Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
SEMPRE PIU’ GIOVANI AMMETTONO CHE VORREBBERO LIMITARE IL TEMPO TRASCORSO SUI PROPRI TELEFONINI, MA NON RIESCONO A FARLO
Tornare a guardarsi negli occhi, senza più comunicare solo attraverso uno schermo digitale. È questo il sogno della piccola comunità francese di Seine-Port. La maggior parte del comune, che conta 2000 abitanti, vorrebbe che negli spazi pubblici del piccolo borgo venisse vietato l’uso degli smartphone.
Una scelta che non è stata presa autonomamente dalle autorità cittadine ma è frutto della volontà popolare: è stato infatti indetto un referendum sulla materia e su 277 partecipanti alla consultazione, il 54% ha votato a favore. Alla luce dell’esito del voto, il sindaco ha già fatto sapere che inviterà gli esercizi commerciali locali ad apporre in vetrina un adesivo con il divieto di utilizzo dei telefoni cellulari. Inoltre, gli esercenti sono invitati a non servire i clienti che sono al telefono all’interno dei loro negozi. «L’obiettivo principale di questa misura è combattere la dipendenza. Al giorno d’oggi non riusciamo a staccare gli occhi dagli schermi», spiega il sindaco.
Sono circa 1,1 milioni gli italiani con meno di 35 anni ad alto rischio di dipendenza dai social media. È quanto emerge da una ricerca realizzata dall’istituto Demoskopika. Più a rischio di tutti i giovanissimi della fascia 18-23 (oltre 430 mila, il 38% del totale), seguiti dai 390 mila di età compresa tra 24 e 29 anni (34,5%) e dai 308 mila della fascia 30-35 (27,5%). Tra i social più utilizzati Instagram (76,9%), Youtube (73,1%) e TikTok (67.3%), mentre il 90,4% dei ragazzi afferma di usare Whatsapp tutti i giorni per scambiarsi messaggi. In Sicilia, Campania, Umbria e Lazio i bacini di utenza maggiormente vulnerabili.
Dal bisogno ossessivo di consultare i device per controllare le notifiche e gli aggiornamenti all’incapacità di smettere di usarli anche dopo ripetuti tentativi, fino a uno stato diffuso di ansia e irritabilità dovuti al loro mancato utilizzo. Secondo un report realizzato dall’associazione “Social Warning”, oltre la metà dei 20mila studenti italiani di età compresa tra 11 e 18 anni coinvolti nella ricerca vorrebbe limitare il tempo trascorso sui propri device, ma non ha ancora adottato misure concrete per farlo.Per affrontare questa crisi, potrebbe essere utile secondo Rio «avviare una capillare campagna di comunicazione della Presidenza del Consiglio», campagna finalizzata a promuovere, specialmente tra i ragazzi, una «cultura digitale più consapevole» che li metta in guardia sui potenziali rischi legati a un uso eccessivo delle piattaforme.
§Non sarebbe la prima volta che la politica entra a gamba tesa sui social. Già lo scorso mese il sindaco di New York, Eric Adams, aveva definito le piattaforme «una tossina ambientale», precisando che non starà a guardare mentre «Big Tech monetizza sulla privacy dei nostri figli, mettendo a rischio la loro salute mentale» e giurando di trattare i social come un «pericolo per la salute pubblica» alla stregua di «tabacco e pistole […] In attesa delle prime direttive, l’ufficio del sindaco ha già divulgato alcune raccomandazioni: niente social prima dei 14 anni e controlli più severi in famiglia.
Dalla stessa ricerca emerge però come quegli stessi ragazzi, abbandonati al web dall’assenza di controlli genitoriali e da un vuoto normativo non più trascurabile, abbiano deciso di rimboccarsi le maniche e prendere in mano la situazione. Il 73% non condivide informazioni sensibili, il 61% verifica tutte le richieste di amicizia, il 58% utilizza strumenti come il blocco degli utenti o la rimozione dei follower. Oltre la metà dei teenager per proteggersi dai rischi dei social oggi rende il proprio account privato, mentre il 39% sceglie di attivare uno o più filtri sui contenuti.
(da agenzie)
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Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
E PERCHE’ NON BISOGNA FARSI INGANNARE
Nel 1987, a un politico strabico, senza labbra e dai capelli biondi di nome Jean Marie Le Pen fu chiesto in un programma radiofonico francese se credeva che 6 milioni di ebrei fossero stati uccisi nelle camere a gas naziste. La sua risposta è stata uno studio sull’incertezza.
Ha iniziato a riflettere sulla domanda, come se gli avessero appena chiesto la sua opinione sull’esistenza degli UFO, ha trascorso diversi secondi a cercare le parole giuste, poi ha trovato una formula che sembrava soddisfarlo: la morte di 6 milioni di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, dichiarò, era un “point de détail” (un dettaglio minore, un dettaglio tecnico) nella storia più ampia della guerra, nonché un argomento di dibattito tra gli storici.
Non era certo la prima volta che l’ex paracadutista della guerra d’Algeria si scontrava con l’indignazione. Fino all’inizio degli anni ’80, Le Pen si è entusiasticamente definito una sorta di cattivo dei cartoni animati della politica francese, con tanto di benda da pirata.
