Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile GERACI AVREBBE TENTATO DI MODIFICARE IL PERCORSO PER “OMAGGIARE” CON L’INCHINO VINCENZO CIVILETTO, CONDANNATO PER ASSOCIAZIONE MAFIOSA
Avrebbe tentato di modificare il percorso della processione del
venerdì santo a Cerda (Palermo) per fare l’inchino davanti la casa del boss Vincenzo Civiletto, condannato all’appello bis a otto anni e dieci mesi lo scorso maggio per associazione mafiosa.
A queste conclusioni è giunta la procura di Termini Imerese chiudendo le indagini preliminari e inviando un avviso all’attuale sindaco leghista di Cerda Salvatore Geraci.
I reati contestati sono tentata concussione, abuso d’ufficio e minaccia aggravata. Per l’accusa, Geraci nell’aprile del 2022 avrebbe provato a modificare il tragitto del corteo, stabilito dalla questura di Palermo, per farlo passare da piazza Generale Cascino, dove vive il boss mafioso. Geraci, riconfermato sindaco a maggio dopo un primo mandato iniziato nel 2018, è anche deputato all’assemblea regionale siciliana dove è stato eletto nel partito di Cateno De Luca con 4mila voti, prima di passare al Carroccio.
Il primo cittadino su Facebook ha scritto di avere fiducia sull’esito della vicenda: «Credo nella giustizia e nel lavoro della magistratura».
La vicenda
«Io te la metto nel c**o così come te l’ho sempre messa nel c**o a te e ai tuoi amici», avrebbe detto al capo della polizia municipale Giuseppe Biondolillo, secondo le conversazioni riportate su Il Fatto Quotidiano.
E ancora: «Quando parlo io devi stare fermo, zitto e sull’attenti, non gesticolare. Ti ho dato una possibilità e te la sei giocata, tu devi fare ciò che ti dico io. Prendi carta e penna e scrivi al questore e guai a te se stasera per la processione fai una cosa diversa».
Biondolillo avrebbe dovuto solo eseguire l’ordine del sindaco per far transitare la processione sotto casa di Civiletto, arrestato all’interno dell’operazione Black cat nel 2016. Ma nulla di fatto, il questore di Palermo Leopoldo Laricchia non ha modificato il percorso e il venerdì santo è proseguito lungo la strada prevista.
Alle minacce del sindaco, per la procura, sarebbero però seguiti i fatti: una multa e un provvedimento disciplinare per Biondolillo. Per l’accusa una decisione «sulla base di presupposti inesistenti e per mera ritorsione».
Nel fascisolo aperto dalla procura guidata da Ambrogio Cartosio c’è anche un altro cambio di percorso, questa volta riuscito.
L’occasione è la 40esima edizione della Sagra del carciofo, in aprile 2022, che doveva rispettare il regolamento comunale sul pagamento della Tosap (tassa occupazione spazi e aree pubbliche). Ma il sindaco Geraci ha firmato un’ordinanza che prevedeva un’esenzione del pagamento in violazione dello stesso regolamento. Secondo l’accusa un «danno ingiusto derivante dal mancato introito pari alle tasse non pagate e un vantaggio ingiusto derivante dal risparmio di determinati commercianti creando un trattamento non equo».
la richiesta dalla commissione antimafia .
Nel frattempo è in gioco anche la sua posizione all’interno della commissione antimafia dell’assemblea regionale. Il deputato Ismaele La Vardera, ex alleato di partito dopo la fuoriuscita di Geraci, ne chiede le dimissioni: «Credo che sia giusto che la magistratura faccia il suo corso, ma ritengo pure che l’onorevole Geraci debba dimettersi dalla commissione antimafia per l’onorabilità della stessa commissione di cui sono vicepresidente. Non possiamo permetterci che su un componente della commissione antimafia penda un sospetto così grave».
(da Open)
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Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile IL BLITZ DELLA LEGA CONTRO IL PRESIDENTE ACQUAROLI
Un blitz tentato, una battaglia che sta per esplodere. Non si combatte a Roma, ma le conseguenze rischiano di arrivare presto. Matteo Salvini continua a ripetere che il governo è solido, «dureremo 5 anni». Basta spostarsi, però, nelle Marche, un tempo scenario del modello di governo del centrodestra a guida Fratelli d’Italia, per vedere le cose da un’altra prospettiva: la Lega sta facendo ballare in maniera sempre più decisa il governo regionale, guidato dal fedelissimo di Giorgia Meloni Francesco Acquaroli, chiedendo un rimpasto che il governatore di Fratelli d’Italia non vuole assolutamente.
