Marzo 10th, 2024 Riccardo Fucile
ANCHE DOVESSE VINCERE MARSILIO, DEVE FARE I CONTI CON UNA EMORRAGIA DI VOTI COSTANTE E RESTITUISCE L’IMMAGINE DI UNA LEGA BOCCHEGGIANTE SUI TERRITORI
È bastato poco per cambiare il sentimento della maggioranza di governo, da baldanzosa a impaurita. Due settimane fa il voto sardo ha smontato uno dei capisaldi della narrazione sovranista: la solidità del favore popolare. Ora l’Abruzzo è diventato un passaggio che spaventa Giorgia Meloni e può creare danni seri al governo.
Per la destra è già un cruccio essere arrivata a giocarsi voto a voto la Regione quando, fino a poche settimane fa, la sua difesa pareva una formalità.. Il guaio per Meloni è che le elezioni regionali […] sono il terreno peggiore per il genere di propaganda nella quale il suo esecutivo è specializzato: sale nelle scelte degli elettori il peso dei problemi reali – sanità, trasporti, servizi – e cala il consenso espresso per adesione ideologica. Perdono valore i classici temi sui quali i sovranisti cercano da sempre di coagulare consenso facile, come migranti e sicurezza.
Non bastano retorica, annunci e proclami se i cittadini non trovano posto in ospedale, non riescono a prenotare un esame specialistico prima di un anno e mezzo o possono contare solo su infrastrutture ferme al secondo dopoguerra. Puntare sul racconto di un Paese risorto sbatte su un ostacolo difficile da aggirare persino in era di post-politica, cioè il principio di realtà. In più, nelle competizioni regionali aumenta l’incidenza del valore personale dei candidati alla presidenza e anche su questo aspetto Meloni non può essere tranquilla.
Il centrosinistra, incredibilmente unito in una formula definibile da Renzi a Fratoianni, è riuscito nell’impresa di compattarsi intorno a una figura credibile e radicata nel territorio come l’ex rettore dell’Università di Teramo Luciano D’Amico. Per tutte queste ragioni, e non solo per il destino dell’amico Marsilio, Meloni è così spaventata dal voto abruzzese: sa bene che è impensabile attribuire una eventuale sconfitta a fattori locali e indipendenti dalla salute del suo governo.
In una condizione più rischiosa di Meloni alla vigilia del voto è solo il suo principale rivale interno: Matteo Salvini. Meloni può ancora sperare di sfangarla e portare a casa la vittoria; Salvini – anche dovesse vincere Marsilio – deve fare i conti con una emorragia di voti che fin qui è stata costante e restituisce l’immagine di una Lega boccheggiante sui territori. Un solo dato, per rendere l’idea della situazione: in Sardegna si sono presentate al voto complessivamente 25 liste, la Lega è risultata tredicesima, superata anche da civiche, liste locali e partitini della Prima Repubblica.
Se l’Abruzzo confermasse questa tendenza, per il ministro delle Infrastrutture comincerà a farsi scomoda e difficile la difesa a oltranza della leadership nel partito. Se poi le difficoltà della Lega dovessero essere accompagnate da una vittoria di D’Amico, non è eccessivo dire che la Lega arriverà alle Europee di giugno in una condizione dove tutto può succedere. Nel partito non è più tabù il tema della sostituzione di Salvini.
(da la Repubblica)
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Marzo 10th, 2024 Riccardo Fucile
LE ASSOCIAZIONI SI ERANO MOSSE PER SEGNALARE LA NOMINA DI TREBASTONI VISTO CHE, OLTRE ALLA VICENDA DEI REPERTI SEQUESTRATI, NEL 2022 ERA FINITO AI DOMICILIARI CON L’ACCUSA DI CORRUZIONE, CONCUSSIONE E RIVELAZIONE DI SEGRETO
Ci sono tanti modi per riportare al lavoro un dirigente pubblico indagato per corruzione e concussione, ma certo quello che ha trovato la Regione Sicilia per Michelangelo Trebastoni, ex dirigente dell’ispettorato del lavoro è uno dei più originali: nominarlo a dirigere l’ufficio del Parco archeologico di Siracusa che ha in custodia, tra le altre cose, alcune monete antiche che gli furono sequestrate nel 2018. E poi rimuoverlo dopo 48 ore.Era il maggio 2018 quando la Guardia di Finanza di Noto trovò a casa sua, tra le altre cose, 19 tra coppe, lucerne, unguentari, e crateri d’età greco-romana, 9 pezzi di monili in metallo e 33 monete, databili tra il VI secolo avanti Cristo e l’età alto medievale: Trebastoni si difese spiegando facessero parte di un’eredità di famiglia, ma i pezzi sono ancora sotto sequestro.
