Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
TUTTO ERA GIA’ SCRITTO E CHIARO: LA NOSTRA RISPOSTA ALL’ARTICOLO DI WALTER SITI
L’articolo di Walter Siti merita un breve approfondimento, se non altro perchè rifugge dalla banalità di analisi e tocca alcune corde reali: il narcisismo che si intercala con l’arroganza, la frequentazione dei poteri forti che un tempo sarebbero stati considerati “ripugnanti” per la base giovanile missina, tanto anticapitalista che anticomunista.
Siti compie, al di là della valutazione “psicologica” del personaggio Meloni, alcuni errori di base, come peraltro accade spesso ai suoi colleghi giornalisti. che cerco di riassumere:
1) Meloni non è figlia del Msi ma di An. Il Msi fu sciolto alle 16.30 del 27 gennaio del 1995, Giorgia Meloni è nata il 15 gennaio del 1977, quindi aveva 18 anni. Aderisce al Fdg s 16 anni, due anni prima dello scioglimento. La sua carriera però inizia nel 1996 in An diventando segretaria di Azione Studentesca, organizzazione giovanile di An, con il determinante appoggio di Gianfranco Fini.
A differenza del Msi (Movimento “sociale”), la linea di Alleanza Nazionale non aveva alcuna remora “anticapitalista”, ma si collocava già su posizioni di partito conservatore-liberale-nazionale, ben visto dai poteri forti. Non a caso molti ex missini non aderirono alla nuova formazione, Meloni sì, e si aprirono per lei persino le porte di un Ministero (quello della Gioventù) nel 2008.
Quindi ne deriva che non esiste alcuna discrasia nel suo percorso: stringere mani di poteri forti non avrebbero creato alcuna “ripugnanza” anche in passato, chiacchiere a parte.
Molti media infatti vivono ancora nell’equivoco che la Meloni rappresentasse all’interno di An una corrente, quella della “destra sociale” che in realtà non è mai esistita, altrimenti non sarebbero stati in An.
E quando tale corrente esisteva (ovvero nel Msi) lei non ne ha mai fatto parte per ragioni anagrafiche e così pure i suoi “riferimenti” (La Russa, Urso, tra i più noti, militavano in altre componenti).
Lo stesso percorso sotto i governi Berlusconi ha visto lei e i suoi riferimenti sempre come bravi soldatini al servizio del Cavaliere, pronti a certificare che Ruby fosse la nipote di Mubarak.
Per chi ha avuto modo di vivere a un certo livello nel Msi nessun stupore, tutto era prevedibile e già scritto: le ambizioni personali che avrebbero portato a mille compromessi, l’imborghesimento e l’attaccamento alla poltrona, la politica camaleontica e la presa per i fondelli del vecchio elettorato che andava blandito perchè essenziale alla conquista di una poltrona ben remunerata.
Non esistono “buoni costretti a diventare cattivi”, ma solo opportunisti che colgono opportunità per raggiungere un obiettivo.
Non esistono combattenti anticomunisti perchè quando sono arrivati a fare politica il comunismo era finito in soffitta da un pezzo.
Non esistono “anticapitalisti” che ambiscono (e riescono) a vestire Armani.
Non esistono destre “alternative al sistema” quando nel “sistema” ci sguazzi traendone profitto.
Esistono, e in questo concordo con Siti, “istrioni” capaci di rappresentare una parte degli italiani per il tempo che dureranno, poi si passerà ad altri.
Quando certe lobby e certi poteri forti decideranno che certi caratteristi non sono più funzionali ai propri interessi, provvederanno a cambiare ronzini, adeguando il copione ai tempi nuovi.
Nella vita non conta durare il più a lungo “in sella”, ma la direzione “giusta” verso cui indirizzarsi e servire il proprio Paese.
E anche quando è il momento di scendere se la direzione è quella sbagliata.
Una vita coerente vale più di una esistenza fatta di compromessi.
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Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
LA SODDISFAZIONE DELL’EGO, GLI ABITI ELEGANTI, LA FREQUENTAZIONE DEI POTENTI DELLA TERRA PROVOCA BRIVIDI DI NARCISISMO…ORA STRINGE LA MANO A POTERI CHE 25 ANNI FA AVREBBE CONSIDERATO RIPUGNANTI
Facciamo un gioco: proviamo a considerare la persona Giorgia Meloni come se fosse un personaggio letterario. I personaggi letterari spesso si rivelano in qualche episodio laterale più che nelle scene madri, proprio perché in quei casi si controllano meno.
L’altro giorno, nell’incontro con la stampa estera, Meloni ha detto: «Non amo stare dove sono». Era naturalmente un assist a se stessa per poter proseguire col resto della frase («ma forse proprio per questo potrei restarci più degli altri»), quindi è giusto intenderlo innanzitutto come un’attestazione di disinteresse nei confronti del mestiere di premier – quel disinteresse («lucido», ha aggiunto dopo) che consente più duttilità e più audacia nello sperimentare.
L’occasione aveva una coreografia parzialmente giocosa, di marca anglosassone, dove sono permessi e anzi suggeriti atteggiamenti ironici o amichevolmente aggressivi, un modo per sdrammatizzare l’ufficialità.
Lei ne ha approfittato per prendersi un po’ in giro sulla fresca sconfitta alle regionali sarde. Ma in letteratura, si sa, succede che alcune verità profonde del testo affiorino proprio in frasi apparentemente svagate o scherzose – dunque prendiamo sul serio l’affermazione: Giorgia Meloni non ama stare dov’è, cioè al vertice della compagine parlamentare.