Tutti sanno che toccare Acquaroli vuol dire toccare Meloni, e allora la sensazione di molti in via della Scrofa è che stia iniziando una guerra per procura. Se ne parlerà probabilmente anche domani al vertice del centrodestra sulle candidature. Anche perché anche in Abruzzo e Sardegna si registrano fibrillazioni simili e il sospetto dei meloniani è che Salvini voglia recuperare nei territori i consensi persi in questi anni.
L’assalto leghista non si produce in un territorio qualunque: le Marche sono state per la premier il grande laboratorio, la prima Regione conquistata (insieme all’Abruzzo), la prova provata di avere le carte in regola per poter governare. A lungo si è parlato, infatti, di modello Marche, tanto che Meloni nell’agosto del 2022 ha scelto Ancona per aprire la campagna elettorale che l’ha portata a Palazzo Chigi. Per poi tornare in piazza del Popolo in occasione delle elezioni comunali, alle quali per la prima volta dal dopoguerra la destra ha conquistato il capoluogo.
Il fatto che questa storia non sia solo una vicenda locale lo dimostra che il blitz leghista, almeno secondo quando ricostruiscono in FdI, sia partito con una visita di Salvini a Macerata venerdì scorso.
L’occasione formale era la presentazione di due consiglieri regionali passati nel gruppo del Carroccio, una dal M5S e un altro, ex Pd, da una lista civica.
Altro motivo per giustificare la trasferta del segretario era l’annuncio della candidatura al Parlamento Europeo di Mirco Carloni, deputato e presidente della commissione Agricoltura, «ma Carletti è di Fano, perché lanciare la candidatura a nove mesi dalle elezioni e a 100 chilometri da casa sua?», si sono chiesti in Fratelli d’Italia.
Ci dev’essere di più. E infatti c’era di più. Il giorno dopo, infatti, la leader marchigiana del Carroccio, Giorgia Latini, anche lei deputata, comunica ad Acquaroli la volontà di sostituire i tre assessori leghisti in giunta.
In particolare, le mire si rivolgono al responsabile della sanità, Filippo Saltamartini, i cui magri risultati stanno, secondo le analisi interne, pesando sul crollo dei consensi della Lega.
Acquaroli, però, non ci sta, vuole stabilità, anche perché solo un anno fa ha dovuto sostituire gli assessori eletti in Parlamento (tra i quali gli stessi Latini e Carloni) e rischia di perdere anche l’unico assessore di Forza Italia, che punta a candidarsi a sindaco di Fano. Secondo un retroscena del Corriere Adriatico, molti consiglieri temono che la consiliatura possa essere arrivata al capolinea.
I giorni successivi alla visita di Salvini sono stati segnati da riunioni finite con grida, tensioni sfociate in minacce e anche di proteste della Confindustria locale che teme di vedere nominato il terzo assessore allo Sviluppo economico in meno di tre anni, che in un territorio di alta tradizione industriale è un’anomalia difficile da spiegare. Acquaroli evita commenti e lascia filtrare che una soluzione si troverà, a Roma però sono meno ottimisti, anche perché alle Europee mancano oltre otto mesi.
(da La Stampa)
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Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile IL TUTTO MENTRE NELLA CAPITALE TROVARE UN’AUTO BIANCA È DIVENTATA UN’IMPRESA, GLI AUTISTI DECIDONO QUALI CORSE ACCETTARE E QUALI NO
Niente fasce orarie, quota fissa di partenza più che raddoppiata,
otto euro anziché tre, corse brevi più care e a bordo pagano anche i cani. L’Unione radiotaxi d’Italia ha pronto un dossier di quattordici pagine con dentro le sue proposte sul servizio pubblico non di linea da portare al tavolo della commissione creata ad agosto dal Campidoglio con il compito di rivedere le tariffe delle auto bianche a Roma su forte insistenza dei tassisti.
