Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
IL “CAPITONE” HA CAPITO CHE LA RIFORMA DELL’AUTONOMIA RESTERÀ CARTA MORTA E HA DECISO DI FAR SALTARE I NERVI ALLA DUCETTA: IL NO ALLA NORMA ANTI-RIBALTONE SUL PREMIERATO, LA CLAMOROSA DIFESA DI ORBAN SUL CASO ILARIA SALIS, LA PROVOCAZIONE DAFFINA ALLA CDP, IL NO ALLA RICANDIDATURA DI URSULA… UN GOVERNO A RISCHIO DI IMPLOSIONE
Giorgia Meloni ha un chiodo fisso: portare a casa un successo elettorale alle prossime Europee: la Ducetta considera il voto come il vero test di approvazione per la sua azione di governo.
Se riuscirà, come spera, a passare dal 26% delle Politiche 2022 al 30% alle Europee, sentirà di avere in pugno le redini del centrodestra e di essere finalmente legittimata da “laggente” nella sua marcetta su Roma.
L’ossessiva ricerca di un plebiscito a consacrare definitivamente la sua leadership politica e di governo cozza però con la saggezza di una delle leggi cardine della politica: attenzione, quando si stravince, è il momento che si inizia a perdere.
Una perla di realpolitik resa ancora più evidente dall’atteggiamento di Matteo Salvini, alleato di Giorgia Meloni e suo vicepremier, trasformatosi nel primo sabotatore e/o avversario delle principali scelte del Governo.
Il leader del Carroccio, che non ha mai accettato di dover cedere il testimone, come capo della coalizione, alla vertcalmente svantaggiata Regina della Garbatella, fa guerriglia interna su ogni provvedimento: sbraita, minaccia, incalza, destabilizza tutto il possibile nel tentativo di complicare la vita alla premier nel tentativo per ora vano di rosicchiarle consensi.
L’ultimo terreno di scontro riguarda la “madre di tutte le riforme” (cit. Meloni), cioè il premierato: la Lega non accetta la norma anti-ribaltone voluta da Fdi, che in caso di sfiducia al Presidente del Consiglio eletto impedirebbe di nominare un nuovo premier (“Troppi poteri in mano a una sola persona”).
La furia bellicista di Salvini verso il premierato nasce dalla consapevolezza che la riforma “madre” per la Lega, cioè l’autonomia differenziata, resterà carta morta. Dopo il via libera in prima lettura del Senato al Ddl Calderoli, il testo dovrà passare all’esame della Camera.
Seguiranno discussioni, correzioni, regolamenti attuativi: in pratica, di rimando in rimando, prima delle Europee, nisba, e dopo, (probabilmente) anche.
E la Lega, che sognava di portare a casa la riforma prima del voto, si ritroverà a consolarsi con un bidet: una mano davanti e l’altra ndré. Ragion per cui Matteo Salvini ha deciso di rompere le uova nel paniere su tutto.
Un altro calcione, l’ex Truce l’ha rifilato sul caso di Ilaria Salis con l’intervista a “Repubblica”, in cui ha ribadito il sostegno a Orban e alla giustizia ungherese (“Deve essere processata in Ungheria. La sinistra ci dice sempre che dobbiamo rispettare la magistratura, ecco, allora rispettino anche la magistratura ungherese”), complicando la vita alla premier.
Proprio ora che Ursula Von der Leyen conta su di lei per una moral suasion su Orban per togliere il veto ai 50 miliardi di aiuti all’Ucraina, la Ducetta si trova a dover chiedere un altro favore al leader ungherese, sul caso Salis: dovrà convincerlo a essere per una volta democratico.
E Salvini che fa? Elogia la durezza del sistema Ungheria, mettendo Orban nelle condizioni di spernacchiare la Meloni facendole capire: mi chiedi di non usare il pugno di ferro quando il tuo principale alleato ti scredita elogiandomi pubblicamente per la fermezza?
L’altro siluro è quello sulle alleanze europee: un colpo di ju-jitsu rifilato a Ursula ma diretto a Giorgia Meloni.
“Personalmente non voterei per un secondo mandato della von der Leyen, la Commissione è stata disastrosa”. Una gomitata al costato della premier, da mesi impegnata in un intenso flirt con l’ex cocca della Merkel: l’italiana sogna di entrare nella stanza dei bottoni di Bruxelles, la tedesca di essere confermata a Palazzo Berlaymont.
Anche l’ipotesi by Salvini di proporre Alessandro Daffina alla guida di Cdp al posto di Scannapieco rientra a tutti gli effetti nella strategia di logoramento del “Capitone”. Come scrive Carmelo Caruso sul “Foglio” di oggi: “Perché Salvini vuole sostenerlo? Perché ha bisogno, ripete, di un ‘altro manager nelle partecipate’ e perché l’operazione Daffina, direbbe Arianna Meloni, è una classica azione per ‘far saltare i nervi’”.
Ma lo stesso segretario leghista non sta attraversando un periodo rilassante: i consensi della Lega ristagnano, negli ultimi sondaggi il Carroccio è stato quasi agganciato da Forza Italia; nel partito monta l’insofferenza per l’irrilevanza della Lega al governo;
Fratelli d’Italia gli ha già di fatto “scippato” la Regione Lombardia (la truppa Meloni è la prima forza politica al Pirellone) e si prepara, con il no al terzo mandato per i governatori, a fare lo stesso con il Veneto bloccando la ricandidatura di Luca Zaia; la carta Vannacci, che Salvini vorrebbe usare per risollevare i consensi alle europee, indispettisce i moderati del partito, che vedono il generale come un corpo estraneo.
