianco mentre la donna continuava il suo lavoro.
Il primo a reagire all’aggressione è stato il presentatore che davanti alla telecamera ha detto alla giornalista: “Stai facendo il tuo lavoro come hai sempre fatto e arriva un imbecille che ti tocca il sedere senza alcun diritto. Onestamente, la cosa mi fa infuriare”.
Dopodiché è stata la stessa vittima a rimproverare l’aggressore: “Per quanto ancora vuoi chiedermi per quale trasmissione sto lavorando? Dovevi davvero toccarmi il sedere? Sto facendo un intervento in diretta, sto lavorando”. “Ti ho toccato il sedere? Scusami, non volevo toccarti”, ha risposto il giovane e poco dopo ha dato una carezza sulla testa della giornalista e si è allontanato.
Le immagini che mostrano la molestia sessuale sono diventate però subito virali sui social network e diverse persone hanno mostrato il loro sostegno alla giornalista, sia tra i colleghi della donna che nel panorama politico. La ministra delle Pari Opportunità, Irene Montero, ha ricordato su Twitter che toccare qualcuno senza consenso è violenza sessuale: “Ciò che fino ad ora era ‘normale’ non lo è più. “È finita” è il grido del nostro Paese per garantire il diritto alla libertà sessuale di tutte le donne. Tutto il mio appoggio a Isabela Balado. Solo “sì” significa “sì””, ha scritto.
“L’impunità con cui agiscono gli aggressori, anche in televisione o mentre il mondo intero guarda la finale di un Mondiale con i nostri corpi a disposizione, deve finire”, ha scritto invece la segretaria di Stato per l’uguaglianza e contro la violenza di genere, Angela Rodriguez .
Anche i colleghi di Balado hanno reso nota la loro indignazione: “Lavori, vivi, viene un uomo e ti tocca il sedere. Si concentrano su questo. “Non volevo toccarti il sedere”, dice. Se ne va toccandole la testa con condiscendenza, come se nulla fosse successo. È così ogni giorno, molti giorni”, ha commentato la giornalista Isabel Valdés.
Come già detto, l’uomo è stato prontamente identificato dalle forze dell’ordine e arrestato.
(da Fanpage)
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Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile “È A METÀ TRA ‘GOMORRA’ E ‘PINOCCHIO’. HO ORIENTATO LA CINEPRESA DALL’AFRICA VERSO L’EUROPA, VOLEVO FARE UN CONTROCAMPO”…“HO TROVATO GLI ATTORI A DAKAR. NON HANNO MAI LETTO LA SCENEGGIATURA, LI LASCIAVO SCOPRIRE OGNI GIORNO QUELLO CHE SAREBBE SUCCESSO”
Tre anni, due mesi in Senegal e la determinazione a fare un film il più possibile «partecipato e contaminato», per non rischiare di appropriarsi di un’altra cultura. Ci è voluto tutto questo a Matteo Garrone per firmare “Io Capitano”, odissea e viaggio di formazione di due ragazzi senegalesi con il sogno di arrivare in Europa per migliorare le proprie esistenze.
Si colloca nella filmografia di Garrone in una posizione ben precisa: “A metà tra Gomorra e Pinocchio”
Qual era l’intenzione alla base del film?
«Volevo raccontare un controcampo. Io volevo provare a raccontare tutto quello che c’è prima e che noi non conosciamo. E volevo farlo direttamente dalla loro angolazione e dal loro punto di vista, orientando quindi la cinepresa dall’Africa verso l’Europa».
Quanto lavoro di ricerca ci è voluto?
«Anni, di ricerca ma anche di condivisione. Quando racconto una cultura che non è la mia preferisco girare un film assieme alle persone che racconto».
Lo fece già con Gomorra.
«Sì, cercavo di mimetizzarmi facendo lavorare anche persone del posto. Per questo film è stato fondamentale avere, sia in fase di sceneggiatura sia durante le riprese, l’aiuto e la testimonianza di ragazzi africani che avevano davvero compiuto quel viaggio. Io sono solo un tramite, ho messo a disposizione le mie competenze per dare voce a chi non ce l’ha, ai ragazzi che hanno attraversato il deserto, i campi di detenzione in Libia, il mare. Era fondamentale che nel film ogni fotogramma fosse autentico, senza di loro sarebbe stato impossibile».
