Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
SCOPPIA LA POLEMICA, I DEM LOCALI: “GESTO DI PESSIMO GUSTO. IL NOSTRO MODO DI FARE POLITICA È DISTANTE ANNI LUCE DA QUESTA CONCEZIONE DELLO SCONTRO, DELLA VIOLENZA, DELLA PREVARICAZIONE”
Il simbolo del Partito Democratico crivellato da due fori, apparentemente due colpi di pistola. E’ l’immagine utilizzata nei giorni scorsi da Salvatore Giangrande, candidato sindaco di Cecina (Livorno) del centrodestra, in un post sul tema sicurezza pubblicato sulle sue pagine social, che sta creando polemica.
Di “gesto di pessimo gusto” parla la segretaria dell’Unione comunale del Pd di Cecina Elena Benedetti secondo la quale “il post di Giangrande qualifica chi lo ha pubblicato. Che su quell’immagine vi siano rappresentati dei colpi di pistola sparati contro il simbolo del Pd o ‘semplicemente’ gli autori si siano limitati a danneggiare il nostro contrassegno, poco importa. Il nostro modo di fare politica è distante anni luce da questa concezione dello scontro, della violenza, della prevaricazione.
E sono contenta del fatto che molti utenti si siano immediatamente resi conto della gravità di questo post e lo abbiano espresso chiaramente sulle stesse pagine social di Giangrande”.
Per Benedetti “in democrazia vince chi ottiene più croci sopra il simbolo del suo partito, non chi danneggia il simbolo dell’altro. Mi auguro che questa caduta di stile sia soltanto un incidente di percorso e non rappresenti invece la cifra stilistica della prossima campagna elettorale della destra cecinese. Per noi il rispetto dell’avversario politico è fondamentale e crediamo necessario un richiamo alla sobrietà dei toni, oltre al ripudio di ogni forma di violenza, anche verbale. Allo stesso tempo mi auguro che i vertici provinciali, regionali e nazionali dei partiti che sostengono la candidatura di Giangrande si dissocino da questo post”.
(da agenzie)
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Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
IL SONDAGGISTA NOTO: “GLI EXIT POLL HANNO MOSTRATO UN’OSCILLAZIONE DEL RISULTATO PER D’AMICO IN BASE AL NUMERO DI VOTANTI”… PREGLIASCO.: “NEL 2019 CHI SCEGLIEVA IL MOVIMENTO ERA PER L’ALLEANZA GIALLOVERDE”
La scarsa affluenza – il 52,2%, la più bassa di sempre in Abruzzo – ha penalizzato il centrosinistra. C’è un dato empirico a dimostrarlo. Lo racconta Antonio Noto, il sondaggista che ha analizzato per primo i dati dell’Abruzzo negli exit poll per la tv abruzzese Rete 8.
“Quando al mattino abbiamo raccolto i primi dati per gli exit poll, c’era un picco di affluenza del 2% in più. E nelle nostre elaborazioni risultava che Luciano D’Amico era a una incollatura da Marco Marsilio. Quindi una affluenza più elevata, determinava una crescita del centrosinistra”.
La controprova c’è in serata. L’affluenza scema. Il dato definitivo sarà di meno 0,9% rispetto alle regionali del 2019. Cala a quel punto il consenso a sinistra e si allarga la forbice a favore della destra.
Dice Noto: “Per quanto sia sempre difficile stimare il consenso ai partiti sulla base dell’affluenza, dalle nostre osservazioni si potrebbe dedurre che più abruzzesi sono andati a votare e più il consenso si indirizzava al centrosinistra. C’è forse da aggiungere che il voto emotivo si è esercitato nella mattinata. Avvicinandosi a chiusura urne nei nostri exit poll Marsilio guadagnava fino a 3 punti”.
Va detto che in Abruzzo è stata una sfida all’ultimo voto. Forza Italia ha organizzato i bus dei fuorisede da Napoli. È stata un’idea del forzista Fulvio Martusciello quello di fare partire un pullman dalla Campania che ha poi fatto soste da Pescasseroli a Roccaraso.
Però c’è un tema politico che incrocia quello sull’affluenza. Lo indica Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend: “Per il centrosinistra la sfida è portare a votare i loro elettori attorno allo stesso candidato, perché quegli elettori votano i partiti quando corrono separatamente”.
In sintesi, continua Pregliasco, si può dire che c’è stato un effetto mancata affluenza sui 5Stelle. “Una parte del Movimento che era andata a votare nel 2019 adesso si è astenuta. O forse ha votato a destra. Va detto che nel 2019 i 5Stelle erano quelli dell’alleanza giallo-verde”.
Altro tassello da aggiungere: affluenza in calo probabilmente anche per gli elettori di Azione e renziani (questi ultimi senza una propria lista). Sempre Pregliasco: “Alle politiche la campagna elettorale di quei partiti e dei grillini è stata una partita a smarcarsi dal Pd. Gli elettori li votarono in funzione anti dem, in una coalizione in cui ricomprendi tutti, quegli elettori li perdi”.
Più prudente l’analisi di Salvatore Vassallo, il direttore dell’Istituto Cattaneo: “In Abruzzo non si è osservato il fenomeno osservato in Sardegna di una crescita della partecipazione rispetto alle elezioni politiche del 2022. Ma va detto che in Sardegna la partecipazione alle politiche era stata particolarmente bassa. In entrambi i casi, Sardegna e Abruzzo, la partecipazione è rimasta in linea con il 2019”.
