Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
ALLAGAMENTI PERMEAVANO I MURI E IL SOFFITTO
Intorno alle 2 del mattino del 3 ottobre un ex albergo a Romano di Lombardia, nella bassa bergamasca, è stato evacuato per allagamenti e una diffusa intossicazione che ha colpito oltre 60 persone.
Gli intossicati sono richiedenti asilo, l’ex albergo era diventato da giugno un centro di accoglienza
L’intossicazione e l’evacuazione dell’albergo
L’allarme intossicazione è partito nella notte, quando con ambulanze, auto e furgoni, vigili del fuoco, soccorritori e volontari sono arrivati sul posto per prestare aiuto ai migranti.
A essere ricoverati sono state in tutto 62 persone. Nessuna era in condizioni critiche, tutte sono state ricoverate in codice giallo o verde. La maggior parte dei pazienti è stata portata all’ospedale di Romano di Lombardia, gli altri sono stati collocati tra Zingonia, Seriate, Treviglio, Chiari, Gavazzeni, Crema, Alzano Lombardo, Ponte San Pietro, Lodi, Melzo, San Giovanni Bianco e Vimercate.
Non è ancora chiaro cosa abbia generato l’intossicazione, se sia di tipo alimentare o dettata dalle condizioni dell’edificio, che i vigili del fuoco hanno reputato fatiscenti, tanto da dichiararne la non fruibilità. Tutte le persone soccorse avevano sintomi e malori diffusi
L’edificio evacuato e inagibile
L’ex hotel La Rocca di Romano di Lombardia è stato trasformato in centro di accoglienza da giugno e ospitava 160 migranti. In passato l’edificio era stato destinato all’accoglienza dei richiedenti asilo ma dal 2019 era rimasto chiuso.
A partire dal pomeriggio si erano registrate perdite d’acqua che erano diventate sempre più insistenti e che questa notte hanno portato all’emergenza. All’origine dell’allagamento era una grossa perdita nell’impianto idraulico che dal primo piano si era estesa nelle stanze, era permeata attraverso le pareti e aveva compromesso il soffitto della sala comune.
In seguito agli allagamenti e alle intossicazioni, la Prefettura di Bergamo lo ha svuotato evacuando tutti gli ospiti. La struttura, già controllata dai tecnici dell’Ats e del Comune, sarà dichiarata inagibile.
Per il sindaco Sebastian Nicoli, intervistato da Bergamonews, era un disastro annunciato: “La situazione è insostenibile da mesi – ha dichiarato – una struttura così vecchia e inadatta è in evitabilmente sotto stress ed è normale che si arrivi a un a situazione di degrado strutturale come questa”.
Il centinaio dei richiedenti asilo che non ha subito l’intossicazione è stato ricollocato in strutture del territorio, tra cui quelli di Castione della Presolana e Taleggio.
(da Fanpage)
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Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
L’ECONOMISTA PIGA: “CROLLATI LA SPESA REALE E GLI STIPENDI, ACQUISTI DELLA P.A. E INVESTIMENTI, IL CONTRARIO DI QUEL SERVE PER CRESCERE”
Un calo del 5% per gli stipendi della pubblica amministrazione e del 3,7% per i consumi intermedi, cioè gli acquisti di beni e servizi che comprendono voci come “le Tac per gli ospedali, le lavagne per le scuole, le gazzelle della polizia, i mezzi dei vigili del fuoco”. Una riduzione delle prestazioni sociali effettive dell’1,6%. Un crollo delle spese in conto capitale superiore al 20%.
Sono le macerie lasciate sul campo dalla legge di Bilancio per il 2023, la prima firmata dal governo Meloni.
“Eccola la spending review nella versione di Giancarlo Giorgetti: tagli lineari della spesa pubblica senza alcun criterio”, commenta Gustavo Piga, ordinario di Economia politica a Tor Vergata, mentre traduce in termini reali – cioè sottraendo un’inflazione pari al 5,8% – i dati nominali contenuti nelle tabelle della Nadef. Mentre si moltiplicano veline e indiscrezioni sulla manovra 2024, zavorrata da un pil in rallentamento, Piga parte dai numeri più solidi: quelli sull’anno in corso.
Numeri che confermano le attese e mostrano ancora una volta una stretta significativa, in contrasto con le promesse dei partiti di maggioranza che volevano dar battaglia alle regole europee sui conti pubblici per spingere la crescita.