Tuttavia gli autisti, gli stessi che spesso decidono quale corsa accettare e quale no, gli stessi che non si posizionano alla stazione Termini ma preferiscono l’aeroporto di Fiumicino, sparano alto con le loro richieste facendo leva sull’aumento dei costi e sul fatto che il regolamento risale al 2012 anche se, in realtà, c’è stato un aggiornamento nel 2021
Attualmente vi è una quota fissa di partenza: 3 euro nei giorni feriali, 5 euro nei festivi e infine 7 euro in notturna dalle 22 alle 6. A questa tariffa si aggiungono 1,14 euro a chilometro fino a quando il tassametro arriva a 11 euro, poi il costo passa a 1,35 euro fino ai 13 euro e sale ancora a 1,66 euro nelle corse più lunghe fino a fine percorso.
Nella proposta della più grande associazione di categoria dei tassisti la quota di partenza schizza a otto euro, sempre e comunque.
Nel dettaglio, se il cliente prende un taxi per strada o in una stazione delle auto bianche o se invece lo prenota « la quota di corsa minima» non cambia. Nei giorni feriali il primo scatto del tassametro arriva dopo 4,38 chilometri, nei festivi dopo 2,63 km e nelle ore notturne dopo meno di un km, ovvero dopo 880 metri.
Per quanto riguarda gli importi tariffari, rispetto alle tre tariffe in vigore oggi, nella proposta si registrano aumenti non da poco. Fino ai 10 euro il costo sarebbe di 1,20 euro a chilometro al posto di 1,14. Fino ai 25 euro ogni chilometro percorso costerebbe 1,45 euro e oltre i 25 euro la tariffa, proposta dai tassisti, salirebbe a 1,70 euro per chilometro.
E poi ancora l’Unione Radio taxi propone l’istituzione di una corsa minima dagli aeroporti pari a 15 euro, ogni bagaglio oltre il primo costerebbe un euro indipendentemente dalle dimensioni, mentre una valigia di dimensioni extra costerebbe tre euro posarla nel portabagagli di un auto bianca. Dal quarto passeggero, i tassisti propongono il pagamento di un supplemento di tre euro a persona «al fine di incentivare un uso collettivo del mezzo».
(da Dagoreport)
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Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile L’EX SEGRETARIO PD A “OGGI”: “ALLA DESTRA CHE PARLA COME AL BAR BISOGNA RISPONDERE COME AL BAR”
In un’intervista a Luca Telese per OGGI, in edicola da domani, l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, oggi senza più incarichi in politica ma militante attivissimo, spiega perché dopo le polemiche sul libro del generale Vannacci ha deciso di intervenire con espressioni colorite:
«Quando ho letto che c’era un grande dibattito intorno alle parole di un tizio che rivendicava “il diritto all’odio”, sosteneva che “gli omosessuali sono anormali”, che gli ebrei hanno avuto la Shoah ma non devono lagnarsi troppo, e poi, addirittura, che le femministe sono fattucchiere…. Beh, mi sono un po’ incazzato. È grave? Non si può più dire?».
E spiega: «Invece di parlare del contenuto, e cioè di queste bestialità, ci si interrogava sul tema nobilissimo della libertà di opinione… A me frega zero del dibattito se un generale possa parlare. A me interessa non far passar lisce quelle bestialità: siccome quelli sono ragionamenti da bar, la libertà di opinione non c’entra un tubo. C’entra molto, invece, il modo in cui si discute nei bar, di cui io sono un cultore. Nei bar delle mie parti ci sono cresciuto».
E continua: «Nel bar gli italiani si “sfogano”. Ovvero: si liberano delle costrizioni sociali, dei condizionamenti di ruolo e di condizione… Se nel Bar Italia, in nome della libertà di opinione, un generale può arrivare a sostenere che un omosessuale è un anormale, io potrò dire che un generale è un coglione?».
Bersani parla delle modalità di comunicazione della destra e dice: «Loro entrano nel bar e saltano sul tavolo gridando. Allora la domanda è: noi che cosa facciamo?
“Noi”, la sinistra? Vedo che c’è un istinto di molti, “politicamente coretti”, che suona così: “Che brutte cose si dicono in questo bar! Quante parolacce! In questo brutto posto non entro!”». Ed è sbagliato? Che cosa bisogna fare? «Seguo il mio istinto. Entro nel bar Italia, prendo cappello, punto quelli che gridano più forte e parto: “Ma che balle racconti?”».
