Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
“L’ELEZIONE DIRETTA DEI PRIMI MINISTRI È UNA CATTIVA IDEA CON SCARSI RISULTATI. ISRAELE CI HA PROVATO NEL 1992. MENO DI DIECI ANNI DOPO, HA ABBANDONATO L’ESPERIMENTO PERCHÉ NON ERA RIUSCITO A PORTARE LA STABILITÀ PROMESSA. NESSUN ALTRO PAESE HA SEGUITO L’ESEMPIO DI ISRAELE, IL CHE DOVREBBE DIRVI QUALCOSA. LA MELONI DOVREBBE ABBANDONARE LA RIFORMA E CONCENTRARSI SULL’INFLAZIONE, SU UN’ECONOMIA STAGNANTE E SULL’ETERNO PROBLEMA DELL’ELEVATO DEBITO ITALIANO”
I politici taliani non possono resistere a cambiare le regole. Quasi tutti i governi negli ultimi vent’anni hanno cercato di introdurre una nuova legge elettorale, una riforma costituzionale o un cambiamento nel rapporto tra centro e regioni. Questi progetti divorano tempo ai lavori parlamentari e, nel caso delle riforme costituzionali, raramente hanno successo.
Qualsiasi modifica alla costituzione italiana post-Mussolini del 1948 richiede una maggioranza parlamentare di due terzi, qualcosa di cui nessun governo moderno ha goduto. In mancanza di ciò, la riforma potrà essere sottoposta a referendum. Se approvata dagli elettori, potrà comunque essere respinta dalla Corte costituzionale.
Imperterrita, la coalizione populista-conservatrice di Giorgia Meloni vuole fare tutte e tre le cose. Un disegno di legge volto a conferire maggiori poteri ai governi regionali italiani è già inParlamento. E il 3 novembre il primo ministro ha annunciato “la madre di tutte le riforme”: un disegno di legge che modificherebbe la costituzione e richiederebbe una nuova legge elettorale. Il suo gabinetto ha appena approvato il suo piano, anche se i dettagli saranno sicuramente modificati quando sarà inviato al parlamento.
Alcuni degli obiettivi della Meloni sembrano ragionevoli. Dice che vuole dare all’Italia la stabilità politica che ovviamente le manca. (È al suo 70esimo governo dalla seconda guerra mondiale; un topo da laboratorio dura più a lungo di una tipica amministrazione italiana.) Sostiene inoltre che le soluzioni da lei proposte sarebbero più democratiche. Ma la loro genesi difficilmente avrebbe potuto essere inferiore. La Meloni non ha consultato l’opposizione, per non parlare dell’opinione pubblica, nell’elaborazione del piano. E il nocciolo della sua proposta è l’elezione diretta del primo ministro, anche se la sua coalizione ha vinto l’anno scorso grazie a un manifesto che prometteva agli elettori la possibilità di votare invece per il loro presidente (attualmente eletto indirettamente).
L’elezione diretta dei primi ministri è una cattiva idea con scarsi risultati. Israele ci ha provato nel 1992. Meno di dieci anni dopo, ha abbandonato l’esperimento perché non era riuscito a portare la stabilità promessa. Nessun altro paese ha seguito l’esempio di Israele, il che dovrebbe dirvi qualcosa.
Il proposto primo ministro eletto direttamente (che somiglia più a un presidente, tranne per il fatto che l’Italia ne ha già uno) avrebbe comunque bisogno di una maggioranza, altrimenti si creerebbe uno stallo, proprio come avviene nei paesi con un presidente esecutivo che non controlla la legislatura. La Meloni, quindi, mira a garantire maggioranze parlamentari stabili assegnando il 55% dei seggi all’alleanza che ottiene più voti alle elezioni generali. Non è ancora chiaro come verranno distribuiti i posti aggiuntivi.
Si suppone che il primo ministro appartenga a quell’alleanza, anche se nulla impedirebbe a un elettore di scegliere un primo ministro di un partito o di un’alleanza ma di optare per un parlamentare di un altro. Un ulteriore grosso difetto è che il piano non richiede che il vincitore si assicuri una quota minima di voti per ottenere la spinta. Un’alleanza con forse non più del 25% dei voti potrebbe facilmente finire per essere ricompensata con una maggioranza parlamentare incrollabile. Evidentemente il primo ministro di oggi spera che il beneficiario di questa manovra antidemocratica sia una certa G. Meloni.
Il rifiuto del suo progetto da parte dell’opposizione significa che sarà quasi certamente sottoposto a un referendum, ammesso che la Meloni persista come ha promesso. Apparentemente non vuole che diventi un voto di fiducia nei confronti del suo governo. Buona fortuna. L’ironia del suo progetto, presumibilmente inteso a garantire che i governi durino l’intero mandato, è che potrebbe mettere in pericolo il suo, il primo in più di 20 anni a essere stato eletto con una forte maggioranza parlamentare. Un predecessore, Matteo Renzi, ha tentato un trucco simile dieci anni fa.