Non poteva che andare così, argomenta il docente che presiede l’Osservatorio sul Recovery plan di Tor Vergata e Promo Pa, visto che il deficit/pil in corso d’anno è stato ridotto dal 5,6% programmatico previsto nel Def (al netto del Superbonus che lo porta all’8%) al 5,3% tagliando la spesa pubblica reale. “Il deficit è sceso dello 0,3% in rapporto al pil e la crescita attesa del pil dello 0,2%, dall’1 allo 0,8%: tutto torna”. Ma tagliare la spesa “improduttiva” non dovrebbe aprire spazi per utilizzare meglio quelle risorse? “L’idea che la spesa corrente sia brutta di per sé è un mito da sfatare. Lì dentro ci sono i fondi per scuola, università, sanità, sicurezza. E gli stipendi degli statali. Se li congeli tagli la qualità dei servizi alle imprese, con un effetto negativo sulla loro produttività, e non riesci a spendere i soldi del Pnrr“. Insomma: il contrario di quel che serve per crescere.
La parabola del Piano nazionale di ripresa e resilienza è istruttiva: la sua partenza, nel 2020, aveva indotto anche i mercati a sperare in una svolta rispetto al circolo vizioso dei tassi di crescita da zero virgola e del debito/pil da tenere sotto controllo. “Non a caso lo spread, che prima dell’accordo europeo stava ai livelli di oggi, nel primo anno del piano è crollato a 100 punti“, ricorda il docente. “Ma il mercato premia la capacità di fare investimenti, non la mera disponibilità dei fondi. Così, quando si è visto che la macchina pubblica non era in grado di spendere perché si è deciso di non investirci ha riconsiderato il rischio Italia”. Nel frattempo è arrivata la dichiarazione di resa, con la scelta di “togliere 16 miliardi ai territori e darli a grandi stazioni appaltanti o sotto forma di crediti di imposta che hanno un impatto potenziale molto minore agli investimenti pubblici”.
Quella partita ormai è quasi persa, al netto del giudizio di Bruxelles che sarà influenzato da considerazioni politiche in vista delle elezioni europee. Ma secondo Piga non è troppo tardi per avviare la riforma delle stazioni appaltanti – le amministrazioni che affidano ai privati gli appalti per lavori o servizi – che auspica da una decina d’anni. Da quando ha toccato con mano – da presidente della Consip – i danni di gare troppo grandi e centralizzate ma anche delle piccole amministrazioni prive di competenze che moltiplicano gli sprechi. “Sulla base del nuovo Codice appalti hanno chiesto la qualificazione circa 3mila stazioni su 30mila: è un calo importante ma non basta, bisognerebbe scendere a 200. E soprattutto, quelle 3mila non hanno le risorse per assumere personale preparato facendo concorrenza al settore privato, cioè pagandolo molto bene“. Di quante persone si parla? “Un centinaio per ogni stazione. È un investimento che consentirebbe di abbattere gli sprechi e aumentare davvero gli investimenti pubblici, oltre a coinvolgere di più nelle gare le pmi con ricadute positive per tutta l’economia”.
A quel punto, immagina Piga, “avremmo anche un vantaggio politico negoziale: dopo aver dimostrato di saper spendere potremmo essere credibili nell’orientare il dibattito sul nuovo Patto di stabilità e nel chiedere alla Ue di poter fare investimenti in deficit. Il primo passo spetta a noi e deve passare per gli investimenti nella macchina amministrativa. La gara mondiale sulla competitività si disputa sulla qualità delle pubbliche amministrazioni, come hanno capito bene gli Usa, la Cina, la Germania e la Francia”. In attesa della manovra, con cui si deciderà su quali capitoli mettere risorse aggiuntive, i numeri della Nadef “a legislazione vigente” non promettono molto di buono: nel 2024 “il deficit/pil programmatico cala di un punto rispetto al valore 2023 e il surplus primario (differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito ndr) aumenta di 1,3 punti. Significa 25 miliardi di maggiori entrate e minori uscite nette, soldi sottratti all’economia”.
(da Il Fatto Quotifiano)
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Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
LANCHESTER: “SENTENZA GIUSTA, SONO I DECRETI A ESSERE SCRITTI MALE”… CELOTTO: “IL GOVERNO DECIDE, LA GIUSTIZIA GIUDICA”
Decreti scritti male e pensati peggio, rispetto della legge comunitaria e della Costituzione, difesa unanime dell’indipendenza della magistratura e dell’operato della giudice di Catania Iolanda Apostolico, accusata duramente dalla premier Meloni per aver disapplicato il decreto Cutro del 10 marzo. Al netto di differenze minime e sfumature più accentuate, alcuni dei più noti costituzionalisti italiani sono dalla parte della giudice nel merito e contro Giorgia Meloni nel metodo. Per averne conferma basta leggere le loro analisi sulle pagine dei giornali di oggi.