La cosa è perfettamente comprensibile sul piano della vita privata: non dev’essere facile passare le settimane in giro per il mondo strapazzandosi la salute, dovendo sacrificare il calore degli affetti familiari. Specie se a volte si ha l’impressione che i propri collaboratori non abbiano il medesimo spirito di servizio e quasi si mettano d’impegno per creare problemi.
Nella mia ricostruzione fantastica è compresa una rinuncia all’amore: immagino che in qualche piega della psiche Giorgia Meloni sia ancora innamorata del proprio compagno e padre di sua figlia, e che nei momenti bui le venga in mente che se lei non fosse stata così esposta le cose avrebbero potuto essere trattate in modo meno tranchant e più, come dire, umano.
Certo, quanto a soddisfazione dell’ego, gli abiti eleganti, la frequentazione dei potenti della Terra, la confidenza con questa o quella star non possono non pesare sulla bilancia – mentre cazzeggiava con la stampa straniera a proposito dei propri sogni adolescenziali (stonata per il canto, nana per la pallavolo) ha detto che avrebbe voluto conoscere Michael Jackson ma che «è morto troppo presto»; come dire che ora forse avrebbe potuto realizzare quel sogno.
Soprattutto, per una ex ragazza che ha cominciato a far politica da adolescente, il fatto di essere stimata e apprezzata al di là dei confini nazionali, di essere considerata in Europa, non può non procurare brividi di narcisismo, accompagnato dalla convinzione che far prevalere certe idee su altre possa migliorare lo stato di cose presente.
La simpatia istintiva che provo per il suo personaggio deriva proprio dal misto di stupore e di arroganza, come una Alice che abbia ingoiato la pillola sbagliata e ora si trovi a essere troppo cresciuta, poi d’improvviso piccola e portata via dal vento, poi di nuovo pesantissima in una continua necessità di riadattarsi («impareremo»).
Ma il lato più interessante del personaggio, come succede, è lo stratificarsi del suo carattere nel corso della storia.
Non mi convince del tutto la banalizzazione di chi distingue una “Meloni di lotta” e una “di governo”, col solito corollario che una cosa è fare l’opposizione, quando puoi spararle grosse, e altra cosa è rendersi conto che certe promesse non possono essere mantenute; insomma la comiziante da Abascal, l’amica di Orbán da un lato e la atlantista convinta che stringe la mano di Biden dall’altro, la “draghiana” in politica economica.
C’è anche questo, naturalmente, ma sarebbe farle torto attribuirle soltanto una notevole capacità di annusare il vento e di adattarsi alle circostanze. La contraddizione semmai è più profonda e più letterariamente produttiva.
Vorrei ripartire da una frase che disse proprio negando la fiducia a Draghi: «Ci siamo seduti dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati». Una militante di estrema destra che cita Brecht, si scandalizzarono tutti e pensarono che si trattasse di appropriazione indebita. Se torniamo con la mente a quei tardi anni Novanta in cui Giorgia Meloni si è formata, la frase brechtiana acquista subito un’altra più psicologica verità.
I ragazzi di destra che si formarono allora, tra una neonata Alleanza Nazionale e i ricordi del Movimento Sociale almirantiano, avevano davvero la sensazione che il mondo stesse andando verso una direzione sbagliata godendo dell’approvazione di tutti; che esistesse una lega dei finti buoni, ipocriti, che si ammantavano di belle parole mentre a loro non restava che la provocazione paradossale. La parte del torto, appunto.Fare politica significava crearsi valori alternativi, leggermente tribali, capaci di opporsi a una democrazia imperante che negava se stessa trasformandosi in affarismo e tecnologia. Gli odierni attacchi al “buonismo” e al “pensiero unico”, e perfino quelli contro la cultura “woke”, hanno laggiù la loro radice. È per questo che ci tengono tanto a “rovesciare l’egemonia culturale”, che nei fatti era tutt’altro che di sinistra.
Avevano vent’anni, vivevano come molti ventenni nel mito. Non si rendevano conto di quanto i loro valori nostalgici fossero stati a loro volta intrinseci e omologhi a quel nuovo Potere consumista e finanziario che additavano come nemico. La parola “fascismo” era insieme una tentazione e qualcosa da superare per dimostrare maturità. La “democrazia” bisognava reinventarla sganciandola dalla dittatura del capitalismo cosmopolita e trovando una sua dimensione nazionale (loro dicevano “patriottica”).
Giorgia Meloni è cresciuta dibattendosi tra questi problemi
Ha assorbito lezioni di conservatorismo liberale ma continua a sentire il distacco dagli amici d’avventura come qualcosa che assomiglia al tradimento.
È questo il vero pericolo che la minaccia e che la rende interessante, perché ambigua, sul piano letterario: ora al capitalismo internazionale ci sta dentro, stringe la mano a Poteri che venticinque anni fa avrebbe considerato ripugnanti.
È questo forse il disagio intimo, a parte i fattori esterni, per cui lei non ama stare dov’è; altro che ottenere dall’Europa le rate del Pnrr. È a questo punto che deve saper dimostrare di essersi liberata dalle scorie del revanscismo, di non essere più chiusa nell’angolo della reazione rabbiosa.