(da Oggi)
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Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile COGOLETO, I TRE CONSIGLIERI (FDI E LEGA) “CUOR DI LEONE” HANNO INVIATO LETTERA DI SCUSE E SI SONO OFFERTI DI RISARCIRE IL COMUNE E IL “TRENO DELLA MEMORIA”
Hanno inviato una lettera di scuse e hanno offerto un
risarcimento al Comune di Cogoleto, in provincia di Genova, e all’associazione “Treno della memoria” di Torino per pagare i viaggi ad Auschwitz.
I consiglieri comunali di minoranza del comune – Valeria Amadei (Fratelli di Italia), Francesco Biamonti (Lega) e Mauro Siri (indipendente) – che nel 2021 avevano votato alcuni ordini del giorno con il saluto romano proprio il 27 gennaio, giorno della Memoria, hanno avanzato queste proposte per concludere il processo a loro carico.
I tre sono infatti indagati per la violazione della legge Mancino del 1993 che condanna gesti e slogan di matrice nazifascista. L’ipotesi di trattativa è emersa alla prima udienza del processo. In seguito allo scoppio del caso, Siri e Baiamonti si erano poi dimessi. Tutti i consiglieri si erano comunque difesi sostenendo che non fosse loro intenzione riproporre il saluto fascista. Siri, assistito dall’avvocato Alessandro Sola, ha affermato di essere da sempre antifascista e che il braccio teso si spiegava da una sua difficoltà nel piegarlo. Baiamonti e Amedei, seguiti dai legali Giacomo Gardella e Mauro Frigerio, hanno spiegato che era solo un «voto scomposto».
Per il pm Cardona Albini, il loro gesto andava comunque catalogato come un gesto criminoso perché «da consiglieri di minoranza compivano manifestazioni usuali ai gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione, o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»
Ora per evitare il processo, la marcia indietro
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile DOPO CATANIA, ANCHE IL TRIBUNALE DI FIRENZE ANNULLA L’ESPULSIONE DI UN TUNISINO
La Farnesina deve rivedere il proprio giudizio sulla sicurezza della Tunisia alla luce degli ultimi avvenimenti ma anche di pareri negativi e preoccupazione per il mancato rispetto dei diritti umano espressi a settembre sia dall’Unhcr sia dalla Commissione Europea dopo gli accordi firmati con il presidente tunisino Kais Saied che prevedono sostegno economico da parte della Ue ma garanzie sul rispetto dei diritti umani.
C’è un lungo e dettaglio elenco di eventi e pronunce nel provvedimento con cui il tribunale di Firenze ha accolto il ricorso di un tunisino espulso ritenendo che non possa essere rimandato in Tunisia perché Paese non sicuro.
I giudici ritengono che la valutazione fatta dalla Farnesina non sia stata aggiornata alla luce degli eventi come invece prescrive la legge e dunque richiamano l’obbligo del potere giudiziario di intervenire a tutela. Un’altra picconata al decreto Cutro firmata da un organo questa volta collegiale
Quello del tribunale di Firenze è il secondo provvedimento in pochi giorni dopo quello della giudice del tribunale di Catania Iolanda Apostolico che ha disapplicato la parte del decreto Cutro che prevede il trattenimento dei richiedenti asilo che arrivano da Paesi sicuri in attesa dell’esito delle procedure accelerate di frontiera, disponendo la liberazione dei primi richiedenti asilo tunisini che erano stati reclusi nel centro dedicato di Pozzallo.
Ma mentre la sentenza di Catania non prende affatto in esame la definizione di Paese sicuro della Tunisia, i giudici di Firenze ritengono che la Farnesina debba escludere il Paese dalla lista di quelli sicuri. Una valutazione che naturalmente mette totalmente in discussione la legittimità degli accordi presi dalla premier Meloni e dalla Ue con Saied.
La Tunisia non è un Paese sicuro: non rispetta democrazia, stato di diritto, separazione dei poteri, diritti umani.
Dopo il tribunale di Catania, è quello di Firenze ad assestare un colpo ancor più duro a uno dei pilastri della politica sull’immigrazione.
Non solo, disapplicando il decreto emanato dopo la strage di Cutro, annulla l’espulsione di un migrante tunisino a cui il Viminale aveva negato lo status di rifugiato. Ma smonta in generale l’appeasement con l’autocrate Saied.
