Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
NEGLI ULTIMI GIORNI È MONTATO IL NERVOSISMO IN FDI. I SONDAGGI DICONO CHE IL DIVARIO DALLO SFIDANTE SOSTENUTO DAL CAMPO LARGHISSIMO, LUCIANO D’AMICO, SI È RIDOTTO A UN MISERO 1,2%
Perdere in Abruzzo, per il potere di Giorgia Meloni, sarebbe peggio che aver perso in Sardegna. Nel cuore delle elezioni sarde Meloni era entrata per scelta, impuntandosi sulla candidatura del sindaco di Cagliari e fratello d’Italia Paolo Truzzu.
Nella partita abruzzese, invece, non deve fare nulla: c’è già dentro con tutte e due le scarpe. L’Abruzzo ospita la più nutrita colonia meloniana, tribù stanziale, distaccata o paracadutata, comunque pezzo importante dell’album di famiglia.
Alle ultime elezioni politiche, quelle che l’hanno portata a Palazzo Chigi, Meloni ha scelto di candidarsi alla Camera nel collegio L’Aquila-Teramo. L’ha fatto per potersi dedicare serenamente alla campagna nazionale, mentre a vigilare dall’alto sulla sua scontata elezione a Montecitorio provvedevano il presidente di Regione Marco Marsilio, che la conosce da quando lei minorenne bussò alla sezione di Garbatella per iscriversi al Movimento sociale e lui era il leader dell’organizzazione giovanile Fare fronte, e il sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi, altra conoscenza vecchia di trent’anni, cose di Fronte della gioventù.
In Regione, con ruoli e incarichi vari, sono passati o sono ancora attivi altri personaggi della via Pal missina, come Riccardo Scurria, già europarlamentare eletto con il Popolo delle Libertà, poi Fratello della prima ora, che prima di essere eletto in Senato alle Politiche del settembre 2022 era stato mandato da Roma a fare il capo dello staff di Marsilio in Regione.
Nel giro della sezione di Colle Oppio Scurria — cognato dell’ex capo di tutta la comunità, il leader dei Gabbiani Fabio Rampelli — è detto il Noto, con spiccata e cameratesca autoironia, perché negli anni Novanta nei comunicati dei collettivi universitari di sinistra alla Sapienza era citato come “il noto fascista Scurria”.
Non servivano gli stretti rapporti personali tra il governatore e Meloni, che da ragazza lavorò a casa Marsilio per assisterne la madre malata, per spiegare come mai, a dieci giorni dal voto del 10 marzo, la presidente del Consiglio abbia ricevuto il presidente della Regione a Palazzo Chigi per mettergli ufficialmente in mano centinaia di milioni per infrastrutture che gli abruzzesi aspettano da decenni, a cominciare dalla ferrovia Roma- Pescara.
Difendere il fortino abruzzese è fondamentale e negli ultimi giorni è montato un certo nervosismo. Anche se, in pubblico e parole, lo stato maggiore meloniano si dice certo che non ci sarà alcuna onda sarda, in privato e di fatto nessuno è più sicuro dell’esito di un voto che fino a poche settimane fa pareva una formalità.
Dall’altra parte l’avversario è un tipo tanto mite quanto tosto: l’economista Luciano D’Amico, ex rettore dell’università di Teramo, figlio di contadini di Torricella Peligna, paese d’origine dello scrittore John Fante, sostenuto dal campo forse più largo mai messo insieme dal centrosinistra in un’elezione locale: da Renzi a Fratoianni, passando per Pd, Movimento 5 Stelle e Calenda.
A vantaggio di D’Amico c’è la sua freschezza civica, l’autorevolezza del suo passato da manager dell’azienda dei trasporti regionale, brillantemente risanata, e l’effetto Todde.
A vantaggio di Marsilio ci sono i favori del governo nazionale, la solidità delle liste che lo sostengono, zeppe di campioni delle preferenze, e l’impossibilità per legge del voto disgiunto, che forse avrebbe tentato l’alleato fin qui più angariato e cannibalizzato, la Lega, che in Abruzzo perde pezzi come un aereo in rotta.
Anni di diaspora, consiglieri usciti verso Forza Italia o verso FdI, fino all’episodio più clamoroso e significativo. Un mese fa l’assessora alla Sanità Nicoletta Verì, che come in ogni Regione custodisce il portafoglio più importante, ha salutato la Lega e Matteo Salvini e sarà candidata nel listino di Marsilio. Il quale, con Repubblica , si difende così dall’accusa di aver fatto un torto all’alleato e da quella di replicare su scala locale la disfida Meloni-Salvini: «Non pratico il cannibalismo politico. La maggior parte dei consiglieri usciti dalla Lega non sono venuti da noi. Comunque non c’è mai problema quando il giudizio su un cambio di casacca resta agli elettori».