La Giorgia Meloni che scherza sul proprio essere in Quaresima e sul non potersi consolare con l’alcol si oppone con la Meloni livorosa di certi comizi in Sardegna, che irride agli avversari e rinfaccia ogni episodio facendo le faccette.
Che cosa intende quando parla di «buoni costretti a diventare cattivi»? Costretti da chi, e cattivi come? Con la grinta autoritaria?
Se lasciasse prevalere il suo penchant lividamente istrionico, confondendo il tenere la barra dritta col fare la faccia feroce, deluderebbe (gl)i (e)lettori, sarebbe come certi personaggi romanzeschi che non sanno restare all’altezza di se stessi – da Stendhal si precipiterebbe tragicamente nell’ultimo Dickens, o addirittura in Fitzgerald e in Sologub.
Walter Siti
(da EditorialeDomani)
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Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
SECONDO VARI SONDAGGI, CIRCA L’80% DELL’OPINIONE PUBBLICA FRANCESE È FAVOREVOLE ALLA MODIFICA COSTITUZIONALE…IL PRIMO MINISTRO ATTAL: “ABBIAMO UN DEBITO MORALE NEI CONFRONTI DI TUTTE LE DONNE CHE HANNO SOFFERTO NELLA LORO CARNE”
La Tour Eiffel si è illuminata nel momento in cui il Congresso (deputati e senatori) riunito a Versailles ha approvato la revisione costituzionale che garantisce la libertà delle donne a ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza. La Francia diventa il primo Paese al mondo a introdurre nella sua costituzione la tutela della libertà di abortire.
Mathilde Panot, la capogruppo della France Insoumise all’Assemblée Nationale che è all’origine del processo politico e costituzionale, ha dichiarato che l’inserimento della libertà di aborto nella Costituzione è una «promessa» per «le donne di tutto il mondo».
«Oggi la Francia rinnova la sua vocazione di faro dei diritti umani». «La vostra lotta è la nostra lotta», ha detto la deputata alle militanti femministe, indossando un abito verde e un foulard verde al polso sinistro, in omaggio alle donne argentine che lottano per questo diritto. L’iniziativa di Mathilde Panot è stata sostenuta e fatta propria dal presidente Emmanuel Macron, e molti senatori della destra, in origine contrari, hanno finito con il votare a favore assecondando un sentimento largamente diffuso nella società francese.
Mentre i parlamentari francesi votavano, alcune centinaia di manifestanti anti-aborto si sono riuniti nei pressi del Congresso a Versailles, la città alle porte di Parigi che ha da sempre una forte componente tradizionalista cattolica. Secondo vari sondaggi, circa l’80 per cento dell’opinione pubblica francese è invece favorevole alla modifica costituzionale.
«Abbiamo un debito morale» nei confronti di tutte le donne che «hanno sofferto nella loro carne», ha dichiarato il primo ministro Gabriel Attal, che ha reso omaggio a Simone Veil (scampata ad Auschwitz, ex presidente del Parlamento europeo e ministra della Sanità scomparsa nel 2017), e alla sua lotta per la legalizzazione dell’aborto. Il capo del governo è arrivato accompagnato da Jean Veil, uno dei tre figli di Simone.
(da agenzie)
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Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
ISOLAMENTO, IPNOSI E PREGHIERE
Dodici “cliniche” in tutto il Paese, dalla regione di Mosca a quelle del Caucaso, dove si “cura” l’omosessualità con l’isolamento prolungato e le preghiere. A svelare gli istituti top secret che praticano le cosiddette «terapie di conversione» è una inchiesta di Current Time Tv, un canale in lingua russa fondato nel 2017 da Radio Free Europe/Radio Liberty e Voice of America. La crociata di Vladimir Putin contro l’omosessualità è ben nota.
A giugno gli attivisti denunciavano una direttiva presidenziale che faceva menzione delle terapie di conversione e lo scorso novembre, sulla scia di una battaglia iniziata da tempo, la Russia ha vietato l’attività dell’inesistente «movimento Lgbt+ internazionale» per «estremismo», con una sentenza che dà la possibilità di intervenire in maniera abbastanza indiscriminata contro attivisti e persone comuni, anche con il carcere.
Nell’inchiesta emerge come questi centri di “cura”, tra istituzioni e studi privati, godano anche dell’appoggio di numerosi medici e leader religiosi. In queste cliniche, alcune delle quali si occupano anche di tossicodipendenza, il “paziente” – che spesso viene fatto rapire su input della famiglia per farlo “ricoverare” – viene messo in isolamento forzato «almeno 6 mesi», senza alcun contatto con l’esterno.
Le uniche attività quotidiane sono i colloqui con gli psicologi e le sedute di preghiera. Il costo dei trattamenti è di circa 1.400 dollari al mese. Uno di questi centri certificati, che opera però segretamente come gli altri, offre dei trattamenti di ipnosi in video collegamento.
Come riferisce l’emittente, secondo un rapporto del gruppo Coming Out e della Fondazione Sphere nel 2022 una persona su tre delle 6.500 della comunità Lgbtqia+ intervistate ha dichiarato di aver subito violenze o discriminazioni in Russia. E il 58 per cento degli intervistati ha ammesso che, nel caso dovesse subire una molestia, non denuncerebbe per paura di condividere le proprie informazioni con la polizia.
