Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
LA DUCETTA, NONOSTANTE LE SPARATE ANTI-NATO DI “THE DONALD”, TESSE RAPPORTI DIRETTI COL CANDIDATO REPUBBLICANO. HA SPEDITO UNA DELEGAZIONE DI SUOI PARLAMENTARI A WASHINGTON AL “CPAC”, LA FESTA DEI CONSERVATORI USA L’ULTIMO CONTATTO DOPO IL CASO CHICO FORTI… L’ORDINE DI PALAZZO CHIGI È: “CERTE COSE SI FANNO, MA NON SI DEVONO SAPERE”
Il silenzio, gli squilli, poi irrompe una voce graffiante: “Hello, Giorgia”. “Hello, Donald”. Contatti segreti, ma periodici. Che segnalano un filo sotterraneo che Meloni sta tenendo con Donald Trump, candidato dei Repubblicani alla Casa Bianca.
Sono telefonate dirette, quelle avute anche di recente dalla presidente del Consiglio con il tycoon. Il Foglio è in grado di ricostruirle.
Conversazioni che non passano, per forza, dall’ufficio diplomatico di Palazzo Chigi (e in particolare dal “delegato” agli Usa, il ministro plenipotenziario Alessandro Cattaneo). Ma di cui, per esempio, è bene a conoscenza il tentacolare capo di gabinetto della presidente del Consiglio, Gaetano Caputi.
Meloni e il suo braccio ambidestro Giovanbattista Fazzolari (che per inciso è anche figlio di un diplomatico) sanno che si tratta di nitroglicerina. “Telefonate che non devono esistere” – nemmeno nei registri – né essere rese pubbliche.
I rapporti con Trump vanno maneggiati con la massima cautela: le controindicazioni sono tantissime.
La prima, quasi banale: la premier italiana è la presidente di turno del G7, che ospiterà in Puglia a giugno. E inoltre i rapporti con il presidente Usa Joe Biden nella forma, e nel merito, vengono definiti, da fonti diplomatiche, “più che buoni” (come dimostra anche la prossemica dell’ultima visita della premier a Washington e le conseguenti immagini nello Studio ovale). Ieri, per dire, il sottosegretario Alfredo Mantovano, a Vienna, ha incontrato Antony Blinken a margine della sessione annuale sugli stupefacenti.
L’ultima volta che Meloni ha sentito Trump è stata a ridosso delle ore convulse che hanno portato all’autorizzazione del trasferimento in Italia di Chico Forti, detenuto da 24 anni in America con l’accusa di omicidio anche se l’ex velista si è sempre detto innocente. Una triangolazione molto complessa, passata dal dipartimento di stato, ma soprattutto dal via libera del governatore della Florida, il repubblicano Ron DeSantis, ritiratosi dalle primarie contro Trump in cambio di un posto nel cabinet.
In questa missione diplomatica – che Meloni ha rivendicato con orgoglio – hanno svolto un ruolo fondamentale la famiglia del cantante Andrea Bocelli e il deputato di Fratelli d’Italia, con doppio passaporto ed eletto nella circoscrizione America centrale-settentrionale, Andrea Di Giuseppe, imprenditore che fa la spola con la Florida, entrato nella trumpiana residenza di Mar-a-lago in più di un’occasione (come raccontano diverse immagini dei giornali degli immigrati italiani negli Usa). Quando Meloni sui social network di Chico Forti si trovava a Washington.
Tutto questo accadeva due settimane fa: la premier italiana ha avuto nel giro di telefonate anche un contatto con l’ex presidente Usa che punta a ritornare sulla scena mondiale. “Certe cose si fanno, ma non si dicono”, raccontano sibillini nelle stanze di Palazzo Chigi. Soprattutto quando osservano il movimentismo del vicepremier Matteo Salvini. Il capo della Lega – che nel giugno del 2016 in maniera abbastanza rocambolesca riuscì a strappare qualche selfie a The Donald al contrario della missione andata a vuoto nel 2019 – da quando sono iniziate le primarie è scatenato. Tweet e post su Facebook, con cadenza regolare. L’ultimo il 3 marzo quando ha gioito per la vittoria di Trump ai Caucus in Idaho dopo i risultati in Michigan e Missouri.