La sanità resta uno dei problemi più gravi. Michele Fina, tesoriere del Partito democratico e segretario regionale dei dem fino a pochi mesi fa, racconta che «non c’è famiglia abruzzese che non abbia un caso di malasanità da raccontare».
Nonostante l’Abruzzo sia percepito come una regione agricola, è al settimo posto tra le regioni italiane per peso delle esportazioni in rapporto al prodotto interno lordo e l’industria manifatturiera pesa per più di un quarto del pil. C’è manodopera altamente specializzata, tecnologie proprietarie come quella dell’Ars Tech, che tra le colline teramane produce telai in carbonio per auto da corsa, la farmaceutica nell’aquilano, in Val di Sangro la Siv, la più grande vetreria d’Europa, e lo stabilimento Stellantis di Atessa, dal quale escono mille furgoni Ducato al giorno. Sistema produttivo a livelli tedeschi, infrastrutture da Paese in via di sviluppo.
La fusione tra industrialismo e Colle Oppio non ha funzionato e, anche se ai piani alti di Confindustria e Federfarma nessuno si sbilancia sul voto, l’ostentata neutralità ufficiale con la quale l’associazionismo segue quest’ultimo miglio di campagna elettorale è un altro indizio sul fatto che nessuno vuol rischiare di trovarsi sul carro sbagliato.
Anche le ultime feroci polemiche tra maggioranza e opposizione, come quella sulla riduzione della riserva naturale del Borsacchio da 1100 a 25 ettari grazie a un emendamento approvato nottetempo in Consiglio regionale, finiscono tutte dentro a una partita che si è fatta molto più grande.
Quanto grande lo ha sintetizzato al meglio proprio Marsilio con un’intervista alla testata storica di famiglia, Il Secolo d’Italia: «Questa è la prima Regione guidata da Fratelli d’Italia, è il collegio della nostra leader, per noi è una bandiera, per la sinistra un presidio da conquistare. Sarà una prova sul nostro governo, un sondaggio sul consenso dei cittadini». Se va bene, si assorbe la botta sarda. Se va male, non basterà un Truzzu da mandare davanti alle telecamere per dire «è tutta colpa mia».
(da La Repubblica)
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Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
VOCI DAL CERCHIO MAGICO MELONIANO: “FEDRIGA È PRAGMATICO, NON FAREBBE TROPPE STORIE. E POI HA PIÙ O MENO LA STESSA ETÀ DI GIORGIA” … LA PREMIER NON GRADIREBBE INVECE LE OPZIONI GIORGETTI E ZAIA
A Matteo Salvini proprio non piace come Giorgia Meloni si rapporta con gli alleati di governo. E non è soltanto un fatto di soprannomi, quei nomignoli che i due si affibbiano vicendevolmente. “Adesso vuole scegliersi pure il segretario degli altri partiti” ha raccontato il Capitano ai fedelissimi.
La leader di Fratelli d’Italia vorrebbe Fedriga a capo del Carroccio. “Il governatore del Friuli-Venezia Giulia è un pragmatico, non farebbe troppe storie. E poi ha più o meno la stessa età di Giorgia, quindi ci sarebbe un’intesa maggiore che con Salvini, politico troppo ‘anziano’ per stare ai diktat della Meloni” si sente dire in coro tra i maggiorenti di Fratelli d’Italia.
Fedriga piace alla Meloni, piace a Donzelli e a tutti i big di via della Scrofa se non altro per ragioni anagrafiche. Nessuno nei suoi confronti soffre di complessi di inferiorità. Bocciati senza appello Giorgetti e Zaia: il primo giudicato troppo vicino a Mario Draghi e al Quirinale, l’altro ha carattere e personalità. Alla lunga il conflitto con Giorgia sarebbe inevitabile.
La realtà però è un’altra. Il Capitano all’interno della Lega è blindatissimo (i delegati sono tutti suoi) e, diversamente da quanto scrivono i giornaloni, non è affatto obbligato a convocare il congresso quest’anno. Ma a palazzo Chigi avranno capito?
(da il Giornale d’italia)
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Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
IL MOTIVO? LO HA DEFINITO “UN CRETINO”
In Veneto i sommovimenti interni alla Lega, iniziati qualche anno fa, ma aumentati negli ultimi tempi, stanno per produrre l’espulsione di Gianantonio Da Re. Colpa di lesa maestà nei confronti del segretario Matteo Salvini, attaccato più volte, sia dopo le deludenti elezioni comunali e politiche del 2022, che in questi giorni, a causa della sconfitta del centrodestra in Sardegna, delle nefaste previsioni elettorali per le Europee di giugno e dell’arrivo come probabile capolista del generale Roberto Vannacci. Sconfitte e scelte controverse che potrebbero essere rinfacciate al leader del Carroccio al congresso del partito: più di qualcuno vorrebbe programmarlo addirittura prima delle Europee con l’obiettivo di fare fuori il segretario.