(da agenzie)
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Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
LE TESTIMONIANZE DEI 14 DEPUTATI ITALIANI CHE STANNO MONITORANDO LE OPERAZIONI UMANITARIE
«Xavier Doncell, medico di Msf, ci ha raccontato di una famiglia un tempo benestante rimasta nel centro di Gaza. Da oltre una settimana non hanno nulla da mangiare. Il padre dà ai figli tre cucchiai di cibo per cani al giorno, scaduto». Un’immagine, una storia vera, per restituire il senso della disperazione di un popolo. Parte da lì Laura Boldrini, deputata Pd e presidente del Comitato permanente sui diritti umani della Camera, in Egitto con altri tredici colleghi parlamentari con l’obiettivo di arrivare a Rafah nei prossimi giorni.
La delegazione, in missione con la rete di ong italiane AOI che ha già inviato convogli nella Striscia, seguirà il percorso dei camion al valico, unico punto di accesso dall’Egitto a Gaza. La prima giornata, al Cairo, è stata dedicata agli incontri con i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie operative in Palestina e a Gaza, MSF Gaza response, MSF Egypt, Palestinian Center for Human Rights, Mezan center for human rights, Palestinian Medical Relief Society, Omar Ghrieb di Oxfam. «Il filo rosso di tutti gli interventi che abbiamo ascoltato – racconta Boldrini a La Stampa – è stato uno solo: la richiesta urgente di un “cessate il fuoco”. È la precondizione per continuare ad operare, l’unico presupposto per poter fornire assistenza alla popolazione ridotta allo stremo delle forze».
La delegazione comprende quattordici deputati dell’opposizione: otto del Partito democratico (Laura Boldrini, Andrea Orlando, Ouidad Bakkali, Sara Ferrari, Valentina Ghio, Rachele Scarpa, Arturo Scotto e Alessandro Zan), tre del M5s (Stefania Ascari, Carmela Auriemma e Dario Carotenuto) e tre di Avs (Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni e Franco Mari). Con loro viaggiano giornalisti, operatori umanitari, accademici ed esperti di diritto internazionale.
Secondo la tabella di marcia, il gruppo dovrebbe arrivare a Rafah martedì mattina. «Gli aiuti gettati dall’alto non sono la soluzione, – ragiona Boldrini – i viveri ci sono ma vengono bloccati a Rafah, è necessario che Israele acconsenta al passaggio di centinaia di convogli fermi al valico. La fame è usata come arma di guerra e questo è un crimine, il cibo e i medicinali devono poter entrare». Lunedì i parlamentari incontreranno i rappresentanti dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, che tornerà a ricevere i fondi europei congelati per mesi dopo le accuse di un presunto coinvolgimento di 12 dipendenti locali nella strage del 7 ottobre. Secondo Boldrini il sostegno all’Agenzia è imprescindibile: «Unrwa è fondamentale alla sopravvivenza di oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi non solo a Gaza e Cisgiordania ma anche Giordania, Libano e Siria. Fornisce la sanità, il cibo, le scuole, gli alloggi. Senza UNRWA, queste persone non avrebbero nessuna rete di salvataggio».
(da agenzie)
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Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
“NAVALNY È STATO USATO COME CAVIA. HANNO VOLUTO PORTARE A TERMINE IL LAVORO LASCIATO A METÀ QUATTRO ANNI FA”
«Aleksej Navalny è stato usato come una cavia umana. Hanno voluto portare a termine il lavoro lasciato a metà quattro anni fa col Novichok». Vil Mirzajanov modella la sua teoria man mano che risponde alle nostre domande al telefono dal New Jersey, negli Stati Uniti.
Lasciato nel 1992 l’Istituto statale di ricerca di chimica organica e tecnologica (GosNIIOKhT) di Mosca, amministrato dall’esercito e dal Kgb, lo scienziato oggi 88enne fu il primo a rivelare il programma sovietico per lo sviluppo di armi chimiche, tra cui l’agente nervino letale Novichok, “Novellino” in russo, che ridusse Navalny in coma nel 2020 e che, secondo vedova e collaboratori, potrebbe averne causato la morte il 16 febbraio.
Che cosa le fa pensare che Navalny sia stato ucciso dal Novichok?
«L’uomo che conoscete (Vladimir Putin, ndr) è un killer. Stando alla sua logica, ha voluto portare a termine il lavoro che si era prefissato nel 2020 e lo ha voluto completare nello stesso modo. Il precedente tentativo di avvelenare Navalny nel 2020 non aveva avuto l’effetto desiderato. E non si poteva lasciare incompiuto un altro omicidio col Novichok, su cui era stato investito tanto tempo e denaro.
Ma quando Navalny è stato trasferito nella colonia penale oltre il Circolo Polare Artico ed è stato isolato dal mondo, hanno potuto usarlo come una cavia da laboratorio. Su di lui hanno potuto sperimentare qualsiasi cosa: da piccole dosi a una dose letale. Per evitare futuri imbarazzanti errori».
È possibile che sia stata sintetizzata una nuova versione?
«Ne furono sintetizzate cinque, se ricordo bene. Hanno potuto sperimentarle a loro discrezione sull’uomo-cavia Navalny. Nella colonia penale, avevano possibilità infinite».
Secondo il Servizio penitenziario federale, “Navalny ha perso conoscenza” prima di morire. Alla madre Lyudmila è stato invece detto che il figlio è morto a causa della sindrome da morte improvvisa che causa l’arresto cardiaco. La perdita dei sensi e l’arresto cardiaco possono essere conseguenza del Novichok?
