Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
DIRIGISMO E PROTEZIONISMO IN ECONOMIA, RAZZISMO E ALLARMISMO NELLA GIUSTIZIA, OCCUPAZIONE DELLA CULTURA E DELLA TV DI STATO, RIFORME DELLA COSTITUZIONE
Dopo poco più di un anno del governo più a destra della storia della Repubblica, quello di Giorgia Meloni, si vede chiaramente già in atto una deriva autoritaria. La si vede, la deriva autoritaria, dai provvedimenti, dagli atteggiamenti e dalle reazioni, pressoché inesistenti. Partiamo da queste ultime, dalle reazioni, inesistenti si è detto, di alleati ed avversari di Giorgia Meloni e del governo. Cosa dovrebbero fare dinanzi a questa deriva?
Gli alleati, innanzitutto, Lega e Forza Italia, non dovrebbero continuare a pungere inutilmente nei fianchi Giorgia Meloni mentre contemporaneamente la assecondano in tutti i suoi desiderata. Gli alleati dovrebbero piuttosto sfidarla nel suo stesso campo, il rispetto della volontà popolare. Su questo campo non vi è dubbio che Meloni non stia praticamente facendo nulla di quanto aveva promesso in campagna elettorale. Ed è a questo, al rispetto del programma elettorale votato dagli elettori, che Lega e Forza Italia dovrebbero richiamare Meloni. Ad esempio, al rispetto di quella parte del programma elettorale che prevede il presidenzialismo (l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, con funzioni di capo dell’esecutivo) e la separazione delle carriere. Queste sì che sono riforme vere, chiare, nette, che possono piacere o meno ma che hanno il pregio della coerenza di sistema. Riforme, queste sì, delle quali varrebbe davvero la pena discutere in Parlamento e nel Paese, magari anche dividendosi e scontrandosi. Riforme forti ma che, con i necessari contrappesi, non comportano nessuna deriva autoritaria, come testimoniato dal fatto che funzionano bene in nazioni di grande tradizione democratica.
Un unico grande coerente disegno di riforma costituzionale, da sottoporre al Parlamento e agli elettori, questo Meloni con la sua destra aveva promesso in campagna elettorale (vero, mio caro amico Marcello Pera?) e questo la destra ora al governo non sta facendo. Semplicemente su questo Lega e Forza Italia dovrebbero sapersi opporre e imporre a Meloni. Potrebbero farlo, dovrebbero farlo eppure non lo fanno, forse non ne hanno neppure la voglia, che è pure peggio.
Alle opposizioni si può invece, oggettivamente, rimproverare di meno, nonostante le divisioni. Occorre che costruiscano un’alternativa credibile ma serve tempo. Però si sbrighino. Nel frattempo stanno facendo, come possono, il loro mestiere. I partiti le manifestazioni, i sindacati gli scioperi. In Parlamento però le opposizioni potrebbero e dovrebbero fare certamente di più. Serve uno sforzo supplementare per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su quanto di veramente grave sta accadendo in Parlamento, tra abuso di decreti legge, continuo ricorso ai voti di fiducia, presentazione di maxi emendamenti che impediscono l’esame articolo per articolo, proposte delle opposizioni non portate al voto, emendamenti della maggioranza che non possono essere nemmeno presentati, accordi internazionali come quello con l’Albania non fatti votare. Succedeva già prima, con i precedenti governi, si dirà. Vero ma non succedeva in questa misura. Finirà che se non reagiranno le opposizioni prima o poi lo farà qualche altra autorità o qualche altro potere dello Stato. In fin dei conti, quando negli scorsi anni novanta si governava attraverso la continua reiterazione dei decreti legge, che non venivano mai convertiti in legge, ci pensò la Corte Costituzionale, con una storica sentenza, a porre fine a questa prassi…
Comunque, ha fatto bene Elly Schlein, non mi unisco al coro di critiche, a non andare alla festa di Atreju di Fratelli d’Italia. Certo il dialogo, il dibattito e il confronto sono necessari e doverosi. Ma occorre pure il reciproco rispetto per poterlo fare. E Meloni, il suo partito, il suo governo, i suoi giornali hanno mancato troppo spesso di rispetto a Schlein, al Partito Democratico, alle opposizioni in generale. Che sono stati accusati, anche in Parlamento, solo per avere esercitato proprie prerogative e manifestato proprie opinioni, di essere praticamente collusi con terroristi, mafiosi, delinquenti, criminali, clandestini, di essere anti italiani. Dopo tutto ciò, prestarsi anche al giochino di Meloni del finto dibattito alla sua festa di partito era veramente troppo. Tornando all’inizio, chi ha dubbi sulla deriva autoritaria in atto, può guardare i provvedimenti del governo.