Ma proprio per evitare questo rischio i fedelissimi di Salvini adesso puntano a rinviare l’assise leghista all’anno prossimo, almeno secondo i retroscena di Repubblica. Sullo sfondo resta il tema della successione a Luca Zaia, governatore al momento non rieleggibile, visto che ha inanellato già tre mandati e potrebbe ripresentarsi soltanto grazie a una riforma delle regole, che Fratelli d’Italia e il Pd non vogliono.
L’incarico di Zaia finirebbe dunque nel 2025, proprio quando i salviniani vorrebbero rinviare il congresso della Lega e dunque la resa dei conti all’interno del partito. Ma andiamo con ordine.
DA RE, L’ERETICO
Da tempo l’europarlamentare Da Re, ex sindaco di Vittorio Veneto e segretario della Lega Veneta dal 2016 al 2020, era sotto tiro. Poco importa se è nel partito dal 1982, ormai le indiscrezioni che provengono dalla segreteria regionale di Noventa Padovana sono convergenti: la procedura di espulsione è stata avviata.
In ogni caso la competenza sarebbe della segreteria federale e non di quella veneta, visto il ruolo che riveste a Bruxelles fino alla prossima estate. La colpa di Da Re non è quella di aver proposto un candidato alternativo al segretario Stefani, nel giugno 2023, ma di aver criticato Salvini in modo molto pesante.
Pochi giorni fa, in un’intervista a Repubblica ha dichiarato: “Il 9 giugno assisteremo a un disastro annunciato. Un sondaggio interno dà la Lega al 5,5 per cento. Il giorno dopo Salvini si deve dimettere. O il cretino se ne va con le buone, o andiamo tutti a Milano in Via Bellerio e lo cacciamo con le cattive. Ormai la pensiamo tutti così, a partire da 80 parlamentari che aspettano solo i numeri del voto per muoversi. Salvini ci ha disintegrati e deve assumersene la responsabilità”.
Parole troppo forti per essere tollerate da Salvini, che non sembra preoccupato per l’anima della vecchia Liga Veneta che Da Re rappresenta.
L’ULTIMA GOCCIA
A far precipitare la situazione è stata un’altra intervista, con l’agenzia Adnkronos. Da Re ha definito la candidatura ipotetica di Vannacci come “l’idea geniale del segretario”. Ha spiegato i silenzi della Lega veneta: “Il mio è un sentimento condiviso, ma parlo solo io, perché gli altri hanno paura di non essere inseriti in lista, o quant’altro”.
Sul segretario ha ribadito: “Lui ha raggiunto un risultato strepitoso, di cui gli va dato onore e merito, perché ha portato la Lega al 32 per cento, cinque anni fa. Poi non ha saputo gestire quel successo. Dopo le Europee, se il tracollo sarà pesante, sarà difficile mantenere la posizione. È vero che ha il partito blindato, perché ha praticamente tutti i commissari. Ma è difficile, perché i numeri saranno impietosi”.
IL DESTINO DEI SEGRETARI
Dovesse essere espulso, sarebbe l’ultimo di una lunga serie di segretari fatti fuori in Veneto, per essere entrati in rotta di collisione con l’anima lombarda della Lega, da sempre dominante in via Bellerio. Da Umberto Bossi a Matteo Salvini non è cambiato nulla. Nel 1996 fu fatto fuori Fabrizio Comencini, reo di intese con il nemico Silvio Berlusconi. Poi venne il trevigiano Giampaolo Gobbo, che evitando ogni conflitto, è sopravvissuto fino al 2012. Ma la stagione di Flavio Tosi segretario, mentre a Venezia comandava Luca Zaia alla prima legislatura, ha avuto la durata di un quadriennio, bruscamente interrotto nel 2016 con un’espulsione decisa perché il sindaco di Verona ambiva a diventare capo del centrodestra nazionale. Poi è toccato a Da Re, rimasto in sella fino al 2020, di fatto sfiduciato da Salvini (anche se finì eurodeputato) che voleva controllare con il pugno di ferro il Veneto. La stagione dei commissari, prima l’accomodante Lorenzo Fontana, poi il giovane Alberto Stefani, ha sancito il dominio del segretario, culminato nel 2023 con l’elezione di Stefani a responsabile regionale. Contando sull’appoggio totale della pattuglia di parlamentari veneti eletti nel 2022, il segretario ha potuto dirsi soddisfatto.
ZAIA, L’ENIGMA
Fuori dal Veneto dicono che dalla regione amministrata da Luca Zaia è partita la procedura di sfratto nei confronti di Salvini. Conoscendo il governatore è difficile pensare che lui si metterà alla testa di una fronda interna. Avrebbe potuto farlo appoggiando il suo assessore Roberto Marcato, nel 2023, alla corsa alla segreteria regionale. Non lo ha fatto, perché è parso soprattutto preoccupato di non tagliarsi i ponti che possono garantirgli la quarta candidatura sulla poltrona di doge del Veneto. Se avesse avuto velleità politiche nazionali dentro la Lega, avrebbe potuto sfruttare le batoste elettorali per i sindaci di Verona, Padova e Vicenza, o il disastro delle politiche 2022.