L’ARRESTO PER CORRUZIONE
Quattro anni dopo, quando è direttore dell’Ispettorato territoriale del Lavoro (ITL) a Siracusa, Trebastoni finisce ai domiciliari con l’accusa di corruzione, concussione e rivelazione di segreto.
Secondo l’indagine della Guardia di finanza e della procura aretusea, Trebastoni avrebbe perseguito “interessi privati propri o di terze persone lui vicine”, mettendo in atto “comportamenti seriali” e “approcciando le persone offese con modi talvolta assertivi, felpati ed allusivi, avrebbe indotto o costretto imprenditori ad assumere persone a lui vicine, ovvero a prometterne l’assunzione”. Nell’arco temporale finito sotto la lente degli inquirenti, tra agosto 2017 e febbraio 2022, gli episodi per cui si ipotizza il reato sono 19.
“SISTEMA SIRACUSA”
Il cognome dei Trebastoni è stato al centro anche di altre vicende giudiziarie. Il fratello infatti, già giudice del Tar di Catania e poi del Lazio, Dauno Trebastoni, è stato indagato per corruzione in atti giudiziari dalla Guardia di finanza e della procura di Catania per presunti favoritismi al tribunale amministrativo etneo.
Era uno dei numerosi rami investigativi collegati al “Sistema Siracusa”, scaturito dalla collaborazione dell’ex avvocato esterno di Eni, Piero Amara. Vicenda poi conclusasi con l’archiviazione. Il giudice è anche citato (ma non indagato) negli atti della “Loggia Ungheria” sempre da Amara, come possibile appartenente della fantomatica corporazione. Anche questa vicenda si è conclusa con l’archiviazione.
INCARICO REVOCATO.
Tutto dimenticato. Tanto dimenticata è stata la vicenda dei reperti archeologici che probabilmente neppure chi gli ha offerto l’incarico al Museo, suggerito dal dipartimento di funzione pubblica, ne era a conoscenza
L’Ufficio 1 che sarebbe andato a dirigere ha anche la custodia giudiziaria dei beni culturali sotto sequestro, tra cui anche alcune delle monete di Trebastoni (il resto del sequestro è nei depositi della locale Soprintendenza). Le associazioni si erano mosse immediatamente per segnalarlo, e la notizia era stata data per prima da una testata online locale, La Civetta di Minerva.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Marzo 10th, 2024 Riccardo Fucile
IL SAGGIO DELLO STORICO LUCA ADDANTE: “IN QUESTA COSTELLAZIONE DI PRATICHE E IDEALI SI RITROVA IL PRIMO VASTO MOVIMENTO POLITICO ITALIANO”
All’indomani del congresso di Vienna, che nel 1815 si illuse di mettere fine una volta per tutte alle ininterrotte guerre e rivoluzioni che dal 1789 all’età napoleonica avevano sconvolto l’Europa, pullularono ovunque società segrete impegnate a combattere la restaurazione dell’Antico regime, ad agitare bandiere indipendentiste, a organizzare moti e insurrezioni.
Si trattò di un fermento europeo, presente con vario vigore in molti Paesi, con radici nella Massoneria ma capace di dotarsi di strutture innovative, prodromo dei partiti e movimenti politici moderni, la cui azione fu decisiva nei moti rivoluzionari che dilagarono tra il 1820 e il 1831.
La Carboneria è la più nota tra le associazioni clandestine che agirono nella penisola alle origini del Risorgimento. Ma in realtà fu un pulviscolo di sigle diverse ad animare la lotta politica in quegli anni: un universo importante, dunque, ma intricatissimo e difficile da conoscere a fondo
Molti sono quindi i problemi che Luca Addante ha dovuto affrontare per risalire alle origini delle società segrete italiane sorte sotto la spinta dei traumatici eventi francesi dell’89 e oltre, dalla cospirazione napoletana del 1792-94 alla Società segreta piemontese.
A partire dalla conquista di Milano nel 1796, in cui un ruolo determinante ebbero i giacobini italiani, furono soprattutto le trionfanti campagne di Napoleone a far spirare un’aria nuova anche al di qua delle Alpi, dove per la prima volta si poteva sperimentare libertà di stampa, di parola, di associazione, di partecipazione politica.