In campo economico, abbiamo un dirigismo statalista e una tutela di interessi corporativi (basti pensare alle concessioni balneari) che limitano e opprimono il libero mercato. Nel campo della giustizia, abbiamo una serie di norme ideologiche e razziste che prevedono nuovi reati e aumenti di pena, non solo nei confronti di “pericolosi” organizzatori di rave party, imbrattatori con vernice lavabile, manifestanti e protestatari vari ma persino a carico di donne incinte, di minori e di bambini piccoli. Norme che serviranno a far aumentare non la sicurezza dei cittadini ma solo l’affollamento delle carceri e l’ingolfamento dei tribunali. Nessuna norma, invece, dal governo contro l’odio, i pregiudizi e le discriminazioni, e per l’educazione e l’informazione sessuale nelle scuole, nemmeno dopo il suicidio di un tredicenne, vittima di bullismo per il suo orientamento sessuale.
Nel campo della politica estera e della difesa, ormai è sempre più chiaro che il governo Meloni ci allontana dall’Europa.
Nel campo della cultura e dell’informazione, abbiamo l’occupazione da parte del governo di ogni spazio, di ogni incarico, di ogni nomina. Nell’ossessione di imporre una nuova narrazione e una diversa egemonia culturale si premiano ovunque parenti e amici (altro che il merito!) con soglie che superano l’assurdità (conduttori pluripagati per programmi che fanno un flop di ascolti) e che rasentano il ridicolo (l’organizzazione con tanto di inaugurazione privata per tutta la corte della mostra per l’autore preferito del capo del governo, Tolkien). Oppure con la volontà di imporre un improbabile autarchico sovranismo in ogni campo della scienza, dell’arte, della musica, della vita, persino negli aspetti lessicali e alimentari.
Nel campo delle riforme, abbiamo la presentazione di un disegno di legge costituzionale per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio (che non accade da nessuna parte del mondo). Una riforma che mortifica ancora di più il Parlamento, limita il Presidente della Repubblica e non risolve nessun problema di governabilità, anzi li aggraverebbe, rendendo pressoché certo durante la legislatura un ricambio di premier all’interno della maggioranza.
E si potrebbe continuare…
Ma quello che, dopo questo triste quadro di provvedimenti, conferma la deriva autoritaria in atto, è l’atteggiamento stesso di Meloni e del suo governo. Silvio Berlusconi, in un famoso biglietto carpito dai fotografi al Senato, scrisse che Giorgia Meloni aveva un comportamento “supponente, prepotente, arrogante, offensivo”. Io oggi aggiungerei anche “protervo”. Meloni infatti non solo, ed è già molto grave, non rispetta le opposizioni e le istituzioni e attacca magistrati che emettono sentenze contro atti del governo e giornalisti che fanno domande e inchieste ma utilizza pure toni e atteggiamenti preoccupanti, oltre che una spregiudicata falsità.
Nel presentare la riforma del premierato, ad esempio, ha detto che si tratta di scegliere se il Presidente del Consiglio deve essere eletto dai cittadini o dai partiti. Una affermazione di inquietante populismo da parte di un Presidente del Consiglio (e leader di un partito) che dovrebbe invece difendere la natura pluralistica e democratica di un sistema fondato sul ruolo dei partiti e del Parlamento.
Non solo, Meloni, seguita anche in questo dagli esponenti del partito e del governo, oltre che dal suo coro fedele di direttori di giornali e commentatori televisivi, da Mario Sechi a Bruno Vespa, ha detto che la riforma del premierato non tocca i poteri del Presidente della Repubblica. È una clamorosa falsità, perché il premierato tocca eccome i poteri del Capo dello Stato, togliendo al Presidente della Repubblica il potere di nominare il Presidente del Consiglio e condizionando fortemente quello di sciogliere le Camere.
Che un Presidente del Consiglio, pur impegnato in una continua propaganda, presenti alla pubblica opinione in modo del tutto distorto un progetto così importante del governo, è davvero inaccettabile.
Come è inaccettabile che Meloni e il suo governo difendano il carattere familistico e spartitorio della loro gestione del potere. La sinistra faceva altrettanto? Non è una buona ragione per perseverare nell’errore. Soprattutto di fronte a certi casi davvero clamorosi di nomine di persone incompetenti e senza esperienza in quel settore, che hanno avuto l’unico “merito” del cognome o dell’appartenenza di partito e magari pure il demerito di non essere risultati eletti alle scorse elezioni.
Ecco, quindi, in conclusione, dove la deriva autoritaria è in atto con il governo di Meloni. È nei progetti, è nei comportamenti, è soprattutto nei fatti.
Come nell’ultimo fatto, l’aggressione a parlamentari di opposizione che manifestavano sotto la sede del governo contro una legge (quella che vieta la carne coltivata – peraltro già non permessa in Europa – in nome di tradizioni e interessi nazionali, mentre in realtà la carne noi la importiamo dall’estero) e sono stati aggrediti verbalmente dal presidente di una organizzazione di categoria, Coldiretti. Con il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, cognato di Meloni, che dopo si è voluto unire lo stesso, nonostante questo grave episodio di intolleranza, ai festeggiamenti della Coldiretti per l’approvazione della legge.