Invece è rimasto zitto sui temi spinosi. Il massimo che ha concesso alla platea leghista riunita a Treviso pochi giorni fa è stata una frase: “C’è la Liga, c’era la Lega Nord… nome che mi piaceva decisamente di più”. È scattato l’applauso, qualcuno vi ha letto una chiamata alle armi, in nome della vecchia anima leghista. Ma il giorno dopo Zaia ha fatto sapere che non voleva attaccare Salvini. Era soltanto una battuta.
ZAIA, L’INGOMBRANTE
In ogni caso il governatore sta pensando al suo futuro. Cosa farà nel 2025 se gli sarà negata la possibilità di correre per la quarta volta in Regione? I leghisti veneti già ipotizzano la resistenza, candidando Mario Conte, il sindaco di Treviso, con Zaia a fare da sponsor e stampella elettorale. Sarebbe lo strappo con Giorgia Meloni, che vuole una regione del Nord per Fratelli d’Italia. La risposta dei leghisti: “Chi governerà il Veneto lo decidono i veneti, non Roma”. Se da grande Zaia deciderà di lanciarsi nella conquista della Lega lo si capirà dopo le Europee, ma al momento non ci sono segnali in tal senso. L’uomo è troppo prudente per esporsi. I suoi compagni di partito devono rassegnarsi: alla fine giocherà in proprio. Al momento la possibilità più concreta è che cerchi di strappare il terzo mandato, se non ci riuscirà, ha pronto il piano B: fare il sindaco di Venezia. Una battuta che disegna il clima è venuta da Luca De Carlo, coordinatore di Fdi in Veneto, parlamentare fedelissimo di Meloni: “Zaia? Sarebbe un ottimo presidente del Coni”. Un po’ riduttivo per le sue ambizioni, ma con quello che sta combinando con la pista da bob di Cortina, sarebbe perfetto. Ma sarebbe anche un ottimo modo per toglierlo di mezzo.
(da agenzie)
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Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
OLTRE A VANNACCI, L’ALTRA ‘V’ CHE TORMENTA SALVINI È QUELLA DELLA FAMIGLIA VERDINI
Una lettera può salvare Salvini o perderlo del tutto. E’ la “V”. Vuole sopravvivere alla crisi della Lega candidando alle europee il generale Vannacci; è angosciato per la famiglia Verdini, che i magistrati “perseguitano”.
Si è convinto che il ministro della Difesa, Guido Crosetto, di FdI, con cui ha ingaggiato una battaglia, gli stia sporcando la pepita, il generale, la sola che gli può permettere di non scendere sotto l’otto per cento.
Salvini ha cambiato idea. Intende riproporre a Vannacci la candidatura non più al sud, ma in tutte le circoscrizioni, a cominciare dal nord-ovest, nel Piemonte di Crosetto, ma anche di Calderoli e Molinari. L’altra “V” è la “V” di Verdini.
Se si dovessero prendere per buoni tutti i tentativi della Lega di sostituire Salvini saremmo già alla quarta resurrezione del segretario. Che i gruppi parlamentari rispondano a Salvini è vero ma è vero anche, come dicono in FdI, che “un parlamentare risponde al suo istinto di sopravvivenza, senza contare che Salvini ha dovuto ferire molti suoi uomini”.
Per colpa di Meloni, che non ha ascoltato ragioni, Calderoli ha perso la presidenza del Senato. Lo hanno visto piangere il giorno dell’elezione di La Russa. Vannacci in Piemonte toglierebbe spazio alla moglie di Calderoli, Gianna Gancia, che potrebbe, a questo punto, non rincandidarsi.
A Riccardo Molinari, il capogruppo di Salvini alla Camera, l’erede di Fedriga, non ha potuto consegnare la presidenza di Montecitorio. E’ andata a Lorenzo Fontana, ma Fontana ha dovuto lasciare l’attività di partito. Il ministero dell’Agricoltura lo ha preso Lollobrigida ma era il ministero che voleva a Gian Marco Centinaio.
A Massimiliano Romeo, capogruppo al Senato, che per tutti i lombardi, anche i più riottosi, quelli del Comitato nord, i vecchi leoni con le stampelle, sarebbe il segretario ideale, era stata promessa la Lega Lombarda ma gli è stata negata. Si sono celebrati tutti i congressi, compreso quello veneto, a eccezione di quello lombardo perché Romeo è leale ma in guerra i leali non bastano, servono i pronti a morire.
E’ passato un anno da allora, da quando sembrava che pure Bossi, in carrozzella, potesse tornare a fare il leader della Lega, dalle visite che sono ricominciate, a Gemonio.