La vicenda fiorentina nasce da un provvedimento della commissione prefettizia che aveva negato a un tunisino la protezione internazionale richiesta dopo l’approdo in Italia. Considerando la Tunisia un «Paese sicuro», il Viminale può infatti rifiutare le domande di asilo senza una specifica motivazione ed espellere il migrante con «procedura accelerata», senza attendere la pronuncia definitiva della Cassazione.
La lista dei «Paesi sicuri» viene stilata e aggiornata periodicamente dal governo. La prima risale al 2019. Il governo Meloni l’ha aggiornata e ampliata a marzo, pochi giorni dopo la strage di Cutro.
Tra i «Paesi sicuri» c’è la Tunisia. Il più strategico nell’emergenza immigrazione, sia per gli sbarchi che per i rimpatri. Tanto che la premier Giorgia Meloni ha sostenuto un Memorandum con finanziamenti per centinaia di milioni di euro. E pochi giorni fa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha incontrato a Palermo il collega tunisino.
Ma la Tunisia è ancora un Paese sicuro, come sostiene il governo? No, sostiene il tribunale di Firenze, accogliendo il ricorso del richiedente asilo contro il Viminale e sospendendone pertanto l’espulsione.
Il migrante tunisino non si era dichiarato vittima di particolari persecuzioni, ma aveva posto una questione generale: «La grave crisi socioeconomica, sanitaria, idrica e alimentare, nonché l’involuzione autoritaria e la crisi politica in atto sono tali da rendere obsoleta la valutazione di sicurezza compiuta a marzo dal governo italiano».
Il tribunale di Firenze, da sempre tra i più avanzati in materia di immigrazione, si è posto innanzitutto una questione di competenza.
Può un giudice sindacare la valutazione di sicurezza di un Paese fatta dal governo? Risposta: non solo può, «ma deve».
Perché è vero che l’Ue consente (non obbliga) di stilare liste di «Paesi sicuri» con regole semplificate e procedure accelerate, ma «il sacrificio dei diritti dei richiedenti asilo non esonera il giudice dal generale obbligo di verifica e motivazione in ordine ai profili di sicurezza del Paese, sia con riferimento al rischio determinato da ragioni peculiari del singolo richiedente, sia in ordine alla sussistenza si violenza indiscriminata prodotto da un conflitto armato interno o internazionale».
Dunque, la lista non può essere arbitraria o fondata su convenienze politiche, ma deve essere stilata «all’esito di una procedura amministrativa e fondata su informazioni raccolte da fonti qualificate (come Onu e Consiglio d’Europa), e costantemente aggiornate».
Ferma la «separazione dei poteri» e senza invadere la sfera politica, al giudice spetta «una garanzia di legalità supplementare» in ossequio a norme internazionali e costituzionali, che prevalgono sui decreti del governo.
I giudici, quindi, vivisezionano gli atti del governo. «La Tunisia è investita da una grave crisi democratica, con una significativa concentrazione di tutti i poteri in capo al presidente Saied», riconosce la Farnesina. Che però non la considera «sufficiente per escludere il Paese dalla lista di quelli sicuri». Pur riconoscendo che «Saied ha adottato nei mesi scorsi un decreto con cui ha unilateralmente destituito 57 giudici», non trae la conseguenza di «una limitazione dell’indipendenza dei magistrati».
Secondo il tribunale, che cita organismi e media internazionali (da Amnesty International al New York Times) la valutazione del governo è anacronistica, alla luce dei «recentissimi e gravi sviluppi». I giudici cacciati da Saied non sono mai stati reintegrati. Due sono stati coinvolti «negli arresti di massa» di febbraio, dunque un mese prima del decreto del governo Meloni.
E lo stesso Saied ha affermato – dichiarazione che alla luce delle recenti polemiche italiane suona sinistra – che «qualunque magistrato avesse osato esonerare dalle loro responsabilità gruppi criminali sarebbe stato considerato loro complice».
Quanto alle elezioni del 2022, valorizzate dal governo Meloni come democratiche anche se ha votato il 9% degli elettori, i giudici fiorentini ricordano che Saied «ha sostituito gli osservatori internazionali con persone di fiducia». E poche settimane fa «la Tunisia ha vietato l’ingresso di una delegazione del Parlamento Europeo».