Il referendum su un pacchetto di riforme costituzionali, meno radicale di quello della Meloni ma comprendente anche una minore integrazione dei seggi per i vincitori delle elezioni, è stato respinto in un referendum nel 2016. Si è dimesso il giorno successivo. La Meloni dovrebbe abbandonare la riforma e concentrarsi invece sull’inflazione, su un’economia stagnante e sull’eterno problema dell’elevato debito italiano.
(da The Economist)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
L’ANTICIPAZIONE DI REPORT: L’OPERAZIONE VOLUTA PER IMPALLINARE LA CREATURA DI GIANRANCO FINI… E IN QUEGLI ANNI IL FIGLIO DEL PRESIDENTE DEL SENATO, GERONIMO, ENTRA NEI CDA DI AZIENDE LEGATE AL CAV
Silvio Berlusconi quando il Popolo della libertà andò in frantumi sostenne con un finanziamento da 750 mila euro dato da Forza Italia la nascita di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Mediatore di questa operazione, voluta anche per impallinare sul nascere la creatura di Gianfranco Fini, Futuro e libertà, sarebbe stato Ignazio la Russa che iniziò anche ad attaccare suoi ex “compagni” di An che avevano seguito Fini.
E sempre in quegli anni il figlio di La Russa, Geronimo, entra prima nei cda di società legate al Milan e poi nelle casseforti dei figli minori di Berlusconi nati da Veronica Lario. Un intreccio che, secondo Report che oggi alle 21 su Rai Tre torna a raccontare la storia politica e le avventure imprenditoriali del presidente del Senato, spiega il ruolo di peso di La Russa nei rapporti politici tra Berlusconi e Meloni.
“Il rapporto tra Berlusconi e La Russa resta stretto anche dopo lo scioglimento del Popolo della libertà e la rifondazione di Forza Italia. Quando Ignazio La Russa, insieme a Guido Crosetto e Giorgia Meloni dà vita a Fratelli d’Italia, l’ex Cavaliere gioca un ruolo dietro le quinte fondamentale”, sostiene Report, che intervista l’ex deputato finiano Fabio Granata: “Nella parte iniziale Berlusconi diede una spinta anche economica per la nascita di questo partito – dice Granata – in una strategia di fondo pensava che avesse una sua identità legata alla destra italiana togliesse ulteriore spazio a Fini e al nostro gruppo. Credo comunque che i rapporti tra La Russa e Berlusconi andassero oltre alla politica”.
Nel bilancio di Forza Italia del 2013 il comitato nazionale presieduto da Denis Verdini approva un finanziamento di 750 mila euro a Fratelli d’Italia, che era stato costituito nel dicembre del 2012 e si apprestava ad affrontare la sua prima campagna elettorale con le casse vuote.
Dice Report nella puntata curata da Giorgio Mottola: “Un anno dopo il finanziamento di Forza Italia a Fratelli D’Italia, il figlio di Ignazio La Russa Geronimo, tifosissimo dell’Inter come il padre, entra a far parte del consiglio di amministrazione di tre società collegate alla squadra di calcio del Milan, quando ancora era di proprietà di Berlusconi. Milan Real Estate, Milan Entertainment e Mi-Stadio, la società costituita per la costruzione del nuovo stadio di San Siro. Geronimo La Russa ne esce solo nel 2017, quando Berlusconi cede il Milan alla cordata cinese capeggiata da Mister Li. Ma il figlio del presidente del Senato riesce a rimanere nel cuore della famiglia e soprattutto dei suoi consigli di amministrazione”. Un intreccio che, secondo Report, legherebbe comunque Meloni a Berlusconi fin dalla nascita di FdI.
(da La Repubblica)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
COME AL SOLITO ASSEGNATI I PORTI LONTANI, COSI’ ALTRI MIGRANTI NEL FRATTEMPO POTRANNO AFFOGARE
Questo pomeriggio la nave Ocean Viking ha salvato altre 61 persone da una barca di legno in pericolo in acque internazionali al largo della Libia, dopo che era stato trasmesso un mayday da un peschereccio. Le operazioni sono state condotte con il supporto di dell’aereo Colibrì 2 e con l’Ong Pilotes Volontaires. Tra i sopravvissuti ci sono 3 donne e 2 bambini. Lo ha comunicato sui social l’organizzazione umanitaria SOS Méditerranée.
In precedenza sempre la stessa nave da soccorso aveva recuperato in mare 67 migranti, in due diversi soccorsi effettuati ieri sera in zona Sar libica in seguito alle segnalazioni del call center per le persone in difficoltà nel Mediterraneo, Alarm Phone. “Il team di SosMed ha dapprima salvato 33 persone da un’imbarcazione instabile in vetroresina in cui nessuno dei naufraghi aveva un giubbotto di salvataggio – aveva spiegato l’Ong – e poi ha salvato altre 34 persone. I sopravvissuti presentano gravi ustioni e sintomi di intossicazioni”.
Le autorità italiane, fa sapere la stessa Ong hanno assegnato il lontano porto di Ortona per far sbarcare le 128 donne, uomini e bambini a bordo della Ocean Viking.