Fu allora, nel cosiddetto triennio repubblicano del 1796-99, che gli sparsi gruppi e movimenti giacobini sorti nelle varie realtà statali trovarono non pochi elementi comuni, e maturarono un programma unitario e indipendentista che induce a scorgere in essi l’inizio del Risorgimento. Tanto più perché per la prima volta nella storia italiana nasceva un movimento capace di lottare attraverso la fondazione di società e giornali diffusi da un capo all’altro della penisola.
Ma quel programma non esauriva, anzi integrava una progettualità politica fondata sui principi repubblicani, costituzionali, democratici, volti a garantire a tutti diritti di libertà e di giustizia sociale che avrebbero avuto lenta, contrastata e talora mancata realizzazione nei due secoli successivi.
In un primo momento accolto come liberatore, il governo francese non tardò a essere percepito come autoritario e oppressivo, mentre la carestia, la fame e l’inflazione spingevano alla rivolta contro il Direttorio la folla di Parigi
Partita soprattutto da Milano, l’ondata giacobina non tardò a estendersi in tutta la penisola per rivendicare i principi di libertà e democrazia sorti nella stagione più radicale della Rivoluzione francese.
Fu da questo combattivo giacobinismo italiano che scaturì la prima società segreta del Risorgimento, la Società dei Raggi, di cui questo libro documenta la filiazione da una società precedente nominatasi le Colonne della democrazia. Da qui, dalle Colonne e poi dai Raggi — e con i loro stessi protagonisti — rampolleranno le società segrete più note del Risorgimento, la Carboneria, la Filadelfia, la Società dei centri, i Sublimi maestri perfetti e altre ancora, destinate ad agire almeno fino ai moti del 1830-31.
Una microstoria tutta metodologica quindi, fatta di puntigliosa e acuta ricerca tra fonti al tempo spesso numerose e scarne, molteplici e sfuggenti, talora rese difficilmente decifrabili dagli stessi codici segreti della loro trasmissione, «indizi, tracce, segnali, anche apparentemente secondari o del tutto slegati», che investe tuttavia un problema storico di grande rilevanza quale quello delle origini del Risorgimento.
Fu infatti in quella «costellazione di pratiche e ideali», in quelle «colonne della democrazia» che è dato ritrovare il «primo vasto movimento politico italiano che ebbe una straordinaria importanza nella nostra storia e non soltanto», in virtù delle sue significative diramazioni europee.
(da La Repubblica)
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Marzo 10th, 2024 Riccardo Fucile
DA UNA PARTE LA COSTA COI TRABUCCHI DALL’ALTRA L’ENTROTERRA CHE LE NEVI DEL GRAN SASSO
«Più in là che Abruzzi» diceva Calandrino nel Decamerone di Boccaccio, per intendere un luogo lontano e appartato, ma anche favoloso nel suo essere nascosto. Del resto, ancora oggi rimane un territorio impervio, difficile da raggiungere con le vie di collegamento che a fatica valicano gli Appennini e funzionano solo un poco meglio lungo la dorsale adriatica.
Il nome – Abruzzo – nei ricordi degli anziani è ancora al plurale come per Boccaccio, in uno strascico di divisioni campanilistiche che permangono ancora oggi e corrono lungo le rive del fiume Pescara, che divide l’Abruzzo Ulteriore a nord e l’Abruzzo Citeriore a sud. La dicotomia è un tratto distintivo: da una parte la costa coi trabucchi e le località balneari, dall’altra l’entroterra con le nevi del Gran Sasso e della Maiella; l’agricoltura diffusa con le viti di Montepulciano contro l’appellativo di regione verde d’Europa con più del 30 per cento della superficie protetta da leggi ambientali; il campanilismo tra Pescara e L’Aquila, che dopo lo scontro per il ruolo di capoluogo si divisero le mansioni: consiglio regionale e appellativo formale all’Aquila, testa amministrativa con la sede della giunta regionale alla più ricca Pescara.
Territorio sospeso tra il centro a cui apparterrebbe geograficamente e il Meridione cui lo lega essere stato la punta nord del borbonico regno di Napoli, l’Abruzzo è territorio politicamente capriccioso. Anche negli anni della prima repubblica col dominio della Democrazia Cristiana – qui il capobastone era Remo Gasperi – nessun presidente della Regione è mai riuscito ad essere confermato per più di un mandato consecutivo, in una condanna all’alternanza se non di colore politico almeno di facce.
Proprio questa maledizione è stata ricordata, forse per esorcizzarla, dalla premier Giorgia Meloni sul palco di Pescara, alla chiusura della campagna elettorale del governatore uscente di Fratelli d’Italia, Marco Marsilio, che sta tentando l’impresa che non riuscì allo scudo crociato.