Come leader del partito di estrema destra Front National, nel 1987 era stato ripetutamente dichiarato colpevole di varie accuse di incitamento all’odio razziale, oltre alla sua famigerata difesa dell’uso della tortura da parte delle forze francesi in Algeria. (Negli anni Cinquanta, Le Pen aveva affermato di aver ordinato la tortura dei detenuti, salvo poi ritrattare. La questione se l’abbia fatto o meno è ancora oggetto di una controversia viva). Tuttavia, è stata la battuta “point de détail” che, per qualche motivo, si è insinuata nella coscienza collettiva come una sorta di meme pre-internet.
Da bambino cresciuto in Francia, ero troppo giovane per aver sentito Le Pen pronunciare quelle parole in tempo reale. Ma a 8 o 10 anni ero già consapevole del fatto che le avesse pronunciate, così come ero consapevole della sua valenza nella cultura popolare. Informato da uno spettacolo di satira politica a base di pupazzi chiamato Les Guignols de l’Info, io – come milioni di altri francesi – sono cresciuto con l’immagine di Le Pen come un bigotto ringhioso con un morso sotto il naso, uno spauracchio politico che raccoglieva ordinatamente in sé tutte le brutture della storia recente della Francia, dalla collaborazione con i nazisti alla brutale campagna per mantenere l’Algeria francese.
Una reputazione così radicata che si è facilmente trasmessa alla figlia Marine. Presentata come nuovo presidente del Fronte Nazionale nel 2011, la giovane Le Pen è stata ampiamente considerata come una versione femminile e con i capelli più lunghi del padre. Non guastava il fatto che, all’epoca, molti dei luogotenenti del padre fossero ancora tra i vertici del Fronte Nazionale. E nemmeno il fatto che, come il padre, la giovane Le Pen sembrasse esperta nell’arte di creare indignazione, come nel 2010 quando paragonò le preghiere in strada dei musulmani a una “occupazione” della Francia. (Alla fine è stata assolta dall’accusa di incitamento all’odio razziale per quel commento).
Con il passare degli anni, però, Marine ha imparato a evitare i polémiques – piccoli scandali – che hanno riportato in auge l’associazione con Jean-Marie. Ha preso di mira concetti astratti, come l’Islam fondamentalista, piuttosto che alcuni gruppi di persone. (Ci sono eccezioni, ma la maggior parte degli esempi risale alla metà degli anni 2000).
Durante le sue tre candidature alla presidenza, il momento che ha causato alla Le Pen il maggiore imbarazzo politico è stata la sua incapacità di difendere un piano di uscita dall’eurozona durante un dibattito con Emmanuel Macron, non qualcosa che riguardasse le questioni scottanti della guerra culturale che hanno segnato il mandato di suo padre come massimo paria politico del Paese. Nel corso del tempo, la macchia del suo legame con l’anziano Le Pen – e la potenza del meme point de détail – si è affievolita con l’ingresso di nuovi elettori che non avevano esperienza personale dell’orco di Les Guignols. La Le Pen più giovane è diventata qualcosa che il padre 95enne non è mai stato: un po’ affermata e un po’ noiosa.
Non si tratta di un errore da parte di Le Pen. Nel corso di oltre un decennio, ha compiuto uno sforzo meticoloso per rilanciare il suo partito come un veicolo populista a favore della Francia, che si batte per i più poveri, senza l’indignazione legata a suo padre. La vecchia guardia di accoliti di Jean-Marie è stata messa da parte. Nel 2015, la Le Pen più giovane ha espulso il padre dal partito dopo uno scontro pubblico sulla sua moderazione pubblica. “Mi chiedo: L’hai fatto davvero?”. Si è chiesta la Le Pen, secondo quanto ha raccontato alla televisione francese nel 2019. “Perché sembrava così folle. Ma non avevamo scelta. O così o il movimento sarebbe scomparso”.
Nel 2018, ha fatto un ulteriore passo avanti cambiando il nome del partito dallo storico “Front National” allo stesso ma diverso “Rassemblement National”. Il sostegno del partito è forte tra gli elettori più giovani e Le Pen si è circondata di lealisti che devono la loro carriera a lei, non a suo padre. Infatti, l’attuale presidente del partito, a cui Le Pen ha ceduto il controllo nel 2022, è il 28enne Jordan Bardella.
In un certo senso, almeno per quanto riguarda l’accusa di antisemitismo, gli sforzi della Le Pen hanno raggiunto una pietra miliare alla fine dello scorso anno, quando si è unita a una marcia contro l’antisemitismo tenutasi sulla scia dell’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre.
Mentre il partito di sinistra La France Insoumise ha invocato la presenza della Le Pen alla manifestazione come ragione per non partecipare, e anche il Presidente Macron era assente, la presenza della figlia di Jean-Marie Le Pen non ha suscitato grandi proteste. Al contrario: un ex ministro dell’Istruzione di centro-destra, Luc Ferry, si è spinto a proclamare che RN è ora un partito “repubblicano”, cioè non più al di fuori di ogni logica.
“La maggior parte degli attivisti e gran parte dell’elettorato non ricordano l’epoca di Jean-Marie Le Pen”, ha dichiarato Jean-Yves Camus, specialista dei movimenti di estrema destra in Europa per il think tank IRIS. “Gli eventi che lo hanno plasmato sono stati la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra d’Algeria. Ma questi vecchi riferimenti dell’estrema destra sono ormai storia antica. Non ha senso accusarla di essere a capo del partito di Jean-Marie Le Pen”.