«Le autorità mentono. Credere loro sarebbe ridicolo. Ma la risposta è sì. Il Novichok colpisce il sistema nervoso centrale, perciò è una sostanza tossica molto pericolosa. Quando un uomo riceve una dose di Novichok, letale o no che sia, i primi sintomi sono la restrizione della pupilla, il vomito e la perdita di conoscenza. Se la dose è letale e non si somministra un antidoto, segue l’arresto cardiaco».
E le convulsioni? Un barelliere ha raccontato a “Novaja Gazeta Europe” che il corpo presentava lividi compatibili con convulsioni…
«Le convulsioni sono un sintomo di avvelenamento da agenti nervini, non solo da Novichok. Potrebbero essere provocate anche dal Vx, dal Sarin, dal Soman, da qualsiasi agente nervino organofosforico».
È possibile che le tracce di Novichok scompaiano dal corpo?
«No, non scompaiono. Soprattutto da una salma. Se il Novichok è nel corpo, può essere estratto e la sua presenza può essere dimostrata anche a distanza di anni. Però la salma è pericolosa. Non ci si dovrebbe avvicinare senza maschere e tute».
Chi può dare l’ordine di usare il Novichok?
«L’ordine può arrivare soltanto dai massimi vertici. Da Vladimir Putin in persona. Soltanto il Cremlino può ordinare di usare il Novichok».
Non si pente mai di aver contribuito alla sua creazione?
«Quando Navalny fu avvelenato nel 2020, dissi che mi assumevo ogni mia responsabilità. Ma nessuno ha mai accettato le mie scuse. Né i familiari, né i collaboratori di Navalny».
(da La Repubblica)
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Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
“VOGLIO SPINGERE I RAGAZZI A PRENDERE IN MANO LA PROPRIA VITA, I SOCIAL SONO PERICOLOSI, TROPPO ODIO. IL RAZZISMO È OVUNQUE, PURTROPPO”
Rafa Leao, il titolo del suo primo libro è «Smile». Appunto.
«Racconto me stesso. Ho solo 24 anni, so bene che c’è ancora tanto da scrivere, soprattutto come calciatore. Vorrei spiegare ai miei fan chi sono davvero. E perché sorrido».
Infatti: perché?
«C’è gente che non ha l’acqua per bere. Quando puoi camminare, hai da mangiare, magari hai qualcuno che ti vuole bene, la vita è “smile”. Io ho tutto, ho anche di più, Dio mi ha dato un dono e io gli sono grato. Il mio lavoro è giocare a pallone, ho coronato il mio sogno di quando ero bambino. Come potrei non sorridere?».
E in cosa deve crescere come calciatore?
«Per crescere devo vincere cose importanti, come la Champions o l’Europa League. Le cose belle si dimenticano troppo velocemente, quindi bisogna vincere ogni anno, il più possibile. Quando sei al Milan devi farlo, non è una scelta, è un dovere. Per lasciare il tuo nome nella storia».
E come cantante in cosa deve crescere?
«No, la musica per ora è solo un hobby. È la mia migliore amica. Appartengo alla generazione Z, quella dei nativi digitali. Mi sono appassionato al rap sentendolo sul telefono.
Impazzivo per Eminem da bambino. Ma la musica era già in casa: mio zio era un dj, suonava alle feste private e in discoteca. Trap, drill. Poi ho iniziato a scrivere canzoni, sono al secondo album. Dopo Beginning, My life in each verse. Ho conosciuto Kanye West prima di Genoa-Milan. Ora c’è il calcio. In futuro, vedremo. Anche la musica è un modo per parlare di me. E per dare un messaggio: voglio spingere i ragazzi a credere nei sogni, a non mollare mai».
Cosa vuol dire?
«Come prendere in mano la propria vita. Le decisioni non sono sempre facili, ma se sono qui è per le scelte che ho fatto. Anche quelle sbagliate. Essere un privilegiato non significa che la vita è sempre stata facile. E non significa essere incapaci di soffrire».
Lei è una star dei social, viaggia verso i 6 milioni di follower su Instagram.
«I social sono pericolosi, non è un mondo positivo. Troppo odio, troppe cattiverie. Le cose che so non le ho imparate lì. Li uso perché devo averli per il mio lavoro, però non mi piacciono. Si sorride poco sui social».
La sua risposta a un hater razzista ha fatto il giro del mondo.
«Sui social e non solo esiste gente così, purtroppo. Manca spesso l’educazione in famiglia, a scuola. Lui non sa nemmeno cosa ha fatto. E questo è un problema: i razzisti spesso non si rendono conto di come sono».
L’Italia è un Paese razzista?
«Il razzismo è ovunque, purtroppo. Ecco perché noi calciatori dobbiamo provare a fare qualcosa, visto che abbiamo tanta popolarità. Dobbiamo sfruttare questa forza, mandando messaggi. Il Milan è molto sensibile al tema. Anche nella vicenda di Maignan a Udine si è visto. Abbiamo fatto bene a comportarci così, giusto uscire dal campo».
E il sogno da calciatore? Che futuro si immagina?
«Il mio futuro è al Milan. Sono qui e ho ancora un contratto di quattro anni. Il Milan mi ha aiutato quando ero in una situazione difficilissima, mi è stato vicino. Io non dimentico, sono leale. Sono arrivato da ragazzino, qui sono cresciuto come uomo e come calciatore. Voglio vincere ancora, la mia testa è qui».
Dalla periferia difficile di Lisbona al grande calcio.