Come ha scelto i due protagonisti Seydou Sarr e Moustapha Fall?
«Ho fatto un casting in Senegal, nella periferia di Dakar. Uno faceva teatro, ha fatto il provino e mi ha colpito, l’altro ha la mamma che era un’attrice amatoriale e gli ha trasmesso la passione».
Come comunicavate?
«Con l’interprete, loro parlano wolof. Capiscono un po’ il francese, il che ci ha aiutato quando raccontavo loro giorno per giorno come sarebbe andata la storia. Non hanno mai letto la sceneggiatura, li lasciavo scoprire ogni giorno quello che sarebbe successo nella loro avventura. Capivano il sentimento della scena del giorno, trovando parole loro o appoggiandosi alla sceneggiatura».
Che idea si è fatto di questo viaggio dall’Africa all’Europa?
«È un pezzo di storia contemporanea. Il dibattito politico di destra o di sinistra non mi interessa, credo sia sempre giusto salvare vite in mare perché è un principio fondamentale universale. Mentre stiamo parlando c’è qualcuno che sta in mare, o attraversa il deserto in Libia. Per rispetto loro, e di chi non ce l’ha fatta, trovavo necessario essere estremamente attento alla messa in scena, senza cadere in nessun tipo di auto-compiacimento».
Perché partire dalla storia di due ragazzi che rincorrono un sogno e non da tutti coloro che fuggono da guerre, torture e partono per necessità?
«Dai racconti dei ragazzi conosciuti in Senegal e in Marocco che hanno vissuto l’esperienza del viaggio mi sono accorto che è vero che c’è chi fugge da guerre e disperazione, ma è anche vero che questo tipo di migrazione si svolge più dentro l’Africa.
Se ne parla meno, ma l’Africa conta 54 Stati, quando sei disperato e non hai nulla è più facile raggiungere un Paese vicino. Poi il 70% della popolazione in Africa è giovane, a differenza nostra, e i giovani hanno sogni, desideri, voglia di conoscere il mondo».
Un mondo che vedono attraverso i social.
«La globalizzazione lì è arrivata forte come da noi, hanno una finestra costante sull’Occidente ed è normale e umano per loro desiderare di partire per un futuro migliore, per poter realizzare i loro sogni e aiutare le famiglie. Non sanno spiegarsi perché i loro coetanei possono venire in vacanza in Africa serenamente in aereo mentre loro devono rischiare la vita per raggiungere l’Europa. Un quesito legittimo che tocca un tema etico di giustizia a cui è difficile dare una risposta».
I centri di detenzione, la mafia libica, le scene di tortura. Come si è regolato per girarle?
«Ci sono diversi video che raccontano le morti nelle prigioni e nei deserti in Libia, quindi c’è stata tanta documentazione e in più con me c’erano i ragazzi che avevano davvero subito delle torture in Libia e mi aiutavano a ricostruire quel mondo, quell’orrore, con attenzione anche a dettagli e particolari che fanno la differenza».
Ripercorrere certe esperienze non deve essere stato semplice per loro.
«Rivivevano i fantasmi del passato con reazioni inaspettate anche per me: mi ha colpito profondamente l’enorme generosità di tutti. Anche durante le riprese, nel partecipare a scene pericolose con la jeep che saltava letteralmente nel deserto. Sentivo quanto per loro fosse importante testimoniare attraverso il film quella che era stata la loro odissea, che non sempre viene creduta».
«Ci volete far morire in mezzo al mare», grida il protagonista, mentre la guardia costiera italiana si rifiuta di soccorrerli.
«La guardia costiera non interviene perché le acque sono di competenza libica. L’indifferenza non è solo dell’Occidente, i libici sono i primi a specularci: tolgono a chi vuole partire tutto quello che hanno, come mostra il film, senza curarsi minimamente della loro sorte».
Perché ha scelto di non raccontare lo sbarco, i Centri di permanenza temporanea, il rapporto con gli italiani?
«Perché quello è un altro capitolo, io volevo raccontare solo il viaggio, gli sbarchi a Lampedusa visivamente sono raccontati molto più del viaggio in sé».
Ritiene che il suo sia un cinema politico?