Dovranno sopportare altri 3 giorni di inutile navigazione per raggiungere finalmente un luogo sicuro. La nave Ocean Viking non è l’unica nave da soccorso in attività in questo momento.
Anche la Geo Barents ha effettuato due salvataggi: “Questa mattina la squadra Msf ha tratto in salvo 81 persone da un gommone in pericolo in seguito all’allerta di Alarm phone e con il supporto di Colibri 2 , l’aereo di Pilotes Volontaires. I sopravvissuti, tra cui donne e più di 25 bambini, sono ora assistiti a bordo della Geo Barents”, ha comunicato Medici Senza Frontiere.
Nel tardo pomeriggio il team di Medici Senza Frontiere a bordo della Geo Barents ha poi effettuato un secondo soccorso, in coordinamento con le autorità italiane. Sono 81 le persone assistite nella seconda operazione. A bordo della nave ora in totale 162 persone. Alla nave umanitaria è stato assegnato il porto di Civitavecchia
Questa mattina invece la nave Life Support ha completato al porto di Brindisi lo sbarco di 118 persone soccorse in due diverse operazioni nel Mediterraneo. Con questo sbarco, la nave di Emergency, in mare da dicembre 2022, conclude la sua quattordicesima missione nel Mediterraneo centrale dove ha tratto in salvo sinora 1.198 persone.
I naufraghi erano originari di diversi Paesi: Eritrea, Etiopia, Sudan, Bangladesh, Pakistan, Siria, Egitto, Palestina. Le operazioni di salvataggio erano state “molto complesse”, come ha spiegato Emanuele Nannini, capomissione della Life Support. “La prima imbarcazione soccorsa, una barca di legno di circa 10 metri che trasportava 77 persone, aveva quasi finito il carburante e aveva iniziato a imbarcare acqua, anche a causa delle difficili condizioni meteo e del sovraccarico”, hanno spiegato da Emergency.
“La seconda imbarcazione, in fibra di vetro e molto piccola con a bordo 41 persone, riportava diverse crepe, scricchiolava e imbarcava acqua a ogni onda che la colpiva. I naufraghi svuotavano lo scafo costantemente con dei secchi. Dei 118 naufraghi soccorsi, nessuno indossava giubbotti di salvataggio prima dell’arrivo della Life Support”. Secondo la squadra di soccorso, le due imbarcazioni avrebbero potuto capovolgersi in ogni momento. Entrambe le imbarcazioni in difficoltà erano partite da Bengasi in Libia, rispettivamente 4 e 3 giorni prima. “Acqua e cibo a bordo erano pressoché finiti”, ha sottolineato il team di Life Support.
“Visto dal ponte della Life Support l’accordo siglato da Italia e Albania sembra ancora più crudele e insensato”, ha detto la presidente di Emergency Rossella Miccio.
“Abbiamo già avuto tantissime prove che l’esternalizzazione delle frontiere non porta a nulla, lo abbiamo visto con la Turchia, con la Libia, adesso si prova con la Tunisia, ora quest’ultimo accordo poco chiaro con l’Albania – ha aggiunto Miccio – Noi pensiamo che invece di attaccare continuamente il diritto di asilo, che è un fondamento della cultura italiana ed europea, dovremmo impegnarci ed usare risorse per garantire vie legali sicure, missioni di soccorso europee e soprattutto per garantire un’accoglienza dignitosa alle persone che scappano da guerra e povertà e vengono in Europa”.
(da Fanpage)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
MORIRONO 28 PERSONE… IL RICORDO DEL FIGLIO DEL VICEBRIGADIERE INTRAVAIA
Sono trascorsi venti anni dalla strage di Nassiriya in Iraq. La mattina del 12 novembre 2003, un’autocisterna blu piena di tritolo con a bordo due terroristi, esplodeva davanti all’ingresso della base militare Maestrale, sede dell’unità specializzata multinazionale dell’Arma dei Carabinieri.
Fu uno degli attentati più gravi e drammatici per le forze armate italiane dal dopoguerra. L’esplosione provocò la morte di 28 persone: 19 italiani di cui 12 erano carabinieri e 9 iracheni. Nell’attentato persero la vita anche due civili: il regista Stefano Rolla, il quale si trovava sul posto con la sua troupe per girare un documentario e Marco Beci, un cooperante internazionale.
I due attentatori vennero uccisi poco dopo da Andrea Filippa, carabiniere di guardia all’ingresso della sede che riuscì a sparare loro, evitando che la strage si aggravasse ancora di più.
Quella data segnò un buco nero per tutte le famiglie che da quel giorno non poterono più riabbracciare i propri cari. Tra queste c’è quella di Domenico Intravaia, vicebrigadiere siciliano in missione a Nassiriya che perse la vita durante l’esplosione.
A Fanpage.it, suo figlio Marco, all’epoca sedicenne, ha ricordato il dolore di quel giorno, quando alcuni carabinieri arrivarono nella sua scuola per informarlo su quanto stesse accadendo a suo padre a migliaia di chilometri da casa.