Parlando ai giornalisti durante una conferenza stampa annuale a gennaio, Le Pen ha suggerito che, in questa fase, continuare a invocare la storia del partito e il ruolo di suo padre in esso quando si discute delle sue politiche è “inelegante”.
“Sono anni che frequentiamo i nostri colleghi legislatori in modo proficuo e rispettoso”, ha detto. “Chi si ostina a continuare a chiamarci Fronte Nazionale dimostra di non avere molto da dire su di noi”. Le circa tre dozzine di giornalisti non hanno posto domande su questo aspetto del suo discorso.
Meloni 2.0?
E così sia. Tredici anni dopo aver rilevato il vecchio Front National dal padre, e 18 mesi dopo aver ceduto la presidenza del Rassemblement National a Bardella, la Le Pen è riuscita a tagliare i ponti con il suo occhiuto predecessore, o almeno a renderlo irrilevante nella politica quotidiana. Benjamin Haddad, un legislatore del partito Renaissance di Macron, concorda con Camus sul fatto che non ha più senso politico trattare la Le Pen più giovane come un’entità al di fuori della realtà – o svergognare i suoi milioni di seguaci con ammonimenti sulla presunta mancanza di valori repubblicani.
“È un partito che combattiamo”, ha detto. “Combattiamo la sua piattaforma e i suoi valori. Crediamo che i suoi piani siano pericolosi per il Paese e per l’Europa. Ma non credo che dovremmo combatterlo con un approccio moralizzante perché non funziona. Fare riferimenti alla storia è meno efficace che dire cosa c’è nel loro programma e argomentare contro di esso, punto per punto”.
Ma per molti francesi e non pochi stranieri che guardano dall’estero, la domanda rimane: Quanto è davvero “normale” la Le Pen e il suo partito del Rassemblement National? Si tratta, in fondo, di un’organizzazione di estrema destra che, se raggiungerà il potere, scatenerà l’inferno sui gruppi di minoranza in Francia, oltre a far saltare i legami della Francia con l’UE e la NATO? Oppure si tratta di un movimento populista di destra sulla falsariga del governo di coalizione del Primo Ministro italiano Giorgia Meloni, il cui abbaiare è molto peggiore del suo morso?
La questione è più urgente ora che il Rassemblement National, guidato da Bardella, sembra pronto a raggiungere un’altra pietra miliare nella sua lunga marcia verso il potere. In vista delle elezioni del Parlamento europeo che si terranno a giugno, i sondaggi indicano che il partito otterrà fino al 28% dei voti, superando di gran lunga la coalizione di centro e centro-destra guidata da Renaissance di Macron, che dovrebbe ottenere solo il 19%, secondo il sondaggio di POLITICO. Non solo Le Pen e Bardella potrebbero mettere in imbarazzo il campo presidenziale, ma potrebbero anche superare il loro precedente risultato massimo del 23% alle elezioni europee del 2019.
La Francia stessa è divisa sulla questione della rispettabilità della Le Pen. Mentre l’agenzia di stampa nazionale, Agence France-Presse, e i quotidiani continuano a descrivere il RN come “estrema destra”, altre testate hanno aggiornato il loro vocabolario a “destra populista” o “destra nazionalista”.
Nel 2022, un giornalista della televisione pubblica francese, Valery Lerouge, ha dichiarato a RTBF: “Il termine che usiamo più comunemente [per parlare del RN] è destra nazionalista. Perché se si guarda alla storia dell’estrema destra, si parla di un partito razzista, antisemita e omofobo. L’estrema destra si rifà al fascismo, e non siamo più a quel punto”, ha detto.
Camus, lo specialista dell’estrema destra, è della stessa idea. “Il RN non sta preparando un ritorno al fascismo”, ha detto. “È un partito che agisce in un contesto repubblicano. Accetta la Repubblica. Rispetta la legge. Partecipa attivamente alla vita democratica. In questo senso, sì, è un partito repubblicano”. Per molti aspetti, aggiunge, Eric Zemmour, capo del partito di estrema destra “Reconquest”, è “molto più radicale di Le Pen”.
Tuttavia, Camus si qualifica sottolineando che su alcuni aspetti della sua piattaforma, il partito di Le Pen mantiene una linea diretta con i giorni di Jean-Marie. Tra questi, il più importante è La promessa di istituire una politica di “priorità nazionale”, in base alla quale i cittadini francesi avrebbero un accesso preferenziale a posti di lavoro, sussidi e alloggi sociali rispetto agli stranieri, anche a quelli che pagano le tasse in Francia. “Questo non rientra nella tradizione repubblicana della Francia”, ha detto. “Sta creando una distinzione tra cittadini francesi e altri che va contro la Costituzione”.