«Nella misura in cui prova a mostrare le cose da un’altra angolazione. Resto dell’idea che “come” racconti una storia sia la cosa più importante. Nel raccontare le torture il Libia o i morti nel deserto non contano le informazioni – do per scontato che siano cose che il pubblico sappia già – ma come vengono raccontati quei mondi e quei personaggi, come si dà vita alla loro storia.
Io ho cercato di fare un film che fosse insieme un viaggio di formazione, una storia epica, un’odissea contemporanea e un film accessibile ai giovani. Mi piacerebbe portarlo ne le scuole italiane, ma spero anche che possa aiutare a far vedere ai giovani africani i peri- coli concreti a cui vanno incontro. Mi auguro sia anche utile qui in Occidente per sensibilizzare i giovani, e i meno giovani, e far capire più a fondo quanti privilegi abbiamo noi stando “di qua”».
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile IL GOVERNO VUOLE CONSIDERARE TUTTO IL LITORALE (ANCHE QUELLO INACCESSIBILE) PER POTER SOSTENERE CHE SOLI IL 19% E’ ASSEGNATO AI BALNEARI… ALTRO SCONTRO CON L’UNIONE EUROPEA
Il governo Meloni è pronto a un nuovo scontro con l’Unione europea
sulle concessioni balneari. Nonostante le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia dell’Unione europea impongano le gare per le spiagge italiane, l’esecutivo vuole aprire una trattativa con Bruxelles partendo da un assunto: solo il 19% delle coste italiane sarebbe attualmente occupato da concessioni balneari, di cui un terzo da nuove domande.
Quindi il bene spiagge non risulterebbe “scarso” e le gare si potrebbero fare senza problemi per il restante 81% del litorale.
È questo il risultato della mappatura svolta dai tecnici del ministero delle Infrastrutture a livello nazionale e analizzato nelle ultime riunioni del tavolo interministeriale istituito a Palazzo Chigi: il dato è contenuto in una tabella del documento finale che sarà approvato forse già nella prossima riunione prevista per il 25 settembre e che il Fatto ha letto in anteprima.
Una premessa. La cosiddetta “mappatura” delle spiagge è servita alla maggioranza di destra –da sempre molto sensibile alle richieste della lobby dei balneari – per rinviare le gare: quantificare lo spazio occupato e quello libero è stato un modo per prendere tempo di fronte alle sentenze della magistratura che imponevano la concorrenza.
Così il governo ha istituito un tavolo interministeriale a Palazzo Chigi composto dai “tecnici” dei ministeri interessati e affidato la mappatura alle Infrastrutture: un modo per stabilire se le spiagge italiane fossero un bene “scarso” o meno, il criterio per stabilire se applicare la direttiva europea Bolkestein.
Al termine del lavoro della task force, secondo i dati elaborati dal Sistema Informativo del Demanio marittimo del ministero delle Infrastrutture, degli 11.172 metri di costa su tutto il territorio nazionale, solo 2.143 sarebbero occupati tra concessioni e istanze: il 19% del totale. Di questi ultimi 1.613 metri riguardano concessioni attuali, 529 domande di concessione già calcolate. In metri quadrati, su 426.267 totali, l’occupazione è pari a 77.170: il 18%. Quindi 61.995 metri di concessioni e 15.174 di istanze.
Perché il dato risulta così basso rispetto alla percezione di un litorale quasi esclusivamente occupato dagli stabilimenti? Il motivo è presto detto: nella mappatura nazionale viene considerato tutto il litorale “a prescindere dalla sua morfologia”, si legge nel documento che il Fatto ha visionato.
Questo significa che vengono considerate anche aree non balneabili o, per fare un esempio, zone rocciose e montuose della costa dove non è possibile creare stabilimenti balneari. Un escamotage sottolineato nel testo: i dati “necessitano sicuramente di ulteriore approfondimento; in particolare appare necessaria la precisazione del concetto di ‘litorale fruibile’ e ‘litorale concedibile’”.
Nella prossima riunione del tavolo interministeriale di Palazzo Chigi però dovranno essere chiariti gli ultimi dubbi prima dell’approvazione finale della mappatura: considerare i dati a livello nazionale o regionale? Considerare anche i fiumi e i laghi aree concedibili o libere? La maggioranza vorrebbe puntare su criteri nazionali considerando tutta la costa. Una regola per confermare i dati e la tesi della “non scarsità del bene”.