Infine, «ulteriore rilevantissimo profilo», l’Onu ha denunciato «condizioni terribili» cui vengono costretti gli stranieri che chiedono asilo in Tunisia. Si tratta di uno dei motivi di «preoccupazione» che hanno indotto l’Ue a frenare il memorandum voluto dalla premier Meloni.
Dunque il tribunale disapplica il decreto del governo, e riconosce al migrante «il diritto a permanere sul territorio nazionale». Il decreto ha efficacia solo sul caso concreto, ma le argomentazioni sono generali e destinate a sollevare nuove polemiche. Il governo potrà fare ricorso”.
(da Globalist)
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Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile CON LA NUOVA FORMULAZIONE SARANNO GLI ISTITUTI A DECIDERE SE PAGARE O VINCOLARE UNA SOMMA PARI A 2,5 VOLTE L’IMPOSTA PER IL RAFFORZAMENTO PATRIMONIALE. I GRANDI GRUPPI PREFERIRANNO APRIRE IL PORTAFOGLIO, I PIÙ PICCOLI NON PAGARE
All’inizio di agosto il governo prevedeva che dalla tassa sugli
extraprofitti delle banche sarebbe derivato un incasso di «diversi miliardi». Qualcuno diceva 4, altri 6, e c’era chi aveva sparato addirittura 10. A due mesi di distanza, il più in sordina possibile, di quella tassa è rimasto proprio poco.
La norma è stata rivista più volte, ormai è certo che i miliardi che entreranno nelle casse dello Stato saranno sicuramente meno di quelli stimati inizialmente e peraltro l’incasso non dipende nemmeno più dal governo, ma dalle scelte degli istituti di credito.
Tutto questo per effetto dell’ultima revisione inserita con un emendamento al Dl asset, che nella sostanza non la rende più una tassa. Tutti gli istituti di credito avranno infatti l’opzione tra pagare una somma (comunque inferiore a quelle inizialmente preventivate) oppure rafforzare il proprio patrimonio e vincolare a riserva una somma pari a 2,5 volte l’imposta. Risultato? Potenzialmente, l’incasso potrebbe essere zero
Non a caso non c’era alcuna stima di questa tassa nella relazione tecnica preludio della Nadef e una volta modificata la norma, nella Nadef vera e propria della scure sugli extraprofitti non c’è traccia.
Di fatto, il Ministero dell’Economia e delle Finanze aveva poca scelta, visto che l’interlocuzione con la Bce in merito alla tassa aveva chiarito in maniera inequivocabile che il lavoro fatto era sostanzialmente un pasticcio. La norma così come era stata presentata non avrebbe passato in alcun modo il vaglio della Banca Centrale Europea. E così sono state apportate le modifiche.
La nuova formulazione abbassa l’impatto complessivo dell’incasso. Il calcolo è complesso perché ci sono alcuni parametri la cui interpretazione differisce, come quelli che portano a calcolare l’RWA (risk weighted assets), ossia le attività ponderate per il rischio, in ogni caso escludendo dal calcolo i titoli di Stato.
Non solo, ma non è ancora chiaro se ai fini del conteggio verranno presi in considerazione solo gli attivi italiani o gli attivi complessivi degli istituti. Il risultato della simulazione di Kearney evidenzia importi inferiori per istituti come Intesa Sanpaolo e Unicredit e importi leggermente superiori per banche come Banco Desio, CR Asti o CR Bolzano. Il calcolo per istituti di dimensioni ancora inferiori, come molte delle Bcc italiane, non c’è, ma non si possono escludere importi in rialzo.
La presenza però dell’opzione per le banche tra pagare o vincolare gli importi a riserva porta a pensare che tutti gli istituti che riterranno di non avere necessità di rafforzamento patrimoniale opteranno per pagare, mentre gli altri provvederanno all’accantonamento.
Alcuni osservatori prevedono che molte piccole banche opteranno per tenere gli importi all’interno del gruppo e che forse invece i grandi gruppi, considerando che la riserva vale 2,5 volte la tassa, preferiranno pagare. Ma al momento si tratta di ipotesi. In sostanza, qualcuno al Mef fa notare che le piccole banche non saranno per forza penalizzate, perché (come le grandi in realtà) avranno l’opzione di non pagare. Quel che è certo è che l’impianto, l’impostazione e persino le finalità che si prefiggeva l’operazione immaginata dal governo in agosto, sono di fatto sparite.