(da La Repubblica)
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Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
IL RABBINO MINACCIA IL GOVERNO: “SE COSTRINGETE I NOSTRI GIOVANI AD ARRUOLARSI, LASCEREMO IL PAESE” E LAPID GLI RICORDA: “ALL’ESTERO VI TOCCHERÀ LAVORARE”
«Se costringete i nostri giovani ad arruolarsi, lasceremo il Paese». «All’estero vi toccherà lavorare». Il botta e risposta non è solo tra Yitzhak Yosef, il rabbino capo sefardita, e Yair Lapid, il leader dell’opposizione.
Tocca le divisioni in Israele, la separazione tra religiosi e laici. Il governo ha un paio di settimane per presentare la legge che definisca la situazione degli studenti nelle yeshivot , dove passano le giornate sui testi sacri: l’esenzione dalla leva, nel 2023 l’hanno evitata in 66 mila, è stata dichiarata discriminatoria già nel 2017 dalla Corte Suprema, la norma temporanea scade, senza una decisione l’esercito dovrebbe arrestare i renitenti. Bibi deve riuscire ad accontentare i partiti religiosi perché non gli salti la coalizione.
All’inizio del conflitto solo qualche centinaio di ultraortodossi si è arruolato, a differenza dei coloni religiosi che lo considerano un dovere. Non tutti: Amishar Ben David, cugino di Bezalel Smotrich, è caduto da riservista a Gaza, mentre il ministro delle Finanze ha rinviato la leva per 10 anni e poi ha indossato la divisa solo per sei mesi.
(da Corriere della Sera)
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Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
LA BOZZA DEL DECRETO LEGISLATIVO PER IL RICORDINO DELLA RISCOSSIONE ATTESO OGGI IN CDM INTRODUCE INFATTI IL “DISCARICO AUTOMATICO” PER LE QUOTE AFFIDATE ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE
Dal 2025 le cartelle non riscosse entro 5 anni saranno cancellate automaticamente.
La bozza del decreto legislativo per il ricordino della riscossione atteso oggi in Cdm introduce infatti il “discarico automatico” per le quote affidate all’Agenzia delle entrate-riscossione “non riscosse entro il 31 dicembre per quinto anno successivo”.
L’Agenzia può anche procedere al “discarico anticipato” per le quote affidate dal 2025 per cui abbia rilevato “la chiusura del fallimento o della liquidazione giudiziale” o “l’assenza di beni del debitore suscettibili di poter essere aggrediti”.
Quindi non fai in tempo a compiere un illecito fiscale che sei già condonato, l’ennesimo schiaffo ai contribuenti onesti.
(da agenzie)
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Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
PARTE LA LAGNA: “LA STAGIONE È IN PERICOLO, ALLACCIARSI ALL’ACQUEDOTTO IN MOLTI CASI PUÒ ESSERE COMPLICATO E COSTOSO”… LA “CASTA” DELLE SPIAGGE CHIEDE UN NUOVO AIUTO AL GOVERNO MELONI, DOPO LA MELINA SULLA BOLKESTEIN
Dal Nord al Sud non c’è pace per i balneari. Inconsapevoli di cosa accadrà loro nell’immediato futuro con la riassegnazione delle concessioni, sono impegnati ora in una corsa contro il tempo per dotarsi entro l’estate di docce con l’acqua potabile.
Già, perché molti stabilimenti attingono alle falde acquifere tramite pozzi, e non a reti idriche certificate, per permettere ai propri bagnanti di lavarsi dopo una nuotata come invece obbliga ora il recente decreto legislativo (precisamente quello numero 18 del 2023) che ha aggiornato la disciplina sulle acque potabili.
Il provvedimento ha abrogato il decreto 31/2001 imponendo nuove regole precise per tutelare la sicurezza e la salute dei bagnanti: in sintesi l’acqua che viene a contatto con l’uomo, in qualsiasi forma, deve essere come da definizione «destinata al consumo umano». Quindi acqua “potabile” per docce in riva al mare ma anche nelle piscine. Obblighi chiari per i balneari che rischiano di mettere in crisi la stagione estiva.
In Italia oggi si contano 7.173 stabilimenti balneari. L’Emilia-Romagna è la regione con il maggiore numero (1.063), seguita da Toscana (914) e Liguria (807). «Il problema – spiega Confesercenti – potrebbe essere l’impossibilità per tutti gli stabilimenti balneari di installare per la prossima stagione le tradizionali docce a ridosso della battigia a meno che non siano collegate alla rete idrica ma, in questo caso, la conseguenza sarebbe un utilizzo eccessivo dell’acqua in estate e quindi potenziali rischi di approvvigionamento».
Peraltro, gli imprenditori non accettano di buon grado l’idea di sostenere importanti investimenti proprio ora che le concessioni sono scadute e con la vicenda Bolkestein tutt’altro che risolta senza una legge nazionale che regoli gli eventuali bandi. La situazione più critica è in Toscana ma non va meglio in Calabria e in Sicilia, destinazioni di mare più amate dagli italiani, e non solo. In Lazio in molti ancora dovranno adeguarsi.
In Toscana le Asl hanno cominciato a sollecitare i balneari ad adeguarsi entro l’estate. Non tutte lo hanno fatto, contribuendo ad alimentare confusione e polemiche perché il tempo stringe ed allacciarsi all’acquedotto prima dell’inizio della stagione estiva potrebbe essere impossibile. «Qui quasi tutti gli stabilimenti usano l’acqua del pozzo – spiega Carlo Ricci, coordinatore regionale di Confartigianato balneari – Allacciarsi all’impianto di acqua potabile comporta lavori complessi e a Pasqua parte la stagione». Ricci mette in guardia, poi, da un possibile «problema igienico-sanitario, perché nei paesi che ospitano 50-60 stabilimenti, il rischio è che, con tutta l’acqua convogliata in spiaggia, non ce ne sia abbastanza nelle cucine, per lavarsi le mani in casa».