Mercoledì Salvini ha pubblicato la foto della colazione informale avuta con l’ex segretario di stato Mike Pompeo. Un modo per esserci e soprattutto per farsi vedere, è stato il commento (graffiante) uscito da Palazzo Chigi dove chi di dovere sapeva benissimo della presenza a Roma di Pompeo.
La “disciplina Meloni”, o meglio le sue lezioni americane, vanno nella direzione opposta: certe cose si fanno, ma non si dicono, appunto. Così come le telefonate con il Repubblicano che “non devono esistere”. Tuttavia la “Fiamma magica” è così convinta dell’esito delle presidenziali di novembre da continuare a curare le relazioni con cautela, ma anche efficacia.
Come dimostra la presenza di un pugno di parlamentari di Fratelli d’Italia alla Cpac, la Conservative political action conference che lo scorso febbraio ha celebrato il rampante ritorno dell’ex inquilino della Casa Bianca.
In quella occasione Meloni non ha inviato, su consiglio dei diplomatici e di Fazzolari, un videomessaggio al party repubblicano. Party a cui partecipò nel 2019 e nel 2022, intervenendo dal palco. Esserci senza esporsi nel solco di un’amicizia atlantica che va consolidata istituzionalmente giorno dopo giorno (come dimostra, per esempio, la nomina a sherpa del G7 di Elisabetta Belloni, direttrice dei nostri Servizi, ma con un lungo passato di solide relazioni diplomatiche oltreoceano).
Meloni ha dato la consegna del silenzio sulle presidenziali Usa, costretta a un equilibrismo diplomatico: non può rinnegare la vicinanza ideale ai Repubblicani per non perdere voti, ma neanche ammetterla. In mezzo ci sono troppe partite ormai aperte che la vedono schierata: la guerra in Ucraina e il conflitto a Gaza, le europee e il ruolo della Ue (oggi è attesa a Il Cairo con Ursula von der Leyen), la presenza nella Nato. Dunque basso profilo, anche se il rapporto fra Donald e Giorgia c’è. Così segreto da non dover esistere.
(da ilfoglio.it)
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Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
EX DELFINO DI BERLUSCONI, L’AVVOCATO DI AGRIGENTO PRESIDE AZIENDE CHE FATTURANO MILIARDI, DAL GRUPPO SAN DONATO (SANITA’) SD ASTM 8CONCESSIONI AUTOSTRADALI) FINO ALLA SOCIETA’ DELL’ESSELUNGA COINVOLTA NELLA STRAGE DI OPERAI A FIRENZE
Gli Stati Uniti hanno Donald Trump: dagli affari alla politica. L’Italia ha Angelino Alfano: dalla politica agli affari. Quando a dicembre del 2017, non ancora cinquantenne, l’ex delfino di Silvio Berlusconi già ministro della giustizia, dell’interno e degli esteri, ha annunciato di non volersi ricandidare alle legislative del marzo 2018, tutti avevano un’interpretazione e nessuno un perché. Sei anni dopo il movente è chiaro. L’avvocato agrigentino nato nel 1970, passato per Dc, Fi, Pdl, Ncd e infine Alleanza popolare, è uno degli uomini più influenti nell’Italia del business e fra quelli a più alto reddito, probabilmente. L’avverbio è d’obbligo perché tutti gli atti societari dove si parla degli emolumenti di Alfano sono omissati come un’indagine giudiziaria top secret. Ma al centro della sua rete ci sono affari nell’ordine dei miliardi. Ci deve essere una proporzionalità tra questi volumi e il 730 di chi sembrava destinato a rimanere fedele nei secoli al culto democristiano assorbito dal padre Angelo, assessore comunale nella Valle dei Templi, e declinato nelle sue infinite versioni post-moderne.