Flfonso Celotto (Roma Tre) a Repubblica: “L’esecutivo decide, i giudici giudicano. Altrimenti si torna all’ancien régime” – Alfonso Celotto, costituzionalista dell’Università Roma Tre, non può essere definito una toga rossa: fino a gennaio, del resto, era capo di gabinetto della ministra delle Riforme Maria Alberta Casellati.
Anche per questo motivo, il suo parere sull’operato della giudice Iolanda Apostolico e sulla reazione di Giorgia Meloni ha un peso specifico non indifferente. E il professore non le manda di certo a dire nella sua intervista a Repubblica: “In uno Stato di diritto un presidente del Consiglio non può assolutamente entrare nei contenuti giuridici di una sentenza”. Dichiarandosi stupito dalla durezza delle parole di Giorgia Meloni, Celotto sottolinea che “per un governo democraticamente eletto l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati sono una ricchezza perché la democrazia è basata sul pluralismo delle idee, sulla garanzia della divisione dei poteri, e quindi qualsiasi decisione di qualsiasi organo deve sempre poter essere impugnata e valutata davanti a un giudice”. Il professore non entra nel merito della decisione della giudice di Catania per un motivo molto semplice: “Se dovesse essere sbagliata, e può esserlo, ci saranno l’Appello e la Cassazione per valutarla in piena legittimità”. Alla domanda sulla difesa a oltranza del Dl Cutro da parte della premier, Celotto sottolinea che “la democrazia si nutre della divisione dei poteri. L’esecutivo decide, i giudici giudicano. Altrimenti si torna all’ancien régime o a Carlo Magno che oltre a essere imperatore era anche giudice supremo”. A chi chiede punizioni ed espulsioni dalla magistratura, il costituzionalista risponde in maniera netta: “Un magistrato può non applicare una legge se contrasta con il diritto della Ue, come in questo caso, oppure può mandarla alla Consulta se ha dubbi di costituzionalità. La responsabilità disciplinare delle toghe ha le sue regole e le sue procedure sia ministeriali che al Csm”. E il decreto Cutro: promosso o bocciato? “Il tema dell’immigrazione è molto complesso e articolato perché coinvolge la sovranità di altri stati, i diritti umani, e la coesione dell’Unione europea. Questo ennesimo decreto cerca di affrontare il problema dell’ingresso senza considerare l’inclusione che è decisiva per una buona gestione dei migranti“.
Fulco Lanchester (Sapienza) al Corriere: “La giudice ha applicato le norme. Il problema è che quei decreti sono scritti male” – Per Fulco Lanchester, professore emerito di Diritto costituzionale italiano e comparato a La Sapienza, non ci sono dubbi: Iolanda Apostolico ha fatto bene il suo dovere. “Ha applicato le norme. Il problema è che quei decreti non sono scritti bene” dice Lanchester, secondo cui le leggi in questione “violano la Costituzione“. Nella sua intervista al Corriere della Sera, poi, il professore entra nel merito: “All’articolo 10 perché la mera provenienza da un paese sicuro non può automaticamente escludere dalla richiesta di asilo, come prevede il decreto Cutro – spiega – E all’articolo 13, perché la libertà personale è inviolabile e la Costituzione non ammette alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Il permanere di uno stato di emergenza sulla questione migranti per Lanchester costituisce un pericolo serio, perché “prefigura il pericolo dell’avvento di uno Stato amministrativo, in cui potere legislativo e giurisdizione vengono emarginati a favore dell’amministrazione pilotata dall’esecutivo, dove la discrezionalità diviene arbitrio”. Il professore, poi, dice la sua anche sull’operato della giudice, accusata di aver preso una decisione politica: “Il magistrato ha fatto il suo mestiere – assicura Lanchester – Il ministero ha già fatto ricorso e sarà l’istanza giurisdizionale superiore che ora deciderà. Ciò che trovo più grave è, però, attaccare l’ordine giudiziario come fosse un nemico”. A sentire il costituzionalista l’unica via di uscita è “un adeguamento normativo, previo accordo europeo” e previa valutazione della Consulta. “Il problema è, però, che siamo oramai in una perenne campagna elettorale – conclude Lanchester – e su questo tema ci sono contrapposizioni interne al governo, all’opposizione e allo stesso mondo cattolico“.