In più, c’è l’inchiesta sulla famiglia Verdini: il ”cognato” di Salvini, Tommaso, e il suocero Denis, sono indagati per turbativa d’asta e traffico di influenze illecite per il caso degli appalti Anas.
Ce n’è abbastanza per far saltare i nervi a un terziario francescano, figuriamoci a un imprevedibile birbantello, sempre su di giri, che fece saltare il governo Draghi non appena s’accorse che Fdi aveva superato la Lega nei sondaggi e, tre anni prima, mandò gambe all’aria il Conte I, invocando pieni poteri, con il mojito in mano, alla consolle del Papeete.
Con questi “precedenti”, Giorgia Meloni farebbe bene a chiedersi: cosa farà Matteo se la Lega alle europee tracollasse nei consensi, superata perfino da Forza Italia?
(da Dagoreport)
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Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
UN FLOP CON LA PARTECIPAZIONE DI APPENA 14.000 PERSONE
Doveva essere la grande celebrazione del primo cittadino pronto a lanciarsi nella campagna elettorale per le regionali. Ma è stato un disastro.
Parliamo del concerto di Capodanno di Marco Mengoni, organizzato a Cagliari dal sindaco Paolo Truzzu (aka “Trux”, come da tatuaggio sul braccio sinistro), l’uomo scelto da Giorgia Meloni per prendere il posto di Christian Solinas.
Un disastro di concerto, sia dal punto di vista dell’organizzazione del live (e non certo per colpa di Mengoni, estraneo all’intera vicenda), sia per l’iter macchinoso della sua organizzazione, passato tra affidamenti per oltre 800.000 euro dati senza gara; esclusive concesse da giganti della musica live (Live Nation) a srl nate solo l’anno prima e che fino ad allora avevano organizzato piccoli concerti e allestito alberi di Natale; bandi comunali aperti e lasciati in sospeso; autorizzazioni di sicurezza non pervenute, sanate solo con l’intervento di Truzzu stesso.
Un pasticcio che, a conti fatti, è costato alle casse della città di Cagliari la bellezza di 1,1 milioni di euro. Il live più oneroso della storia dei San Silvestro cagliaritani, che negli anni passati non avevano mai superato i 500.000 euro e avevano occupato 5 piazze della città, contemporaneamente.
Organizzato negli stessi giorni nei quali il sindaco di Milano, Beppe Sala, preferiva far saltare il concerto in Piazza Duomo, ritenendo il costo di 1 milione di euro troppo alto in un periodo di crisi.
Di parere diverso Truzzu (che non ha voluto rispondere alla domande de La Notizia), che ha sborsato senza problemi una cifra monstre per uno show “gratuito” al quale alla fine hanno potuto partecipare meno di 14.000 spettatori (in pratica 85 euro a biglietto).
E che oltretutto non si è tenuto in Piazza dei Centomila come previsto, ma nel recinto della Fiera di Cagliari, togliendo così anche l’indotto alle attività commerciali della città. Ma un disastro soprattutto per come sono stati spesi quei soldi. Per capire come si è arrivati a oltre un milione, bisogna scartabellare nelle delibere comunali.
L’EVENTO AFFIDATO ALLA F GROUP CHE FINO AD ALLORA AVEVA CURATO SOLO INIZIATIVE MINORI
Il tutto parte dopo l’estate, quando il Comune di Cagliari lancia una manifestazione di interesse per un “servizio di progettazione, organizzazione, promozione, allestimento e realizzazione dell’evento capodanno e festeggiamenti di fine anno 2023”.
Tra i requisiti richiesti ai promoter, quello di “aver organizzato e realizzato nell’ultimo quinquennio almeno un evento avente natura analoga a quella dell’evento in oggetto, con un piano di sicurezza, emergenza e evacuazione commisurato alla partecipazione di almeno 14.000 persone”. Alla chiamate rispondono sei operatori.
Tuttavia gli uffici di Truzzu si muovono autonomamente, entrando in contatto con l’entourage di Mengoni. Occhio alle date: l’8 novembre il Comune di Cagliari chiede un preventivo a Live Nation, la quale risponde il 10 novembre, fissando il costo per il cantante a 250.000 euro + Iva, oltre ai costi per i trasferimenti. Ma nella missiva Live Nation avverte anche che “La Società F Group, con sede a Cagliari in via Sardegna 32, nella persona dell’Ad sig. Simone Ruscica è stata da noi incaricata di seguire tutta l’organizzazione e l’allestimento tecnico”.
Quindi il più grande promoter d’Italia certifica di aver dato l’esclusiva per l’organizzazione del solo live di Capodanno a una società semi-sconosciuta, la F Group, fondata nel 2022 e che fino a quel momento a Cagliari si era solo aggiudicata dal Comune l’appalto (senza gara) per allestire 2 alberi di Natale (valore 40 mila euro ) e che aveva organizzato due concerti in estate. Nessuno però paragonabile al live di Capodanno e nessuno con 14.000 partecipanti.
A La Notizia, Live Nation ha spiegato di essere stata contattata da F Group già “a fine ottobre” e che comunque si tratta di una “società che noi già conoscevamo e con cui abbiamo anche collaborato in passato per altro evento live in Sardegna”. Un bel colpo per F Group l’essersi aggiudicata l’esclusiva per un concerto che fino a quel momento era solo un’ipotesi.
Il 22 novembre Truzzu decide che il cantante prescelto è proprio Mengoni e autorizza tre capitoli di spesa: 333.306,28 euro, più altri 451.950,24, ai quali si aggiungono ulteriori 54.234,63 euro (questi ultimi soldi stanziati da Regione, che diventeranno poi 250.000).