Ma questa deriva autoritaria in atto può essere ancora contrastata. Come? Difendendo e esercitando i nostri diritti e le nostre libertà, di pensiero, di opinione, di espressione, di critica, di stampa, di associazione, di manifestazione, di sciopero, di voto.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
ALLA MELONI AVREBBE FATTO COMODO ELLY OSPITE AD ATREJU PER FAR DIMENTICARE I GUAI E POLARIZZARE LO SCONTRO, MA LA SCHLEIN QUESTO REGALO NON GLIELO FA
Se la politica fosse solo un talk-show, e i nostri eroi si spostassero come una compagnia di giro da Porta a Porta a Quarta Repubblica, da Otto e mezzo a Propaganda Live, sempre lì a battibeccare tra loro, a darsi sulla voce come comari, allora Schlein avrebbe sicuramente torto: si sarebbe dovuta precipitare lei da Meloni pretendendo un dibattito pubblico, anzi un duello all’ultimo sangue in quanto lo impone la legge dello spettacolo. Stesso discorso per i festival di partito: se fossero un luogo di dialettica democratica, un’occasione per confrontarsi e capirsi a vicenda, in quel caso la segretaria Pd non avrebbe giustificazione alcuna nel rifiutare l’invito ad Atreju.
Tra l’altro, fa notare su “Libero” lo storico Giordano Bruno Guerri, Elly frequenta le feste dell’Unità, l’odore di salsiccia è lo stesso tanto a sinistra quanto a destra, sbagliato fare gli schizzinosi, meglio partecipare.
Sennonché non tutto si riduce ai format televisivi, tantomeno alle kermesse di partito. La lotta politica è fatta di tanti ingredienti tipici della commedia umana. Di ambizioni, paure e retropensieri. Di ambizioni, astuzie e machiavellismi.
Usando il metro della convenienza, ad esempio, si scopre che la Ducetta non è generosa affatto nei confronti di Schlein, tutt’altro; tira l’acqua al proprio mulino perfino quando, come gli Achei, si presenta recando doni. A Meloni, in particolare, farebbe comodo un diversivo. Qualcuno o qualcuna con cui spartirsi la scena in modo da non venire a noia perché il troppo porta alla saturazione: basti dire che, soltanto nell’ultimo mese, la premier ha fatto 5 discorsi, più 9 conferenze stampa, più altrettanti interventi sui social, più 3 videomessaggi per non citare tutte le dichiarazioni e i comunicati e la finta intervista ai comici russi e la telenovela con Giambruno. Una scorpacciata mediatica a reti unificate. Perfino Silvio Berlusconi ogni tanto taceva e perlomeno di domenica spariva dai radar perché, quando non si mette freno al proprio “ego”, la gente cambia canale; chiedere per conferma a Matteo Renzi e pure a Matteo Salvini.
A Meloni, inoltre, servirebbe un nemico perché senza non riesce a stare, è la sua natura a pretenderlo, il suo tratto esistenziale. Le farebbe comodo un bel match con Elly (“Chi, tra noi due, è la più bella del reame?”) per distogliere l’attenzione dai migranti, dalle tasse, dalle pensioni, dalle tante illusioni sparse a piene mani con l’attesa di un grande duello finale. Per polarizzare lo scontro e drenare voti ai propri alleati in vista delle Europee. Per prefigurare un’Italia bipolare e fare largo all’elezione diretta del premier. Schlein sarebbe l’avversario perfetto. La competitor ideale. Radical-chic, talvolta sfuggente, sempre educata: con le sue faccette, le sue battutine e una dialettica popolaresca Giorgia saprebbe come inchiodarla. Tra l’altro ad Atreju lei giocherebbe in casa. Invece la segretaria Dem sarebbe sommersa di fischi peggio che Donnarumma a San Siro: chi glielo fa fare?
Difatti Schlein non ci pensa nemmeno. Alimentare il teatrino con Giorgia non le fa gioco per ragioni opposte ma speculari. Se la premier teme di debordare, lei spera che ciò accada. Se quella tenta di nascondere i dissidi con Forza Italia e Lega, a Elly fa comodo farli detonare.
Se Meloni desidera il premierato, la segretaria Pd non vuole assecondarla nell’impresa; e pazienza se, per sabotare la riforma costituzionale, dovrà resistere alla vanità propria e rinunciare a qualche voto in più che otterrebbe grazie a una sovraesposizione mediatica.
E poi: l’investitura a Schlein non può venire dalla Meloni, un vero leader si fa scegliere dal proprio popolo. Se Elly stesse al gioco di Giorgia, e vestisse i panni della Rivale, susciterebbe le gelosie di Conte che ambisce anche lui, forse perfino di più.
Il campo largo si stringerebbe prima ancora di incominciare laddove il problema della sinistra è unire le forze, mettere insieme mille ambizioni e magari anche un programma comune a partire dal salario minimo, dai fondi alla Sanità, dal disagio sociale.