Cesare Mirabelli (ex presidente emerito Consulta) all’Ansa: “Trovare strumenti diversi dalle espulsioni e dai respingimenti” – L’ex presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli cerca di buttare acqua sul fuoco nella sua conversazione con l’Ansa: “Non enfatizzerei troppo il tema del contrasto tra politica e magistratura, perché finora si tratta di una decisione sola su un singolo caso. Ed inoltre – aggiunge – stiamo parlando di norme comprese in un decreto legge il cui iter parlamentare è ancora aperto e in attesa di essere convertito in legge”. Per Mirabelli “la questione è ancora aperta in quanto ci sarà un appello con l’impugnazione da parte dell’autorità amministrativa” e in seguito non si può escludere “che il questore limiti la libertà personale in maniera meno afflittiva, magari imponendo l’obbligo di dimora o quello di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza”.
Il giurista rileva infatti che “la motivazione della giudice di Catania si basa largamente sul difetto di motivazione che giustifichi la misura restrittiva della libertà personale”. “Certamente il tema della restrizione della libertà personale è molto delicato e il decreto legge prevede tempi molto lunghi, anche fino a 18 mesi, seppure rinnovati”, rileva Mirabelli, parlando dell’allungamento dei termini di permanenza nei Centri per il rimpatrio. Tuttavia, il presidente emerito della Consulta nota che “se il decreto fosse stato sospettato di illegittimità, allora la giudice avrebbe dovuto inviare il caso alla Corte Costituzionale, invece ha disapplicato la norma per contrasto con il diritto comunitario, ed è da verificare se sul tema della cauzione il contrasto esista veramente, se ci sono dubbi si chiede l’intervento della Corte europea“. Ma l’invito di Mirabelli è appunto quello di non enfatizzare gli aspetti di contrasto in considerazione dell’iter parlamentare ancora in itinere del dl Cutro, e dell’impugnazione del verdetto di Catania da parte dell’amministrazione statale. “L’immigrazione è un tema molto complesso che non si può liquidare sbrigativamente, ma è importante – dice Mirabelli – affrontare una situazione come quella dei rifugiati e dei richiedenti asilo che fino a poco tempo fa si pensava limitata a pochi casi e invece adesso è un fenomeno, non dico di massa, ma molto esteso”. “Occorre trovare strumenti diversi dalle espulsioni e dai respingimenti, che non funzionano e non si riescono ad eseguire, e vedo che a livello europeo – conclude Mirabelli – c’è qualche intenzione di mettere mano a questa grande questione aperta, serve del tempo, ma bisogna trovare soluzioni diverse sia a livello normativo che di azione comunitaria“.
(da il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
SI MOLTIPLICANO QUELLI CHE LA DUCETTA VEDE COME “NEMICI” NEL SUO TEOREMA
Li indica senza mai nominarli. «I soliti noti» che ieri si sono rivelati essere «altri Stati» e «un pezzo d’Italia», e altre volte erano «certi ambienti europei» o più nel dettaglio «la sinistra» o «forze politiche nazionali ed europee». Sono i nemici individuati da Giorgia Meloni. Ormai uno al giorno, uno dopo l’altro. Offre indizi, abbozza identikit, disegna sagome che senza troppi sforzi di fantasia diventano poi volti, nomi e cognomi.
È il tic dell’underdog che vive in un’eterna opposizione, di chi usa il «voi», plurale e generico, per ribattere alle domande dei giornali che reputa più fastidiosi. È un metodo che svela una strategia, meditata dopo il riposo estivo, perché il calendario impone di recuperare i toni della campagna elettorale, perché la stagione porta con sé due emergenze che fiaccano l’azione del governo. Se le ricette contro l’immigrazione vanno male, se i conti del bilancio non tornano, ci sono precise responsabilità, secondo Meloni, colpevoli facilmente individuabili.Una lista che si ingrossa appena qualcuno mette in dubbio provvedimenti e iniziative dell’esecutivo. L’ultima, in ordine di tempo, è Iolanda Apostolico. La giudice che ha rimesso in libertà quattro tunisini trattenuti a Pozzallo, praticamente smantellando il decreto Cutro. C’è un precedente contro la magistratura.
Prestissimo, perfettamente coordinata con i giornali di destra freschi di stampa, editi dal deputato leghista Antonio Angelucci. Il Giornale, diretto da Alessandro Sallusti, coautore dell’ultimo libro di Meloni, e Libero, diretto da Mario Sechi, suo portavoce a Palazzo Chigi fino a un mese fa, sparano in prima pagina due titoli quasi identici. Tipica character assassination di berlusconiana memoria: chi è la toga, quali sono i segreti del giudice che ha opposto le proprie convinzioni giuridiche al governo.