Poi l’obiettivo del governo è aprire una trattativa con Bruxelles per chiedere di mettere a gara solo le aree libere (quindi salvando gli attuali concessionari) od ottenere criteri favorevoli per le attuali concessioni. Entro il 31 dicembre una soluzione andrà trovata: è il termine entro cui sono state prorogate le concessioni attuali. Ma in FdI c’è una divisione sullo scontro con l’Ue: Fitto, che ha già molti tavoli aperti con Bruxelles, non vuole aprire anche questo fronte, mentre il nocciolo duro del partito vuole evitare le gare alla vigilia delle Europee. I voti dei balneari pesano.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile MICHAEL O’LEARY, CAPO DEL GRUPPO RYANAIR: “L’ALGORITMO CHE CAMBIA I PREZZI A SECONDA DEL CELLULARE CHE USI? UNA CAZZATA. LE AUTORITA’ ITALIANE SI FOTTANO. NON SI CAPISCE NULLA DEL PROVVEDIMENTO, NEMMENO AL MINISTERO DEL MADE IN ITALY HANNO IDEA DI COME APPLICARLO. SICURAMENTE VERRÀ BOCCIATO DALL’EUROPA”
Il decreto del governo che fissa un tetto ai prezzi dei voli per le grandi isole? «Pura spazzatura». L’algoritmo? «Oooh l’algoritmo… ho letto tante di quelle cazzate nei documenti ufficiali italiani che non ci posso credere». È un fiume in piena Michael O’Leary, super capo del gruppo Ryanair, la principale low cost in Europa, la seconda nel mondo e primo vettore in Italia per passeggeri trasportati. O’Leary è stato in silenzio tutti questi giorni dopo il provvedimento contro il caro voli. Ma in una lunga intervista con il Corriere della sera a Milano si fa fatica a trattenerlo.
Quindi non c’è un algoritmo che cambia i prezzi a seconda del cellulare che usi?
«Questa cosa è una cazzata»
In che senso?
«Noi abbiamo un algoritmo. Se il volo si sta riempiendo come previsto i prezzi salgono. Se non succede dobbiamo ridurre le tariffe. Non ce ne frega un c… del tipo di telefonino che uno sta utilizzando».
L’Enac e il governo non la pensano così.
«I clown all’Enac ritengono che la soluzione sia mettere un tetto alle tariffe».
Il decreto insomma non vi va proprio giù.
«Il decreto è illegale perché le regole europee sostengono che i prezzi vengono fissati dal mercato. E non è nemmeno applicabile».
Perché?
«Il decreto dice che la tariffa massima nel periodo di picco non può essere superiore del 200% al prezzo medio. Ma prezzo medio di cosa?»
Di quella rotta…
«E chi lo conosce?»
Dovreste comunicarlo voi alle autorità di controllo italiane.
«Non ci penso nemmeno. Non è affare loro saperlo».
Però è così.
«Che si fottano».
Così rischiate multe salate.
«No. Quello che succederà – e lo stiamo facendo – è che dovremo ridurre l’offerta sui collegamenti nazionali e aumentare i voli internazionali non colpiti dal decreto».
Avete già iniziato a farlo in Sardegna riducendo i posti dell’8%.
«E non ci fermeremo qui».
Ci risulta che taglierete anche in Sicilia.
«Sì. Ridurremo i voli nazionali anche lì del 10%. Succederà che le tariffe sui voli interni saliranno e quelle sui voli internazionali scenderanno».
Ma voi avete capito come applicare questo decreto?
«Non si capisce nulla. Nemmeno al ministero delle Imprese e del Made in Italy hanno idea di come applicarlo».
Sperate in una mossa dell’Europa?
«Sicuramente. Loro bocceranno il provvedimento italiano. Ma intanto noi non rispetteremo quella stronzata».
(da Il Corriere della Sera)
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Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile “NON POSSIAMO FARE UN CERTIFICATO A UN PAZIENTE CHE DICE DI ESSERE POSITIVO ALL’AUTOTAMPONE, MA SENZA SINTOMI. SE APRIAMO LE PORTE ALL’AUTODIAGNOSI, È FINITA”
La politica delle “regole zero” del governo vorrebbe semplificarci la
vita, ma la libera circolazione del virus non è ancora accettabile per tutti. […] «Nelle aziende il problema dei lavoratori fragili è reale» conferma Pietro Antonio Patanè, presidente dell’Anma, Associazione nazionale dei medici d’azienda. «Un positivo con le nuove regole ha il diritto di presentarsi al lavoro. A noi però resta il dovere di proteggere i dipendenti a rischio ».