È singolare che certe critiche alla Schlein siano piovute dai suoi amici i quali le rimproverano di sottrarsi al confronto, di darsela a gambe, di aver perso la grande occasione e la trattano da sprovveduta naïve. Meloni è stata abile a provarci, come al solito; ma Schlein, perlomeno stavolta, non s’è suicidata.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
CON LA RIELEZIONE DI MAURIZIO FUGATTI. IL PATTO PRE-VOTO, CIOE’ L’ASSEGNAZIONE DELLA VICEPRESIDENZA ALLA MELONIANA GEROSA, E’ STATO DISATTESO… IL PARTITO DI GIORGIA MELONI SI METTE DI TRAVERSO IN SARDEGNA DOVE SALVINI SPINGE PER IL BIS DEL GOVERNATORE SOLINAS – È LITE TRA ALLEATI ANCHE IN BASILICATA E A PALERMO
Fratelli d’Italia e la Lega questa volta fanno sul serio: nel senso che non se le mandano a dire e scaricano le tensioni del governo, alimentate dalle sfide continue di Matteo Salvini a Giorgia Meloni, sui territori. Rompono patti e alleanze e fanno andare il centrodestra in frantumi: dove si è vinto, come a Trento, e dove si dovrà andare alle regionali, come in Sardegna. Ma non solo: anche a Palermo da due mesi è in corso un braccio di ferro per il rimpasto in giunta
Ieri la rottura si è consumata in Sardegna, dove in vista delle prossime regionali la Lega ha dato subito la benedizione alla ricandidatura di Christian Solinas. Un’accelerazione che ha sorpreso Giorgia Meloni. Lo scorso settembre al tavolo nazionale Giovanni Donzelli e il ministro Francesco Lollobrigida avevano chiesto di cambiare nome in Sardegna, puntando su un esponente di Fratelli d’Italia, vista la «crescita di FdI rispetto a cinque anni fa». E invece tre giorni fa la Lega e Matteo Salvini hanno dato il via libera a Solinas.
Apriti cielo, ed ecco la nota ufficiale di FdI che rompe l’alleanza: «Fratelli d’Italia boccia ufficialmente la ricandidatura di Solinas alla presidenza della Regione, rilanciata invece anche recentemente dal leader della Lega Salvini», dice la coordinatrice regionale Antonella Zedda […] In casa Lega sminuiscono, dicendo che la frattura si ricomporrà e che «si tratta soltanto di una reazione dopo il caso Trento».
Di che si tratta? Il 22 ottobre nella provincia autonoma ha conquistato il bis Maurizio Fugatti. Ma con tanto di nota ufficiale di Lega, FdI e Forza Italia prima del voto era stato deciso che gli «assetti della futura giunta provinciale» sarebbero stati definiti «sulla base del risultato elettorale conseguito dai singoli partiti, tenendo comunque fin d’ora presente che la vicepresidenza della giunta spetta a Francesca Gerosa, rappresentante di FdI». Fugatti due giorni fa ha annunciato la giunta e a Gerosa non ha dato la vicepresidenza. Risultato? FdI si chiama fuori dalla giunta: sarà sostegno esterno.
In casa Meloni precisano che quella sarda non è una «ripicca»: «La Lega pensa di poter fare da sola ovunque, anche in Sardegna dove forse nemmeno entreranno in consiglio regionale, allora a questo punto meglio mettere le cose in chiaro», dice un autorevole esponente di Fratelli d’Italia.
Tensioni si annunciano sull’intera partita delle prossime regionali, a partire dalla ricandidatura di Vito Bardi in Basilicata, esponente di Forza Italia: Meloni vorrebbe cambiare anche qui nome, puntando su un volto del suo partito. In Sicilia il centrodestra rischia di andare in frantumi anche a Palermo: da due mesi la giunta è in stallo perché Forza Italia chiede un rimpasto. E i meloniani rivendicano più spazio. Il sindaco Roberto Lagalla non riesce a trovare la quadra.
(da la Repubblica)
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Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
L’ATENEO, NELLA FARAONICA VILLA GERNETTO (24MILA METRI QUADRI, 60 CAMERE DA LETTO, CINEMA DA 80 POSTI), DOVEVA FORMARE LA FUTURA CLASSE DIRIGENTE DI FORZA ITALIA
Dentro Forza Italia gira una battutaccia: l’università delle Libertà di Silvio Berlusconi ha fatto la fine delle Olgettine. I figli, gli eredi del Cavaliere, hanno tirato una riga. Senza più l’ex premier a occuparsene, il giocattolo è finito in soffitta. […] il progetto dell’ateneo azzurro, che avrebbe dovuto formare la nuova classe dirigente di FI, pallino antichissimo del patriarca forzista, che nei primi anni 2000 sognava di arruolare come prof addirittura Putin e Bush, è stato definitivamente accantonato.
Il sito dell’Universitas Libertatis, registrato quasi due anni fa, non è più attivo. È in modalità manutenzione La pagina Facebook non è più operativa da quasi un anno, l’ultimo post risale a dicembre 2022. E provando a chiamare il numero del centralino, dopo svariati tentativi a vuoto, la risposta conferma che l’iniziativa è archiviata: «I corsi non sono attivi. E non credo che riprenderanno più – fa sapere il centralinista – Grazie». Clic.
La decisione è stata presa dalla famiglia Berlusconi. Lo conferma anche Giovanni Puoti, presidente del Cda di Unicusano (l’università online del vulcanico Stefano Bandecchi, ora sindaco di Terni, che fa da partner) e membro del comitato scientifico dell’ateneo azzurro: «Per ragioni ereditarie, non è più nella disponibilità dell’Universitas Libertatis la sede di Villa Gernetto». Cioè la faraonica reggia berlusconiana nella frazione brianzola di Lesmo, 24mila metri quadri, 60 camere da letto, cinema da 80 posti, acquistata 17 anni fa dal Cavaliere proprio per farne la sede dell’ateneo.