È successo altre volte, in queste ultime settimane. Magistratura, Europa e sinistra sono i bersagli macro. Meloni allude, e le testate militanti subito integrano con nome e cognome. Dalla nebbia dei riferimenti della premier a «certi ambienti europei» è emerso il volto di Josep Borrell, socialista spagnolo e Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, sospettato dai sovranisti italiani di voler sabotare il Memorandum d’intesa firmato con la Tunisia nella speranza di frenare gli sbarchi.
Negli stessi giorni, la fisionomia di un altro nemico si è andata definendo a poco a poco, colpo su colpo, allusione dopo allusione. Il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni è la sintesi perfetta del perfetto nemico della destra. Ex presidente del Consiglio, Pd, anche lui esponente di spicco del socialismo europeo, evocato come possibile premier di un governo di larga coalizione. Meloni e il vicepremier leghista Matteo Salvini ancora più esplicitamente lo hanno accusato di scarsa italianità, di non aver fatto abbastanza sulla riforma del Patto di Stabilità e di non aver mostrato la giusta flessibilità durante i negoziati sul via libera alle rate del Piano nazionale di ripresa e di resilienza
L’autoassoluzione è totale e la catena della colpa porta quasi sempre all’estero. Prima era la Francia di Emmanuel Macron, quando il presidente la snobbava, quando dimenticava di invitarla a cena, e dopo le liti sulle navi dei migranti le scatenava contro il ministro dell’Interno Gérald Darmanin. Oggi le cose sono cambiate. Macron ha messo a disposizione di Meloni il suo miglior sorriso dopo aver capito una volta per tutte che è Salvini l’alleato italiano a braccetto del quale Marine Le Pen può lanciare la campagna dell’estrema destra contro l’immigrazione e la debolezza della risposta europea.
Ma i colpevoli, quando si cercano, non mancano mai. Adesso è il turno della Germania. Il governo socialdemocratico e verde del cancelliere Olaf Scholz e della ministra degli Esteri Annalena Baerbock, sono loro «gli altri Stati» che, accusa Meloni, «lavorano nella direzione opposta» all’Italia, sabotando accordi, finanziando le Ong che salvano vite in mare e portano i sopravvissuti sul territorio italiano. Nel teorema Meloni è la Germania, severa avversaria della destra dai tempi di Berlusconi, a complicare senza ragione la vita all’Italia, frenando le proposte di compromesso sulle nuove regole fiscali e facendo solidarietà sui rifugiati «con i confini degli altri»
Tra Roma e Berlino c’era in ballo un piccolo trattato di amicizia a cui stavano lavorando le diplomazie, sul modello del Trattato del Quirinale firmato da Macron con Mario Draghi. Tutto è fermo ora, e lo resterà fino a quando non tornerà il sereno. A Granada, giovedì e venerdì, a margine dei due vertici europei, Meloni avrà l’occasione di parlare di persona con Scholz. Gli staff tecnici sono in contatto quotidianamente per un possibile bilaterale. Le tregue servono, tanto quanto i nemici.
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“QUALCUNO SI PORREBBE DOMANDE PRIMA DI SOCCORRERLI SE FOSSERO RICCHI?”
“Immaginate una barca di uomini ricchissimi in difficoltà nel mezzo del Mediterraneo. Secondo voi, qualcuno si porrebbe una qualsiasi domanda prima di correre al loro soccorso?”. E’ la provocazione lanciata da Beppe Grillo su Facebook, linkando l’articolo di Marco Bella ‘Ius Scholae, una legge di civiltà’, pubblicato sul suo blog.
“Le persone in mezzo al mare si salvano – si legge nell’articolo di Bella – Si tratta di una questione di civiltà. E questo vale per i miliardari e qualsiasi altro essere umano, indipendentemente dal suo conto in banca, dal suo credo religioso o dal colore della sua pelle”.
Quello delle migrazioni “è un fenomeno complesso, che chiunque abbia a cuore l’Italia o sia di turno al governo dovrà affrontare in modo serio. Ma possiamo quindi accogliere tutti qui in Italia? La risposta è purtroppo no”.
“Tra l’altro solo una piccola parte di chi arriva in Italia vuole rimanere effettivamente nel nostro Paese. Tantissimi migranti alla prima occasione scappano dai centri di accoglienza per andare da parenti e amici nel nord Europa. C’è chi vuole “bloccare le partenze”. In realtà l’invasione da fermare – scrive Bella nell’articolo – è quelle delle multinazionali che arrivano in Africa per depredarla, a partire dalle sue risorse minerarie, impedendo che i soldi degli africani siano usati per migliorare scuole, sanità e favorire la crescita sostenibile a casa loro”.