Si ricorda le parole di chi quel giorno le spiegava cose fosse successo a suo padre?
Sì, perfettamente. Ero in classe e a una mia compagna di banco arrivò un sms in cui venivano date le notizie dei tg. Tra questi c’era il messaggio che comunicava dell’attentato al contingente italiano in Iraq. In quel momento ebbi come un presentimento e chiamai subito casa. A rispondermi non fu mia madre bensì un parente che non aveva motivo di essere lì e immediatamente capii che qualcosa non andava.
Da lì a poco vennero i carabinieri a prendermi a scuola e mi portarono a casa, dove nel frattempo c’erano altri colleghi di mio padre arrivati per dare la notizia alla mia famiglia. Ricordo che durante il tragitto da scuola verso casa, mi spiegavano quanto stava accadendo, mi dicevano di stare tranquillo e che mio padre era solo disperso.
Cercarono di addolcire quella che era una dolorosissima notizia, la quale poi appresi non appena arrivai a casa da mia madre.
Lei all’epoca era solo un adolescente, come ha gestito questo dolore così grande?
Non è stato semplice. Mia madre era giovanissima e avevo una sorella più piccola, la quale non è stata bene. Così come non sono stato bene io: dopo qualche mese dalla morte di mio padre mi ammalai di anoressia. Fortunatamente ho avuto la forza di risollevarmi, di rimboccarmi le maniche e l’ho fatto per mia madre e mia sorella, ma soprattutto per mio padre. Dovevo rendere onore alla sua memoria con grande orgoglio, un orgoglio che continuo a provare tutti i giorni.
In che modo è riuscito a tenere vivo il ricordo di Domenico e di quello che è accaduto venti anni fa?
Il nome di mio padre l’ho portato dovunque mi fosse concesso, a testimonianza del fatto che lui e i suoi colleghi ci hanno lasciato facendo un grande sacrificio. Ho parlato in tantissime scuole italiane, piazze, ho partecipato a tante iniziative proprio per parlare del sacrificio di Nassiriya e in generale delle forze armate all’estero. Siamo riusciti ad andare avanti facendoci forza l’uno con l’altro, anche con gli altri parenti delle vittime coinvolte in questa tragedia. Insieme siamo diventati un’unica famiglia.
Ha sentito la solidarietà dello Stato in quei mesi?
Le istituzioni sono fatte da uomini e come tali ognuno ha le proprie emozioni e sensibilità. Diciamo che in quel periodo dipendeva da chi ricopriva i ruoli di comando, l’approccio è stato senz’altro differente. Con alcune istituzioni abbiamo ricevuto grande rispetto e attenzione nei confronti della nostra storia, una vicinanza vera e sentita. Con altre invece è stata percepita come mera formalità, altre volte c’è stato anche menefreghismo. Siamo sempre andati avanti a testa alta, consapevoli e orgogliosi del fatto che lo Stato per me è mio padre. Un uomo che ha deciso di immolarsi pur essendo consapevole dei rischi a cui andava incontro. Sapeva che poteva morire da un momento all’altro, ciò è emerso anche dalla vicenda giudiziaria e dai numerosi avvertimenti da parte dei servizi segreti americani e inglesi che segnalavano ai militari italiani, nelle settimane antecedenti alla strage, il pericolo. Nonostante questo lui e i suoi colleghi sono rimasti lì in silenzio, obbedendo agli ordini superiori. Ecco perché sono considerati degli eroi. Non per il semplice fatto che sono morti perché purtroppo si sa, gli incidenti sono dietro l’angolo soprattutto quando si sceglie di intraprendere una simile strada, ma per il coraggio che hanno avuto che non è da tutti.
Che uomo era il Signor Intravaia quando non indossava la divisa?
Era un papà simpaticissimo, affabile, affettuoso. Tolta la divisa in casa con gli amici era un’altra persona. La sua assenza l’abbiamo avvertita ancora di più proprio perché non era una persona che passava inosservata. A parte i primi mesi poi abbiamo imparato a convivere con l’idea che non fosse più fisicamente con noi. Lui era presente, in casa ne abbiamo continuato a parlare e anche fuori. Siamo riusciti a renderlo per sempre vivo. Questi venti anni sono trascorsi così velocemente forse proprio per questo.
Cosa sanno i suoi figli di chi era loro nonno?
Mio figlio più grande ha sette anni e parla di suo nonno come se l’avesse conosciuto. Ciò è stato possibile attraverso i nostri racconti, le fotografie esposte ovunque in casa…ma anche e soprattutto grazie alla scuola. Nassiriya ormai è una pagina di storia e tutti hanno possibilità di approfondire l’argomento.
Dopo i fatti del 2003 ha mai pensato di intraprendere la carriera di suo padre?