Era già stata messa in vendita da Fininvest nel 2019, ma la cessione non era mai andata in porto. E così, nel 2022, era stata adibita a sede delle lezioni magistrali dell’Universitas, finalmente nata. Non come vera e propria università: difatti è stata battezzata così (universitas, non università) perché il latinorum ha aiutato a bypassare alcuni impacci burocratici. Non si tratta di un ateneo a tutto tondo, quindi, ma di un gestore di corsi e master, perfettamente riconosciuti, in asse con Uni-Cusano
Berlusconi sognava perfino Putin come docente, lo dichiarava pubblicamente nel 2010, quando l’ateneo era solo un miraggio. […] Comunque all’inizio del 2022 il progetto è partito sul serio. Era stato ingaggiato un battaglione di docenti, molti prestati da UniCusano, altri pescati dal mondo delle professioni e della politica, come l’ex ministro Mario Baccini. C’era pure una sessuologa per insegnare ai futuri politici azzurri “il linguaggio del corpo”.
Per attrarre matricole, era stata pensata una formula a prezzi stracciati, per un master: 100 euro, per chi si fosse iscritto agli “studenti azzurri”, la giovanile del partito. Ma il sogno è durato appena un anno. La scomparsa dell’ex premier, ha imposto lo stop.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
ORFANO DA GIOVANISSIMO, NEGLI ANNI ’90 SI GUADAGNA DA VIVERE VENDENDO PAPERELLE O JEANS DI CONTRABBANDO… NEL ’95 LA SVOLTA, QUANDO FONDA LA “SIBNEFT”, INSIEME A BEREZOVSKY, POTENTE DELL’AUTOMOTIVE VICINO A ELTSIN, CHE E’ STATA RIVENDUTA NEL 2005 A GAZPROM PER 13 MILIARDI DI DOLLARI
Una sera il consigliere Voloshin (Alexandr Voloshin, l’allora capo dell’amministrazione presidenziale di Vladimir Putin) mi chiama e mi dice: “Tra un’ora annunceremo che Abramovich sta comprando il Chelsea. Puoi diffondere la notizia?”». Chi parla così,[…] è Aleksey Venediktov, il direttore di Echo Moscow, la radio poi chiusa da Putin nel 2022 dopo che Venediktov si era espresso contro la guerra in Ucraina.
Per tanti anni, però, Venediktov è anche stato uno dei giornalisti più influenti di Mosca e più introdotti nei circoli del potere, nella transizione oscura da Boris Eltsin a Putin Voloshin dice a Veneditov «annunceremo», non «Abramovich annuncerà». Perché lo Stato russo doveva prendersi la briga di fare l’annuncio di una operazione di mercato di un libero imprenditore?
Abramovich ha sempre negato di aver acquistato il Chelsea dietro richiesta di Putin o della verticale di potere del Cremlino
La ricostruzione che giunge adesso da parte di Venediktov è una delle tante chicche contenute in un nuovo documentario evento francese-italiano, domani sera, lunedì 20 novembre, su Raitre in seconda serata, Roman Abramovich: l’equilibrista (tratto dal francese Un oligarque dans l’ombre de Poutine di Stéphane Bentura).
Con diverse rivelazioni. «La decisione di acquistare il Chelsea – spiega appunto Venediktov in uno dei passaggi chiave del film – fu chiaramente di natura politica. E Abramovich sapeva che gli avrebbe permesso di entrare nell’alta società britannica». Ma senza sconti, dietro Abramovich si staglia la figura di Vladimir Putin
È qui che si spiegano alcuni passaggi strabilianti dell’ascesa di Abramovich, per esempio la fondazione di Sibneft, con cui nasce la fortuna di Abramovich, nel 1995. Prima di allora, s’inventa un business (la costruzione di giocattoli per bambini, per lo più anatre di plastica). O il mercato nero di jeans, che importava da Mosca a Komi, orfano di madre e padre da piccolissimo, conosce durante una crociera ai Caraibi, nel 1994, Boris Berezovsky, più grande di lui, già potente nell’automotive, con forti entrature politiche. Gli sta simpatico.
Propone a Berezovsky di creare un’azienda capace di controllare tutto il flusso del greggio, dalla produzione alla raffineria. Berezovsky, come altri in seguito, si fa incantare da quel ragazzo dalla faccia pulita, che poi lo accoltellerà, e a sua volta convince Eltsin a far fondere un’azienda produttrice di petrolio greggio con una raffineria e a cederne il controllo a Berezovsky e Abramovich.
In cambio, Berezovsky avrebbe dovuto usare una parte dei proventi della nuova società petrolifera per fondare una stazione tv, Ort, deputata sostanzialmente a una cosa sola: fare propaganda pro Eltsin. Abramovich compra il 90 per cento a 240 milioni di dollari, ma di questi solo 18,8 milioni appartengono con certezza al suo capitale (il team Navalny ritiene che Sibneft costi complessivamente ad Abramovich cento milioni). Dieci anni dopo, nel 2005, rivende il 72 per cento di Sibneft a Gazprom, cioè allo Stato russo, che gli paga quelli che allora sono 13 miliardi di dollari.