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
SONO PASSATI DIECI ANNI… I CONTRATTI DI LAVORO A TEMPO INDETERMINATI NON SONO AUMENTATI
Sono passati quasi dieci anni eppure una parte del centrosinistra sembra ancora inchiodato lì: il Jobs Act varato dal governo Renzi tra il 2014 e il 2016 dovrebbe essere nelle intenzioni di molti il monumento dell’abilità politica del Pd renziano rispetto al Pd di oggi.
Il fatto che nel frattempo siano passati cinque governi e ben tre legislature dalla sua approvazione indica la stagnazione e per questo forse conviene fare un po’ di chiarezza. Dicono i sostenitori renziani (quelli che ora stanno nel partito di Renzi, Italia Viva, e quelli rimasti all’interno del Partito democratico) che le riforme contenute nel pacchetto Jobs Act parlano di “un milione di posti di lavoro” da quando la riforma è entrata in vigore fino al Decreto dignità del primo governo Conte che l’ha sostituito.
Come scrive Mattia Marmasti che per Pagella Politica ha messo in fila i numeri secondo i dati Istat dall’insediamento del Governo Renzi (2014) fino alla fine del 2016 (quando Renzi rassegnò le dimissioni) il numero degli occupati è passato da 22 milioni a 22,9 milioni.
Su questo si basano le dichiarazioni di chi – Renzi e Boschi in primis – elogia il provvedimento.
Ma gli occupati sono posti di lavoro? Non proprio.
Pagella politica sottolinea come l’Istat consideri come “occupato” chi ha tra i 15 e gli 89 anni e nella settimana in cui sono stati raccolti i dati ha dichiarato di aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita.
Rientrano quindi tra gli occupati anche i lavoratori in ferie, in maternità o paternità, e quelli temporaneamente assenti per un periodo inferiore ai tre mesi. Gli occupati sono quindi una categoria più ampia di quella dei posti di lavoro, un’espressione che indica invece lavori più stabili.
Per comprendere quanto la riforma renziana abbia impattato sull’aumento di occupati, al di là del contesto economico nazionale e dalla generale ripresa dell’economia del 2011 torna utile lo studio pubblicato dagli economisti Pietro Garibaldi e Tito Boeri (già presidente dell’Inps all’epoca del governo Renzi) nel 2019.
Lo studio confronta gli effetti del Jobs Act sulla dinamica occupazionale tra le imprese con più di 15 dipendenti e quelle con meno di 15, con cambiamenti trascurabili.
Si scopre quindi che il Jobs Act ha sì aumentato il numero di contratti a tempo determinato del 60 per cento, ma ha aumentato anche i licenziamenti rispetto alle aziende non trattate. Una ricerca compiuta dagli economisti Valeria Cirillo, Marta Fana e Dario Guarascio dimostra anche che l’aumento dell’occupazione è avvenuto nei settori meno specializzati.
Anche lo studio sulla Regione Veneto di Paolo Sestito ed Eliana Viviano, economisti della Banca d’Italia, mostra l’impatto significativo in termini occupazionali a fronte di una minor selezione dei lavoratori. Son diversi gli studi (tra cui quello di Michele Catalano ed Emilia Pezzola) che dimostrano come il Jobs Act abbia prodotto un aumento del Pil e un calo della disoccupazione provocando però un calo della “quota salari”, ossia della parte di reddito nazionale che va ai lavoratori.
Sull’obiettivo fallito della creazione di nuovi contratti a tempo indeterminato cita un’analisi del think tank economico Tortuga secondo cui la riduzione del costo del lavoro attraverso la decontribuzione, ossia un incentivo economico, avrebbe avuto i suoi effetti nella lotta alla precarietà. Ma non si potrebbe dire lo stesso dell’incentivo legislativo, ossia il contratto a tutele crescenti, che non avrebbe avuto un impatto significativo.
Il motivo, secondo vari economisti, è che il contratto a tutele crescenti non è stato correttamente incentivato, a differenza di quanto accaduto per vari tipi di contratto a tempo determinato.
Quindi no, il Jobs Act non è stato salvifico e non è la pietra angolare delle riforme del lavoro negli ultimi anni. I renziani possono mettersi il cuore in pace e il centrosinistra potrebbe concentrarsi sulle riforme che servono. Sventolare un feticcio serve solo alla sopravvivenza politica del suo autore.