Sì, sicuramente è stato il primo pensiero. Volevo portare avanti la sua missione ma sono stato frenato dal fatto che, se avessi voluto arruolarmi all’epoca, avrei dovuto lasciare sole in Sicilia mia madre e mia sorella, la quale aveva appena 12 anni. Non l’ho voluto fare e allo stesso tempo per portare comunque avanti la mia missione e i valori in cui credevo tanto, mi sono dedicato alla politica. Un interesse che mi aveva trasmesso in vita mio padre. Dopo la sua morte ho deciso di impegnarmi ancora di più in questo.
Ci sono delle amarezze che l’affliggono ancora riguardo questa vicenda?
Sì e sono le stesse che provano anche le altre famiglie delle vittime dell’attentato. La prima riguarda la vicenda giudiziaria ancora aperta a distanza di venti anni, nonostante ci sia stata una condanna in Corte di Cassazione di un generale dell’esercito, l’allora comandante del contingente. Quest’ultimo nonostante i vari avvertimenti dei servizi segreti non ha ritenuto di dover adottare tutte le misure tali da garantire la sicurezza degli uomini. Se l’avesse fatto probabilmente si sarebbe ridotta l’entità della strage. La seconda invece riguarda il mancato conferimento della medaglia d’oro al valor militare, ossia la massima onorificenza che chi cade in servizio può ottenere. Ai caduti di Nassiriya non è stata ancora consegnata.
(da Fanpage)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
“NON SI BOMBARDANO I CIVILI, NON C’E’ ALCUNA GIUSTIFICAZIONE E LEGITTIMITA’ PER QUESTI ATTI”
Due prese di posizione di Emmanuel Macron nello spazio di poche ore provocano l’esultanza dell’estrema sinistra filo-palestinese di Jean-Luc Mélenchon, effetto secondario sicuramente non voluto dall’Eliseo ma comunque significativo.
Venerdì sera Macron è stato molto duro contro Israele durante un’intervista alla Bbc ; ieri poi il capo dello Stato francese ha annunciato che non parteciperà alla marcia contro l’antisemismo di oggi a Parigi, come farà appunto la France Insoumise di Mélenchon che adesso applaude il suo acerrimo nemico Macron.
Dopo avere organizzato la conferenza umanitaria per Gaza, il presidente ha detto alla Bbc che a Gaza «oggi di fatto sono i civili a essere bombardati. Neonati, donne, anziani: bombardati e uccisi. Non c’è alcuna giustificazione e alcuna legittimità per questo. Esortiamo Israele a fermarsi». Macron rivendica di non chiedere solo «pause umanitarie» ma un vero «cessate il fuoco», e aggiunge che spera di portare sulle sue posizioni anche gli Stati Uniti.
A differenza di Washington e degli altri occidentali, il presidente francese non finge di credere che un’operazione militare di questa portata sia compatibile con l’esigenza di risparmiare i civili.
Macron esorta poi Israele a conformarsi alle regole internazionali della guerra e al diritto umanitario.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
“MA CONFIDIAMO CHE NON LO FARANNO: QUELLI CONVOCANO SOLO CHI DICE LA VERITA’”
Siamo in ansia per Bruno Vespa, il noto “artista” (come da contratto) che stipendiamo poco e male (un milioncino e mezzo l’anno non di più) per tenerci sempre informati su Rai1 non solo tre sere a settimana con Porta a Porta, ma da quest’anno anche quotidianamente con Cinque minuti. Per riparare all’ostracismo da video che lo perseguita da quando è nato per ordine di tutti i governi, l’insetto reietto regala anche degli editoriali sui social della Rai.
E l’altroieri ne ha dedicato uno a un’altra vittima della censura: Giorgia Meloni che, oscurata com’è da Rai e Mediaset, non riesce a farci sapere quanto bella, buona e giusta sia la sua riforma del premierato. Fortuna che ha provveduto lui, col trasporto e la competenza che gli sono propri.
Mani giunte e sguardo rapito, come si conviene per le cose sacre, Vespa ha premesso che “gli italiani sono presidenzialistida sempre” (da quando erano quasi tutti monarchici e poi pure fascisti): deve averlo saputo dal suo sondaggista preferito, il Divino Otelma.
E qui il giureconsulto aquilano sfodera l’arma fine di mondo: “I primi ministri di Inghilterra, non parliamo poi di Macron che è una Madonna… di Spagna e Germania contano infinitamente di più dei loro presidenti della Repubblica. Uno non sa neanche come si chiamano. Non ho capito tutto ‘sto pericolo dove sta”. In effetti è dura ricordare i nomi dei presidenti della Repubblica inglese e spagnolo, ma anche olandese e belga, perché Inghilterra e Spagna, ma anche Olanda, Belgio, Danimarca e Lussemburgo sono monarchie. Quindi è decisamente più facile ricordare i nomi dei sovrani che, casomai sfuggissero al nostro Pico della Mirandola, sono Carlo III, Filippo IV, Guglielmo Alessandro, Filippo, Margherita II ed Enrico
Però, per venirgli incontro, possiamo immaginare che i sei regni europei abbiano anche dei presidenti della Repubblica: che so, l’inglese Ugo, lo spagnolo Gino, l’olandese Ciccio, il belga Gennaro, la danese Marisa e il lussemburghese Peppino.