Per Putin è il «consolidamento degli asset economici russi» sotto lo Stato. Per Abramovich l’affare che lo rende stramiliardario: un affare interamente dentro il perimetro del Cremlino. «Putin non ha messo in riga gli oligarchi – spiega Luke Harding nel film – è il più potente degli oligarchi. Siede al di sopra di questa struttura dove potere e denaro si fondono, dove il denaro è potere in contanti, e da dove arbitra tra le diverse fazioni, i diversi clan del Cremlino». Con Abramovich come una specie di jolly. «Abramovich – sostiene Parkomenko – ha costruito e progettato questa simbiosi tra denaro e potere».
Il mediatore nel primo mese della guerra russa in Ucraina. Venediktov racconta: «Per quello che ha fatto in Ucraina non posso dire che ha un mandato di Putin, ma ha l’autorizzazione di Putin, a trattare con Zelensky». Una figura statuale, insomma. Molto più che un businessman. Abramovich non ha voluto rispondere alle domande degli autori del documentario.
Nel film la deputata britannica Margaret Hodge racconta un episodio rivelatore. I russi, dice, hanno versato tre milioni di sterline a vari soggetti dei Tories, compresi ministri: «È stata una enorme operazione di soft power. Un giorno Abramovich mi mandò un emissario russo a convincermi che poteva e stava finanziando tante opere di carità. Io dissi: “Con quali soldi?”. Non rispose». In tanti, anche in Italia, in quel frangente scoprirono di tifare per il Chelsea.
(da La Stampa)
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Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
LA CAUSA AVVIATA DA 4 ESULI SUDANESI… LO STATO DOVRA’ PAGARE LORO 36.000 EURO
Spogliati «senza alcuna ragione convincente». Maltrattati e «arbitrariamente privati della libertà». Ecco perché, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia a risarcire quattro migranti sudanesi con cifre che vanno dagli 8 ai diecimila euro ciascuno. La sentenza della prima sezione della Corte (presieduta da Marko Bošnjak) è datata 16 novembre, ma riguarda episodi accaduti nell’estate del 2016. Dopo aver avviato le pratiche per far attribuire ai loro clienti lo status di rifugiato, nel febbraio 2017 gli avvocati (Nicoletta Masuelli, Gianluca Vitale e Donatella Bava, tutti di Torino) avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
I quattro erano arrivati in Italia in momenti diversi: due «in un giorno imprecisato di luglio» del 2016 a Cagliari, un altro il 14 luglio a Reggio Calabria, uno il 6 agosto sempre a Reggio Calabria e l’ultimo l’8 agosto «in un luogo imprecisato della costa siciliana». Il più giovane ha 30 anni, il più vecchio 43.
In comune, i quattro hanno che sono stati tutti trasferiti nello stesso centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa a Ventimiglia. Sono stati «costretti a salire su un furgone della polizia», trasportati in una caserma dove sono stati «perquisiti», obbligati a consegnare «i telefoni, i lacci delle scarpe e le cinture» e poi «è stato chiesto loro di spogliarsi». Sono rimasti nudi dieci minuti, in attesa che gli agenti rilevassero le loro impronte digitali.
Concluse le procedure, la polizia ha fatto salire i quattro (assieme a una ventina di connazionali) su un pullman. Destinazione: l’hotspot di Taranto. Secondo quanto ricostruito nella sentenza, i migranti sono stati «costretti a rimanere seduti per l’intero viaggio» e potevano andare in bagno soltanto scortati e lasciando la porta spalancata, rimanendo «esposti alla vista degli agenti e degli altri migranti».
Il 23 agosto, i quattro (con un gruppo di compatrioti) sono risaliti su un pullman diretti a Ventimiglia, dove hanno incontrato un rappresentante del governo sudanese che li ha riconosciuti come cittadini del suo Paese. A quel punto, è stata avviata la procedura per il rimpatrio. In aereo, dall’aeroporto di Torino Caselle. Ma sul velivolo c’era posto soltanto per sette migranti, così il questore aveva firmato un provvedimento di trattenimento e i quattro sono stati accompagnati al Centro di identificazione ed espulsione di Torino.
Uno, però, è stato prelevato pochi giorni dopo dalla polizia. Per lui, era pronto un posto sull’aereo per il rimpatrio. Lui non voleva, arrivato a bordo ha incominciato a dare in escandescenze assieme a un altro migrante finché il comandante del velivolo ha deciso di chiedere alla polizia di farli sbarcare entrambi, per problemi di sicurezza. Appena rientrato al Cie, l’uomo ha ribadito la sua intenzione di ottenere la protezione internazionale. Lo stesso hanno fatto gli altri tre. Tutti hanno ottenuto lo status di rifugiato.