C’è senza dubbio qualcosa che si ripete in queste lunghissime idi di marzo, forse irrealizzabili, di Salvini, ma c’è qualcosa di nuovo in Salvini, il segretario che ha interrotto le comunicazioni telefoniche con i suoi governatori.
Al momento le parole più severe le ha pronunciate un leghista d’acqua, e tono, dolce, un uomo rispettato come Attilio Fontana, il presidente della regione Lombardia. A Francesco Moscatelli, la vedetta milanese della Stampa, ha dichiarato, e in chiaro, che “io ho un bel ricordo della Lega di Bossi”, ed è una frase per certi versi ancora più pesante di quella di Zaia “mi piaceva la Liga veneta”.
Anche Fontana crede che l’esperimento nazionale si sia esaurito e che la Lega, la Lombardia, per geografia ed economia, guarda al di là delle Alpi e non sotto il Vesuvio. Pure Fontana è un pericoloso sabotatore?
Pensare che la candidatura di Vannacci sia pericolosissima, per i suoi anni russi, le indagini, le possibili nuove rivelazioni, credere “che un imprenditore brianzolo non voglia avere nulla a che fare con Vannacci e che stiamo erodendo il capitale sociale”, è da vecchi leghisti o da lombardi avveduti?
Salvini ha deciso che la V di Vannacci è tutto quello che gli occorre per non essere sorpassato alle europee da Forza Italia che sarebbe ora la condizione, l’asticella che si è dato.
L’altra V è quella che tutti temono possa scatenare la sua vendetta contro Meloni. Salvini non si sta consumando per ottenere il terzo mandato, e neppure per frenare lo strapotere di FdI. Salvini è preoccupato per la famiglia Verdini, che ora è pure la sua
Lo era pure quella di Bossi che sarebbe ancora segretario della Lega se “La notte delle scope”, per estrometterlo, ferocemente, non gli avessero imputato la sola cosa che a un capo esaltato, offeso, maltrattato, rimane: la mano di una compagna. La famiglia.
(da Il Foglio)
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Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
IL PADRE: “LA CASA PER I DOMICILIARI A BUDAPEST? TROVATA SU UN SITO DI ANNUNCI UNGHERESE”
«Delle scritte comparse sull’Ambasciata ungherese a Roma, quella che mi tocca di più è ovviamente quella che riguarda Ilaria. E mi preoccupa che le si auguri di morire, visto che già in una prima fase della sua carcerazione erano state diffuse informazioni sulla sua residenza in Italia». Roberto Salis, padre della maestra milanese di 39 anni da un anno in prigione a Budapest con l’accusa di aggressione a due neonazisti, risponde all’odio di quelle frasi. Accanto anche svastiche nere. Salis non nasconde la sua preoccupazione per l’incolumità di sua figlia qualora i giudici ungheresi dovessero accogliere la richiesta dei domiciliari in Ungheria, come chiesto dalla difesa.
«Se un ministro (Nordio, ndr), dopo averci accusati di aver perso un anno chiedendo i domiciliari in Italia, ci suggerisce di presentare richiesta perché la misura cautelare venga disposta in un domicilio a Budapest, spero che possa in qualche modo garantire la sicurezza di mia figlia», spiega papà Roberto che aggiunge: «Non mi piace fare pressioni sulle istituzioni che devono fare il loro lavoro, né chiedo loro di rendere pubbliche procedure o informazioni sensibili» sulle modalità con cui sarà protetta Ilaria. «Spero solo che, una volta fuori, mia figlia non corra rischi, altrimenti queste sono persone che parlano sulla pelle della gente e sarebbe da pagliacci». Per Roberto Salis, comunque, è il secondo giorno di bocconi amari: ieri le frasi del ministro degli esteri ungherese Szijjartó – ripetute ancora oggi – che auspicava una «punizione esemplare per Salis» colpevole di aver programmato il viaggio in Ungheria e il presunto pestaggio di «persone innocenti». Altro che «martire», l’Italia «interferisce con la nostra giustizia», diceva il capo della diplomazia magiara ieri uscendo dall’incontro alla Farnesina con l’omologo Antonio Tajani.
«Quelle del ministro ungherese sono interferenze con la giustizia, non quelle italiane», dice Salis. «Senza che il processo sia ancora entrato nelle fasi iniziali il rappresentante del governo Orban cerca di influenzare le decisioni del giudice pretendendo pene esemplari. Questa è la dimostrazione che quello intentato contro Ilaria è un processo politico e che il governo controlla direttamente il potere giudiziario ungherese, in barba alle norme europee in merito e infischiandosene delle elementari regole della democrazia da stato illiberale come da dichiarata ambizione del suo Primo Ministro, ampliamente confermata dai fatti», aggiunge in uno sfogo sui social.