«L’ideale – propone – è prorogare di un anno la norma, eseguire nel frattempo le analisi sulle acque e fare le opportune verifiche tecniche sugli eventuali allacciamenti». Scoccia, poi, investire quattrini in un impianto di cui ne usufruirà, magari, un nuovo gestore l’anno prossimo dopo le probabili aste. Gli enti pubblici, dal canto loro, non aiutano a rasserenare gli animi. Ciascuna Asl toscana sta interpretando il decreto in maniera difforme.
Risultato? L’adeguamento entro l’estate non è richiesto a tutti. Altro mal di pancia. La situazione non va meglio in Calabria e Sicilia, dove l’acqua delle docce non è ufficialmente potabile, seppure sia trattata e analizzata. In Calabria c’è chi ha i pozzi con pompe autorizzate e le acque vengono periodicamente analizzate dalle Asl. Per di più, alcuni Comuni alle prese con la siccità hanno vietato l’utilizzo dell’acqua potabile per le docce, come spiega il presidente del Sib Calabria Antonio Giannotti.
C’è poi la questione dei costi. «Nell’ultimo anno quello dell’acqua è schizzato, tanto che abbiamo dovuto installare limitatori e gettoniere», spiega il balneare. Ciò che rileva sulla questione è la mancanza di chiarezza: «Come spesso capita in Italia, e in questo caso nelle Regioni, non c’è una direttiva unica. Dovrebbe essere la Regione, a cui fanno capo le Asl, a fare chiarezza, altrimenti ci troveremo con ciascuna Asl che recepisce la legge in modo diverso».
Pioniera in materia è l’Emilia-Romagna. La capitale del turismo balneare, Rimini, fa sgorgare l’acqua potabile dalle docce già da 50 anni. Situazione analoga nelle Marche. «Qua non hanno mai dato la possibilità di fare pozzi. Ho uno stabilimento da 30 anni – spiega Mauro Mandolini, presidente Confartigianato imprese demaniali Marche – e già allora usavamo l’acqua dell’acquedotto».
(da agenzie)
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Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
“ALTRO CHE VALORI TRADIZIONALI E RELIGIOSITA’, LA RUSSIA E’ SEMPRE PIU’ FREDDA, GRIGIA E ARRABBIATA”
Dmitry Bykov è popolarissimo in Russia. Per i suoi programmi televisivi e radiofonici di satira, finché il Cremlino gli ha concesso di farli. E per i suoi oltre 90 libri. Tra questi 12 romanzi, venti raccolte di poesia e alcune biografie come quelle, famose, di Boris Pasternak e Maxim Gorky. Ha venduto molte centinaia di migliaia di copie. Era negli Stati Uniti per un breve periodo di insegnamento quando la Russia ha invaso l’Ucraina. Non ha potuto far ritorno in patria.
Per le sue critiche al regime e alla guerra, è stato dichiarato “agente straniero” dalle autorità di Mosca. Contro di lui è stato aperto un procedimento penale. Nel 2019 era sopravvissuto a un attentato. Secondo un’inchiesta giornalistica ben documentata, da parte dell’Fsb, erede del KGB sovietico.
La Russia “ha la porta aperta” — per usare parole di Vladimir Putin — nei confronti degli artisti o sedicenti tali che celebrano il suo dittatore. Lo abbiamo visto in questi giorni con Ciro Cerullo, detto Jorit. Ma le porte le chiude ermeticamente per i suoi, di artisti. Quando preferiscono la realtà alla finzione, sanno distinguere il vero dal falso e quindi non sono “i sudditi ideali di un totalitarismo”, direbbe Hannah Arendt. E visto che siamo in vena di citazioni, mettiamoci anche il presidente Mattarella: “Le dittature cercano in tutti i modi di promuovere un’arte e una cultura […] fittizia, di regime, che premia il servilismo dei cantori ufficiali e reprime gli artisti autentici”.
Parliamo con Dmitry Bykov, artista russo molto autentico, in video conferenza con Rochester, USA, dove insegna alla locale università.
Dmitry, si aspettava che Putin sopravvivesse a Navalny?
Tutti possono sopravvivere a chiunque. Siamo nelle mani di Dio. Navalny, poi, era anche in quelle di Putin. Che poteva fare di lui quel che voleva. Ed è parecchio esperto della tortura come negli avvelenamenti. Comunque, sopravvivere non è una vittoria politica. Navalny si è trasformato nel simbolo della protesta. Non solo in Russia. Questa è la sua vittoria. La sua memoria sopravviverà a Putin. È quel che conta per un politico. Più della sopravvivenza fisica.
Per il funerale, nonostante la repressione decine di migliaia di persone sono scese in strada a Mosca con un fiore in mano, cantando slogan contro Putin e per la libertà. Lo ha trovato sorprendente?
Navalny ha sempre raccolto folle. Perché era interessante. Era attraente. I segreti dell’attrazione politica non sono ancora stati davvero descritti. Credo che dipenda molto dalla connessione tra una persona e il futuro comune. Noi russi che pensavamo al futuro, pensavamo a Navalny. Faceva parte del nostro pensiero collettivo. Eravamo tutti sicuri che avrebbe partecipato in qualche modo al nostro futuro.