La sentenza della Corte condanna l’Italia a pagare per varie violazioni. Una riguarda «la procedura di spogliazione forzata da parte della polizia», che «può costituire una misura talmente invasiva e potenzialmente degradante da non poter essere applicata senza un motivo imperativo». E per i giudici di Strasburgo «il governo non ha fornito alcuna ragione convincente» per giustificare quel comportamento. Poi, ci sono le accuse dei quattro di essere rimasti senz’acqua e cibo nel trasferimento Ventimiglia-Taranto e ritorno. Il governo aveva ribattuto fornendo «le copie delle richieste della questura di Imperia a una società di catering», che però «riguardavano altri migranti». Per la Corte, quella situazione «esaminata nel contesto generale degli eventi era chiaramente di natura tale da provocare stress mentale». E ancora, le condizioni vissute in quei giorni «hanno causato ai ricorrenti un notevole disagio e un sentimento di umiliazione a un livello tale da equivalere a un trattamento degradante», vietato dalla legge. I giudici di Strasburgo ritengono, poi, che i quattro siano «stati arbitrariamente privati della libertà», pur se in una situazione di «vuoto legislativo dovuto alla mancanza di una normativa specifica in materia di hotspot», già denunciata nel 2016 dal garante nazionale dei detenuti.
Per la Corte, ce n’è abbastanza per condannate l’Italia a risarcire i quattro: uno dovrà ricevere 8 mila euro, un altro 9 mila e altri due diecimila «a titolo di danno morale».
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
“CHI PROTESTA CONTRO I RITARDI NELLA RICOSTRUZIONE POST-TERREMOTI RISCHIANO LA GALERA CON IL NUOVO DECRETO SICUREZZA”… “MELONI VUOLE CRIMINALIZZARE IL DISSENSO SOCIALE”
Un governo reazionario che criminalizza chi si oppone ma ha un occhio di riguardo per chi evade le tasse, per gli ultras (che sono soprattutto fascisti) e per chi inquina e violenta il territorio, magari provocando disastri ambientali o malattie.
“Il decreto sicurezza del governo è una vera e propria svolta autoritaria del nostro paese e un problema serio per la nostra democrazia. Dopo la precettazione voluta dal ministro Salvini contro lo sciopero generale di CGIL e UIL, arrivano gli articoli 11 e 10 del decreto sicurezza approvato dal Consiglio dei Ministri che prevede il carcere dai sei mesi fino a 4 anni per chi si renderà responsabile di blocchi stradali. Viene modificato l’art. 1 bis del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, in riferimento al comma 2 trasformando la sanzione pecuniaria in carcere fino a 4 anni per chi blocca strade e infrastrutture. Gli operai e le operaie dell’Ilva, della Whirlpool, della Softlab, della Sanac, della Jabil, di Mondo Convenienza, della Valbruna – solo per citarne alcuni – che solo in questi mesi del 2023 hanno bloccato strade per protestare contro i licenziamenti, per la crisi delle loro aziende e per le condizioni di lavoro, andranno in carcere fino a 4 anni se riproporranno le stesse modalità di lotta. Ma non solo loro.”
Cosí in una nota il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Verdi e Sinistra Angelo Bonelli, che prosegue:
“Che dire dei terremotati che nel 2017 bloccarono le strade con i trattori per protestare contro i ritardi sulla ricostruzione, o quando in Maremma gli alluvionati bloccarono la strada regionale 74 per chiedere sicurezza idraulica, o gli agricoltori che nel maggio 2023 hanno bloccato la Domiziana? Le proteste di Ultima Generazione sono solo l’alibi per il governo per fermare la protesta sociale perché non sono in grado di dare alcuna risposta politica e di governo se non il carcere a chi protesta e subisce gli effetti della crisi economica, sociale e ambientale.
In piú il governo si preoccupa di criminalizzare la protesta sociale, ma non fa nulla di fronte alla più grande ingiustizia sociale come l’accumulazione degli extraprofitti di banche e societá energetiche che tra il 2021 e il 2023 hanno raggiunto una cifra ampiamente superiore ai 100 miliardi di euro e (senza parlare di quelli sanati da Giorgia Meloni). Con loro usano la piuma e per chi oggi protesta giustamente, prevedono il carcere”
“Questa svolta autoritaria del governo ed oltre ad essere un problema serio per la nostra democrazia, ma è anche di parte: all’art. 8 del decreto vengono salvati i lontani amici di Lega e FDI perché non prevede il carcere per realtà e organizzazioni fasciste come Casapound che occupano da anni un immobile dello Stato a Roma.” Conclude
(da Globalist)
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Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
ALMENO LA METÀ DEI DIVIDENDI SARA’ DISTRIBUITA ALLE HOLDING PERSONALI DEI CINQUE FIGLI DELL’EX PREMIER E UN POSTO NEL CDA DELLA FINANZIARIA DI FAMIGLIA SARA’ A DISPOSIZIONE DI BARBARA, ELEONORA E LUIGI
Il controllo di fatto dell’impero Fininvest a Marina e Pier Silvio Berlusconi; almeno la metà dei dividendi distribuita alle holding personali dei cinque figli dell’ex premier; un posto nel Cda della finanziaria di famiglia a disposizione di Barbara, Eleonora e Luigi. La “nuova” Fininvest prende forma e i patti parasociali siglati dagli eredi dopo la morte del padre, verranno ora recepiti negli statuti delle holding personali e in quello della finanziaria di famiglia.