Su questo punto, le truppe di Macron sono in difficoltà. Alla fine dell’anno scorso, il partito del presidente ha presentato una legge sull’immigrazione che assomigliava stranamente, in diverse parti, al programma del Rassemblement National. Il Parlamento ha approvato la legge con il sostegno del partito di Le Pen – un evento raro, vista la consueta posizione di opposizione generalizzata del partito. Il partito di Macron ha fatto del suo meglio per minimizzare l’aiuto della sua ex rivale presidenziale. “Ci preoccupiamo di non dipendere mai dal sostegno del RN per approvare una legge”, ha dichiarato Haddad. Ma questo non ha impedito a Le Pen e Bardella di rivendicare la vittoria. “Questo è un trionfo ideologico per il RN”, ha detto il primo in TV poco dopo il voto.
Altri sostengono che, sebbene la Le Pen possa aver rotto con l’antisemitismo del padre, i suoi commenti sui musulmani e gli immigrati sfiorano l’islamofobia. I suoi commenti sulle “incessanti richieste delle minoranze” (2021), sul fatto che il velo musulmano sia un marcatore ideologico “pericoloso quanto il nazismo” (2022), sulla fine dell’accesso alla cittadinanza per diritto di nascita e sul rimpatrio forzato dei criminali nati all’estero sono la prova, come minimo, di un’agenda radicale anti-Islam.
Secondo l’ufficio statistico nazionale, i musulmani rappresentano circa il 10% della popolazione francese. Non c’è dubbio che, se Le Pen venisse eletta presidente, questa popolazione ne risentirebbe come minimo attraverso restrizioni alle manifestazioni pubbliche di religiosità.
“Se si considerano i commenti di Marine Le Pen… per me non c’è dubbio che appartenga all’estrema destra”, ha dichiarato al quotidiano economico Les Echos Cécile Alduy, specialista e ricercatrice linguistica che ha scritto libri sul linguaggio di Le Pen.
“Lei sposa una visione organicista della società in cui l’individuo si piega alle gerarchie sociali tradizionali che sfuggono al suo controllo: il determinismo del sangue, della famiglia e della nazione. Anche se cerca di cancellare l’aspetto stigmatizzante del suo programma nei confronti di alcuni gruppi, ha un’ideologia di estrema destra e i suoi funzionari eletti sono di estrema destra. Suo padre sarebbe in disaccordo con qualche aspetto del suo programma? No”.
Non aiuta il fatto che Le Pen condivida proprietà politiche con partiti comunemente considerati di estrema destra. Nel Parlamento europeo, appartiene allo stesso gruppo di Alternativa per la Germania, che attualmente sta affrontando massicce manifestazioni contro l’estrema destra in tutta la Germania.
Sebbene la Le Pen abbia ripudiato il piano di espulsione dei tedeschi nati all’estero, di cui alcuni esponenti dell’AfD hanno parlato, affermando che ciò sollevava dubbi sulla comune appartenenza dei due partiti al gruppo Identità e Democrazia, non ha ancora tagliato i ponti. Al contrario, Le Pen appare spesso con alleati di estrema destra in Italia, in particolare con Matteo Salvini, capo del movimento della Lega.
La Le Pen ha finalmente raggiunto la normalità politica, scrollandosi di dosso l’eredità del padre? Non c’è dubbio che la sua lunga campagna volta a ripulire la reputazione del suo partito sia stata, in larga misura, un successo.
Ma non si è mai spinta fino a ripudiare completamente l’eredità paterna, ad esempio denunciando pubblicamente il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia degli anni precedenti del suo partito. Ha invece cercato di cambiare l’immagine del suo marchio senza mai abbandonare parti fondamentali della sua piattaforma, come il piano di priorità nazionale, o allontanarlo dal suo DNA fondamentalmente nazionalista.
Per gran parte della popolazione francese – i musulmani, ma anche i nati all’estero e chiunque cerchi la cittadinanza francese – una presidenza Le Pen rappresenterebbe una minaccia. E per il più ampio ordine occidentale ed europeista, c’è un evidente pericolo nella sua continua simpatia per Putin, che sostiene apertamente la Le Pen e l’ha ricevuta in visita ufficiale nel 2017.
Una banca ceco-russa ha anche concesso al suo partito un’ancora di salvezza finanziaria sotto forma di un prestito di 9 milioni di euro. Sul palcoscenico europeo, la Le Pen può aver abbandonato i piani di uscita dall’Unione Europea, ma rimane un potenziale di profonda rottura.
Ha giurato di sfidare l’autorità della Commissione europea (che un tempo si era impegnata ad abolire) e di trasformare l’UE in una sorta di conferenza intergovernativa. Unendo le forze con il primo ministro ungherese Viktor Orbán, il primo ministro slovacco Robert Fico e, forse, l’italiana Meloni, non è difficile immaginare come la Le Pen potrebbe neutralizzare efficacemente la funzione esecutiva dell’UE, riducendola a un raduno di leader più simile al G20 che agli Stati Uniti.
La Le Pen non sarà l’orco politico che era suo padre, ma incarna comunque una forma di politica molto più radicale e trasgressiva di quanto vorrebbe far credere. Per i suoi avversari, l’apparenza morbida della Le Pen rende il compito di affrontarla politicamente sempre più impegnativo. “Stiamo combattendo contro di loro”, aggiunge Haddad. “Ma è importante essere sempre rispettosi degli elettori. Il controesempio sono i ‘deplorevoli’ di Hillary Clinton”.