Chi intende per “tutti”?
Non solo chi ha participato alle proteste del 2011 (nel dicembre del 2011 e poi nel 2012 centinaia di migliaia di persone manifestarono contro i brogli elettorali e la riconferma di Putin alla presidenza, ndr). Ma anche chi non è mai stato un attivista e però ha a cuore la propria professione e il proprio futuro. Navalny era molto a suo agio nel parlare della Russia. Ha creato termini che son rimasti impressi nella mente. Le sue parole entravano nel nostro vocabolario. Ed era facile collegare il nostro futuro personale con la sua azione. Questo è il motivo per cui ai funerali c’era tanta gente. E non è stato un funerale triste.
Che vuol dire “non è stato un funerale triste”?
I funerali sono diventati una festa postuma. Non solo tristezza e lacrime. Le persone ridevano. Erano felici di vedersi lì, insieme. Per ricordare tempi più belli ma anche per progettare il futuro. Che esiste indipendentemente da Putin. Anche questo è un segno della vittoria di Navalny.
Il presidente della Duma — la Camera russa — Vyacheslav Volodin afferma che non può esistere una Russia senza Putin. Concorda?
Volodin è essenzialmente un deficiente. Le sue dichiarazioni dovrebbero entrare nel vocabolario come esempi dell’immoralità di questo regime. La Russia è sopravvissuta a personaggi come Stolypin, Lenin, Krushchev e così via. Quindi, non solo si può immaginare una Russia senza Putin — e sarà una Russia migliore — ma proprio non la si può immaginare con Putin per sempre.
Spera di poterci tornare, in Russia?
Se Dio me lo permette, un giorno tornerò. Non dipende solo da un cambiamento di regime. Potrebbe nel frattempo prendermi un infarto. O potrebbero farmi fuori. Perché Putin insegue sempre i suoi avversari. Non si è dimenticato di me. Sono sopravvissuto una volta a un avvelenamento. Nessuno può essere sicuro del suo futuro, e io meno di altri: Putin può uccidermi in ogni momento. Ma so che la Russia tornerà ad esser se stessa. E che se Dio vorrà la rivedrò. Rivedrò la Russia vera. Non quella attuale.
Nell’aprile del 2019 lei è sopravvissuto a un attentato. Un avvelenamento che per modalità di esecuzione, tipo di sostanza usata e persone coinvolte, secondo un indagine di Bellingcat è stato opera della stessa squadra dell’Fsb che aveva già cercato di uccidere il politico dissidente Vladimir Kara-Murza e che poi, nell’agosto 2020, ci avrebbe provato anche con Navalny. Ma lei era un artista, mica un capo politico. Allora perché?
Perché i responsabili dei servizi sono burocrati che usano elenchi ufficiali. Si vede che ero in qualche loro lista. E che tutti i nomi della lista dovevano essere depennati. Non solo i veri capi dell’opposizione. Non hanno considerato la mia reale influenza, ma solo il fatto che fossi nella lista. Non credo abbiano mai letto un mio libro.
Lei ha scritto una biografia di Boris Pasternak divenuta un best seller. Come si comporterebbe il dottor Zhivago nella Russia di oggi? Cercherebbe di sopravvivere sperando di poter un giorno incontrare di nuovo Lara? O sceglierebbe l‘esilio? Riesce a immaginare Yuri Zhivago nella Russia di Putin?
Per niente. Uno come Yuri Zhivago poteva nascere solo negli ultimi anni della cosiddetta “Età d’argento” (il grande periodo della poesia russa tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e primi tre del Novecento, ndr). Educato dallo zio filosofo Kolya, il dottore è il frutto di duecento anni di grande cultura russa. Le nuove generazioni sono invece la creazione di persone senza cultura, dedite alle tradizioni criminali e alle repressioni politiche. Rispetto all’intellighenzia dell’inizio del Novecento, l’élite spirituale moderna della Russia non ha importanza, né influenza.
Perché? Cosa le manca?
Le manca il talento di Yuri Zhivago. E mancano le nozioni cristiane, i grandi temi cristiani del mondo di Zhivago. Penso che uno Zhivago potesse esistere solo ai tempi di Pasternak. È certamente il suo autoritratto, il suo alter ego.
Ma che farebbe Yuri Zhivago se tornasse al mondo della Russia di Putin?
Probabilmente la sua prima idea sarebbe quella di farla finita, vedendo i risultati della storia russa del Ventesimo secolo. Altrimenti, cercherebbe di scappare. Perché per lui non ci sarebbe uscita: unico futuro possibile, la prigione. E non sono sicuro che Zhivago fosse pronto per questo. Non era un combattente politico. Non era un Navalny. Era solo un artista, un pensatore, un poeta. Fuggirebbe per crearsi il proprio destino all’estero cercando di essere utile alla Russia. Non si può essere utili alla Russia restandoci, quando non si può stampare alcun libro che dica la verità.
E dove andrebbe, il dottor Zhivago? Non ce lo vediamo a rinunciare per sempre alla Russia…
Lavorerebbe in Europa tenendo conferenze, leggendo o scrivendo. Forse in Francia, Paese che gli piaceva molto. O forse in Germania perché conosceva il tedesco. E poi, finita l’era di Putin, tornerebbe in Russia. A combattere una guerra civile meno cruenta e più attenta alle necessità e alla vita della gente, rispetto a quella descritta nel libro di Pasternak.
E non è che questo è anche il suo piano, Dmitry?