Con ogni probabilità i consigli di amministrazione di Fininvest e delle holding personali dei figli di Silvio Berlusconi saranno infatti convocati la prossima settimana, con le relative assemblee che si terranno a fine mese. Verranno così blindati i patti tra gli eredi, compresa l’impossibilità di cedere quote in Fininvest per un periodo di cinque anni. Confermato anche l’allargamento del board da 7 a 15 consiglieri.
Le modifiche definiscono il futuro della finanziaria che controlla Mfe, Mondadori e il 30% di Banca Mediolanum, sulla quale è ancora attesa la risposta della Bce affinché Fininvest possa tornare a disporre della quota del 20% “congelata” per la perdita dei requisiti di onorabilità del fondatore.
La prossima settimana sono intanto attesi i conti di Mfe-Mediaset, tra le ultime trimestrali dei grandi gruppi quotati in Piazza Affari. […] i ricavi del terzo trimestre sfiorano i 500 milioni, mentre per l’intero 2023 è sopra i 2,7 miliardi, sostanzialmente in linea con l’anno scorso. Intanto a ottobre la raccolta pubblicitaria è cresciuta dell’8%, un dato che dovrebbe essere confermato anche a novembre. I dati, però, si confrontano con un fine 2022 complicato perché c’era i Mondiali di calcio in Qatar trasmetti dalla Rai.
(da La Stampa)
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Novembre 19th, 2023 Riccardo Fucile
IL PRESSING SU BENJAMIN NETANYAHU PER SBLOCCARE LE TRATTATIVE PER LA LIBERAZIONE DEGLI OSTAGGI SU HAMAS SI FA SEMPRE PIU’ FORTE
68 chilometri percorsi a piedi in 5 giorni, dalle spiagge di Tel Aviv fino alle colline di Gerusalemme, 43 giorni senza notizie dei loro cari. Lungo il percorso, la solidarietà dei connazionali si è manifestata in una folla sempre più numerosa e nell’abbraccio di 30mila persone nella tappa finale, ieri pomeriggio
«Il viaggio non è finito», ha detto Yuval Haran, sette famigliari nelle mani di Hamas e promotore della marcia. «Siamo pronti a camminare fino a Gaza, se necessario. Ma non rinunceremo ai nostri figli», ha ribadito la signora Ganz-Zach.Poi un pullman li ha riportati a Tel Aviv, al quartier generale del forum delle famiglie degli ostaggi, dei 240 […] che sono prigionieri nella Striscia ma chissà dove esattamente, in quali condizioni e in mano di chi. L’ala militare di Hamas ha comunicato, proprio ieri in serata, che «i contatti con alcune squadre, il cui compito era sorvegliare gli ostaggi, sono stati interrotti» e che pertanto non ha più informazioni sulla sorte di quelle persone.
La marcia aveva anche lo scopo di fare pressione sul gabinetto di guerra, a cui si chiede trasparenza, un dialogo costante ed empatia. «L’obbligo principale di un governo nei confronti del suo popolo è proteggerlo. Senza protezione e senza sicurezza, non c’è uno Stato, non c’è Israele. L’unico modo per tornare a essere una nazione, è riportare a casa gli ostaggi», dice fuori dall’auditorium Gil Dickmann, mentre il ministro Benny Gantz e l’osservatore del gabinetto di guerra Gadi Eisenkot, entrambi ex capi di Stato maggiore dell’esercito, stanno rispondendo alle domande dei rappresentanti delle famiglie.
Dall’incontro a porte chiuse trapela che Eisenkot abbia detto che «il ritorno degli ostaggi è la priorità suprema, prima ancora della distruzione di Hamas». Il premier Benjamin Netanyahu, in una conferenza stampa per i media locali, ha dichiarato: «Noi stiamo marciando con voi, io sto marciando con voi, tutto il popolo di Israele sta marciando con voi». Ma la solidarietà non basta più. «A seguito di forti pressioni – fa sapere il forum delle famiglie degli ostaggi – il Primo Ministro ha annunciato un incontro dei rappresentanti di tutte le famiglie con l’intero Gabinetto di Guerra», lunedì sera, in coincidenza con la Giornata mondiale dell’Infanzia.
Intanto, dal complesso della Kirya, Netanyahu ribadisce che «molte notizie» su imminenti accordi per liberare alcuni o tutti gli ostaggi sono «errate. Per ora non c’è alcun accordo». E il ministro Benny Gantz, che l’ha raggiunto dopo l’incontro con le famiglie degli ostaggi, dice che l’operazione di Tsahal a Gaza finirà «solo quando possiamo promettere sicurezza e riportare a casa i nostri ragazzi e le nostre ragazze». Sulle pagine del Washington Post il presidente Usa Joe Biden[…] ribadisce anche che per Hamas «ogni cessate il fuoco» serve «per ricostituire le scorte di razzi, riposizionare i combattenti e iniziare nuovamente a uccidere i civili».
(da agenzie)
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