Anche in questa contesa politica la dicotomia è evidente. Da un lato Marsilio detto «il Lungo» – sia per l’altezza che per la verbosità dei suoi interventi oratori – cresciuto a Roma nella sezione del Movimento sociale italiano della Garbatella ma con genitori e ascendenti abruzzesi che però non sono bastati per cancellargli di dosso lo stigma del forestiero. Dall’altra Luciano D’Amico, chietese doc ed ex rettore dell’Università di Teramo, capace di parlare ai contadini e agli economisti grazie alla gestione della Tua, l’azienda dei trasporti abruzzesi che sotto la sua guida ha risanato i conti.
L’ABRUZZO BIANCO
Se di Marsilio si conosce il pedigree politico e la linea retta che lo collega a Meloni, meno si sa del percorso di D’Amico, se non che è riuscito nell’impresa di tenere insieme la sinistra, il centro e anche il Movimento 5 Stelle. Politicamente, però, il suo battesimo come candidato è avvenuto con la convergenza di due rette che gli abruzzesi avevano sempre considerato parallele e che mai avrebbero potuto incontrarsi. D’Amico, infatti, è diventato il crocevia delle due maggiori personalità della regione degli ultimi anni, tra loro da sempre in rotta di collisione per distanza sia culturale sia antropologica. Su di lui hanno puntato e per lui hanno lavorato in campagna elettorale – pur separatamente – Luciano D’Alfonso e Giovanni Legnini. Il primo, allievo del democristiano Gaspari, indagato e poi assolto mentre era sindaco di Pescara; il secondo cresciuto nel partito comunista e fiero del suo passato da vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Entrambi, oggi, parlamentari del Pd.
In questa tornata elettorale la speranza del centrosinistra è quella di scalfire il muro dell’astensionismo che nel 2019 fece andare a votare appena il 50 per cento degli aventi diritto, 190 mila persone. Proprio nella fetta di astensionismo si nascondono i voti necessari per evitare che FdI rompa la maledizione dell’alternanza. Anche perché, è il ragionamento che scalda l’entusiasmo del Pd locale, l’Abruzzo è terra del centrismo scudocrociato, con l’eccezione di un’anima nera nel missino Raffaele Delfino, che pure militava nella corrente moderata di Democrazia nazionale.
La saggezza Dc, tuttavia, non è estranea nemmeno a Marsilio, che ha costruito le sue liste d’appoggio con candidati dal forte impatto elettorale, tra amministratori uscenti e imprenditori. Del resto, il governatore e il ministro dei Trasporti hanno sapientemente teso la mano al gruppo dei fratelli Toto, il polo di costruzioni tornato a essere concessionario delle autostrade A24 e A25, dopo la revoca avvenuta durante il governo Draghi.
LA CRISI MORDE
Eppure, chi vive tra la cima innevata della Maiella e l’Adriatico guarda la politica con placido distacco. I problemi del territorio sono ancora tutti lì e negli anni le tante dicotomie che hanno fatto la ricchezza dell’Abruzzo si sono progressivamente allargate.
La crisi dopo il terremoto che ha distrutto L’Aquila del 2009 è ormai superata: la città, che Silvio Berlusconi volle teatro ancora in macerie del G8, è stata quasi interamente ricostruita e le molte famiglie che si erano trasferite sulla costa sono ormai ritornate.
La sanità – con le sue lunghe liste d’attesa, la dismissione di poli ospedalieri e il fuggi fuggi di primari – è un problema più nuovo e contingente e, secondo i sostenitori di D’Amico, frutto della malagestione dei fondi da parte del governatore uscente.
La questione più atavica, invece, riguarda la vocazione agricola della regione: tanto radicata quanto fragile, in anni di cambiamento climatico. «La peronospora ci ha tolto quasi il 70 per cento del raccolto», è il racconto di Giovanni, viticoltore della zona del teramano dove si coltivano le bacche nere che producono il Montepulciano d’Abruzzo.
La peronospora è una malattia delle viti dovuta all’eccesso di pioggia e si è abbattuta sulle coltivazioni in regione, generando un’emergenza di proporzioni mai così avvertite. Se fino pochi anni fa, infatti, le uve venivano vendute – «svendute» dice lui – alle grandi cantine del nord, ora i vini abruzzesi come il Montepulciano e il Trebbiano hanno un mercato autonomo e sempre più redditizio, che ha riportato alla terra molte famiglie con piccole aziende agricole.