Altro rebus senza soluzione è la scuola, dove i fronti da difendere sono due: bambini e lavoratori. In entrambe le categorie possono ritrovarsi persone fragili. Resta il tampone, certo, ma la sua affidabilità non è totale.
«In ogni caso il tampone non è un sintomo» chiarisce Silvestro Scotti, segretario della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale). «Non possiamo fare un certificato a un paziente che telefoni dicendo di essere positivo all’autotampone, ma senza sintomi. Se apriamo le porte all’autodiagnosi, è finita. Qualunque assenza dal lavoro potrà essere giustificata dal paziente senza il filtro del medico».
Diverso è il caso dei sintomatici che non sono in condizioni di lavorare. «Il certificato in quel caso serve a esentare una persona malata che non riesce a svolgere i suoi compiti, non a proteggere i colleghi dal contagio». […] Oltre all’assenza di regole, a creare incertezza è la carenza di dati sui contagi. «L’intenzione del governo è quella di considerare il Covid una malattia infettiva come le altre, senza obbligo alcuno » riflette Filippo Anelli, presidente di Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici).
L’esecutivo ha ipotizzato la reintroduzione delle misure anti-contagio solo in caso di un aumento del virus. «Non avendo però un tracciamento puntuale, gli unici dati dirimenti sono mortalità e ricoveri» prosegue Anelli. «Nel momento in cui queste cifre cominciano a salire, come sembra oggi, credo che il ministero dovrà reintrodurre alcune misure, come le mascherine». Nella speranza che il peggioramento non si materializzi, oggi resta la politica delle “regole zero”. «Neanche noi medici possiamo chiedere a un lavoratore di restare a casa» dice Patanè. «L’unica cosa, per proteggere i fragili, è chiedere al datore di lavoro di prendere autonomamente delle precauzioni come mascherine, ricambi d’aria o smart working».
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile E L’OPINIONISTA SOVRANISTA PREZZOLATA LI CRITICA: “I BRITANNICI NON SARANNO MAI SCHIAVI”… PARLA DI QUELLA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE BRITANNICA CHE HA RAPINATO IL MONDO CON IL SUO IMPERIALISMO? HA NOSTALGIA DELLE COMPAGNIE DELLE INDIE?
A Londra, durante un concerto molto seguito, c’è stata una clamorosa e imprevista manifestazione anti-Brexit. Gran parte del pubblico ha sventolato bandiere europee durante l’esecuzione di un celebre canto patriottico, Rule Britannia. Come tutte le manifestazioni, ci sono i favorevoli e i contrari.
Ma per dare un’idea degli umori dei contrari, della loro cultura politica e della loro misura umana, vale il commento, su Twitter, della animosa opinionista di destra Isabel Oakshott, per la quale Brexit è un punto di non ritorno: “I britannici non saranno mai schiavi”, scrive Oakshott citando uno dei versi del canto patriottico disturbato dallo sventolio delle bandiere dell’Unione Europea.
Decidete voi se ridere o piangere: questo, comunque, è il nocciolo di Brexit. Un nazionalismo goffo e insensato, specie alla luce del fatto che il Paese più imperialista, aggressivo e rapinoso di tutte le epoche (i romani, al confronto, furono un’associazione benefica), che ha svuotato i forzieri e rapinato le risorse del mondo intero, nella lettura “brexista” si dichiara vittima di altrui prepotenze, e assoggettamenti “stranieri”. Trascurando il fatto che l’Unione Europea è il frutto di una libera associazione, non di invasioni armate, non di Imperi imposti ai “selvaggi” come fu, in larga parte, l’imperialismo britannico.
Il nazionalismo è l’oppio dei popoli. È cervello all’ammasso, è imbroglio morale e contraffazione culturale.
Forse è perfino peggio del fanatismo religioso, perché si manifesta nella forma, meno impresentabile, della rivendicazione della propria integrità domestica. Ma “casa”, per quelli come Oakshott, è il bottino della Compagnia delle Indie. Pollice verso. Abbasso gli imperialisti, viva la libertà e l’uguaglianza tra i popoli.