Non ho programmi. È tutto è nelle mani di Dio. Il mio unico piano riguarda oggi: in una conferenza alla Rochester University nell’ambito del mio corso di letteratura russa reciterò il Requiem (la famosa composizione della poetessa Anna Akhmatova sul Terrore staliniano e l’arresto del figlio, ndr) e spiegherò agli studenti cosa significa. Penso che sia meglio questo che tornare in Russia dove sarebbe difficile far qualcosa di utile.
E le generazioni russe più giovani? Non avrebbero bisogno di esser ispirate da voi intellettuali che invece siete riparati all’estero? Questo regime parla tanto della “Russia eterna” e di tradizione, ma sembra aver abolito il futuro.
Quando sei nell’abisso tutto sembra eterno. Nel cuore della notte, tutto sembra così buio e inutile! Nell’oscurità non si possono vedere prospettive. Ma il periodo di Putin sarà relativamente breve rispetto ad altri periodi della storia russa. Perché non è una rivoluzione. È una tipica controrivoluzione. E la controrivoluzione non può essere eterna. Questo periodo di culto del passato e di fascismo o semi-fascismo non durerà a lungo.
Può spiegarsi meglio?
Il regime non può suggerire nessuna nuova idea. Tra l’altro, una ragione per cui la sua esistenza —o forse si dovrebbe dire “non esistenza” — sarà breve è che non lascia partecipare al potere alcuna persona intelligente e professionale. Chi ha una bella carriera, nella Russia di oggi, viene subito tagliato fuori dalla politica. Per chi fa politica conta solo la lealtà nei confronti del capo. Non contano le capacità. Devi pensare solo a dir di sì e a sopravvivere. È una selezione negativa. E i russi lo sanno benissimo. In politica oggi ci sono solo persone che vogliono ottenere soldi o benefici dallo Stato. Anche per questo Putin verrebbe subito lasciato solo, se qualcuno intorno a lui lo tradisse. Succederà, non appena si palesino segnali di depressione o declino.
Lei in un’intervista ha detto che la Russia non potrà mai essere fascista. Cosa intendeva? Lo storico Tim Snyder e tanti altri osservatori — anche lei poco fa — rilevano nel regime di Putin più di una caratteristica del fascismo…
Nel fascismo tutti o quasi sono profondamente convinti. Il 90% della popolazione crede nelle idee fasciste, nell’ideologia del regime. In Russia, non ci crede nessuno. Certo, si guarda la tivù. Con tutta la sua propaganda. Ma la si guarda come un fenomeno da baraccone. Non vedo molti ultra-nazionalisti o fanatici. Penso che la Russia non sia mai stata “ideologica”. E non credo nel fascismo senza ideologia. È vero che ci sono al potere fascisti che la pensano come Alexander Dugin (l’ideologo dell’eurasiatismo contemporaneo e del tradizionalismo russo, considerati una forma di fascismo dalla maggior parte degli studiosi di filosofia e dottrine politiche ndr). Ma non trovo fascisti tra i filistei nella classe media russa. Né fra gli studenti e i giovani. C’è molto cinismo, ma in pochi credono veramente nella civiltà russa o nella necessità della guerra mondiale.
Forse, oltre settant’anni di Urss hanno talmente abituato i russi a vivere in un totalitarismo che vi si adeguano naturalmente, cinicamente e senza convinzione? Esiste ancora l’“homo sovieticus”, come dicono alcuni vostri sociologi?
Anche l’”homo sovieticus” aveva alcuni rudimenti della realtà e della vera fede. Aveva un piede nella cristianità, idee cristiane. Oggi tutto questo non esiste più. Il cristianesimo in Russia è praticamente bandito.
Che significa che il cristianesimo “è bandito”?
I preti che criticano la politica di Putin e vogliono la pace vengono licenziati dalla Chiesa e costretti ad andarsene dal Paese. Non c’è fede, in Russia. Esiste solo la congiuntura. Si crede alle opportunità. La gente cerca solo di salvarsi la vita.
Ma l’ideologia messa insieme da Putin e dai suoi collaboratori è fondata proprio sulle cose che secondo lei per i russi non esistono: la civiltà russa, lo scontro con l’Occidente e soprattutto i valori tradizionali e la fede religiosa…
Niente di nuovo. Nella Germania di Hitler la maggior parte della popolazione credeva veramente nel Führer. Ma nell’Urss nessuno credeva nell’ideologia sovietica. La Russia non è mai stata ideologica. Neanche un po’.
E cos’è allora la Russia?
È il paese della moralità corrotta, forse un Paese di teste matte. Ma è difficile trovare fanatici in Russia. Lo dimostra la grande quantità di barzellette e vignette satiriche. Enormemente maggiore di quella riscontrabile, per esempio, in Germania. In fondo, la barzelletta è l’unico meme di vera protesta. La Russia ha sempre fatto satira. Ha sempre riso del proprio governo. È sempre stata certa che il potere fosse in mano a una massa di idioti. Ha preso in giro il vecchio Brezhnev, Stalin con le sue paranoie, Khrushchev con le sue idee folli sull’agricoltura. E tutti gli altri.
Però a Stalin e compagni i russi hanno obbedito. E ora obbediscono a Putin.
Ma non hanno mai creduto davvero al loro potere. La Russia può esser fascista per le sue regole, ma non lo è per il comportamento dei cittadini, non lo è per la teste dei russi. È, anzi, uno dei Paesi più indipendenti. Come ha detto uno dei miei più brillanti studenti, “in Russia la libertà e la schiavitù non si escludono a vicenda”.