Marsilio è corso ai ripari in gennaio, ottenendo dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida la firma di un decreto per stato di calamità naturale con interventi compensativi per le aziende colpite dalla peronospora. «Ma il decreto che dispone risarcimenti economici è senza copertura finanziaria, rimanda ad atti successivi da emanare nel 2024, per poi prendersi quattro anni di tempo per l’erogazione», ha denunciato Camillo D’Alessandro, ex parlamentare e imprenditore vinicolo.
Dalle pianure coltivate alle montagne, il cambiamento climatico ha colpito anche il settore sciistico: l’inverno è stato avaro di neve e al mese scorso solo il 20 per cento delle piste ha potuto aprire, da Roccaraso a Campo Imperatore a Ovindoli. «La situazione che si ripete ormai da tempo, con innevamento sempre più scarso, tanto che già lo scorso anno sono stati previsti dal governo 200 milioni di euro pubblici per i cosiddetti ristori agli operatori del settore», hanno spiegato Stazione ornitologica abruzzese onlus e il Forum H20, chiedendo una riflessione sull’impatto ambientale degli interventi in alta quota.
Da vent’anni l’Abruzzo discute del turismo invernale e della necessità di riconvertire le stazioni a quote più basse dell’Appennino, senza però che un piano complessivo sia stato immaginato. Negli ultimi anni, del resto, anche gli insediamenti produttivi si sono lentamente ridimensionati e un esempio è la progressiva riduzione della produzione nello stabilimento Sevel della Fiat – oggi Stellantis – situato nel mezzo della Val di Sangro, aperto nel 1981 per produrre veicoli commerciali leggeri e noto come la fabbrica di furgoni più grande d’Europa.
Forse per la prima volta dal terremoto del 2009, tuttavia, gli occhi nazionali sono tornati a interessarsi alla regione: complice la sconfitta del centrodestra in Sardegna, i commentatori politici aspettano di capire se si confermerà la tendenza per trasformare l’Abruzzo in un nuovo caso di scuola. Dice un proverbio locale che «all’ùteme s’arecònde le pècure», all’ultimo si ricontano le pecore: i risultati di quest’attenzione non richiesta, nella pragmaticità locale, si valuterà solo alla fine.
(da editorialedomani.it)
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Marzo 10th, 2024 Riccardo Fucile
IL BILANCIO: SFASCIO SANITA’ E TRASPORTI, MA PIOGGIA DI SOLDI PER SAGRE E FIERE
Altro che marziano paracadutato da Roma: Marco Marsilio ha dimostrato che, volendo, può essere più abruzzese degli stessi abruzzesi o qualunque cosa altro voglia sembrare. Grazie a quella stessa dote che prima di lui ha reso immortale Leonard Zelig, il personaggio uscito dalla fantasia di Woody Allen, capace di assumere le movenze e persino le caratteristiche fisiche di ogni suo interlocutore, si tratti di un trombettista nero o un cinese in una fumeria d’oppio.
Da par suo Marsilio, classe 1968 già noto in gioventù come il “lungo” di Colle Oppio, per compiacere Giorgia Meloni, aveva dismesso nel 2019 i panni appena indossati di senatore della Repubblica per vestire in fretta e furia quelli di presidente dell’Abruzzo che oramai ama al punto da voler conservare per un altro lustro. Ma sempre da novello Fregoli con una promessa sempre pronta in tasca, come ha dimostrato anche in campagna elettorale. Da ultimo gli è bastato indossare il berretto da ferroviere, in quel di Lanciano, per diventare capotreno e giurare che per il Giubileo del 2025 serviranno molto meno delle solite 3, anzi 4 ore, che servono abitualmente per raggiungere Roma. L’altro giorno invece s’è fatto alpino tra gli alpini al Santuario di San Gabriele: in mezzo alle penne nere radunate ai piedi del Gran Sasso gli è toccato pure intonare il canto d’Abruzzo, il Vola vola vola e pace se non ne sapeva mezza parola. Allo stesso modo, ossia en travesti, vestito da capocantiere, ha inaugurato i lavori per allungare la pista dell’aeroporto di Pescara che però, mollata vanga e caschetto, non sono mai iniziati. Sempre meglio dello scorso anno quando, per convincere tutti che era finalmente fatta per la riapertura della piscina regionale delle Naiadi, aveva indossato cuffietta e slippino per un tuffo che si è rivelato una panciata: pochi giorni dopo l’impianto natatorio è stato posto sotto sequestro dalla Procura. E che dire di quella volta che, nel 2021, si era improvvisato geografo per dire che “l’Abruzzo è l’unica regione che si affaccia sui due mari. Anzi, su tre, compreso lo Ionio oltre all’Adriatico e il Tirreno”.