(da lanotiziagiornale.it)
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Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
DOPO TANTI VIAGGI, LA MELONI COME AL SOLITO HA FALLITO
Sono passati poco più di due mesi da quando Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni e Mark Rutte sono volati in Tunisia per firmare il memorandum d’intesa con il presidente Kais Saied. Doveva essere l’inizio di una cooperazione su più fronti – in primis, l’immigrazione – ma da allora i rapporti tra Bruxelles e Tunisi si sono progressivamente raffreddati. Fino all’ultimo criptico annuncio dato da Saied nella serata di lunedì 2 ottobre: il Paese nordafricano avrebbe deciso di rifiutare i fondi europei. «La Tunisia, che accetta la cooperazione, non accetta la carità né l’elemosina. Il nostro Paese e la nostra gente non vogliono pietà, ma esigono rispetto», ha tuonato Saied in un comunicato. La Tunisia, ha aggiunto, «respinge quanto annunciato nei giorni scorsi dall’Ue, non per l’importo in questione, perché tutta la ricchezza del mondo non vale un grammo della nostra sovranità, ma perché la proposta contraddice il memorandum d’intesa firmato a Tunisi nello spirito che ha prevalso alla conferenza di Roma del luglio 2022».
C’eravamo tanti amati
L’intesa raggiunta nei mesi scorsi prevedeva che Bruxelles versasse al Paese nordafricano centinaia di milioni di euro per stabilizzare le finanze e far fronte alle spese legate alla gestione dei migranti. In cambio, la Ue ha chiesto una mano alla Tunisia per non far salpare i barchini e contribuire a ridurre le partenze. A metà settembre, sorgono i primi problemi. Dopo la firma del memorandum d’intesa, una delegazione di europarlamentari si reca a Tunisi per una visita di due giorni organizzata, ma Saied gli nega l’ingresso nel Paese, mandando su tutte le furie gli eurodeputati.
Nei giorni immediatamente successivi, i Socialisti chiedono alla Commissione di sospendere il memorandum, mentre la premier Meloni chiede a von der Leyen di sbloccare al più presto i soldi da versare alla Tunisia. Da allora, la situazione è in stallo. O almeno lo era, fino ad oggi. Quando Saied ha annunciato, a quanto sembra, il rifiuto degli aiuti promessi da Bruxelles. «La Tunisia, come molti altri paesi, ha sofferto a causa dell’attuale sistema globale e non vuole esserne nuovamente vittima, così come non lo vogliono i paesi da cui provengono queste ondate migratorie – aggiunge Saied nella nota della presidenza tunisina -. Sono vittime di un sistema globale in cui mancano giustizia e rispetto per la dignità umana».
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DEL FRATELLO ALLA SORELLA PER MALTRATTAMENTI E SEQUESTRO DEL PADRE
Alberto Vitaloni, 88 anni, è l’ex presidente del Gruppo San Carlo. L’impero delle patatine nel 2022 ha avuto un fatturato di 323,8 milioni di euro, con un incremento del 16,3% rispetto ai 278,2 milioni del 2021. L’utile netto si è attestato a 15,8 milioni, in crescita del 193%. Il patron ha avuto ripetuti ictus cerebrali ischemici. Che, secondo il neurologo Giuseppe Lauria Pinter, lo hanno portato a ragionare come un bimbo di 5-6 anni». A capo dell’azienda c’è oggi la figlia Susanna. Che è però stata denunciata dal fratello Francesco. Che ha ipotizzato i reati di «violenza privata, circonvenzione di incapace, sequestro di persona e maltrattamenti nei confronti di un familiare». Ovvero il padre. Che da otto anni nessun medico visita. E oggi versa in uno stato di «demenza vascolare».
Le operazioni societarie
Ciò nonostante, racconta oggi il Corriere della Sera, Vitaloni continua a valutare le operazioni societarie. Alcune, secondo il figlio, sono milionarie. E vanno a vantaggio della sorella. Francesco sostiene anche di non sapere dove sia il padre. E nemmeno in quali condizioni versi e chi lo assista. Presumibilmente si trova in casa della sorella. Dove però gli è impedito l’ingresso. Ma non si tratta solo di una faida familiare. Nella storia ci sono due magistrati. Una è la dottoressa Rossana Guareschi, a cui il capo della Procura Marcello Viola ha appena deciso di affiancare il procuratore aggiunto Letizia Mannella «trattandosi di delicato procedimento penale che necessita di solerte trattazione». Intanto la procura di Brescia, competente per territorio, lavora all’esposto denuncia dei due avvocati di Francesco Vitaloni su Guareschi e sul giudice istruttore Giovanni Rollero. Il quale da presidente della sezione Tutele «avrebbe dovuto necessariamente disporre una consulenza tecnica medica con il solo scopo di verificare, in modo oggettivo, se Alberto Vitaloni fosse o meno in grado di intendere e volere».