Il 4 dicembre Live Nation comunica ufficialmente al Comune “che la Società F Group srl (…) detiene l’esclusiva per la Sardegna relativamente alla gestione organizzativa e allestimenti tecnici per l’evento di Capodanno per l’artista Marco Mengoni”.
Un’informazione che Truzzu e i suoi sapevano già dal 10 novembre, ma che non li ha fermati dallo scegliere un artista meno costoso (la manifestazione di interessi dell’estate era ancora aperta e sarà chiusa solo a metà dicembre, quando i giochi per Mengoni erano fatti).
Tuttavia quell’esclusiva data da Live Nation a F Group a novembre fa sì che il Comune, nella determina di spesa emanata il 12 dicembre 2023, possa affidare alla F Gruop senza gara l’organizzazione complessiva del concerto per la cifra totale di 839.491,15 euro. Essendo “l’unico operatore che in Sardegna può contrattualizzare il cantante Marco Mengoni”, scrive il Comune. Soldi che vanno ad aggiungersi ai 250.000 euro già stanziati per l’artista. Una soluzione “chiavi in mano” che non prevede di spacchettare i servizi (palco, sicurezza, transenne ecc…) e quindi non permette neanche i presumibili risparmi dovuti alla competizioni tra fornitori. Qui i fornitori li decide il sig. Ruscica, in forza dell’esclusiva di novembre.
Ma Truzzu ha anche un altro problema: la Commissione Provinciale di Vigilanza sui Locali di Pubblico Spettacolo (quella che certifica che una location sia idonea e che anche tutte le misure di sicurezza siano adeguate) comunica il 29 dicembre che “non sussistano le condizioni per esprimere il parere di competenza nei tempi previsti per l’evento”, riscontrando “altresì la necessità di acquisire ulteriori integrazioni documentali dagli organizzatori”.
Ma Truzzu non può aspettare, non può rischiare che il suo grande evento sia un flop. Quindi con Ordinanza n. 132 autorizza lui, in deroga all’art 80 del Tulps, la F Group a tenere comunque il concerto. Assumendosi la responsabilità di ogni eventuale incidente, sia penale che civile. Un rischio enorme: per una situazione simile, appena eletto il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, pretese le immediate dimissioni dell’allora assessore Stefano Boeri. Per non parlare poi dei guai della ex sindaca di Torino, Chiara Appendino, per la tragedia di Piazza San Carlo.
(da TPI)
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Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
“LA BATTAGLIA DI GIUSTIZIA PER MIA FIGLIA LA PORTO AVANTI IO, NON UN DELINQUENTE RAZZISTA”
Barbara Mariottini non vuole crederci. Prima cerca una giustificazione: “Alessandra forse sta male, ha bisogno di aiuto, non ha riflettuto”.
Poi, quando legge ciò che Luca Traini ha scritto sul Tricolore, non usa mezze frasi: “Un razzista non deve permettersi di trattare così la nostra bandiera. Mai avrei accettato la sua vicinanza. Non tollero il razzismo e Luca Traini non è una persona che potrebbe mai avere a che fare con me. La battaglia di giustizia per mia figlia la porto avanti io, non un delinquente”.
Barbara Mariottini è la mamma di Desirèe, la sedicenne uccisa a Roma, in un capannone di San Lorenzo, proprio da alcuni stranieri nel 2018. Prima imbottita di droghe, poi violentata, infine abbandonata.
Eppure, nonostante il dolore e la rabbia per l’atrocità subita, arriva da Barbara la reazione sconcertata alla volontà di Alessandra Verni di conoscere Luca Traini, l’uomo che a Macerata sparò a sei migranti per motivi razziali. “Siamo amiche, lottiamo fianco a fianco per chiedere giustizia allo Stato per le nostre figlie morte. Io dovevo esserci ieri a piazza Re di Roma ma non sono potuta andare per motivi di lavoro. Però mi sento di dire a Alessandra che doveva riflettere di più”.
La mamma di Pamela Mastropietro, invece, durante la commemorazione in piazza Re di Roma per i sei anni dall’assassinio della figlia quel Tricolore l’ha messo sulle spalle. Ha anche letto il messaggio scritto da Luca Traini sopra la bandiera.
“E’ scioccante, non doveva farlo. Alessandra è vittima anche lei, è devastata dal processo per sua figlia. Ha sbagliato e ha solo visto che c’era un’altra persona che sta sposando la sua causa – continua Barbara Mariottini -. Ma la giustizia deve essere senza violenza. Mia figlia non avrebbe mai fatto del male a nessuno, mia figlia si è fidata di una donna. Perché era una ragazzina che aveva fiducia nel prossimo e io le avevo insegnato che siamo tutti uguali. Le avevo insegnato che si rispetta l’altro”.
Su Traini la mamma di Desirèe va dritta: “Anche lui come gli assassini di mia figlia deve scontare tutti i suoi anni di carcere. Chi sbaglia deve pagare la sua condanna. Io non tollero nessun tipo di violenza, da quella fisica a quella verbale. Noi che abbiamo subito questa atrocità dobbiamo portare avanti messaggi di amore e speranza, non di vendetta. L’odio non si combatte con l’odio”.
La donna chiamerà la sua amica, con la quale recentemente aveva anche lanciato un appello al governo sulle pene certe attraverso un video dove compaiono anche altre mamme di figli uccisi. “Cercherò di parlarle, di comprendere perché ha preso questa decisione. Le ribadirò – dice Barbara Mariottini – quello che io penso sul razzismo. I delinquenti sono italiani come stranieri, però anche se degli stranieri hanno ucciso mia figlia io non divento razzista. Come ho già detto non accetto nessuna forma di violenza e di razzismo da qualsiasi parte o persona essa provenga. Chi commette reati deve scontare tutta la pena, chi uccide non dovrebbe uscire nemmeno per un giorno dal carcere perché la vittima non ha altre possibilità. I detenuti devono lavorare e mantenersi nelle carceri”.