«Ho fatto tanti sacrifici, ma soprattutto li ha fatti la mia famiglia. Mio padre Antonio è partito a 18 anni dall’Angola per lavorare in Portogallo e per darmi un futuro. Mi ha dato molti insegnamenti, prima di tutto l’importanza del lavoro. Ecco perché voglio fare di tutto per restituire ciò che mi hanno dato: ho la possibilità di fare qualcosa con il mio talento. La prima cosa che ho comprato con lo stipendio al Lille è stata una casa per la mia famiglia».
In campo, spesso alza gli occhi al cielo. Che rapporto ha con Dio?
«Molto stretto. Sono credente, cattolico, anche se alcuni pensavano che fossi musulmano, forse per il colore della pelle e per le origini africane. Prima andavo sempre a messa la domenica, ora faccio più fatica perché ci sono le partite. La preghiera fa parte della mia vita».
I primi ricordi?
«Il pallone fra i piedi, a Bairro da Jamaica, oltre il fiume Tago. Un quartiere molto popolare, la maggior parte sono immigrati, in molti dall’Africa. La mia famiglia è in parte angolana e in parte, da quella di mia madre, di São Tomè. Angolani, guineani, capoverdiani abitano il bairro. Non un posto facile. Lì di buono c’era il pallone, ci giocavo dalla mattina alla sera. Interi pomeriggi nel parcheggio del supermercato. A volte penso di essere rimasto su quel campetto. Spesso carte appallottolate o una lattina come palla, mentre un’auto era la porta. Il mio modo di giocare è ancora quello, un calcio di strada, finte, scatti, furbizia».
Piace ai bambini.
«Forse proprio perché gioco come i piccoli, che vogliono divertirsi».
Sull’ultima domanda, se è innamorato, Leao va in dribbling. Una risposta, però, l’ha data nel libro.
«Non riesco ad aprire il mio cuore al 100 per 100, ho una tremenda paura che mi possano ferire. Non riesco a lasciarmi andare, a essere me stesso in tutto e per tutto. Eppure sono certo di volere una famiglia, dei bambini, prima dei 30 anni. Forse ho paura che i figli possano provare quello che ho provato io, la separazione dei miei, e poi crescere come sono cresciuto io. Vorrei trasmettere quella relazione d’amore che non ho mai visto».
(da Il Corriere della Sera)
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Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
ECCO COME MULTINAZIONALI E SUPER RICCHI RIESCONO A PAGARE POCO O NULLA
Dalla palazzina nell’isola di Jersey dove hanno sede i trust che controllano il gruppo siderurgico ArcelorMittal, ancora per poco socio di Invitalia nella gestione dell’ex Ilva, al piccolo edificio di Londra che sulla carta ospita gli uffici di 19mila società. Dal quartiere degli affari di Amsterdam in cui Exor nel 2016 ha trasferito la sede legale e fiscale al business center del Lussemburgo in cui oltre 5mila italiani hanno aperto holding e finanziarie per godere di un trattamento fiscale di favore su dividendi e interessi. Fino alla cittadina di Cipro in cui sono basati i trust esentasse di centinaia di oligarchi e miliardari russi, che controllano patrimoni da decine di miliardi di dollari oltre a yacht, aerei e complessi immobiliari. Tocca una decina di Paesi d’Europa – oltre all’emirato di Dubai – il viaggio del giornalista finanziario del Sole 24 Ore Angelo Mincuzzi per raccontare “come i paradisi fiscali dell’Unione europea ci rendono tutti più poveri”. Che è anche il sottotitolo del suo nuovo libro, Europa parassita (Chiarelettere).
Obiettivo, raccontare i meccanismi che consentono alle multinazionali di pagare meno tasse – e girare dividendi ancora più ricchi ai loro azionisti – e a milionari e miliardari (tra cui oligarchi, criminali e trafficanti) di “non contribuire allo sviluppo dei Paesi dove vivono, dove magari sono anche nati, dove hanno studiato e hanno mosso i primi passi della vita professionale”. Perché “possono stabilire il livello delle imposte da versare, in quale paese pagarle e addirittura se custodire per sé tutta la ricchezza accumulata”. Il punto è che quelli che Mincuzzi definisce abitanti del “Mondo di sopra” evadono o eludono quasi sempre grazie a leggi che glielo consentono e all’assenza di regole comuni nella Ue: una situazione che garantisce loro un’impunità ovviamente negata ai comuni cittadini, soggetti alle normali aliquote delle imposte sui redditi. Che subiscono in silenzio lo status quo, pur pagandone gli effetti sotto forma di servizi pubblici scadenti, disuguaglianze crescenti, sussidi insufficienti, delocalizzazioni che distruggono posti di lavoro.
A livello globale, stando al Global Tax Evasion Report 2024 dell’Eu Tax Observatory, i paradisi fiscali nascondono oltre 11mila miliardi di euro, in parte frutto di evasione, elusione e corruzione. L’Italia, di per sé gravata da un’evasione di massa che sottrae alle casse pubbliche una novantina di miliardi l’anno, subisce un’emorragia di oltre 10 miliardi di euro annui dirottati verso “Stati parassiti”: 7,5 se ne vanno per effetto di abusi ed elusione delle multinazionali, 3 per le frodi di privati cittadini. E un’importante fetta di quegli ammanchi finisce in altri Stati europei noti per le politiche fiscali compiacenti nei confronti di grandi imprese e super ricchi: Olanda e Lussemburgo, non a caso due tappe del viaggio di Mincuzzi insieme a Svizzera e Regno Unito. È la cosiddetta asse dell’elusione fiscale, che assorbe 550 miliardi di dollari di profitti societari ogni 12 mesi ed è responsabile del 65% delle tasse non pagate dalle élite internazionali.