Ma papà Roberto, che vedrà sua figlia il prossimo 27 marzo – alla vigilia dell’udienza programmata per il 28 – ha un altro importante obiettivo da portare a termine: trovare una soluzione domiciliare a Budapest per Ilaria qualora i giudici accettassero la richiesta. Lo fa da solo, come ha affrontato da solo fin dall’inizio la sua battaglia per la giustizia. «L’ambasciata italiana in Ungheria si è limitata a darci l’indirizzo intranet del sito di annunci – una specie di Immobiliare.it – da cui siamo partiti con la ricerca. Il sito è ovviamente in ungherese con la traduzione in inglese quindi ci siamo arrangiati così. Per il resto, nessun aiuto. Quantomeno, non ci ha messo i bastoni tra le ruote», racconta. La casa, i Salis l’hanno trovata, «manca solo la finalizzazione burocratica», racconta ancora il signor Roberto che spiega invece quanto sia stata d’aiuto la solidarietà degli italiani in tutte le fasi della storia: «La vicinanza, il contributo delle persone che adesso mi fermano anche in strada a Monza per dirmi una parola, sono state di grandissimo conforto».
E a proposito di sostegno, il Comitato Ilaria Salis ha avviato una raccolta fondi per contribuire alle spese. Papà Roberto ci tiene a precisare: «Per fortuna non abbiamo bisogno di aiuti economici. Ci siamo fatti carico di tutto come era giusto che fosse. Pagheremo anche la cauzione – che sappiamo sarà ingente (la cifra potrebbe aggirarsi intorno ai 50 mila euro, ndr) – ma la colletta l’ha voluta Ilaria. Mia figlia non vuole che ci accolliamo tutta la spesa e allora ha fatto appello alle persone che le sono vicine politicamente. Noi siamo solo i garanti».
(da La Stampa)
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Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
LA LEADER DEL PD SALUTATA COME L’UNICA SPERANZA PER UNA SVOLTA POLITICA IN ITALIA
La consacrazione come leader di dimensione europea per Elly Schlein, salutata dai principali leader socialisti europei come l’unica speranza per una svolta politica in Italia.
«Dall’isola alla Nuvola, è stata una bella settimana per Elly e per tutti noi», dice il commissario agli Affari Economici Ue, Paolo Gentiloni, prendendo la parola nel centro congressi dell’Eur. E fotografa bene il momento di grazia per la segretaria Pd, dopo la vittoria in Sardegna che rilancia le quotazioni del fronte progressista. Di cui lei e il Pd sono il perno indispensabile. Lo sottolinea apertamente dal palco la capogruppo dei socialisti al Parlamento europeo Iratxe Garcia Pérez: «Cara Elly, sono sicura che il Pd vincerà le Europee».
Lo dice , in italiano, anche il presidente del Pse, Stefan Lofven, facendo i complimenti per il trionfo sardo. Lo grida anche Nicolas Schmit, appena eletto “Spitzenkandidat” del Pse alla guida della Commissione europea in vista delle elezioni di giugno. «Brava Elly, il vento sta cambiando» grida e la segretaria dem, inquadrata, risponde mimando un cuoricino.
Per rafforzare il concetto, Schmit cita, anche lui in italiano, la battaglia sul salario minimo condotta dalle opposizioni in Italia e le parole di Sergio Mattarella sugli studenti manganellati a Pisa.
Tutto per dire che non c’è «possibilità di collaborare con l’estrema destra, che vuole la distruzione dell’Europa», chiaro riferimento al gruppo Identità e democrazia di Matteo Salvini e Marine Le Pen, ma soprattutto ai Conservatori di Giorgia Meloni e all’ipotesi che possano aggiungere i loro voti per la riconferma di Ursula von der Leyen.
Schmit la esalta, cosa che non possono fare, almeno pubblicamente, Pedro Sanchez e Olaf Scholz, nelle loro vesti di capi di governo. Ma il premier spagnolo, grande protagonista della mattinata dentro la Nuvola, si intrattiene con la segretaria dem per un lungo colloquio bilaterale a margine dei lavori. Come, del resto, aveva fatto ieri il cancelliere tedesco.
Ucraina, Medio Oriente, lavoro e transizione ecologica tra i temi affrontati. Quando i due capi di governo parlano dal palco, Schlein sale ad abbracciarli, a beneficio dei fotografi. I leader della sinistra europea uniti contro le destre, questa l’immagine da consegnare alla cronaca.
Poi tocca a lei, accolta da un’ovazione e preceduta da un video emozionale di presentazione. «È importante vedere che non siamo soli a combattere l’estrema destra e a difendere gli stessi valori», spiega Schlein. Un po’ in inglese, un po’ in italiano, snocciola le battaglie da fare a Roma e a Bruxelles.
Cita Todde e D’Amico, la Sardegna vinta e l’Abruzzo da vincere, con una coalizione unita: «Il cambiamento è possibile, l’alternativa c’è». E ad incarnarla è lei, questo il messaggio, in Italia e, da oggi, un po’ di più anche in Europa.