Con l’avvicinarsi delle elezioni europee, la questione della normalizzazione di Le Pen non è più un argomento che attirerà molti commenti sulla stampa francese. La figlia di Jean-Marie non deve più rispondere del padre e ha lasciato le operazioni del partito a Bardella.
Si dice che stia preparando una nuova candidatura alla presidenza nel 2027, la sua ultima. Cosa penserebbe suo padre? A 95 anni, l’anziano Le Pen si è finalmente ritirato dalla vita pubblica, abbandonando il suo video blog dopo un evento cardiaco l’anno scorso. L’agitazione per la rottura pubblica con Marine è acqua passata. A livello personale, almeno, padre e figlia sembrano più vicini che mai.
Nicholas Vinocur
(da politico.eu)
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Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
“NON FAREMO RICHIESTA DI DOMICILIARI IN UNGHERIA PERCHE’ NON CI SONO LE CONDIZIONI DI SICUREZZA”
Il padre di Ilaria Salis, durante un’intervista a Sky, ha detto che la donna – che si trova in carcere a Budapest da febbraio 2023 perché accusata di aver aggredito un nazifascista – ha potuto vedere i video che rappresenterebbero l’accusa: “Un hard disk da 10 terabyte che vanno visti tutti perché non si sa l’accusa a quale spezzone voglia far riferimento”, ha specificato.
All’insegnante 39enne, che ha denunciato le condizioni disumane del carcere ungherese, non era mai stato concesso la visione. In questo modo potrà “inquadrare lo scenario nel quale si svolge questo processo”, ha continuato Roberto Salis. “Mia figlia è accusata di appartenenza a un’organizzazione criminale. Negli atti del processo ci sono ottocento pagine di un processo in Germania su un’organizzazione, nel quale non compare mai il nome di mia figlia, perciò non si capisce perché mia figlia sia stata coinvolta”.
L’uomo ha poi precisato che non è stata presentata alcuna richiesta di arresti domiciliari in Ungheria perché, a loro avviso, “non ci sono le condizioni di sicurezza”. “Portarla ai domiciliari per farla assaltare dai neonazisti non mi sembra una grande idea. Al momento non vedo soluzioni che diano le garanzie che ci vogliono”.
Due giorni fa, durante i Giorni dell’onore (la stessa manifestazione di estrema destra celebrata l’anno scorso durante la quale Salis è stata arrestata) sono apparsi alcuni murales che ritraggono la figlia impiccata: “Confermano i timori che abbiamo sempre espresso e riportato ai ministri che abbiamo incontrato”, ha affermato il padre della 39enne.
In Ungheria, invece, nessun politico ha manifestato interesse per la vicenda di Ilaria Salis: “Ci sono due ondate di opinione pubblica, una in Italia, sicuramente favorevole e che potrebbe aiutare, poi c’è quella ungherese che non lo è affatto. Anche i partiti che non sono al governo in Ungheria non manifestano grande interesse per fare concessioni a mia figlia”.
(da Fanpage)
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Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
FRANCESCA ALBANESE: “COSI’ DISTOLGONO L’ATTENZIONE DALLA VERITA”
“Non vedo assolutamente nulla di oltraggioso nelle mie affermazioni. Credo che sia un falso storico e un modo per deviare l’attenzione da quello che succede davvero nel Territorio Palestinese Occupato. Contesto fermamente che l’origine e la causa principale dei crimini commessi contro civili israeliani sia l’antisemitismo. Questo non è vero perché non è supportato da alcuna evidenza”.
Così Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i diritti umani nei territori palestinesi, ha commentato a Fanpage.it la notizia secondo cui Israele ha deciso di negarle l’ingresso nel Paese.
La decisione, come hanno fatto sapere i ministeri degli Esteri e degli Interni, è legata “alle sue oltraggiose affermazioni che le vittime del massacro del 7 ottobre non sono state uccise per la loro ebraicità ma in risposta all’oppressione israeliana”.
Albanese ha risposto spiegando che “l’attacco del 7 ottobre è stato rivendicato come un attacco nei confronti di Israele in quanto potenza occupante. Non c’è niente di oltraggioso in tutto questo. Quello che io trovo scandaloso è che nessuno stato abbia ottemperato alle misure cautelari della Corte di Giustizia dell’Aja che ha riconosciuto la plausibilità del fatto che quello che Israele sta commettendo a Gaza sia genocidio. Nessuno Stato, nonostante gli obblighi imposti dalla Convenzione sul Genocidio di prevenire questi atti, è intervenuto in maniera concreta. Si sta assistendo ad un genocide in the making senza che ci sia nessuno Paese influente, soprattutto in Occidente, a prendere le misure necessarie che la legge impone”.
Albanese ha aggiunto che “la notizia che Israele mi impedisce di entrare nel Paese per le mie oltraggiose affermazioni è un modo per distogliere l’attenzione dalla verità: sono due anni che Israele mi nega di fare il mio lavoro come chiesto dall’ONU non facilitando il mio ingresso nel Territorio palestinese Occupato. E sono 17 anni che lo fa nei confronti di tutti i relatori, anche 3 dei miei predecessori”, ha concluso.