Ma i numeri, per quanto eclatanti, spesso faticano a colpire l’immaginazione. La forza del libro di Mincuzzi sta nel raccontare cosa c’è dietro. Seguendo il cronista nel pellegrinaggio alla ricerca delle sedi irlandesi dei grandi gruppi hi-tech, nella “via dei miliardari” della municipalità belga di Estaimpius e per le strade lussuose del principato di Monaco, che non tassa i redditi delle persone fisiche né i dividendi, ci si fa un’idea concreta di come funzionino l’industria dell’offshore, il business dei trust, le rotte migratorie dei nomadi fiscali in cerca di scudo dalle imposte, le società di comodo con cui si ripuliscono i soldi sporchi e si comprano immobili che nessuno riuscirà a ricondurre al reale proprietario. Non manca un’analisi psicologica e sociologica del perché le persone comuni accettino tutto questo o lo ritengano immutabile, che chiama in causa l’ideologia della meritocrazia, il falso mito della mobilità sociale e l’interiorizzazione dello stato di subalternità.
Sull’altro piatto della bilancia c’è il fatto che qualche passo avanti negli ultimi anni è stato fatto: dall‘accordo sullo scambio automatico di informazioni tra istituti finanziari alla – seppur depotenziata – direttiva sulla tassa minima globale per le multinazionali. Non è neanche lontanamente abbastanza. Il contrasto tra il trattamento riservato a una minoranza di super ricchi e le condizioni di tutti gli altri, scrive Mincuzzi, mette a rischio non solo le economie ma anche le democrazie del Vecchio continente.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Marzo 4th, 2024 Riccardo Fucile
MANCANO NUOVE LICENZE… UNA LOBBY VERGOGNOSA PROTETTA DAI SOVRANISTI
Enrico Mattei quando parlava dei suoi rapporti con la politica non aveva bisogno di girarci intorno: «Per me i partiti sono come i taxi: li utilizzo, pago il dovuto e scendo».
Quasi 65 anni dopo sono i tassisti a decidere come utilizzare i partiti, mentre migliaia di clienti restano in attesa per non perdere una priorità mai acquisita.
Le norme che avrebbero dovuto mettere più taxi in circolazione, emanate dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini e da quello delle Imprese Adolfo Urso, risalgono ad agosto 2023. E allora la domanda è: quando aumenteranno le licenze?
Vent’anni senza nuove licenze
Per legge sono i Comuni ad avere il compito di stabilire quante licenze servono (qui art. 5) e di rilasciarne di nuove a titolo oneroso o gratuito. A Milano l’ultima volta che il sindaco è riuscito a incrementarle risale al 2003, concedendo le licenze senza farle pagare ai tassisti vincitori del bando. Oggi il capoluogo lombardo conta 4.855 licenze. Le chiamate inevase, cioè quelle di cittadini che telefonano per avere un taxi ma non lo trovano, oscillano intorno alle 500 mila al mese, con punte del 40% sul totale delle richieste (qui figura 2 pag. 7).
A Roma non avviene dal 2005, e la scelta è sempre quella di rilasciarle a titolo gratuito. La capitale oggi conta 7.692 licenze. Lo scorso luglio le chiamate andate a vuoto sono 1,3 milioni, il 44% del totale (qui figura 1 pag. 7).
A Napoli l’ultima licenza concessa risale al 1998, al costo di 7.500 lire. In totale sono 2.364, mentre le richieste a vuoto arrivano a quasi 150 mila in un mese, praticamente una su due (qui figura 3 pag. 8). È il motivo per cui l’Antitrust, a fronte dei dati raccolti con un’indagine conclusa nel novembre 2023 sui cittadini rimasti senza taxi, sollecita i tre Comuni ad adeguare il numero delle licenze alla domanda (qui). Non va meglio altrove: nelle 110 principali città italiane le licenze sono 23.139, più o meno le stesse da vent’anni, come emerge dal rapporto al Parlamento dell’Autorità di regolazione dei Trasporti (qui tabella 39 pag. 229).
Vecchie e nuove norme
Insomma, la legge che regola la materia, la 21 del 1992 (qui), viene decisamente poco utilizzata, almeno dai Comuni. La usano invece i tassisti: chi ha una licenza da più di 5 anni, o ha compiuto i 60 anni, o per malattia, può indicare al Comune il soggetto a cui trasferirla.
In caso di morte può essere trasferita a uno degli eredi o a chi indicato da loro (art. 9). Nella pratica il titolare di licenza decide a chi venderla e a quale prezzo: i valori di mercato oscillano fra 150-200 mila euro, a seconda della città.
Di qui la volontà di bloccare qualsiasi iniziativa dei Comuni che, con l’aumento delle licenze, possa in qualche modo deprezzare quelle in circolazione (vedi anche il Dataroom del novembre 2022).
L’altra norma che si aggiunge alla legge-quadro è il decreto Bersani del 2006 (n. 223, art. 6, comma 1, lett. B qui) che prevede la possibilità di un risarcimento per la categoria. Infatti il decreto dice che, se il Comune anziché rilasciare nuove licenze a titolo gratuito decide di farsele pagare, l’80% dell’incasso deve essere ripartito fra i tassisti già in circolazione in quella città, mentre l’altro 20% deve essere investito in politiche sulla mobilità.