(da La Repubblica)
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Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile “TUTTO CIO’ CHE IL POPULISMO SOVRANISTA TOCCA, DIVENTA MERA PROPAGANDA”
Roberto Saviano, a dieci giorni dalla missione del governo a Caivano
ieri la camorra è tornata a sparare impunita al parco Verde. «Lo stato c’è» è, come sempre, uno slogan
«Peggio di uno slogan. Dire “lo Stato c’è”, dove invece è assente, deresponsabilizza tutti. Se lo Stato c’è, perché dovrei esserci anch’io? Se lo Stato c’è, allora le cose si sistemeranno presto. Ieri notte una stesa, ma dirò di più: Giovanbattista Cutolo è stato assassinato il giorno in cui Meloni era attesa a Caivano per una visita annunciata. Ovviamente è una tristissima coincidenza che però ci dice tanto su come questo governo, ma in generale la politica e le istituzioni, vengono valutate dal mondo criminale».
Come li vede?
«Il nulla, al più un’interferenza».
Quando ha visto il Governo al Parco Verde cosa ha pensato?
«È la fine di tutto. È la fine di ogni racconto che alla base abbia almeno un brandello di verità. Tutto ciò che il populismo sovranista tocca diventa pura propaganda. È stato così per tutto, per lo stato dell’economia italiana, per l’immigrazione».
Veniamo al decreto baby gang. Più carcere e più repressione. Serve davvero? Lo Stato ci riuscirà o sono sole parole
«Non serve a nulla. E magari – ribadisco: magari! – fossero solo parole. Intanto sono parole drammatiche, insensate e che con il sistema giudiziario e carcerario italiano (sovraccarico il primo, letteralmente al collasso il secondo) non hanno alcuna speranza di essere attuate. Il carcere oggi è una palestra di crimine nel nostro Paese, e la repressione ha senso solo quando ogni deterrente ha fallito. Ma se qui in Italia non si fa prevenzione, come si può pretendere di punire?».
Carcere anche per i genitori che non mandano figli a scuola. Fino ad ora questo provvedimento eccezionale è stato utilizzato solo per le famiglie mafiose. È d’accordo?
«Come potrei essere d’accordo con una misura tanto assurda! Quando studiai le “paranze” di Napoli, ormai dieci anni fa, e ne scrissi diffusamente, avvertii che erano un fenomeno in crescita. Sa cosa ha dato un impulso enorme? Le scuole chiuse durante il Covid».
La Campania ha il record.
«La giunta regionale guidata da De Luca ha giocato col fuoco e oggi ci stiamo bruciando. A partire dall’ottobre 2020, le scuole erano aperte pressoché ovunque in Italia, tranne nelle regioni del Sud, quelle dove già la dispersione scolastica raggiungeva percentuali drammatiche».
C’era da tutelare la salute in un’area con assistenza sanitaria inefficiente.
«Durante il Covid, aver tenuto centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi lontani dai banchi è stato letale e oggi la collettività ne paga le conseguenze. Molti adolescenti, ma anche tante bambine e bambini delle elementari, che da ottobre 2020 ad aprile 2021 non sono andati a scuola per le misure straordinarie prese dalla Regione Campania, letteralmente abbandonati a se stessi, a scuola non sono più tornati. I genitori spesso vivono veri e propri drammi e sono soli».
Alcune famiglie però sono consapevoli.
«E dov’è lo Stato? Ed è davvero accettabile che dopo tanta assenza, dopo errori madornali, si palesi solo sotto forma di manette? Ma che credibilità può mai avere?».
C’è lo stop ai cellulari?
«Sì, come no… stop ai cellulari, stop alla pornografia. A volte ho come l’impressione di avere davanti persone del tutto inadeguate, che proprio non si rendono conto del mondo in cui vivono. Per quanto riguarda i cellulari, è ampiamente studiato che andrebbero dati a partire dai 14 anni».
Prima vanno vietati a tutti
«Prima è presto per molti motivi. Primo la totale incapacità di valutare l’attendibilità delle fonti, l’ansia che provoca l’attesa di una risposta, ma anche la mancanza di fisicità che azzera spesso ogni empatia. Il problema non è togliere il cellulare, ma darlo a un’età congrua e pretendere che la scuola si faccia carico di un insegnamento al suo corretto utilizzo. Ma siamo in ritardo di 40 anni sull’introduzione dell’educazione sessuale a scuola. Ma mi sa che pensare a corsi strutturali, obbligatori e non demandati alla sensibilità dei dirigenti scolastici, per un corretto uso dei cellulari sia fantascienza».