Ora non vorremmo che i dioscuri Gasparri&Boschi convocassero Vespa in Vigilanza come Ranucci e gli intentassero un processo staliniano per uso criminoso della televisione pubblica pagata con i soldi di tutti, magari brandendo una carota e un cognacchino. Ma confidiamo che non lo faranno: quelli convocano solo chi dice la verità, quindi Vespa è in una botte di ferro.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
COME IL GOVERNO MELONI HA PRESO PER IL CULO GLI ITALIANI
E sarebbe questo il ringraziamento? Il pensiero cattivo potrebbe attraversare la mente di qualcuno dopo aver scoperto che il Mediocredito Centrale e le sue controllate Banca Popolare di Bari e CariOrvieto non pagheranno gli extraprofitti allo Stato.
Perché questo gruppo bancario non solo è di proprietà dello Stato attraverso Invitalia, ma è pure presieduto da un signore, Ferruccio Ferranti, nominato qualche mese fa dal governo di Giorgia Meloni in quota Fratelli d’Italia. Ossia il partito della presidente del Consiglio, con cui Ferranti è da sempre – si può dire senza timore di smentita – in sintonia pressoché perfetta.
Eppure nemmeno lui darà un solo euro al suo governo per la battaglia contro i banchieri sfruttatori che fanno montagne di soldi grazie agli aumenti dei tassi decisi dalla Banca Centrale Europea speculando sui costi dei mutui pagati dai poveri Cristi. Perché questa è la tesi che ha ispirato la mossa meloniana di far pagare agli istituti di credito una tassa supplementare sui cosiddetti extraprofitti.
«Stiamo registrando utili record e abbiamo deciso di intervenire introducendo una tassazione del 40% sulla differenza ingiusta del margine di interesse. Una tassa non su un margine legittimo ma, appunto, ingiusto», dice Meloni il 9 agosto scatenando l’offensiva. Promettendo che quei soldi serviranno a «finanziare misure a sostegno di famiglie e imprese in difficoltà per l’alto costo del denaro».
È Giovanbattista Fazzolari, il suo sottosegretario alla presidenza, secondo un giudizio attribuito a Meloni «l’uomo più intelligente che abbia mai conosciuto», a sparare la prima bordata: «Con Conte e il Pd non è mai stato messo nemmeno un euro in più di tasse alle banche. Questo è l’unico governo che ha la forza di tassare le banche perché è l’unico che non ha rapporti privilegiati con il sistema bancario». Le ultime parole famose.
Mentre la premier insiste che finalmente è finita la storia dello «Stato forte coi deboli e debole coi forti» giurando che difenderà sempre la tassa sulle banche, con il leader della Lega Matteo Salvini che sul pratone di Pontida proclama che «la tassa sugli extraprofitti delle banche per noi è una priorità, non torneremo indietro», la retromarcia è già in atto. Forza Italia non ci sta e cerca in tutti i modi di annacquare il decreto.
Poi arriva anche il giudizio negativo della Bce perché la nuova imposta aggiuntiva, fanno sapere da Francoforte, non si può utilizzare per risanare il bilancio pubblico. Così la dichiarazione di guerra allo «Stato forte coi deboli e debole coi forti» pian piano si affloscia. Fino a sgonfiarsi del tutto.
E il governo, che sarebbe stato l’unico a poter tassare le banche perché l’unico a non avere rapporti privilegiati con le banche (Fazzolari dixit), in realtà fa un grosso favore alle banche e ai suoi azionisti. Quello che esce fuori consente agli istituti di scegliere fra pagare la tassa o accantonare a riserva non distribuibile una cifra pari a due volte e mezzo i cosiddetti extraprofitti.
Che cosa accade in questo secondo caso? Gli azionisti guadagnano lo stesso somme importanti e forse mai viste, considerato il boom degli utili che si è verificato nell’ultimo anno. La banca si rafforza patrimonialmente, con il risultato di allontanare in molti casi la prospettiva di aumenti di capitale.
Per giunta si pagano anche meno tasse di quante se ne sarebbero dovute pagare nel caso in cui le imposte avessero gravato sull’intero profitto. Il risultato è che, se i precedenti governi – ed è verissimo – non avevano fatto pagare un euro di tasse in più alle banche, questo esecutivo ha consentito loro di pagare addirittura qualche euro in meno.
Prova ne è il fatto che tutte le banche hanno finora optato per l’alternativa di tenersi i famosi extraprofitti a riserva. Compresi tutti, ma proprio tutti, gli istituti controllati dallo Stato. Perché la stessa decisione l’ha presa, dopo il Mediocredito Centrale, anche il Montepaschi. Ritornata finalmente al sospirato utile, la banca controllata dal Tesoro ha fatto «marameo» all’Erario sui super profitti. Esattamente al pari di Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Banco Bpm….