Finito nel nulla invece l’articolo 10 del Ddl Concorrenza dell’allora premier Mario Draghi che prevedeva tra l’altro di dare una delega al Governo per riscrivere entro febbraio 2023 le regole sui taxi. Dopo l’ennesima rivolta dell’intera categoria l’articolo viene stralciato (qui il Ddl concorrenza e qui lo stralcio). Infine il 10 agosto 2023 arriva il decreto Salvini-Urso (n. 104 qui, articolo 3 comma 2), definito un provvedimento emergenziale in attesa di una revisione più complessiva del settore.
Le nuove norme non toccano la legge-quadro del 1992, ma offrono a 65 Comuni (capoluoghi di Regione, città metropolitane e sedi di aeroporto) un iter amministrativo-burocratico alternativo e, almeno sulla carta, più veloce per rilasciare nuove licenze.
La procedura prevede un intervento più limitato dell’Autorità di regolazione dei Trasporti e il suo parere arriva entro 15 giorni, contro i 45/60 giorni normalmente necessari per la procedura standard. Questo avviene perché l’Autorità non apre istruttorie per valutare se il numero di nuovi taxi (inclusi quelli per disabili) è adeguato, ma prende in considerazione solo il contributo economico richiesto dal Comune per il rilascio delle nuove licenze.
L’incremento massimo di licenze si ferma al 20% e il Comune che decide di seguire la procedura accelerata non ha più l’opzione di concedere gratuitamente le nuove licenze: è obbligato a venderle e a ripartire il 100% dell’incasso tra i tassisti per compensarli di eventuali minori ricavi dovuti a una maggiore concorrenza. Ma venderle a quanto? Il regolamento dice che occorre basarsi sullo studio fatto dall’Agenzia delle Entrate.
Il caso Milano
Il primo a muoversi utilizzando la procedura straordinaria è il Comune di Milano. E sul prezzo si scopre subito che non c’è nessuno studio dell’Agenzia delle Entrate. La decisione del sindaco Beppe Sala di utilizzare il decreto Salvini-Urso è motivata dalla volontà di «bypassare» Regione Lombardia a cui spetta, in base a norme regionali, l’autorizzazione all’aumento delle licenze, ma è riluttante nel farlo. Il 15 novembre 2023 viene pubblicata la delibera per indire il concorso straordinario finalizzato al rilascio di 450 nuove licenze al costo di 96.500 euro l’una. Come si è arrivati a questa cifra? Secondo i conti del Comune le 450 licenze faranno diminuire del 5,03% le corse evase dai tassisti già in circolazione, con minori incassi per 8.048 euro in un anno. Moltiplicando 8.048 per gli attuali 4.855 titolari di taxi si arriva al risultato di 39.073.040 milioni: è la cifra con cui il Comune vuole risarcire i tassisti milanesi. I 39 milioni divisi per le nuove licenze fanno 86.829 euro che, dunque, per Milano è la cifra a cui vendere ciascuna licenza, che sale a 96.500 perché considera una percentuale di sconto da applicare a chi è in possesso di un’auto abilitata al trasporto disabili o s’impegna per 5 anni a fornire turni notturni e nel fine settimana. I tassisti milanesi hanno risposto con un ricorso al Tar (che si esprimerà il 18 aprile). A loro il calcolo del Comune è indigesto: vorrebbero che le nuove licenze venissero vendute a un presunto valore di mercato di 160 mila euro, in modo anche da scoraggiare la partecipazione degli aspiranti tassisti.
Il caso Roma
Anche il Comune di Roma è alle prese con l’aumento delle licenze. La scelta però è di puntare sulla procedura vecchia (quella della legge del 1992), in modo da non essere obbligati a dare il 100% dell’incasso ai tassisti e poter intervenire su più aspetti di organizzazione del servizio con l’aiuto dell’Autorità di regolazione dei Trasporti. L’obiettivo del sindaco Roberto Gualtieri è di rilasciare mille licenze permanenti e altre 500 stagionali pubblicando il bando prima dell’estate. Roma è la città che più di tutte sta soffrendo il disagio di un servizio carente e inadeguato, ma anche quella più vulnerabile in caso di scioperi.
Le altre città e i problemi di sempre
Bologna sta costruendo il bando per 72 nuove licenze con le norme Salvini-Urso che andranno ad aggiungersi alle attuali 722. Nel 2018 il Comune le ha messe in vendita a 175 mila euro riuscendo ad assegnarne solo 16 su 36. Il tentativo ora è di abbassarne il prezzo e pubblicare il bando a maggio. Modena e Ravenna intendono seguire, invece, la vecchia procedura. Poco o nulla si muove altrove.
Eppure le leggi ci sono tutte, ma resta il problema di sempre. Appena i Comuni provano a mettere mano alla questione per i tassisti è di fatto sempre un no, e bloccano la città. E non vogliono neppure la concorrenza di Uber &C. Dai governi però non è mai arrivata la copertura politica. È necessario ricordare che i taxi svolgono un servizio pubblico la cui prestazione deve essere obbligatoria, capillare sul territorio e accessibile economicamente. Ma nel Paese delle lobby, quella composta da milioni di cittadini che aspettano inutilmente un taxi che non arriva, ancora non c’è.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)
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