Lei una volta ha definito la Russia “la terra degli schiavi più liberi”…
Degli schiavi più indipendenti, avrei dovuto dire.
I russi saranno indipendenti ma si adeguano. Si vive come se la guerra non ci fosse, i salari aumentano, a Mosca i ristoranti sono pieni. E Putin sarà rieletto.
Quella dei ristoranti pieni è una leggenda. I miei posti preferiti sono chiusi per mancanza di clienti. Comunque, la Russia non è Mosca e non è San Pietroburgo. Basta allontanarsi una quarantina di chilometri dalla capitale e si arriva nella Russia profonda. In quelle cittadine di provincia in cui nei nomi delle strade si mischiano Rosa Luxemburg, imprenditori degli anni Novanta, Putin, Lenin e qualche eroe recente della guerra in Ucraina. Sono luoghi tutti uguali, popolati da gente senza prospettive. Luoghi grigi e inquietanti. Dove la gente è molto arrabbiata. Per questo Navalny aveva ragione ad aspettarsi un forte sostegno nel prossimo futuro. La Russia non è l’affascinante città dei sogni di Putin e non somiglia a quel che fa vedere la tivù di Stato. La Russia oggi è grigia, fredda e arrabbiata. Sono sicuro che nessuno voglia continuare a fare una vita del genere. E che entro la fine di questo decennio le cose cambieranno.
(da Fanpage)
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Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
“ANCHE GLI ECONOMISTI DEVONO CAMBIARE OPINIONE, IL MERCATO HA BISOGNO DI REGOLE CHE FANNO PARTE DELLA SENSIBILITA’ SOCIALE”
Oggi c’è bisogno del salario minimo legale in Italia, ne è convinta anche l’ex ministra del Lavoro Elsa Fornero. “Penso che oggi ci sia bisogno di un salario minimo. Anche gli economisti devono cambiare opinione, qualche volta il mercato ha bisogno di regole che fanno parte della sensibilità sociale. La retribuzione deve essere in grado di far vivere in maniera dignitosa. A volte ci vogliono delle forzature, la politica può fare e deve fare”, ha detto intervistata da Massimo Gramellini a In altre Parole in onda su La7.
“I dati sull’occupazione – ha aggiunto – stanno lentamente migliorando, ma il nostro paese è drammaticamente sotto alla media europea”. Commentando delle recenti dichiarazioni della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sull’occupazione, l’ex ministra ha proseguito: “Sicuramente bisogna considerare anche il lavoro nero, che riguarda più spesso le donne costrette ad accettare offerte svantaggiose, ma non c’è niente di cui essere orgogliosi. Giorgia Meloni deve sapere che c’è ancora molto da fare”.
Sul salario minimo, recentemente le opposizioni hanno deciso di ridare slancio alla loro battaglia, avviando una raccolta firme per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare. “Abbiamo deciso di lanciare insieme una legge di iniziativa popolare per riproporre il salario minimo di nuovo in Parlamento. Per rafforzare i contratti collettivi e stabilire che sotto i 9 euro non è lavoro ma sfruttamento”, hanno fatto sapere in una nota i leader di Partito democratico, Movimento Cinque Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Azione, +Europa e Psi, dopo che la proposta di legge unitaria è stata trasformata dalla maggioranza in una legge delega al governo, notevolmente contrario al salario minimo.
(da Fanpage)
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Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
SPARITI DAL MERCATO GLI APPARTAMENTI NON TURISTICI
È ricominciato il refrain della carenza di lavoratori per l’estate. Stavolta è partito dai bagnini, ne mancano circa 4 mila. L’allarme lo ha dato qualche settimana fa Roberto Dal Cin, presidente di Confapi Turismo ed esercente di Jesolo. Eliminata la motivazione, mai corroborata dai dati statistici, legata al reddito di cittadinanza, restano le cause vere di questa penuria, sempre le stesse: salari troppo bassi, cambiamento delle abitudini dei giovani, uno strutturale calo demografico, mancanza di attrattiva di certi lavori. “Quando ero giovane, fare il bagnino ti faceva fare bella figura con le ragazze – scherza, ma non troppo, Dal Cin – ora non è più così, si punta ad altro”.
Forse è più rilevante un altro motivo citato dall’imprenditore veneto: “Fino a pochi anni fa, agli stagionali era garantito l’alloggio, oltre al salario, ora non è più così. Vedo ragazzi che prendono 1.400-1.500 euro al mese e ne pagano 500 per una stanza: non è poco”. “È un disastro ormai – conferma Juri Magrini, assessore al bilancio e alle attività economiche a Rimini – Noi abbiamo fatto una delibera per aiutare gli hotel, magari i più piccoli, a trasformarsi in staff hotel, dove far dormire il personale e i lavoratori stagionali che non trovano alloggio”. Un problema che si sta ponendo in sempre più città, da Polignano al Lago di Garda, sempre in assenza di una normativa nazionale che permetta di limitare gli affitti brevi.
Non è, ovviamente, solo un problema dei lavoratori stagionali: a Rimini “non si trovano appartamenti per gli studenti, ma anche per i docenti universitari, per il personale medico delle Asl, per gli insegnanti, per le forze dell’ordine. Un problema per l’intera città, per i servizi”, nota Magrini. Se Firenze, Venezia o Roma avevano conosciuto il boom degli Airbnb già dal 2013 in poi, in altre città, anche turistiche, sta montando ora, con numeri raddoppiati in pochi anni. Eppure, l’associazione tra affitti brevi, lavoro e diritto all’abitare continua a non essere colto.