Il desiderio di rivedere il figlio
I due avvocati Mario Marino e Carlo Taormina dicono anche che Alberto ha espresso il desiderio di vedere il figlio. Che sarebbe stato espresso in una delle udienze del tribunale. Ma questo, è il ragionamento dei legali, gli è in qualche modo impedito. Perché? «L’unica risposta plausibile è che ad Alberto Vitaloni gli accertamenti clinici non arrecherebbero nessun danno, mentre ci sarebbero problemi seri solo per Susanna Vitaloni e i suoi famosi professionisti (medici, avvocati, notai, manager) che fingono che Alberto Vitaloni stia bene, facendogli sottoscrivere atti di Consiglio d’amministrazione che non comprende, facendogli firmare email scritte dai professionisti della figlia, insomma facendogli compiere ogni tipo di atto necessario a Susanna per mezzo di firme e sottoscrizioni varie, vergate flebilmente da mano tremolante e da soggetto totalmente incapace».
Gli acquisti immobiliari
Al centro della contesa anche alcune operazioni immobiliari. Per esempio l’acquisto di due case e due posti auto in via Corridoni per la spesa di quasi cinque milioni di euro. E quello di una villa con i terreni circostanti in provincia di Olbia per altri due. Vitaloni avrebbe «comprato e poi donato la nuda proprietà a Susanna, che nulla ha pagato». L’inchiesta potrebbe ridisegnare gli assetti di Unichips Finanziaria, la holding di controllo delle partecipazioni in cui oggi Susanna è a capo. C’è anche un terzo fratello, Michele, che però è disabile. Francesco dice che non sa dove si trovi, se a Milano o altrove. Anche su questo, è l’ipotesi di chi accusa, il personale incaricato di seguirlo potrebbe aver firmato, in fase di assunzione e pena sanzioni, giuramenti per il silenzio.
(da Open)
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Ottobre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
ERA STATA PRESA A MANGANELLATE E LA SCENA ERA STATA RIPRESA DA UN VIDEO
Si chiude l’inchiesta che ha coinvolto Bruna, la 42enne brasiliana aggredita con calci e manganellate lo scorso 24 maggio da un gruppo di agenti della polizia locale nei pressi dell’Università Bocconi di Milano. La pm Giancarla Serafini, titolare del fascicolo con la procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano, ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari a tre dei quattro poliziotti – identificati anche grazie al video diventato virale sui social che testimoniò l’aggressione – accusati in concorso di lesioni personali aggravate dall’abuso della funzione pubblica. Ma c’è di più: due degli agenti sono indagati anche per falso in atto pubblico perché – secondo le accuse della Procura – nelle note di servizio sull’intervento di quel giorno avrebbero scritto cose non vere.
La ricostruzione «falsa» degli agenti
In quell’occasione gli agenti avevano dichiarato che erano arrivati sul posto per aiutare un collega che aveva chiesto aiuto alla centrale operativa per gestire una persona «molesta», ovvero Bruna. Secondo il loro racconto, la donna «mostrava nudità in presenza di donne e bambini e urinava davanti a tutti» e – dopo essere stata accompagnata in macchina per essere portata in caserma – avrebbe dato pesanti testate contro i finestrini dell’auto «lesionandosi il capo che sanguinava». Ma non solo. Sempre secondo la ricostruzione degli agenti, avrebbe anche finto un malore durante il viaggio verso la sede della polizia locale al solo fine di tentare una via di fuga. Una dinamica dei fatti che – nell’avviso di chiusura delle indagini – viene bollata come falsa perché «smentita dalla successiva attività investigativa».
La dinamica dei fatti secondo gli inquirenti
La ricostruzione degli inquirenti, infatti, stabilisce che uno dei tre agenti avrebbe sbattuto a terra la 42enne. Per poi spruzzarle contro la sostanza urticante in dotazione, nonostante la donna fosse in posizione di resa. Pochi istanti dopo, un secondo vigile le avrebbe bloccato le spalle contro una recinzione lì presente. A quel punto – il terzo vigile – l’avrebbe colpita prima alla testa con il bastone distanziatore e poi al fianco sinistro. Ora la Procura potrebbe chiedere il rinvio a giudizio dei tre poliziotti, i quali – dal canto loro – hanno sempre rivendicato di aver scritto la verità nella relazione inviata al Comando con la ricostruzione della vicenda, prima che alcuni cittadini riprendessero l’intervento con il cellulare.
(da agenzie)
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