Il governo promette più sicurezza ma i sindacati di polizia si lamentano che non hanno le divise e il ministro Piantedosi ha già protestato con Giorgetti per i tagli in manovra.
«Sono questioni che lascio volentieri dirimere ai sindacati di polizia con il loro ministro di riferimento: che avessero creduto alle promesse di investimenti fatte in campagna elettorale è un problema loro».
È un problema di tutti.
«La verità è che questi ministri sono alla disperata ricerca di nemici perché non hanno un soldo per mantenere le enormi promesse fatte».
orniamo al Parco Verde. Un’altra frase fatta, in questi casi utilizzata da chi non vuole una risposta securitaria, è «serve un esercito di insegnanti», come disse Gesualdo Bufalino.ù
«Serve cura. Serve studio, serve cultura. Saranno anche frasi fatte, ma se non sono attuate conservano tuttora il sapore della novità. E dell’utopia».
Come per le Vele di Scampia l’unica soluzione alla fine sarà abbattere?
«Anche qui, come per le Vele, abbattere sarebbe una sconfitta. Resto sempre perplesso da come riescano a celebrare le loro sconfitte come fossero vittorie. Le Vele andavano riqualificate. Il Parco Verde va curato».
Si sente già condannato?
«C’è un clima bruttissimo e, francamente, non so cosa aspettarmi. Mi metto nei panni di chi dovrà decidere se è possibile criticare e in che modo la premier, e non posso non cogliere la pressione di un atto di forza da parte dell’esecutivo. A oggi questa vicenda ha portato alla cancellazione di una trasmissione in Rai che era già stata collocata e presentata in palinsesto dallo stesso Roberto Sergio».
Siamo addirittura alle condanne preventive?
«La cosa drammatica è che a distanza di mesi nessuno – e dico nessuno – si è preoccupato di chiarire le ragioni di questa decisione. I media al servizio del Governo parlano di violazione del Codice Etico dell’Azienda, ma qualche settimana fa Sergio ha, in un’intervista, escluso questa ipotesi. Faccio un appello: esiste qualche giornalista particolarmente coraggioso che gli chiederà un’intervista per chiarire le ragioni precise della mia esclusione? Sino a oggi Sergio ha detto che non è per violazione del codice etico che ha cancellato Insider, ma perché lui ha troppo rispetto per le istituzioni. Che significherà mai?».
Non lo so, ma glielo chiederemo.
(da La Repubblica)
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Settembre 12th, 2023 Riccardo Fucile IL SOVRAPREZZO PER TUTTE LE BEVANDE FREDDE: 20 CENTESIMI DI “AGGIUNTA FRIGO”
C’è chi l’ha già ribattezzata «frigo tax» ed è solo l’ultimo dei rincari che fa salire il prezzo del carrello della spesa. A Roma, racconta il Corriere, decine di supermercati hanno iniziato ad applicare un sovrapprezzo di venti centesimi alle bevande conservate in frigorifero. Alla Conad di via Archimede, per esempio, sullo scontrino appare la dicitura «aggiunta frigo». Nella maggior parte dei casi, l’extra da pagare per avere una bevanda fredda – e non a temperatura ambiente – è di 20 centesimi, a prescindere dal tipo di bevanda che si vuole acquistare: acqua, birra, succo di frutta, aranciata e via dicendo. «I costi dell’energia sono saliti, mica possiamo rimetterci», spiega un addetto del supermercato, scaricando la colpa sull’inflazione e la guerra in Ucraina. I supermercati, insomma, difendono la scelta di applicare la «frigo tax» parlando della necessità di coprire i consumi energetici dei frigoriferi. Nel punto vendita in zona Parioli preso in esame dal Corriere, le bevande tenute al fresco sono almeno una cinquantina. Il che significa, conti alla mano, che svuotando una sola volta al giorno il frigorifero, il supermercato incassa 10 euro di «aggiunta frigo». Una cifra che, con ogni probabilità, basta e avanza per coprire i costi aggiuntivi in bolletta dati dai consumi del frigorifero.
(da Agenzie)
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