(da La Stampa)
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Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile LA MOSSA È APPARSA UN “BARATTO” PER OTTENERE UN CONDIRETTORE DELLA TGR (ROBERTO GUELI)… IL NUOVO SEGNALE DI “INCIUCIO” SU VIALE MAZZINI TRA MELONI IL “CARISSIMO NEMICO” CONTE
La commissione di Vigilanza Rai ha approvato il parere sul contratto di servizio della televisione pubblica: con la maggioranza ha votato anche il Movimento 5 stelle. Nelle parole dei grillini, l’avallo del Movimento al parere su un contratto di servizio ampiamente criticato per i suoi contenuti arriva come gesto di responsabilità a sostegno di quelle trasmissioni come Report, Presa Diretta, Indovina chi viene a cena? e altre che interpretano in maniera così importante il ruolo dell’informazione del Servizio pubblico come cane da guardia del potere». Hanno votato contro il parere Pd, Iv e Avs, Azione si è astenuta.
Contemporaneamente procede la partita sulle nomine in arrivo per la Tgr: il Movimento avrebbe volentieri un vicedirettore d’area per il meridione. Si fa già il nome di Roberto Gueli, attualmente vicedirettore, per quando Roberto Pacchetti – quota Carroccio – sarà, quasi sicuramente, promosso direttore. Senz’altro ora il candidato d’area pentastellata avrà una possibilità in più.
Non sarebbe la prima volta che a viale Mazzini i Cinque stelle avallano le decisioni della maggioranza: il consigliere d’amministrazione d’area Alessandro di Majo infatti non ha votato contro le nomine proposte dai vertici meloniani d’azienda durante la scorsa estate.
La decisione dei grillini in commissione Vigilanza spacca le opposizioni e allarga la faglia che corre tra quelli che erano gli ex alleati del campo largo: «Dispiace che i 5 stelle abbiamo votato a favore di una Rai che, a reti unificate, vorrebbe propagandare le gesta del governo di destra. Noi ci opporremo a questo disegno» ha detto Sandro Ruotolo, responsabile Informazione e Cultura del Partito democratico.
È un copione ormai collaudato. Che si ripete sempre uguale quando, in Rai, c’è in ballo qualche nomina. È allora che il M5S cambia improvvisamente casacca, riscoprendosi poco di opposizione e molto filogovernativo pur di ottenere le agognate poltrone alla guida di telegiornali, strutture, programmi o società controllate. Meglio se strappate al Pd, il partito rivale con cui sulla carta dovrebbe essere alleato.
Il risultato è un grande inciucio tra Giuseppe Conte e i Fratelli di Meloni che va avanti da mesi e fa godere i nuovi “padroni” di Viale Mazzini: il centrosinistra ne esce con le ossa rotte, indebolito da veleni e reciproche accuse; la maggioranza, vieppiù legittimata dall’appoggio esterno del Movimento, può completare indisturbata la trasformazione del servizio pubblico nel megafono dell’esecutivo sovranista.
Il baratto andato in scena in Vigilanza riguarda stavolta la TgR, una testata strategica in vista delle prossime elezioni, i cui incarichi di vertice sono appena scaduti. Fra marzo e giugno si voterà non solo in regioni importanti come Piemonte, Abruzzo e Sardegna (dove peraltro è stato promosso capo Ignazio Artizzu, fino a un paio di mesi fa responsabile stampa del governatore Solinas), ma anche in oltre 4mila comuni: conquistare una delle postazioni di comando nell’informazione locale diventa dunque fondamentale ai fini del consenso.
Ecco perché, dopo aver fallito — prima dell’estate — l’assalto al Tg3 rimasto saldamente in mano a Mario Orfeo, Conte ha puntato la casella del condirettore della TgR in quota opposizione. Il direttore salviniano, Alessandro Casarin, è stato appena riconfermato e non è in discussione.
L’altro numero 2, Roberto Pacchetti, è un leghista di provata fede che nemmeno la scivolata sulla promozione della moglie a vice- caporedattore della sede lombarda (su cui lui aveva la delega, poi rimessa) ha scalfito. A traballare è quindi Carlo Fontana, che il Pd avrebbe voluto mantenere. Conte si è però messo in mezzo. E ha chiesto di piazzare al suo posto l’attuale vice Roberto Gueli. La risposta non si è fatta attendere: in cambio del via libera, il M5S avrebbe dovuto dire sì al parere sul contratto di servizio elaborato dal centrodestra in Vigilanza.