(da La Stampa)
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Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
NESSUN FUNZIONARIO DI POLIZIA HA OTTEMPERATO ALL’OBBLIGO DI INDOSSARE LA FASCIA TRICOLORE E DI INTIMARE PER TRE VOLTE L’ORDINE DI ARRETRARE COME PREVEDE IL REGOLAMENTO… LA CARICA E’ PARTITA ALL’IMPROVVISO
Con un incontro pubblico promosso da Arci Pisa, i ragazzi coinvolti nei fatti del 23 febbraio e le loro famiglie si sono confrontati con avvocati sulle questioni legali che hanno animato il dibattito pubblico negli ultimi giorni
Gli avvocati Andrea Callaioli, Francesco Cerri e Andrea Di Giuliomaria, che si sono messi a disposizione degli studenti e delle famiglie coinvolte anche per seguire eventuali decisioni di intraprendere azioni legali, hanno come prima cosa sciolto il dubbio più grande su cui politici e media hanno dibattuto in questa settimana, e cioè la legalità del corteo del 23 febbraio.
Lo stesso ministro dell’Interno Piantedosi, nella sua informativa a Camera e Senato di giovedì 29 febbraio, ha giustificato il comportamento dei poliziotti asserendo che la manifestazione fosse nata “in totale violazione della legge, senza nessun preavviso da parte degli organizzatori”.
“Due sono le leggi a cui si fa riferimento per capire come mai si parli di illegalità per questo fatto: una è l’articolo 17 della Costituzione, nella sezione che disciplina diritti e doveri dei cittadini – esordisce l’avvocato Andrea Callaioli – dove si sancisce il diritto di riunione dei cittadini se ciò avviene ‘pacificamente e senz’armi’ e che specifica che ‘delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità,’.
L’altro prinicipio, che stride con quanto appena detto, è contenuto nel Testo unico delle leggi della pubblica sicurezza, un testo regio e dunque emanato precedentemente alla Costituzione italiana, dove l’articolo 18 recita che ‘I promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico, devono darne avviso, almeno tre giorni prima, al questore'”.
“Tuttavia – presegue Callaioli – si parla di preavviso e non di richiesta di autorizzazione e l’omissione massima che si può riscontrare è quella di mancata comunicazione. Del resto, anche in questi casi se il questore può intervenire per vietare la manifestazione o per scioglierla, là dove già in corso, puà farlo solo fornendo una spiegazione legittima, la cui natura è quella che ritroviamo nel già citato articolo 17 della Costituzione ‘per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica’”.
Un altro elemento di contorno giuridico attorno a cui inquadrare gli avvenimenti del 23 febbraio è la liceità del comportamento della Polizia. “Il funzionario di pubblica sicurezza che si trovava in piazza quella mattina, delagato dal questore, se aveva ritenuto lo svolgimento del corteo di una pericolosità tale da procedere a ordinare cariche di alleggerimento sui manifestanti avrebbe dovuto preventivamente eseguire un procedimento preciso – ha spiegato l’avvocato Di Giuliomaria – indossare la fascia tricolore per permettere ai manifestanti di farsi riconoscere in modo inequivocabile e anticipare l’ordine di carica con tre richiami ad alta voce”.
(da agenzie)
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Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
“DOPO UN ANNO E MEZZO DI TEMPO PERSO FRA VERIFICHE, CONTROVERIFICHE, RICHIESTE DI CHIARIMENTI, IMMOTIVATE ED ARBITRARIE, NON AVENDO PIÙ ARGOMENTI CON CUI GIUSTIFICARE LA SUA INCONCLUDENZA, FITTO HA ADOTTATO LA STRATEGIA DELLA FALSIFICAZIONE”
“Ho dato mandato agli uffici regionali di sporgere querela per diffamazione nei confronti del ministro Fitto e di alcuni organi di stampa, per le affermazioni false e calunniose diffuse ieri in merito alla vicenda dei Fondi Coesione”. Così in una nota il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca.
“Il ministro – dopo un oltre un anno e mezzo di tempo perso fra verifiche, controverifiche, richieste di chiarimenti, richieste di integrazioni, richieste di precisazioni pretestuose, immotivate ed arbitrarie – non avendo più nessun argomento con cui giustificare la sua clamorosa inconcludenza ed il suo ostruzionismo, ha adottato la strategia della confusione, della falsificazione, dei pretesti infiniti”, spiega De Luca.
“Non è il caso di sottrarre più tempo al nostro lavoro. Non avendo il ministro mai avuto il coraggio di misurarsi in un confronto pubblico, non c’è altro da fare che rivolgersi alla magistratura, in attesa che il ministro stesso dia attuazione alla sentenza del Tribunale Amministrativo della Campania, che gli ha assegnato 45 giorni di tempo per concludere l’accordo di coesione con la Regione. Tutto il resto è fumo”, conclude.