Meno di tre mesi fa invece, Marsilio si è mascherato addirittura da capo dell’opposizione: “Dormivate o siete complici?” aveva detto strigliando le file del centrosinistra reo, a suo dire, di non aver vigilato sulla porcata di fine anno voluta dalla sua maggioranza. Ossia la cancellazione di mille ettari della Riserva del Borsacchio approvata con il favore delle tenebre per la gioia dei palazzinari che si fregano le mani a Roseto e che potrebbe finire impugnata dal governo davanti alla Corte Costituzionale. Ovviamente dopo le urne di domenica. Un altro aiutino da Roma a Marsilio che ha visto mobilitarsi per la sua rielezione frotte di ministri, ma soprattutto la presidente del Consiglio, generosissima di questi tempi con l’Abruzzo: a pochi giorni dal voto sono rispuntati i soldi per la tratta ferroviaria Pescara-Roma che erano stati stralciati dal Pnrr solo lo scorso anno per mano di Palazzo Chigi. Per tacere del fatto che l’Abruzzo è stata la prima regione del sud a firmare l’accordo che sblocca i fondi sviluppo e coesione che invece Giorgia Meloni nega a Vincenzo De Luca accusandolo di volerli usare per la fiera del caciocavallo e dello scazzatiello: Marsilio, bontà sua, potrà tranquillamente adoperarli anche per la sagra delle pallotte cacio e ova e del cic ciac di maiale. C’è da dire che regnante il governatore Fratello d’Italia, le finanziarie regionali hanno registrato un record di contributi a pioggia per fiere, festival, sagre e bocciofile, un mercato delle vacche e delle cortesie finito pure all’attenzione delle Corte dei Conti. Epperò a dispetto di tanto soverchio impegno Marsilio è relegato terzultimo nella classifica che ogni anno il Sole 24 Ore dedica ai presidenti di regione: sarà per i trasporti, per le liste d’attesa drammatiche, le Asl in debito, le decine di milioni di euro che la regione sborsa ogni anno per coprire i costi delle cure che gli abruzzesi sono costretti a cercare fuori regione. O per i giovani abruzzesi costretti ad andarsene che sono circa il 12%. Dice l’Istat, mica i malpancisti pezzenti.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Marzo 10th, 2024 Riccardo Fucile
LA RISPOSTA DI KIEV ALLE PAROLE DI BERGOGLIO CHE AVEVA INVITATO L’UCRAINA AD AVERE IL “CORAGGIO DELLA BANDIERA BIANCA” E DI “NEGOZIARE”
È dura la reazione dell’ambasciata ucraina presso la Santa Sede alle parole di Papa Francesco che, intervistato dalla Tv svizzera, aveva invocato la ripresa di una trattativa con la Russia per la fine della guerra.
La rappresentanza diplomatica di Kiev in Vaticano prende spunto dalle parole di Bergoglio dello scorso gennaio, quando al tradizionale discorso di inizio anno con il Corpo diplomatico presso la Santa sede aveva denunciato: «Il mondo è attraversato da un crescente numero di conflitti che lentamente trasformano quella che ho più volte definito terza guerra mondiale a pezzi in un vero e proprio conflitto globale». Ieri 9 marzo, il Papa ha poi detto: «Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà? Negoziare in tempo, cercare qualche Paese che faccia da mediatore. Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore. La Turchia, si è offerta per questo. E altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore».
«È molto importante essere coerenti! – scrive l’ambasciata ucraina – Quando si parla della terza guerra mondiale, che abbiamo ora, è necessario imparare le lezioni dalla seconda guerra: qualcuno allora ha parlato seriamente dei negoziati di pace con Hitler e di bandiera bianca per soddisfarlo? Quindi la lezione è solo una: se vogliamo finire la guerra, dobbiamo fare di tutto per uccidere il Dragone!». Sulla stessa linea erano state anche le dichiarazioni del capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, Sviatoslav Shevchuk, che durante la visita pastorale a New York aveva commentato: «L’Ucraina è ferita ma imbattuta. L’Ucraina è esausta, ma resta in piedi. In Ucraina nessuno ha la possibilità di arrendersi! E tutti quelli che guardano con scetticismo alla nostra capacità di stare in piedi, diciamo: venite in Ucraina e vedrete!».