(da Fanpage)
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Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
L’EMITTENTE AMERICANA “NBC NEWS” RIVELA CHE IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI SIA INCAZZATO PER I CONTINUI MASSACRI DI ISRAELE NELLA STRISCIA DI GAZA
In colloqui privati il presidente americano Joe Biden avrebbe manifestato tutta la sua “frustrazione” per l'”incapacità di convincere Israele a cambiare tattiche militari nella Striscia di Gaza”.
Lo riferisce Nbc News che cita “cinque persone a contatto diretto con i commenti” e afferma che Biden si sarebbe ‘sfogato’ anche con donatori della sua campagna. Il presidente americano, secondo tre fonti, avrebbe persino definito Netanyahu uno “str….” in almeno tre occasioni.
Stando alle fonti, Biden avrebbe detto che sta cercando di portare Israele ad accettare un cessate il fuoco, dopo più di quattro mesi di operazioni militari israeliane a Gaza scattate in risposta all’attacco del 7 ottobre in Israele, ma Netanyahu – che il presidente degli Stati Uniti conosce da decenni – gli “sta facendo passare l’inferno”.
Interpellato sulle parole attribuite a Biden, un portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale ha ribadito che “il presidente è stato chiaro nei punti in disaccordo con il premier Netanyahu, ma questo è un rapporto decennale rispettoso in pubblico e in privato”.
(da agenzie)
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Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
MARTA DONÀ, 40ENNE, HA GIÀ PORTATO AL SUCCESSO MARCO MENGONI E I MANESKIN… EX ADDETTA STAMPA DI SONY, NEL 2012 HA FONDATO L’AZIENDA “LA TARMA” NELLA QUALE LAVORANO SOLO DONNE… È IL QUARTO SANREMO CHE UNO DEI SUOI ARTISTI SI PORTA A CASA
Chi è Marta Donà, la manager di Angelina Mango che ha portato al successo anche Marco Mengoni e i Maneskin? Marta Donà è la donna che, restando dietro le quinte, ha accompagnato passo dopo passo Angelina verso la vittoria. Con il trionfo de “La noia”, Donà e la sua società, La Tarma, fanno poker: prima di Angelina Mango, infatti, Marta aveva già portato al Festival e diritti al trionfo finale Marco Mengoni (due volte) e i Maneskin.
Ma chi è Marta Donà? Nipote di Claudia Mori e Adriano Celentano, Marta Donà è una manager 40enne che nel 2012 ha fondato l’azienda di management La Tarma nella quale lavorano solo donne.
Ex ufficio stampa di Sony. Decise di licenziarsi quando Marco Mengoni le chiese di diventare la sua manager. Una scelta rivelatasi vincente e passata per i trionfi inanellati a Sanremo.
Sempre concentrata sul lavoro, non si lasciò sfuggire una sola parola di biasimo all’epoca in cui i Maneskin – ormai determinati a procedere spediti verso il successo in Europa e nel resto del mondo – decisero di ritenere conclusa la collaborazione.
Donà li aveva voluti nella sua scuderia quando ancora non era nemmeno sbarcati sul palco di X Factor.
Se ai più non è un volto conosciuto, nel mondo dello spettacolo e soprattutto musicale Marta Donà è molto stimata e apprezzata per essere anche stata la manager dei Maneskin con i quali ha già trionfato a Sanremo nel 2021 mentre, attualmente, oltre alla Mango si occupa a 360 gradi della carriera musicale di Marco Mengoni, Francesca Michielin ma cura l’immagine anche di Antonio Dikele Distefano (scrittore, giornalista e discografico italiano) e Alessandro Cattelan, notissimo volto televisivo che, tra gli altri lavori, ha condotto alcune edizioni di X Factor e seguito lo stesso conduttore all’edizione 22 dell’Eurovision Song Contest.
Il Palco dell’Ariston, quindi, per le non ha più segreti visto che si tratta della quarta vittoria dopo la doppietta di Mengoni a dieci anni di distanza l’uno dall’altro (2013 e 2023), nel mezzo i già citati Maneskin e la vittoria delle ultime ora con Angelina per la quale nutre un affetto particolare con numerose storie e post sui social come il tenerissimo “Noi” di quattro giorni fa con le tue fotografate insieme e la risposta di Angelina Mango con un “Ti amo”.
(da agenzie)
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Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
LA DECISIONE DI ESPORSI E I MESSAGGI CHE HA LANCIATO
Casa mia, la canzone che ha portato alla gara canora, ha un testo importante, in cui si parla di ricerca delle proprie radici, di guerra, di problemi del mondo moderno. I riferimenti all’attualità e alla politica sono chiari, come quando canta: “Ma come fate a dire che qui tutto è normale, per tracciare un confine, con linee immaginarie, bombardate un ospedale, per un pezzo di terra o per un pezzo di pane”. Per accompagnare in modo potente le sue performance, l’artista ha scelto di avere sempre con sé accanto Rich Ciolino, grande protagonista della kermesse.
È l’extraterrestre con cui il rapper guarda la Terra, è l’alieno a cui cerca di spiegare cose che spiegazione non ce l’hanno; è quello che ispira riflessioni sull’umanità e che spinge a guardarsi dentro, a dialogare con la propria coscienza. In realtà Ghali ha fatto anche di più. Oltre a far parlare la propria musica, ha personalmente lanciato un messaggio di pace. “Stop al genocidio” ha detto nella serata finale in riferimento a Gaza, al termine della performance, quando è salito sul palco il suo amico. E anche da Mara Venier a Domenica In ha ribadito le sue posizioni, a cui ha fatto seguito un comunicato dell’Amministratore Delegato Rai Roberto Sergio, letto in diretta dalla padrona di casa.