(da agenzie)
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Marzo 2nd, 2024 Riccardo Fucile
SUL GOVERNO PESERANNO LA RIDUZIONE DEI FONDI PNRR E LA CANCELLAZIONE DEL REDDITO DI CITTADINANZA
Non poteva esserci coincidenza peggiore per Giorgia Meloni. Se le manganellate di Pisa hanno avuto un peso sulle elezioni in Sardegna perse dal centrodestra, il voto sardo avrà altrettanti riflessi anche sulle prossime due scadenze regionali in Abruzzo e Basilicata. Difficile calcolarne gli effetti, ma certamente il successo del campo largo sull’isola ha già galvanizzato il candidato di centrosinistra Luciano D’Amico in Abruzzo, che il prossimo fine settimana andrà al voto. I sondaggi lo davano testa a testa con l’uscente e amico di gioventù di Meloni, Marco Marsilio. Ora la sfida è più che aperta.
La coincidenza negativa per il centrodestra, però, è duplice. Non c’è solo il rischio di un “effetto cascata”, ma anche il fatto che le prossime regioni al voto sono entrambe al sud.
GLI ERRORI
Proprio nel Mezzogiorno sta montando il vero malcontento nei confronti del governo. Il taglio del reddito di cittadinanza (Rdc) pesa come un macigno nella percezione dell’opinione pubblica che più ne ha beneficiato. Il 31 luglio scorso in Abruzzo sono rimasti senza reddito 14.700 percettori su 24mila nuclei familiari totali. In Basilicata, su 11mila nuclei familiari, in 1.400 hanno subito l’interruzione. Da gennaio, infine, la misura è stata definitivamente sospesa e sostituita con l’assegno di inclusione. Non a caso – anche se Abruzzo e Basilicata non sono le regioni del sud che più hanno beneficiato del Rdc – il leader Cinque stelle Giuseppe Conte ha rilanciato: «Proporremo il reddito di cittadinanza in ogni regione conquistata».
Alla questione sociale si somma anche quella politica. Il governo Meloni ha inaugurato due misure che hanno messo in agitazione gli amministratori meridionali: da un lato l’autonomia differenziata voluta dalla Lega e in particolare dai suoi governatori del nord, dall’altra la rinegoziazione dei fondi del Pnrr che penalizza le grandi città e il sud Italia, con un taglio da quasi 8 miliardi. Inoltre, a subire un taglio è stato anche il fondo perequativo infrastrutturale, con un meno 3,5 miliardi.
Lo “scippo” non è da poco. Forse meno percepito dai cittadini rispetto alla cancellazione del reddito di cittadinanza, ma certamente ben chiaro ai sindaci che avevano proposto progetti e sperato di poter investire risorse. Questo, accanto alla paura che il centrodestra promuova un’Italia sempre più a due velocità con l’autonomia differenziata, ha spinto molti amministratori locali, anche abruzzesi, a seguire la protesta del presidente campano Vincenzo De Luca.
L’allarme non è sfuggito nemmeno all’uscente Marsilio, che infatti ha ottenuto dal governo un finanziamento da 720 milioni per la linea Roma-Pescara. Con Meloni che si è intestata – bruciando sul tempo dell’annuncio il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini – la «messa in sicurezza di un’opera strategica». Poca cosa, tuttavia, rispetto alle aspettative tradite.
IL RISCHIO
Il rischio, in Abruzzo, riguarda soprattutto Fratelli d’Italia, che è il partito del presidente uscente. Alle passate regionali del 2019 aveva il 6 per cento. Alle politiche del 2022, come accaduto un po’ ovunque in Italia, è arrivato al 28 per cento ponendosi alla guida della coalizione di centrodestra locale. L’attenzione sull’esito, dunque, si riverbererà tutta sulla premier, vista anche la sua vicinanza al candidato, dirigente della sezione Msi di Garbatella che lei frequentava a quindici anni.
Proprio per questo la tentazione della Lega potrebbe essere quella di un disimpegno. Del resto, la parabola leghista in regione è stata uguale ma contraria a quella di FdI, con un passaggio dal 27 per cento alle regionali 2019 ad appena l’8 per cento alle politiche 2022, superata anche da Forza Italia che ha raccolto l’11 per cento.
Anche da questo è passata, nei ragionamenti interni di FdI, la scelta di ricandidare tutti gli uscenti in Umbria, Piemonte e soprattutto in Basilicata. La piccola regione meridionale, infatti, rappresenta un altro scoglio per il centrodestra, con il voto di aprile. Anche qui l’esito è incerto ma il candidato è il forzista Vito Bardi e il bis agli uscenti sgrava la premier dall’onere di doversi assumere in via diretta la responsabilità politica di una terza eventuale sconfitta.
Fantapolitica ancora, che il centrodestra è deciso a scongiurare. Certo è che – molto più del voto sardo, condizionato anche dalle dinamiche autonomiste dell’isola – un fallimento in Abruzzo e Basilicata sarebbe la prima vendetta del meridione alle scelte del governo.
(da agenzie)
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