(da agenzie)
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Marzo 10th, 2024 Riccardo Fucile
IL DELTA DEL PO SI STA INABISSANDO E LA SCELTA DEL GOVERNO MELONI DI RIPRENDERE LE TRIVELLAZIONI NELL’ADRIATICO IN CERCA DI GAS DARA’ IL COLPO DEFINITIVO
“Se spegnessimo le idrovore dall’oggi al domani, nel giro di poche settimane questo posto verrebbe inghiottito dall’acqua”.
È ciò che mi disse l’ingegnere responsabile del consorzio di bonifica del Delta del Po, non più di cinque anni fa, mentre mi accompagnava a parlare con degli agricoltori che da generazioni traggono sostentamento da questo precario equilibrio tra terreno e palude. “Le idrovore pompano tutti i giorni, anche quando non piove,” mi disse, mentre passavamo davanti a uno dei grandi macchinari che sovrastavano le risaie. “Soltanto di energia elettrica spendiamo ogni anno oltre 2 milioni di euro.”
Sono passati anni da quel viaggio, nel frattempo abbiamo attraversato alcune tra le estati più calde e funeste a memoria d’essere umano. Oggi le idrovore ancora fanno il lavoro, l’equilibrio tra terra e acqua è ancora preservato e il Delta conserva il suo fascino onirico, ma il rischio di inabissamento è ancor più reale; e non solo per colpa dell’innalzamento delle acque.
Una terra rubata all’Adriatico
Per capire perché il rischio di inabissamento sia così pronunciato, è utile ripercorrere la storia di questo particolare territorio, corrispondente alla caratteristica escrescenza sul retro dello stivale italico: se il Delta del Po ha questa conformazione, infatti, è perché si tratta di un terreno relativamente giovane, prodotto dai sedimenti che il Po ha portato qui dopo che tra il 1600 e il 1604 la sua traiettoria è stata forzatamente deviata. L’obiettivo che guidato il famigerato “taglio di Porto Viro” era di dirottare i sedimenti del fiume lontano dalla laguna di Venezia: all’epoca era uno dei più importanti centri di scambio economico in Europa, e i veneziani temevano che con il tempo le bocche di Chioggia e Malamocco sarebbero finite interrate. Dirottare il fiume, inoltre, avrebbe portato grane agli odiati ferraresi, dato che il sedimento si sarebbe riversato in prossimità del loro porto. Detto fatto: il fiume venne forzato a seguire un’altra strada, e nel corso dei secoli andò a creare il territorio del Delta del Po.
Parliamo dunque di un territorio giovane, dove la terra ha la naturale tendenza a compattarsi, dunque a scendere di livello. Eppure, sappiamo che fino al 1800 il territorio del Delta era all’asciutto, nonostante l’assenza di macchinari e sistemi per impedirne l’inabissamento. Il problema è arrivato negli anni ‘30 del Novecento, quando la corsa agli idrocarburi portò a trivellare i fondali costieri e il territorio in cerca di gas fossile. Sono bastati meno di 30 anni per ridurre la zona a un colabrodo: verso la fine degli anni ‘50 c’erano più di un migliaio di pozzi attivi che risucchiavano ogni anno centinaia di milioni di metri cubi di gas, andando svuotare i serbatoi sotterranei. Risultato: il terreno ha cominciato ad inabissarsi rapidamente. Così rapidamente da impensierire i governi dell’epoca, che stabilirono di porre un argine alle trivellazioni fino a bloccarle del tutto. Da allora, il territorio del Delta è sopravvissuto su un precario equilibrio, un’animazione sospesa garantita dall’infaticabile opera delle pompe idrovore e di terrapieni alti anche quattro metri.
Un territorio del genere, per definizione, è sempre a rischio, e c’è ben poco che si possa fare per eliminare questa precarietà. La cosa migliore sarebbe intervenire il meno possibile, se non con opere di protezione e mantenimento. Dal suo insediamento a oggi, però, il governo Meloni ha dichiarato l’intenzione di ricominciare a trivellare i fondali dell’Adriatico, una prospettiva che rischia di far saltare per sempre il delicato equilibrio di cui sopra.