(da La Repubblica)
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Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
CARMEN GIORGIO: “QUANDO AVEVO BISOGNO ILARIA C’E’ STATA, ERO SENZA SCARPE E ME LE HA REGALATE”… CARCERI DEGNE DEI PEGGIORI REGIMI MILITARI
Carmen Giorgio è stata per mesi la compagna di cella di Ilaria Salis. A Fanpage.it racconta la loro prigionia e il rapporto che si è creato con la 39enne milanese, tutt’ora detenuta nel carcere di Budapest dopo l’arresto a una contro manifestazione antifascista.
Che cosa ti è successo in Ungheria?
“Mi trovavo lì con degli amici in vacanza e sono stata arrestata. Mi hanno accusata di traffico di esseri umani solo perché avevo in macchina persone che non avevano un passaporto europeo, anche se erano regolarmente registrate nei loro Paesi e con un lavoro. Alla fine ho scelto di patteggiare per essere liberata prima, però sono stata sette lunghi mesi in una prigione ungherese, dal 24 giugno 2023 al 24 gennaio 2024”.
Come hai conosciuto Ilaria Salis?
“Quando sono entrata mi hanno sbattuta prima due giorni in una prigione e poi mi hanno portata in un’altra struttura di Budapest in cui, dopo tre giorni da sola in una stanza piccolissima, mi hanno detto che c’era un’altra ragazza italiana in quella prigione, che però non fumava. A quel punto, pur fumando da più di vent’anni, ho scelto di non farlo più per poter essere messa in cella con lei, almeno avrei capito qualcosa. Nessuno lì parlava italiano, a parte Ilaria”.
E com’è stata la vostra convivenza?
“All’inizio pensavamo tutte e due di essere in una candid camera, che non era una cosa reale, che di lì a poco ci avrebbero liberate. Parlavamo tutto il giorno di questo e ci ridevamo anche sopra, perché era una situazione assurda, soprattutto per lei che mi ha raccontato di essere scesa da un taxi e essere stata ammanettata. Erano già quattro mesi e mezzo che lei era lì quando sono arrivata io”.
Com’era il vostro rapporto?
“Ci davamo forza l’un l’altra. Lei mi ha aiutata molto perché la mia famiglia mi aveva data per morta e ci sono voluti tre mesi prima che potessero aiutarmi, mandarmi dei soldi, riuscire a sentirci via Skype”.
Quali erano le condizioni nel carcere dove eravate detenute?
“Ilaria mi ha raccontato che lei lì, soprattutto all’inizio, è stata trattata molto male, le gridavano dietro, le cambiavano stanza spesso, l’hanno lasciata più di un mese da sola. Si è trattate come animali lì dentro. Ricordo che non potevi chiedere nulla perché subito la polizia ti aggrediva. La struttura era molto vecchia, sporca, le stanze erano infestate da cimici da letto: ti svegliavi la mattina piena di puntini rossi. Le lenzuola all’inizio le dovevano cambiare ogni due settimane, poi è diventato un mese, poi altri due e infine non hanno fatto più niente. Il cibo era zuppe, che non alla fine non avevano dentro nulla, pasta fredda e scotta e per cena solo conserve. Inoltre dovevi scegliere tra farti la doccia o avere l’ora d’aria e quando andavi a fare la doccia venivi pure chiusa dentro. La mattina alle cinque e mezza ti dovevi alzare e fino alle nove di sera non potevi andare a dormire. L’aria non era aria, perché alla fine eri in gabbia, in cella c’era solo una fessura di dieci centimetri di apertura con delle grate davanti”
Eravate sottoposte anche a punizioni?
“Sì, eccome. Le punizioni lì sono molto dure. Solo perché una ragazza ha osato buttare l’immondizia con indosso le ciabatte per quindici giorni ci hanno tolto la televisione. Ti buttano i secchi d’acqua in cella e la cosa peggiore è la fugda, una stanza piccola in cui c’è una gabbia con all’interno letto e water, videocontrollata, in cui le ragazze che fanno azioni secondo loro non giuste vengono rinchiuse per periodi che vanno dai 5 ai 15 giorni, senza poter fare nulla, nemmeno la doccia. E lì vengono anche picchiate”.
Accadeva spesso che le detenute venissero picchiate?
“A me non è successo, ma c’era una ragazza, per esempio, che aveva chiesto di cambiare stanza perché non si trovava bene e un giorno sono venuti a prenderla due capi e un’educatrice, l’hanno portata nella doccia e l’hanno picchiata. Episodi di questo genere succedevano spesso”.
A livello sanitario?
“Il dottore non l’ho mai visto, anche se ho problemi alla tiroide e ho chiesto più volte di essere visitata perché si era ingrossata. Una sera eravamo in cella con una ragazza al settimo o ottavo mese di gravidanza. Non stava bene. Abbiamo provato a bussare per chiamare le guardie, ma niente, per più di un’ora nessuno”.
Quali erano le condizioni di Ilaria quando hai lasciato il carcere?