Il cantante ha consapevolmente scelto di usare il palco dell’Ariston al pari di qualunque altro palco calcato durante la sua carriera, ponendosi come artista e come essere umano. Da sempre la sua musica è intrisa di messaggi legati ai problemi dell’attualità, problemi sociali e politici di cui non si è certo accorto ora che la guerra è sotto gli occhi di tutti (tranne di chi continua a voltarsi dall’altra parte fingendo che non esista). “Da quando ho scritto le mie prime canzoni a 13-14 anni parlo di quello che sta succedendo. Questa cosa va avanti da un pò” ha detto da Mara Venier.
Il messaggio di pace e di speranza per la popolazione della Striscia di Gaza, è un inno alla pace che vuole ridare valore alla dignità umana, all’uguaglianza, al diritto a un’infanzia felice senza il suono delle bombe nelle orecchie. Per potenziare questa comunicazione, Ghali si è avvalso anche di un’esperta di styling, che ha capito perfettamente il contesto della canzone e ha cercato di renderlo visibile anche attraverso gli abiti. Ramona Tabita nelle sue scelte ha lasciato proprio che trasparisse questa concezione “spaziale”, che inevitabilmente per contrasto ci riporta poi sulla Terra, sul nostro pianeta.
In fondo, Casa mia è un dialogo con un alieno, quindi ha incentrato tutta la sua ricerca soffermandosi sulla space age, quell’estetica ideata dal designer Pierre Cardin negli anni Sessanta ispirata proprio allo spazio. È un’estetica moderna declinata passando dal total black al black&white fino all’effetto sparkling. E non è mancato un omaggio a Michael Jackson con mocassini, guanti e calzini bianchi. In ogni look Ghali ha incarnato umanità e spazialità, con un occhio al passato e uno al futuro, ma inchiodandoci al presente con le sue parole, ricordandoci ciò che succede proprio sotto ai nostri occhi. E non succede dall’altra parte del mondo, non su un altro pianeta: le bombe ce le abbiamo proprio dietro casa.
(da Fanpage)
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Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
LA CRESCITA DELLE RETRIBUZIONI AIUTEREBBE I CONSUMI, CHE AL MOMENTO SONO L’UNICO MOTORE DELL’ECONOMIA. MA LE AZIENDE RESISTONO… L’APPELLO DEL GOVERNATORE DI BANKITALIA PANETTA: “È IL MOMENTO DI AUMENTARE GLI STIPENDI”
Il contratto del commercio, che definisce le buste paga di oltre 3 milioni di lavoratori italiani, è scaduto da quattro anni, 31 dicembre 2019. Viene dal mondo di prima: prima della pandemia, dei lockdown, della riapertura, dell’Ucraina, dell’inflazione senza precedenti che ha eroso il potere d’acquisto dei salari.
L’anno scorso, aspettando il rinnovo Godot, i dipendenti di negozi e supermercati hanno ricevuto 350 euro di una tantum e un mini aumento in busta paga di 30 euro lordi. Un pannicello caldo, rispetto a quanto il caro prezzi si è mangiato.
Il commercio è l’esempio più eclatante di come i ritardi nei rinnovi dei contratti frenino la ripresa dei salari in Italia, rispetto agli altri Paesi europei. Ma non l’unico. A dicembre secondo l’Istat – che monitora 73 tra gli accordi più rappresentativi – ben 29 erano in attesa di rinnovo, lasciando scoperto il 52,4% dei dipendenti pubblici e privati. Valore che sale al 57% nei calcoli del Cnel, che raccoglie l’intero universo dei contratti e lo scorso luglio ne contava 553 scaduti su 976 per il solo settore privato, quasi 8 milioni di lavoratori.
Il tempo medio tra scadenza e rinnovo, per tutti, è di 32 mesi, più di due anni e mezzo. In questa media sconfortante, le differenze tra i settori ci sono e rendono evidente il legame tra rinnovi e tenuta delle retribuzioni. Nel pubblico tutti i contratti sono scaduti. A metà del 2022 – paradosso emblematico – è stato firmato l’accordo per il periodo 2019-2021. Un rinnovo “ex post”, ma che ha comunque portato i salari degli statali a crescere più di quelli del privato, dopo anni piatti. E un’ulteriore spinta alle buste paga, a dicembre, l’ha data l’erogazione anticipata dell’indennità di vacanza, 70 euro lordi al mese.
Nel privato invece c’è un enorme divario tra industria e i servizi. Nella prima a dicembre risultavano in attesa di rinnovo solo il 7,5% dei contratti, nei secondi il 63%. Una delle ragioni per cui i salari della manifattura hanno retto meglio: 4,5% l’aumento a dicembre rispetto allo stesso mese del 2022 – non lontano dal valore generale europeo – , contro il 2,4% dei servizi, nonostante nella loro media entri il generoso rinnovo dei bancari.
n soldoni, significa che mentre per i colletti blu una parziale ripresa del potere d’acquisto è iniziata, non così nel terziario. Questo non vuol dire che i prossimi rinnovi dell’industria saranno facili, considerato che dopo la ripresa dorata ora la produzione flette.