È la chiave che spiega quanto è accaduto a palazzo San Macuto al termine di una mattinata concitata, allorché la maggioranza decide di forzare e di mettere ai voti la bozza messa a punto dal relatore Maurizio Lupi, disconosciuta dalla minoranza.
D’altra parte era già successo a giugno. Quando, a sorpresa, il consigliere grillino nel Cda Rai, Alessandro Di Majo, aveva approvato tutte le nomine alla direzione di Tg, generi e partecipate proposti dall’ad Roberto Sergio appena insediato dal governo Meloni. Anche allora Conte lanciò un salvagente alla destra e ottenne diverse poltrone per i suoi. Un copione collaudato.
(da Domani)
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Ottobre 4th, 2023 Riccardo Fucile MA FABRIZIO DEL NOCE E GLI ALTRI 3.500 ITALIANI NEL PAESE POSSONO STARE TRANQUILLI: LO STOP NON È RETROATTIVO… ORA LE METE PIU’ VANTAGGIOSE SONO LA GRECIA DOVE SI PUO’ SFRUTTARE LA FLAT TAX AL 7% PER DIECI ANNI E CIPRO, PAGANDO UN’ALIQUOTA MASSIMA DEL 5%
Sfuma il sogno di una pensione d’oro e defiscalizzata al sole
dell’Algarve. Il primo ministro Antonio Costa ha deciso che il Portogallo, a partire da gennaio 2024, non sarà più il Paradiso senza tasse per i senior europei. E tra questi ci sono molti italiani, più o meno famosi.
Mantenere l’esenzione fiscale, ha detto il premier socialista, «equivarrebbe a prolungare una misura di ingiustizia fiscale ingiustificata e sarebbe un modo indiretto per continuare ad aumentare i prezzi nel mercato immobiliare». Per la serenità di chi ha già conquistato lo status di «residente non abituale» (con obbligo di vivere almeno sei mesi all’anno, anche non continuativi, nel Paese) Costa ha però precisato che la misura non sarà retroattiva.
La decisione era nell’aria da tempo. Il governo aveva dato una prima stretta nel 2020, eliminando l’esenzione totale introdotta undici anni prima per attirare capitali stranieri ed introducendo un’aliquota del 20% per professionisti e nomadi digitali e del 10% per i pensionati, per un periodo complessivo di dieci anni. Poco o nulla rispetto alla tassazione di molti Paesi europei, quindi la transumanza di teste argentate è continuata, soprattutto da Italia e Francia.
Secondo i dati Inps, oltre 3.500 nostri connazionali in pensione (su un totale di circa 10.000 stranieri) hanno scelto di trasferirsi a Lisbona, Porto o in Algarve. Tra questi, imprenditori, giornalisti e anche qualche semplice impiegato che ha potuto comprare casa in Lusitania grazie ai bassi tassi d’interesse dei mutui.
L’«invasione della Terza età», assieme all’esplosione degli affitti turistici brevi, ha provocato un’impennata dei prezzi degli immobili. Tra il 2012 e il 2021, ha certificato uno studio della Fondazione Francisco Manuel dos Santos, il costo degli alloggi è cresciuto del 78% in Portogallo, rispetto al 35% medio dell’Unione europea.
Il governo ha detto stop con una serie di misure: affitto obbligatorio degli appartamenti sfitti da più di due anni nelle zone più popolate e con maggiore carenza di alloggi, tasso del mutuo ridotto per due anni per quasi un milione di famiglie in difficoltà, blocco dell’aumento degli affitti al 2% annuo e stop ai «visti d’oro».
I governi di Lisbona e Roma sottoscrissero nel 1976 un regime di «non doppia imposizione fiscale» — come avviene per altri Paesi europei — per cui i pensionati «espatriati» pagano le tasse solo in Portogallo, beneficiando al contempo di un costo della vita molto più basso rispetto all’Italia. «In Portogallo sto benissimo. In Italia c’è una politica punitiva per i pensionati, io non rubo a nessuno», aveva dichiarato l’ex deputato di Forza Italia e direttore Rai Fabrizio Del Noce, durante la trasmissione L’aria che tira su La7 alcuni anni fa.
(da Il Corriere della Sera)
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