“Ilaria all’inizio si dava forza da sola. Essendo una maestra, doveva preparare un concorso e pensando che si sarebbero accorti della sua innocenza il prima possibile, passava le giornate a studiare latino, ungherese, inglese, ad aggiornarsi e a preparare le lezioni. È una ragazza molto pacifica, tranquilla, non mi sembra proprio una rivoluzionaria che va in giro a picchiare le persone. Si vergognava perché lei aveva una posizione a Milano e quindi, non avendo fatto niente, non voleva passare per quella che non era. Poi quando ha visto che le si prospettavano dagli 11 ai 24 anni di carcere è cambiata. Notavo i suoi occhi spaventati, anche se cercava di non darlo a vedere. Lei è una che non si butta mai giù. Solo una volta ‘ho vista piangere perché finalmente le avevano dato la notizia che poteva sentire la sua famiglia. Però la sera si metteva nel letto, si girava dall’altra parte e secondo me non dormiva, stava lì e pensava alla sua situazione”.
Che cosa provi oggi riguardo alla sua situazione?
“Voglio aiutare Ilaria, perché lei mi ha aiutata molto. Se non era per lei io non avevo neanche un paio di scarpe. Quando sono entrata indossavo un paio di zeppe alte, per due giorni mi hanno permesso di scendere all’aria, poi una guardia che ha detto che così non potevo andare in giro, quindi sarei dovuta rimanere tutto il tempo chiusa in cella, ma Ilaria, quando le è arrivato il pacco da casa, dopo cinque mesi che lo aspettava ricordo che appena entrata in stanza la prima cosa che ha fatto è stata darmi un paio di scarpe. Non dimenticherò mai quel gesto, perché lei ha pensato ad aiutare me perché lei ci era passata i primi mesi e non aveva nessuno a supportarla. Le ho promesso che io la tirerò fuori di lì”.
(da Fanpage)
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Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
DOPO VENT’ANNI PASSATI A CONSIDERARE L’AFRICA UN PROBLEMA DI ORDINE PUBBLICO O UN CONTINENTE DA DEPREDARE, L’ITALIA SCOPRE CHE SI POTREBBE AIUTARNE LO SVILUPPO… PECCATO CHE LA CINA SI SIA MOSSA CON 20 ANNI DI ANTICIPO INVESTENDO 150 MILIARDI
Forse era meglio quando era una scatola chiusa, il mirabolante piano che Giorgia Meloni aveva in serbo per l’Africa. Perché finché erano solo chiacchiere e slogan poteva essere qualunque cosa, persino una cosa seria. E invece, ora che quella scatola è stata aperta, in occasione del summit Italia-Africa che si è svolto ieri al Senato a Roma abbiamo scoperto che dietro le chiacchiere e gli slogan c’è un progetto ipocrita, neocoloniale e velleitario.
Un progetto che non aiuterà l’Africa nel suo sviluppo, che non fermerà i flussi migratori e che, a dispetto delle speranze dei suoi ideatori, non farà crescere nemmeno un po’ l’influenza italiana ed europea nel continente africano.
Cominciamo dall’ipocrisia. E in particolare dai 5,5 miliardi di progetti per la cooperazione allo sviluppo che l’Italia avrebbe stanziato per diversi Paesi africani come il Marocco, Algeria, Egitto e Tunisia.
Tutto bello, se non fosse che quei progetti siano vecchi arnesi riesumati alla bisogna, finanziati con soldi altrettanto vecchi, già stanziati anzitempo per l’emergenza climatica e per la cooperazione coi Paesi in via di sviluppo.
Che tutto questo sia spacciato come qualcosa di nuovo, come se avessimo davvero in testa nuovi progetti per i Paesi africani, finanziandoli con risorse aggiuntive è una mossa da trecartari che non fa onore a un continente che si fa forte della sua superiorità culturale.
Non solo: in quei progetti non c’è nessun tipo di cooperazione. Si tratta di idee calate dall’alto in basso, come ha avuto modo di rimarcare il presidente dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat, gentili concessione dell’Europa civilizzata all’Africa selvaggia, come se i Paesi africani non avessero diritto ad avere alcuna voce in capitolo sulla strada da scegliere per la loro crescita.
Soprattutto: come se tutto questo non preveda, in cambio, lauti contratti per le imprese italiane, bisognose di commesse, di materie prime e di energia a basso costo da comprare, ora che i rubinetti del gas russo sono chiusi a tripla mandata.
In fondo, quest’ultimo, è l’unico motivo per cui oggi Meloni, Metsola e Von der Leyen parlano di “destini incrociati” tra i due continenti, dopo vent’anni in cui l’Africa, un continente in cui abitano un miliardo e mezzo di persone, è stata semplicemente rubricata dalla ricca e vecchia Europa, come un problema d’ordine pubblico.
All’ipocrisia e al neocolonialismo si aggiunge uno strato di surreale velleitarismo. Pensare anche solo che cinque miliardi e mezzo di progetti possano fare la differenza quando negli ultimi vent’anni, la sola Cina – mentre noi parlavamo di Fortezza Europea e di migranti da rispedire “a casa loro” – ha investito più di 150 miliardi di dollari nel continente africano, dà la dimensione della nostra impotenza nel voler determinare il destino dell’Africa e di volerne inglobare il destino nella nostra sfera di influenza geopolitca e geoeconomica.
E fa sorridere, se non facesse piangere, la convinzione di Meloni & co di potercela fare davvero, a diventare interlocutori privilegiati di un continente che dell’Europa e dell’Occidente conosce solo il colonialismo razzista, la pretesa di dominarne i destini, l’indifferenza alla povertà e il brutto vizio di scatenare conflitti e armarne le fazioni per arraffare risorse.
Intendiamoci: è un giochino che non inizia certo con Giorgia Meloni e il piano Mattei. Né tantomeno è un giochino in cui l’Italia ha qualcosa da insegnare ai suoi partner europei, Francia in primis.