Sabato il governatore di Bankitalia Panetta ha detto che è “fisiologico” che i salari salgano e che un «qualche» recupero del potere d’acquisto perso sosterrebbe anche la crescita italiana. Il legame è evidente. Tra i vari “motori” del Pil i consumi hanno recuperato con più difficoltà i livelli pre pandemia.
Ma ora che gli investimenti sono in discesa e l’export non tira, restano l’unico traino della magra crescita prevista quest’anno, sette decimi nelle stime di Bankitalia. Salari più alti, quindi più consumi, è un circolo che in teoria dovrebbe convenire anche alle imprese, che devono pur sempre vendere agli italiani.
E sempre in teoria i buoni profitti degli ultimi mesi danno loro spazio per assorbire qualche aumento, “redistribuendo” così ai dipendenti i costi di un’inflazione da cui loro si sono difese alle grande. In pratica, in questa congiuntura debole, le resistenze saranno tante. E visto che per le imprese anche rinviare va bene, la ripresa dei salari rischia di restare lontana da un pieno recupero.
(da La Repubblica)
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Febbraio 12th, 2024 Riccardo Fucile
LA TESTIMONIANZA DELL’EDUCATRICE ALLA DIREZIONE: “L’ISPETTORE ERA SOPRA DI LUI, LO INSULTAVA E GLI SFERRAVA CALCI E PUGNI. IL DETENUTO ERA SENZA CAMICIA ED È POLIOMELITICO”
Carcere di Biella, 3 dicembre 2001. Alle otto e mezza di mattina la coordinatrice degli educatori sente delle urla dal proprio ufficio. Aspetta. Quando le grida diventano più forti esce, percorre 15 metri e assiste alla scena che descriverà, tre giorni dopo, in procura: «C’era un detenuto a terra, circondato da cinque o sei agenti. L’ispettore Pablito Morello era sopra di lui, lo insultava e gli sferrava calci e pugni. Preciso che il detenuto era senza camicia ed è poliomielitico».
Il rapporto che l’educatrice invia alla direzione immediatamente dopo avere assistito al pestaggio, dà vita a un doppio procedimento penale, in cui l’attuale capo scorta del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, diventato noto alle cronache per la festa di Capodanno di Rosazza, è coinvolto sia come indagato che come parte offesa. Il procedimento […] si conclude dopo un decennio, nel 2011, con un nulla di fatto.
Il caso in cui sono indagati per abuso d’ufficio Morello e un suo collega viene archiviato, anni dopo il fatto. L’unico processo che va avanti, ma si arriva solo al primo grado, è quello in cui l’indagato è il detenuto (accusato da Morello di resistenza a pubblico ufficiale). E si conclude con una sentenza di non luogo a procedere per prescrizione
Quello che resta sono due fatti. Il primo è che secondo quanto è emerso dalle testimonianze di vari detenuti, già dal 2001 nel carcere di Biella si sarebbero verificati episodi di violenza. Eppure la procura non ha mai aperto, all’epoca, un’inchiesta per presunte lesioni o torture. L’indagine (per tortura) è stata avviata molto più tardi, un anno fa. Ed è in corso.
Il secondo fatto è che quella testimonianzaBnon è mai stata smentita. Ci sono poliziotti che hanno detto di non ricordare niente. Di non avere visto nulla. Ma nessuno ha mai dichiarato che quel verbale fosse falso. Nemmeno Morello, che agli inquirenti aveva detto: «Il detenuto mi ha colpito al volto e mi ha fatto cadere gli occhiali».
Tornando a quel 3 dicembre del 2001. L’educatrice, sentita dal pm, aggiunge altri dettagli: «Il detenuto l’ho riconosciuto subito. Nessuno degli agenti è intervenuto per fermare Morello. Ho scritto un rapporto».
Dopo qualche ora, succede un’altra cosa. È sempre la coordinatrice a riferirlo alla procura: «Non ricordo se il giorno stesso o quello dopo, venne Morello da me. Mi disse di essere a conoscenza di un mio rapporto indirizzato alla direzione, e che non voleva che ci fosse scritto qualcosa in più rispetto ai fatti accaduti. Mi chiese di leggerglielo. Lo feci, e lui annuì. Disse che comunque lui aveva ricevuto dal detenuto un colpo al viso e che gli aveva fatto cadere gli occhiali provocandogli un danno alla vista. Non ci furono altri particolari commenti, se non quello che avrei potuto evitare di redigere il rapporto ».
Nasce l’indagine, la prima. Il detenuto, in quei giorni, dichiara: «Mi sono fatto male da solo». Soltanto quando verrà trasferito in un altro carcere, dirà: «Mi hanno sempre picchiato a Biella, dal marzo del 2001. Ma avevo paura di denunciare. Se lo avessi fatto, avrebbero continuato ancora ». Altri testimoni confermano la sua versione: «Era nel corridoio — è quanto dichiara un compagno di cella — quando un poliziotto gli disse: “cammina in cella e vai affanculo”. Mentre lo diceva, gli dava un calcio all’altezza della coscia della gamba malata e uno schiaffo dietro la nuca ».
(da agenzie)
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