Il catalogo degli incarichi, in ordine cronologico, è questo. A luglio del 2018, in tempo di governo giallo-verde Conte I, Alfano è entrato nello studio Bonelli-Erede, una delle più importanti legal firm italiane in materia di affari. Si è comportato tanto bene che nel gennaio 2021 è stato promosso da counsel a partner cioè socio. Dal gennaio 2019, dato che la politica non può uscire da chi l’ha nel sangue, Alfano è presidente della Fondazione Alcide De Gasperi, un club di rigoroso culto scudocrociato tra banchieri come Giovanni Bazoli, imprenditori-politici come il siculo di Bronte Vito Bonsignore, tycoon internazionali come il miliardario libanese Fouad Makhzoumi. Oggi la fondazione include Paolo Alli, ex responsabile della segreteria del redivivo Roberto Formigoni e vicecommissario all’Expo milanese del 2015, Isidoro Gottardo, dc friulano diventato parlamentare con il Pdl, e Carlo Secchi, ex rettore della Bocconi e membro della Trilaterale.
Il vero debutto di Alfano nel mondo del business porta la data del luglio 2019, quando il più giovane Guardasigilli della storia italiana è diventato presidente del Gruppo San Donato (Gsd), numero uno nazionale della sanità privata controllato dalla holding Papiniano della famiglia Rotelli. Anche qui Alfano ha meritato visto che il 9 giugno dell’anno scorso è stato confermato per un altro triennio. Nella primavera del 2023 ha aggiunto altre due presidenze al suo curriculum di manager a tutto campo. Il 17 aprile la famiglia Caprotti lo ha cooptato alla guida della subholding immobiliare La Villata, che ha in portafoglio oltre metà degli utili di Esselunga (33,8 milioni nel consolidato 2022 su un totale di 63,8 milioni). Pochi giorni dopo, il 26 aprile, Alfano ha assunto la presidenza di Astm, la cassaforte delle concessionarie autostradali del gruppo Gavio-Ardian.
L’OSPEDALE GALEAZZI SANT’AMBROGIO
L’impegno con Gsd è il più pubblicizzato. Il colosso sanitario nato dai disastri dell’imprenditoria privata di area forzista, da don Luigi Verzé ad Antonino Ligresti, è cresciuto fino a 58 centri medici di cui 19 ospedali e tre Irccs (San Raffaele, Policlinico San Donato e Galeazzi). Ma proprio l’acquisizione del San Raffaele prossimo al fallimento nel 2012, su moral suasion di Berlusconi che nella clinica accanto a Milano 2 ha trascorso le sue ultime ore di vita, continua a pesare sui conti. Solo il bilancio 2023, secondo il vicepresidente Paolo Rotelli, produrrà un primo piccolo risultato positivo. Fino al 2022, però, il consolidato della capogruppo Papiniano era in rosso per 62,6 milioni di euro. Eppure Gsd, che fattura 1,88 miliardi di euro, investe senza sosta grazie a una fiducia del sistema bancario che va al di là delle pur ricche convenzioni con la regione Lombardia.
Lo dimostra un affare concluso fra agosto e dicembre 2023 con la consulenza dello studio Bonelli-Erede: l’acquisizione di American heart of Poland (Ahp), uno dei maggiori gruppi della sanità privata polacca. L’operazione vale 350 milioni di euro garantiti da un prestito dei principali istituti italiani cioè Bnl-Bnp, la capofila, con Intesa, Unicredit e Bpm. Il nuovo acquisto è stato portato sotto l’ombrello di Gksd, braccio estero di Gsd guidato da Kamel Ghribi, il finanziere tunisino con passaporto svizzero e sede in via Marconi a Lugano che ha aperto alla famiglia Rotelli le vie lucrose della sanità nei paesi arabi (Tunisia, Libia, Egitto, Iraq, Arabia Saudita). Ghribi è l’altro vicepresidente di Gsd con Rotelli mentre Augusta Iannini, ex gip del tribunale di Roma ai tempi di Tangentopoli oltre che consorte di Bruno Vespa, è responsabile dell’organismo di vigilanza. Fino al 2022 è stato consigliere lo scomparso Roberto Maroni, ex presidente regionale lombardo e autore della riforma sanitaria intermedia fra quella di Formigoni e quella di Letizia Moratti, due amici storici del San Raffaele.