Se l’Africa vede l’Europa come la causa di buona parte dei suoi mali, le ragioni storiche di questa convinzione affondano le radici in secoli di Storia. Ma proprio perché la Storia non si può cambiare, aggiungiamo un piccolo dettaglio pro futuro: tutti i modelli di previsioni dell’Ipcc, il panel intergovernativo sul cambiamento climatico, ci dicono che se supereremo i due gradi di aumento medio delle temperature, buona parte del continente africano, in particolare la fascia sub sahariana, avrà un clima incompatibile con la vita umana.
Ecco: sarebbe interessante sapere cosa ne pensano i negazionisti climatici di casa nostra, molti dei quali siedono tra le fila della maggioranza che si spella le mani per il piano Mattei. Pronti a fare la nostra parte? Pronti a garantire asilo ai migranti climatici? O i destini di Africa ed Europa sono intrecciati solo quando fa comodo a noi?
(da FanPage)
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Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
UN ALTO DIRIGENTE DI FDI: “PRIMA COSPITO E ORA LO SPARO, DELMASTRO DEVE DARSI UNA CALMATA, MA SOLO MELONI GLIELO PUÒ DIRE”… IL RUOLO DEL CAPOSCORTA AMICO PABLO MORELLO LA NOTTE DELLO SPARO: SE DELMASTRO ERA FUORI DALLA SALA PERCHÉ MORELLO NON LO HA SEGUITO?
Il deputato sospeso di Fratelli d’Italia Emanuele Pozzolo potrebbe aver inavvertitamente toccato il cane della pistola North American Arms LR22. Colpendo così alla coscia Luca Campana. È questa l’ipotesi investigativa dei pubblici ministeri che indagano sullo sparo di Capodanno nell’ex asilo di Rosazza.
A parlarne oggi è l’edizione torinese di Repubblica, che spiega che secondo la procuratrice Teresa Angela Camelio sarebbe stato Pozzolo a sparare. Ma in maniera accidentale. Il deputato stava maneggiando la pistola, per smontare il tamburo e disarmarla. E qui potrebbe aver inavvertitamente armato il cane facendo poi partire il colpo. La consulente della procura Raffaella Sorropago, che lavorerà alla seconda parte della perizia non appena saranno terminate le analisi del Ris, dovrà verificare la fondatezza dell’ipotesi.
IL PISTOLERO E IL CAPOSCORTA
Di quel giorno resta ancora una domanda senza risposta: chi ha sparato alla festa di Capodanno ferendo accidentalmente Luca Campana?
Per capirlo non dovrebbe servire né un’indagine, indagato è il deputato subito ripudiato, Emanuele Pozzolo, né una seduta spiritica, pratica diffusa ai tempi in queste zone. Quella notte c’erano diversi pubblici ufficiali, consiglieri, assessori, agenti di polizia penitenziaria, in una parola: lo stato.
E, invece, a distanza di un mese siamo appesi a una perizia balistica, dopo lo stub positivo (l’analisi di tracce di polvere da sparo), con Pozzolo che nega, dice e non dice, e gli altri che continuano a indicarlo come il pistolero del veglione. Il fatto è che tutti i protagonisti sono legati tra loro: il ferito e Pablo Morello, il caposcorta di Delmastro e suocero della vittima. Quella notte c’erano anche altri commensali, accomunati da rapporti amicali, politici, d’affari. Tutti attorno all’ospite d’onore della serata, il senatore Delmastro.
Figlio d’arte, il padre avvocato è stato senatore di An, nostalgico dei tempi andati e del saluto romano.
Quando la presa del potere era un sogno lontano ha incontrato Giorgia Meloni, diventandone un fedelissimo. Prima avvocato e poi inamovibile uomo di governo. È espressione dell’amichettismo della presidente del Consiglio. «Andrea è uno sopra le righe, che non ha saputo gestire il passaggio da peones al ruolo di potere.
Con molta disinvoltura ha scaricato Pozzolo che proprio lui aveva fortemente voluto in lista (e poi portato in palmo di mano in questo periodo). Comunque noi gli crediamo, stava fuori da quella sala, ma prima Cospito e ora lo sparo, deve darsi una calmata, ma solo il capo (Meloni, ndr) glielo può dire», dice un alto dirigente di Fratelli d’Italia. Per Meloni, tuttavia, resta inamovibile. Delmastro garantisce anche le relazioni con la polizia penitenziaria togliendo voti e consensi alla Lega, il suo feudo biellese si fonda anche su questo storico connubio, eredità del padre.
Per capire il suo potere e il suo regno incontrastato bisogna tornare proprio alla scelta del caposcorta, l’ispettore capo Pablo Morello, presente la notte di Capodanno e dopo il fattaccio ritiratosi in ferie in attesa della pensione. Morello in passato ha fatto anche politica con il sottosegretario con il quale è legato da vecchia amicizia, ma c’è anche altro. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha risposto a un’interrogazione del senatore Matteo Renzi, chiarendo che la scelta è stata assunta dal provveditorato competente, quello piemontese, e non dal protetto.
Proprio dopo i fatti di Capodanno circolava l’ipotesi di aprire un’ispezione interna per verificare le anomalie di quella serata, a partire dalla ragione della mancata prossimità del caposcorta dall’obiettivo tutelato. Il sottosegretario ha raccontato che nel momento dello sparo accidentale si trovava da solo all’esterno della sala. Perché, dunque, Morello non lo ha seguito? Un’ispezione interna avrebbe potuto chiarire la dinamica, quindi per quale motivo è stata accantonata? Il ministero della Giustizia, contattato da Domani, non ha fornito alcuna risposta. Così come nessun chiarimento richiesto è stato fornito sulla questione relativa ai requisiti per la scelta di Morello.