Se si fa un rapido conto, gli almeno 4 miliardi che qualcuno contava di avere già in tasca per la finanziaria che precede la campagna elettorale delle prossime europee, sono già sfumati così. E alla fine il ministro dell’Economia si è dovuto arrampicare sugli specchi per giustificare il fatto che famiglie e imprese, come aveva invece promesso la premier, non vedranno neppure un centesimo di quei «margini ingiusti» tolti a chi avrebbe speculato sui mutui prima casa.Da Robin Hood allo sceriffo di Nottingham…
Sergio Rizzo
(da Milano Finanza)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
IN UN ANNO LA PREMIER LA CREATO CINQUE “STRUTTURE DI MISSIONE” CHE COSTANO 18 MILIONI DI EURO PIU’ LE NOMINE DI ESPERTI ESTERNI (SPESSO POLITICI TROMBATI)
Una grande voglia di accentrare e controllare e per questo creare carrozzoni sotto la voce “strutture di missioni” o nuove spa rimesse in vita. Il tutto condito da consulenze e nomine di esperti (spesso politici non rieletti). La presidente del Consiglio Giorgia Meloni in un anno ha creato cinque strutture di missione che costano circa 18 milioni di euro e prevedono esterni ed esperti per 3 milioni di euro all’anno, togliendo competenze a ministeri veri per accentrarli, in molti casi, a Palazzo Chigi. E se a questo si aggiunge il carrozzone rimesso in vita della società Stretto di Messina, con budget da 50 milioni di euro all’anno, il conto supera i 70 milioni all’anno per uffici ed enti voluti dal governo di centrodestra.
Il Piano Mattei e il sogno dell’Africa
L’ultima struttura creata riguarda l’attuazione di un progetto che non c’è nemmeno sulla carta, il Piano Mattei: il sogno della presidente del Consiglio è quello di riportare l’Italia sulla scena internazionale come grande partner dell’Africa sul fronte energetico, economico e sociale. Non è chiaro con quali paesi africani e per fare cosa, intanto però è stato creato l’ufficio burocratico incardinato a Palazzo Chigi, e non al ministero degli Esteri che già ha un dipartimento per i rapporti con Africa e Medio Oriente. La previsione di una spesa da 2,6 milioni per portare a Palazzo Chigi dirigenti e funzionari ministeriali. Nella struttura di missione per il Piano Mattei è previsto un budget di 500 mila euro all’anno per esperti e consulenti esterni.
Il balletto sulle deleghe per il mare
E visti gli esperti nominati fino ad oggi nelle altre strutture di missione create dal governo Meloni, c’è il rischio che si scelga tra politici magari non eletti. A esempio una delle prime nuove strutture di missione create dal governo Meloni è quella per la “semplificazione amministrativa” a supporto della ministra Maria Elisabetta Casellati. La struttura di missione per la “semplificazione amministrativa”, scorrendo le news sul sito, ha organizzato un incontro a luglio e un convegno a settembre: vi lavorano tre dirigenti e sette funzionari (ma il decreto di istituzione arriva fino a otto come possibilità). Questa struttura ha un budget da 750 mila euro per esperti e consulenti, e scorrendo i nomi di alcuni nominati compaiono ex parlamentari, come la senatrice uscente di Forza Italia Urania Papatheu con compenso da 40 mila euro per “attività di studio in materia di semplificazione”, o ex consiglieri comunali. Già in fase di assegnazioni delle deleghe c’era stato il balletto su quelle da assegnare a Nello Musumeci. Alla fine è stata “inventata” la delega alle politiche del mare (ma senza la pesca, perché la voleva mantenere all’Agricoltura Francesco Lollobrigida, e senza la capitaneria di porto, perché la voleva tenere alle Infrastrutture Matteo Salvini). Ed ecco arrivare una struttura di missione ad hoc con ennesimo budget per consulenze esterne. E scorrendo i nomi, anche qui salta fuori qualche ex deputato.
A Chigi le domande per aprire un cinema
Poi ci sono altre due “nuove” strutture di missione, incardinate sempre a Palazzo Chigi: si tratta delle strutture per il Pnrr e per le Zone economiche speciali (Zes). Meloni appena insediatasi ha smontato l’impalcatura creata dal governo Draghi per il controllo della spesa del Pnrr, togliendo competenze al ministero dell’Economia per accentrarle a Palazzo Chigi. Con conseguente trasferimento da vari ministeri di una cinquantina di funzionari più dirigenti con costo annuo da 6 milioni di euro all’anno. Immancabile anche qui il budget per le consulenze esterne: 580 mila euro quest’anno, 700 mila all’anno dal prossimo anno. Un’altra struttura di missione incardinata a Palazzo Chigi è quella per le Zes: un ufficio con 67 tra funzionari e dirigenti che dovrà vagliare tutte le migliaia di domande che arriveranno adesso dal Mezzogiorno, trasformato in Zona economica speciale unica. In qualsiasi Comune a sud di Roma anche per aprire un cinema o una piccola attività anziché andare al Suap comunale si dovrà presentare una domanda alla Struttura di missione delle Zes: prevista una spesa di 300 mila euro per il nuovo sito della Zes unica, un budget da 8,5 milioni per i dipendenti in comando e 700 mila euro per esperti e consulenze.