“Sala forse dimentica che il ministero del Turismo si occupa di turismo e non di residenze per gli studenti”, ha risposto Daniela Santanché al Fatto, che le chiedeva chiarimenti sugli effetti delle nuove normative sugli affitti brevi criticate dal sindaco di Milano: “Il Codice identificativo nazionale è stato adottato per contrastare – con strumenti reali – ogni forma di abusivismo e allinearsi ai parametri europei di trasparenza”. Dunque non per risolvere il problema della residenzialità, ha spiegato la ministra.
Emily Clancy, vicesindaca di Bologna e assessora alla casa e al sociale (che ha seguito i tavoli ministeriali sugli affitti brevi) spiega: “Quando abbiamo parlato di Piano Casa, noi lo abbiamo detto anche al ministro delle Infrastrutture Salvini, non solo a Santanchè, che ci serve altro”. E segnatamente edilizia pubblica, oltre ai soldi. A Bologna dal 2016 sono 5.000 gli appartamenti in meno offerti a canone concordato, mentre gli Airbnb sono passati da 800 a 4.700: “In una situazione in cui un’agenzia può prendere 100 appartamenti e fare solo affitti brevi – nota la vicesindaca Clancy – a che può servire un aumento della cedolare secca? O si limita o per le città attrattive come la nostra sarà impossibile reggere”.
A Venezia, l’estate scorsa, è stata lanciata una campagna di reclutamento di medici di base: l’Ulss 3, quella della Laguna, aveva bisogno con urgenza di 45 medici per far fronte ai pensionamenti. Così, di concerto con il Comune e la Regione, ha offerto ai medici di tutto il mondo un ambulatorio a canone agevolato, un accompagnamento nella ricerca di un alloggio, un parcheggio gratuito alle porte della città e ha costruito una campagna stampa e video. È stata un successo, 254 candidature in poche settimane, problema risolto. Nella Venezia lagunare servono ormai in media da 2 ai 6 mesi per trovare una casa: non una casa a prezzo basso, una casa accettabile. Per chi vi si trasferisce da fuori, un disincentivo enorme. Alessandro Onorato, assessore al Turismo di Roma, nota come con le leggi attuali si registrino sempre più spesso situazioni in cui, se un condominio vieta gli affitti turistici per regolamento, le agenzie comprando la maggioranza degli appartamenti, impongono un cambiamento del regolamento condominiale stesso. A Roma, chi lavora in centro vive in periferia, ma in altre città o cittadine turistiche non è possibile. “Mi capita di parlare con parlamentari che si lamentano che non trovano casa – ironizza Onorato – e che decidono di andare a convivere con altri parlamentari” pur di non spostarsi troppo lontani dal centro: “Vorrà pur dire qualcosa: ci ascoltino”
(da ilfattoquotidiano.it)
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Marzo 11th, 2024 Riccardo Fucile
SI ERA STACCATA NEL 1963 DOPO LUNGHE BATTAGLIE. SESSANT’ANNI DOPO È UN TERRITORIO SPOPOLATO E PIENO DI DEBITI… BISOGNERÀ VEDERE SE LA POLITICA LOCALE MOLLERÀ L’OSSO
Dopo un divorzio durato 60 anni il Molise vorrebbe tornare negli Abruzzi. Infatti la minuscola regione fino al 1963 si chiamava proprio «Abruzzi e Molise». Qualche anno fa addirittura la Bbc , incuriosita dall’hashtag «il Molise non esiste», inviò un reporter alla scoperta della «regione che non c’è» e narrò di una separazione che aveva confinato questo territorio impervio e struggente all’invisibilità.
In un’area sempre più disabitata e sommersa dai debiti, oggi una parte della popolazione si sta dando da fare per fondersi con la comunità abruzzese. Ma perché il piccolo Molise è riuscito a diventare una Regione, status negato ad aree più estese e popolate come la Romagna e il Salento?
La Costituente e la legge del 1963
Già nel 1947, durante l’Assemblea costituente, viene proposta la creazione della regione Molise, un’area in prevalenza montano-collinare di 4.460 km² con appena 418 mila abitanti. La richiesta è bocciata perché si riconoscono solo le regioni storiche §
I fautori dell’autonomia però non demordono e riescono a inserire nelle disposizioni transitorie una deroga che congela il limite demografico ai primi anni della Repubblica. Così, dopo un acceso dibattito parlamentare, nel 1963 arriva la legge costituzionale che sancisce la nascita del Molise.
La nuova regione è definita da Alberto Cavallari in un reportage dell’epoca sul Corriere della Sera «una provincia cenerentola, eternamente seconda, rimasta in fondo alla serie B dei Paesi sottosviluppati». Per tutti gli anni ’60 l’ente è composto dal solo capoluogo Campobasso. Nel 1970, quando le regioni entrano effettivamente in funzione, si aggiunge la provincia di Isernia.
Le motivazioni della separazione
Al momento della separazione, le regioni italiane sono solo sulla carta e anche negli anni successivi hanno una limitata discrezionalità fiscale. Le motivazioni che portano alla creazione del nuovo ente sono sostanzialmente tre: 1) Identitaria-culturale. In un intervento al Senato l’esponente della Dc Giuseppe Magliano, primo firmatario della riforma costituzionale, afferma che il Molise si considera «un complesso etnico, storico, geografico e politico nettamente distinto e separato dagli Abruzzi». In realtà tutta questa differenza non c’è: salvo lungo i confini dove le inflessioni sono più napoletane o pugliesi, i molisani parlano abruzzese.