Nel decreto ministeriale del 21 dicembre 2018 l’articolo 8 fissa i criteri di accesso e modalità di reclutamento del personale per le scorte. Tra i criteri c’è l’età, massimo 50 anni, Morello li aveva abbondantemente superati, è nato nel 1964, li ha compiuti nel 2014. L’articolo 2 del decreto citato prevede che per istituire un nucleo operativo occorra un nulla osta del capo di gabinetto e una richiesta del capo del dipartimento. È stato rilasciato? Nessuna risposta anche a questa domanda.
E Morello? Introvabile al telefono e pure a casa, dove sulla parete esterna del garage campeggia una scritta: polizia penitenziaria. Così abbiamo provato con Rita Russo che guida il provveditorato competente per la scelta della scorta quando Delmastro ritorna a casa. «Nessuna dichiarazione né tecnica né di altro», risponde. Morello aveva superato i 50 anni, perché è stato scelto? «Non voglio assolutamente parlare». Silenzio anche quando chiediamo della tramontata ispezione interna. Nel regno dell’amichettismo impera la reticenza.
(da Domani)
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Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
LE PRIGIONI SONO SOVRAFFOLLATE, QUELLA DOVE SI TROVA L’ITALIANA È PIENA AL 107% … ORBAN NON HA ATTUATO LE SENTENZE DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Un ragazzo ungherese, arrestato per crimini legati alla tossicodipendenza, ancora in attesa di giudizio, cade dal letto in carcere. Si rompe il femore. Dovrebbe essere operato d’urgenza ma viene trasferito in ospedale solo 12 ore dopo la caduta. Ha una gamba più corta dell’altra, ma quando si risveglia sul letto di ospedale ha comunque un piede ammanettato al letto.
La giurisdizione europea vorrebbe che in questi casi i famigliari stretti vengano avvisati appena possibile, ma la famiglia viene informata solo dopo 24 ore.
È una delle storie raccolte dal Comitato Helsinki Ungherese, l’Ong che si occupa del monitoraggio della situazione carceraria ungherese e che denuncia come l’Ungheria non abbia attuato le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che stabiliscono violazioni dei diritti su larga scala riguardanti le condizioni di detenzione all’interno del Paese.
La madre di tutti i problemi è il sovraffollamento delle carceri. Nell’istituto penitenziario di Gyorskocsi utca, che è anche il carcere delle detenzioni preventive, dove si trova Ilaria Salis, a fine ottobre 2023 si registrava una sovrappopolazione carceraria del 107%, 1.387 detenuti contro i 1.293 previsti.
Secondo le statistiche Eurostat, nel 2021 nelle carceri ungheresi c’erano 191,38 detenuti ogni 100.000 abitanti, il numero più alto tra i Paesi Ue, quasi il doppio dell’Italia, 93,44.
«Il sovraffollamento delle carceri porta con sé serie conseguenze. Problemi igienici innanzitutto. Se le cimici del letto sono un problema riaffiorato in Europa negli ultimi anni, nelle carceri ungheresi la disinfestazione viene effettuata, ma poi i detenuti vengono fatti rientrare non nei tempi opportuni e il problema persiste» dice Lili Krámer, criminologa, responsabile nel Comitato Helsinki della situazione carceri ungheresi.
Quando Orbán, già primo ministro nel 1998, torna al governo nel 2010, con la supermaggioranza dei 2/3 dei seggi in Parlamento che ha conservato anche nelle tre elezioni successive, riconferma molti dei suoi vecchi ministri tra cui agli Interni Sándor Pinter, figura grigia e mai sotto i riflettori, che ha poi mantenuto la stessa carica fino ad oggi.
È Pinter che mantiene una delle grandi promesse della campagna elettorale di Fidesz, un inasprimento del codice penale che riempie subito le carceri ungheresi. Si finisce in prigione per furti, multe non pagate, e se ci sono di mezzo crimini violenti la pena raddoppiata al terzo crimine.
La popolazione carceraria schizza alle stelle e serve a poco costruire nuovi istituti di pena se questi vengono subito riempiti, «è come avere una busta dove infiliamo sempre oggetti e non svuotiamo mai. Molto scarso è anche il ricorso alle pene alternative» dice Krámer. Anche vecchie carceri austroungariche, la più vetusta a Balassagyarmat ha circa 200 anni, restano in uso.
Altri problemi vengono dallo stigma sociale ancora legato al carcere, che fa accettare ad esempio l’uso inumano delle manette a mani e piedi, una soluzione ora praticamente onnipresente, ma prima molto più rara. È diventata frequente quando nel 2017 si verificò il caso di un tentativo di fuga una volta sciolti i polsi
(da La Stampa)
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Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
IL NOSTRO PAESE È AL 42ESIMO POSTO (L’ANNO SCORSO ERA AL 41ESIMO) E DICIASSETTESIMO IN EUROPA… A INFLUIRE SULLA VALUTAZIONE LE CARENZE NORMATIVE SUL CONFLITTO DI INTERESSI E IN MATERIA DI LOBBYING
Transparency International è un’organizzazione internazionale non governativa che si occupa della lotta alla corruzione, non solo politica. Ogni anno misura il Cpi, l’indice di percezione della corruzione nel settore pubblico di 180 Paesi, attraverso analisi e sondaggi
Il punteggio va da 0 (alto livello di corruzione percepita) a 100 (basso livello di corruzione percepita). E va detto che dal 2012 al 2022 l’Italia — secondo l’Ong — è stata tra i Paesi che ha registrato maggiori progressi piazzandosi nel gennaio 2023 al 41° posto con un indice percepito pari a 56
Quest’anno malgrado l’indice sia rimasto stabile abbiamo perso una posizione: ora siamo al 42° posto nella classifica dei Paesi più virtuosi (diciassettesimi in Europa come un anno fa). A influire sull’ultima valutazione italiana soprattutto le carenze normative sul tema del conflitto di interessi nei rapporti tra pubblico e privato, la mancanza di una disciplina in materia di lobbying e la recente sospensione del registro dei titolari effettivi per arginare il fenomeno dell’antiriciclaggio.