Una Louisiana in miniatura
William Gibson l’aveva detto in tempi non sospetti: il futuro è già qui, solo non è uniformemente distribuito. Ecco, per vedere il futuro del Delta del Po basta spostare lo sguardo alla Louisiana, un altro territorio relativamente giovane, “costruito” dal sedimento di un fiume intrappolato. Dopo che il Mississippi è stato imbrigliato dentro alti e lunghi argini, il sedimento che un tempo aveva nutrito il territorio ora finisce dritto nel Golfo del Messico, abbandonando la Louisiana a una subsidenza naturale derivante dal compattamento del terreno. Ma a rendere davvero drammatica la situazione sono state le pesanti trivellazioni di gas e petrolio che negli anni hanno ridotto questa zona a un colabrodo, aggravando la subsidenza al punto che oggi la Louisiana si inabissa al ritmo di un campo da calcio ogni due ore. Ci sono intere comunità che sono sparite dalle cartine, altre sono rimaste isolate dal resto del continente: l’innalzamento delle acque c’entra fino a un certo punto, se i serbatoi sotterranei di idrocarburi fossero ancora pieni, l’acqua non l’avrebbe avuta vinta.
Quando parlo di futuro del Delta del Po non sto parlando di un’ipotesi lontana: questo terreno si sta inabissando già oggi, e per rendersene conto basta fare un rapido giro nel dedalo di strade che incornicia i campi della zona di Porto Tolle: i campi e le risaie sono situate sempre almeno due metri al di sotto del livello della strada. In alcuni punti la situazione è persino peggiore: la subsidenza ha portato alcune parti del Polesine e del Delta a sprofondare fino a 4 metri sotto il livello del mare. Se una quarantina di idrovore non risucchiassero ogni giorno l’acqua in eccesso (arrivando a pompare 450 milioni di metri cubi ogni anno), questa zona sarebbe già inabissata. In alcuni casi, come per l’isola di Barriera, l’acqua l’ha avuta vinta comunque.
Un braccio di ferro tra realtà e ideologia (fossile)
Lo scorso dicembre, con l’approvazione del decreto legge Energia da parte del Consiglio dei ministri, si è ufficialmente acceso un semaforo verde per la ripresa delle trivellazioni in Adriatico. “È consentita, per la durata di vita utile del giacimento – si legge nel decreto – la coltivazione di gas naturale sulla base di concessioni esistenti ovvero di nuove concessioni rilasciate ai sensi del comma 6 del presente articolo, nel tratto di mare compreso tra il 45° parallelo e il parallelo distante da quest’ultimo 40 chilometri a sud e che dista almeno 9 miglia marittime dalle linee di costa.”
In sostanza, significa che si potranno creare nuove trivellazioni per attingere ai giacimenti profondi di metano al largo nell’Adriatico, alla distanza di almeno 16,6 chilometri dalla costa. A motivare questa inversione di rotta c’è la volontà di accelerare sul fronte dell’autonomia energetica, nell’ottica di un piano di diversificazione dell’approvvigionamento, che assomiglia sempre di più all’ennesima scusa per mantenere in vita i combustibili fossili. La cosa curiosa è che il decreto legge subordina l’avvio di nuove trivellazioni al fatto che i giacimenti “abbiano un potenziale minerario di gas per un quantitativo di riserva certa superiore a una soglia di 500 milioni di metri cubi”. Il che è quantomeno curioso, se consideriamo che la quantità di gas che questa operazione consentirebbe di estrarre non supera i 10 miliardi di metri cubi in 16 anni, e che il fabbisogno di gas italiano annuale è di 70 miliardi di metri cubi, e che auspicabilmente negli anni a venire questa quota verrà ulteriormente ridotta drasticamente a favore delle rinnovabili.
Non stupisce, dunque, che la scelta del governo stia incontrando una strenua opposizione, e non solo da parte dei comitati territoriali e delle associazioni ambientaliste, ma anche da esponenti bipartisan della politica locale nelle zone interessate, uno su tutti il presidente della regione Veneto Luca Zaia, che non ha mai fatto mistero di osteggiare la ripresa delle trivellazioni a largo del Delta. Sulla questione, del resto, gli esperti che hanno avuto modo di studiare il territorio fanno fronte compatto: uno sblocco delle trivellazioni porterebbe a un aumento del rischio di subsidenza, per non parlare dell’impatto che avrebbe sui già precari equilibri ecosistemici locali.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a una scelta che risulterebbe del tutto insensata se ci liberassimo paraocchi del breve termine. Il territorio del Delta del Po sta ancora pagando il prezzo delle estrazioni di sessant’anni fa, con una subsidenza che già oggi lo mette a rischio. La priorità dovrebbe essere lavorare sull’adattamento ai cambiamenti in corso, sulla tutela di un territorio esposto, invece la prospettiva attuale è che investiremo cifre enormi e metteremo a rischio un intero territorio, per succhiare dai fondali quantità trascurabili di gas.
Un altro territorio, con la sua storia, la sua cultura, e la sua straordinaria biodiversità, sacrificato sull’insaziabile altare del profitto fossile.
(da Fanpage)
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