2) Logistica-amministrativa. Gli abitanti dei 136 comuni del Molise hanno difficoltà a raggiungere i 20 specifici uffici pubblici perché dislocati troppo lontano o addirittura in altre province fuori dalla regione «Abruzzi e Molise». Ad esempio, per l’esame della patente bisogna raggiungere la motorizzazione a Pescara, per il distretto militare si deve andare a Bari, per la Corte d’Appello a Napoli, i servizi erariali a Benevento e così via.
L’ironia della storia è che di quei 20 uffici, a distanza di 60 anni, solo 9 sono stati trasferiti effettivamente nel capoluogo di provincia, mentre il resto è rimasto altrove, come il comando generale dei carabinieri, che sta in Abruzzo.
3) Elettorale. Nell’articolo 57 della Costituzione è inserito il comma che prevede due senatori provenienti dal territorio. La Democrazia Cristiana, dunque, si assicura nel feudo elettorale molisano un seggio di senatore in più. Forse è questa la vera ragione
Il confronto tra Abruzzo e Molise
All’inizio degli anni Sessanta le due regioni sono molto arretrate. L’agricoltura occupa la maggior parte della popolazione attiva, mentre l’industria è rappresentata per lo più da piccole imprese artigianali. Il tenore di vita delle due popolazioni è inferiore di un terzo rispetto alla media italiana. Con un reddito netto pro-capite di 298.121 lire, il Molise è più povero dell’Abruzzo (323.766 lire, in linea con quello dell’Italia meridionale che è di 324.977 lire).
Nel 1974 la situazione è già diversa: in Molise il reddito netto raggiunge le 923.547 lire, mentre in Abruzzo diventa il più alto del Sud Italia: 1.176.068 lire, molto vicino alla media italiana (82,8%). In entrambi i territori cala drasticamente l’occupazione in agricoltura, mentre quasi un residente su tre lavora nell’industria.
All’inizio degli anni ’90 l’economia abruzzese si avvicina a quella nazionale (85%), mentre quella molisana migliora (76%) ma non decolla. Poi la crescita rallenta fino al brusco crollo nei primi due decenni del secolo, ma con enorme differenza fra le regioni: tra 2001 e 2014 il Pil dell’Abruzzo cala del 3,3%, quello molisano precipita a quasi -20%.
Nel corso degli anni il Molise si è spopolato e a fine 2023 i residenti sono 289.294. È l’unica regione italiana ad avere una popolazione inferiore rispetto al tempo dell’Unità d’Italia. Dagli ultimi dati Istat il Pil pro-capite raggiunge i 24.500 euro contro i 27 mila dell’Abruzzo, e i 32.983 della media nazionale.
In Molise la crisi morde più forte: nel 2023 le chiusure delle imprese hanno superato le aperture con un saldo negativo di 188 aziende, il peggiore in Italia e in controtendenza con l’andamento nazionale dove 17 Regioni su 20 registrano dati positivi. Cresce il disavanzo pubblico che a fine 2021 ha superato i 573 milioni di euro, la Sanità è commissariata da 15 anni e ha ancora un debito di 138 milioni.
Nell’ultima legge di bilancio il governo Meloni ha stanziato 40 milioni a favore della Regione, vincolati alla riduzione del disavanzo. Per questo la giunta di centrodestra guidata da Francesco Roberti ha deciso di aumentare l’addizionale Irpef per i redditi superiori a 28 mila euro al 3,33%, l’aliquota più alta d’Italia (in Abruzzo è ferma all’1,73%).
La capacità di gettito però resta limitata, anche perché bisogna mantenere un apparato regionale che costa 30,7 milioni di euro, circa 105 euro a testa contro i 60 dell’Abruzzo. In un report della «Fondazione Gazzetta Amministrativa» sulle spese per incarichi di studi e ricerca effettuati nel 2021 il Molise si classifica ultimo con 225 mila euro. Cronica la carenza di personale medico-sanitario: all’appello mancano 20 specialisti di medicina d’urgenza, 17 radiologi, 16 pediatri, 14 ortopedici, 12 anestesisti, 3 ginecologi, 2 oncologi e 140 infermieri. Per tamponare l’emorragia sono stati ingaggiati medici venezuelani: 8 già lavorano nei reparti degli Ospedali Cardarelli di Campobasso e San Timoteo di Termoli.
Alla fine il «meglio da soli» non ha portato prosperità. Il 9 marzo è partita la raccolta firme per un referendum che mira a portare la provincia di Isernia dentro l’Abruzzo, e poi l’intero Molise. Secondo l’ex questore Gian Carlo Pozzo, uno dei promotori dell’iniziativa popolare, la Regione è gravata da un pesante debito che combatte a suon di tasse e tagli e non è più in grado di garantire ai cittadini servizi essenziali come sanità, trasporti e formazione.
Bisognerà poi vedere alla prova dei fatti se la politica locale mollerà l’osso, perché con una popolazione così esigua ogni famiglia ha rapporti diretti con gli amministratori e il clientelismo è più di un rischio. Nel concreto ogni amministratore controlla 97 votanti effettivi.
E il Molise è tutto qui: 80 mila abitanti nella provincia di Isernia, e poco più di 200 mila in quella di Campobasso, con enormi difficoltà a sostenere uno sviluppo in grado di camminare con le proprie gambe. Già a suo tempo i padri costituenti avevano intuito i pericoli dei territori infiammati dalle aspirazioni a diventare piccole patrie, ma con pochi abitanti e ancor meno risorse.
Francesco Tortora e Milena Gabanelli
per il “Corriere della Sera”
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