Al vertice mondiale rimane, come l’anno scorso, la Danimarca (indice 90), seguita da Nuova Zelanda (87) e Finlandia (85). All’ultimo posto, invece, la Somalia (11 punti). Più dell’80 per cento della popolazione mondiale vive in Paesi con un Cpi al di sotto di 43.
(da il “Corriere della Sera)
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Gennaio 31st, 2024 Riccardo Fucile
AL MOMENTO DELL’AVVISTAMENTO DALL’ALTO, DUE ESPERTI ITALIANI ERANO ALLA CENTRALE DI SORVEGLIANZA DI VARSAVIA MA NULLA E’ STATO FATTO
Il rimpallo di competenze tra l’Italia e Frontex per il naufragio di Cutro, che nella notte tra il 25 e il 26 febbraio di un anno fa costò la vita ad almeno 94 migranti, si arricchisce di nuovi importanti elementi che sollevano ulteriori dubbi sulla condotta delle autorità italiane.
Il primo: al momento dell’avvistamento del barcone, nella centrale di sorveglianza dell’agenzia a Varsavia c’erano anche due ufficiali italiani e «nessuno dei due ha comunicato che il caso fosse di particolare interesse».
Il secondo: quando Frontex ha deciso di non classificare l’avvistamento come situazione di pericolo, «non c’è stata alcuna obiezione» da parte degli italiani presenti «né c’è stata la richiesta di fare ulteriori accertamenti».
Il terzo: subito dopo il naufragio, quando è stata decretata l’operazione di ricerca e soccorso, Frontex ha offerto la disponibilità di un aereo per perlustrare la zona, ma «non è stata ricevuta alcuna risposta scritta». Il quarto: a posteriori, Frontex ha chiesto all’Italia informazioni sull’attività di monitoraggio intrapresa dopo la segnalazione, ma anche in questo caso non sono arrivate risposte.
Gli elementi sono contenuti in un rapporto redatto dall’ufficio per i diritti fondamentali di Frontex che “La Stampa” ha potuto visionare. Il documento risale al 17 novembre scorso e sottolinea che, dopo la segnalazione dell’imbarcazione, l’Italia avrebbe dovuto «imperativamente» avviare un’attività di «monitoraggio o persino di assistenza» perché, pur in assenza di segnali di un pericolo imminente, «casi come questo possono degenerare rapidamente in una situazione di emergenza».
Sulle attività intraprese o meno dalle autorità italiane in seguito alla segnalazione da parte dell’agenzia, Frontex spiega di non avere elementi per giudicarle proprio perché non sono state fornite le informazioni richieste. Per questo spera che l’indagine della magistratura «porterà chiarezza».
I nomi e la funzione dei due “esperti” italiani citati nel documento sono stati protetti da “omissis”, ma secondo fonti di Frontex citate da “Euractiv” si tratterebbe di un ufficiale della Guardia di Finanza e uno della Guardia Costiera.
“La Stampa” ha contattato entrambi i corpi militari, ma non è stato possibile avere un commento a riguardo. Il documento ripercorre tutti i momenti-chiave di quella nottata, a partire dalla segnalazione dell’imbarcazione avvistata dall’aereo “Eagle 1” alle 22.26 del 25 febbraio 2023. «Al momento dell’avvistamento entrambi gli esperti italiani erano presenti nella sala» e stavano «osservando il rilevamento in tempo reale».
«Nessuno dei due – annotano i funzionari di Frontex – ha comunicato al team leader che il caso fosse di particolare interesse». Nel rapporto, inviato a Roma alle 23.03, sono state dettagliate tutte le informazioni: velocità di navigazione […], rilevamento di una telefonata satellitare partita dall’imbarcazione verso la Turchia, presenza di una persona sul ponte […], «possibile presenza di altre persone» sotto il ponte in base alla «significativa risposta termica».
Quest’ultima osservazione «è stata fornita in modo tempestivo», anche se l’aereo di Frontex «non aveva i mezzi per stabilire in maniera indipendente» la possibile presenza di altre persone a bordo. Sulla base di questi elementi, Frontex ha considerato che l’imbarcazione non fosse in emergenza. E «non ha ricevuto obiezioni o consigli contrari da parte dell’esperto italiano che era nella stanza». Dopo l’incidente, quando le autorità italiane hanno attivato le attività di ricerca e soccorso, nelle prime ore del mattino «Frontex ha offerto un sostegno aereo suggerendo il decollo anticipato di un mezzo di sorveglianza»
L’ufficio per i diritti fondamentali ha «esaminato tutta la corrispondenza» tra il team leader di Frontex e il centro di coordinamento marittimo italiano (Mrcc), ma in seguito all’offerta «non è stata ricevuta alcuna risposta scritta». L’aereo è poi decollato comunque molte ore dopo, alle 17.58, e ha raggiunto il luogo della tragedia alle 20. Dopo tre ore di ricerche è rientrato alla base «senza aver trovato né corpi né superstiti».
(da La Stampa)
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