La mitologica Stretto di Messina spa
Ma a proposito di spese per realizzare “il programma” del centrodestra, non si può non citare la scelta del governo Meloni di rimettere in piedi una società ormai chiusa e in fase di liquidazione: la Stretto di Messina spa, la mitologica società nata negli anni Ottanta per realizzare il Ponte che non c’è. E per realizzare certi sogni non si bada a spese: la società sta assumendo consulenti esterni e 100 dirigenti e funzionari che nel 2011, quando la spa venne chiusa, erano stati mandati ad Anas ed Rfi. Inoltre sta rimettendo in piedi vecchi contratti di consulenza: come quello da 90 milioni con la Parson trasportation group per la validazione del progetto del consorzio Eurolink capitanato dal gruppo di Pietro Salini, che aveva vinto la gara per realizzare il Ponte nel 2010. Per certi sogni, o per controllare tutto, non si bada a spese dalle parti di Palazzo Chigi.
(da La Repubblica)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
IL FRATELLO DELL’EX PRESIDENTE INCARICATO DI RIACQUISTARE GLI IMMOBILI CHE IL FRATELLO AVEVA ALIENATO
Alla faccia della spending review e pure di Giorgia Meloni che non sa più come dirlo. “Bamboli, non c’è un euro!”. Ma in Sicilia, dove regna Renato Schifani, con buona pace di tutto, pure delle battute d’avanspettacolo d’antan, il Natale invece è arrivato in anticipo e carico di doni grazie a una Finanziaria da leccarsi i baffi: sul piatto, oltre a tutto il resto è stato messo, anche un budget di circa 100 mila euro a deputato regionale, cioè 7 milioni con cui finanziare iniziative d’interesse, diciamo così.
Un tripudio di sagre, feste, eventi, provvigioni, aiutini e aiutoni. Mance pre-elettorali? Giammai! Anche se le maldicenze corrono e soprattutto le amministrative di primavera si avvicinano.
Ma tant’è: ecco stanziati 30 mila euro per la sagra del torrone di Casteltermini, 200 mila per l’organizzazione del capodanno a Catania, 150 mila per il Carnevale di Termini Imerese, 25 mila per la festa con i nonni di Avola e chi più ne ha più ne metta, pure 80 mila euro per Federico III, 150 mila per la “ Pallavolo Saturnia” di Aci Castello e via dicendo come nella famigerata tabella H, zeppa di ogni ben di dio che era il sale della Manovra all’epoca in cui regnava Totò Cuffaro.
E del resto il piatto più ghiotto della manovra appena varata a Palazzo d’Orleans, regnante oggi Schifani, porta ancora la firma Cuffaro. Non già Totò Vasa-Vasa, ma Silvio dirigente generale del dipartimento Finanze della Regione che è stato incaricato di ricomprare gli stessi immobili alienati nel 2007 da suo fratello quand’era governatore della Trinacria felix: sedi anche in pieno centro vendute, anzi svendute, a mille euro al metro quadro, con il pretesto di dover far cassa per coprire il gigantesco buco del bilancio visto l’indebitamento che all’epoca era di quasi 3 miliardi.
Ma era stato – guarda un po’ – tutt’altro che un affarone, almeno per la Regione: che aveva venduto per circa 200 milioni quegli immobili ma subito rimesso mani al portafoglio per poter continuare ad utilizzarli. Diventando inquilina del fondo a partecipazione regionale che aveva acquistato i beni: a botte di 20 milioni l’anno il conto delle locazioni alla fine per le casse della Regione è lievitato fino a 260 milioni.
Per tacere dell’altra faccenda, gli 80-100 milioni spesi per il censimento immobiliare affidato alla Sti dell’imprenditore piemontese Enzo Bigotti che nessuno in Regione aveva poi potuto vedere ché nemmeno l’assessore al Bilancio aveva le password per consultarlo.
Acqua passata, tutto è perdonato. Persino i rilievi della Corte dei Conti che definendola “non conveniente e assai criticabile” avevano stroncato l’operazione immobiliare varata nel 2007 da Cuffaro che aveva deciso la vendita di 33 immobili a un fondo controllato da Pirelli Re e oggi partecipato da Unicredit, Intesa e per il 35% del capitale dalla Regione che adesso si riprenderà i palazzi e chissà se basteranno i 70 milioni previsti.
Di certo quegli immobili vennero all’epoca venduti dalla Regione a prezzi bassissimi e locati invece a caro prezzo. Ora la Sicilia di Schifani è pronta a scucire altri milioni per ricomprarsi quello che ha era già suo. Quel che Cuffaro vende, un Cuffaro ricompra: alla faccia del bicarbonato di sodio! Ma qui il Totò che faceva scompisciare gli italiani offrendo all’allocco di turno l’acquisto della Fontana di Trevi non c’entra nulla.
(da Il Fatto Quotidiano)
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