A proposito di amici, fra tante operazioni di respiro internazionale, a luglio il Gsd ha aperto il reparto di cardiochirurgia pediatrica presso l’Arnas civico di Palermo in collaborazione con la Regione siciliana retta da un altro dc di vecchia data, Renato Schifani.
La rete delle relazioni alfaniane sa essere elastica. Nell’operazione conclusa a novembre del 2023 fra Gsd e Generali per creare un network di smart clinic (in italiano poco smart, una rete di cliniche private), il gruppo assicurativo è assistito dallo studio Bonelli-Erede. Un mese dopo, Bonelli-Erede è tornato dalla parte di Gksd-Gsd nella costituzione di una joint-venture con Greenthesis (riciclo rifiuti).
Contro la sua precedente esistenza incentrata sulla visibilità, il motto del nuovo Alfano è apparire poco. A parte gli annunci di Gsd, solo La Villata ha riportato l’ex politico nelle cronache, dopo il gravissimo incidente con cinque morti nel cantiere Esselunga di via Mariti a Firenze del 16 febbraio scorso. Lunedì 4 marzo 2024 i lavori sono ripresi mentre la Procura lavora sull’ipotesi di omicidio colposo che a breve focalizzerà le responsabilità individuali. Alfano sembra in una posizione abbastanza sicura. Dagli atti societari consultati dall’Espresso la sicurezza nei cantieri era delegata al consigliere Luigi Melegari, un ingegnere che lavora nel gruppo Caprotti da un quarto di secolo. Ma è impossibile dire in questo momento come si orienteranno i magistrati fiorentini e Alfano, che ha intrapreso alcuni contenziosi legali contro l’Espresso senza ottenere grandi risultati, ha preferito non commentare questo articolo.
Il suo sbarco nel gruppo Esselunga, oltre che da passate simpatie berlusconiane comuni con il fondatore Bernardo Caprotti, sembra collegato in modo paradossale al suo ruolo di avvocato. Ad aprile 2020, Sergio Erede in persona ha curato gli interessi di Violetta Caprotti, secondogenita di Bernardo liquidata dalla società insieme con il fratello Giuseppe a beneficio della sorella Marina e di sua madre Giuliana Albera. Proprio Marina Caprotti, che ha prevalso nella contesa sulla successione, ha messo Alfano a presiedere La Villata tre anni dopo.
BENIAMINO GAVIO
Questo schema di porte girevoli ricorre, anche se in maniera più lineare, nell’incarico dell’ex ministro in Astm. Fonti del gruppo piemontese dicono che la nomina di Alfano si spiega con la ricerca di un presidente di garanzia. È un understatement. I contatti dell’avvocato siciliano con il gruppo alessandrino risalgono a un dossier di importanza vitale. Nel luglio 2018 l’ex pluriministro al suo primo incarico con Bonelli-Erede era con i francesi di Ardian nell’acquisto di poco meno della metà di Aurelia, holding del gruppo fondato da Marcellino Gavio.
Ardian, con il managing director Stefano Mion, figlio dell’ex stratega finanziario della famiglia Benetton, Gianni Mion, coinvolto nel processo genovese sul Morandi, si è affidata a Bonelli-Erede in altri tre affari. Il primo è la cessione di Hisi, holding che si occupa di sanità e infrastrutture. Il secondo è la vendita in febbraio del 49 per cento di Aeroporti Milanesi, un’operazione da 1 miliardo. Infine, c’è l’affare Inwit, la rete del wireless in società con Tim valutata 1,35 miliardi che Ardian vuole dismettere.
Insomma qui e là emerge un lieve sospetto di conflitto di interessi, e magari di lottizzazione delle grandi partite finanziarie fra grandi uffici legali a imitazione del manuale intitolato a Massimiliano Cencelli, funzionario democristiano. Di sicuro la prima vita di Alfano è la sua arma in più al tavolo delle trattative e i suoi contatti politici godono ancora di ottima salute com’è il caso di Fabio Roscioli, ex legale di Alfano e socio di studio della moglie Tiziana Miceli, nominato tesoriere di Forza Italia a giugno 2023. In fin dei conti, fra gente che si conosce, gli affari si fanno meglio.
(da L’Espresso)
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Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
IL FIGLIO DEL CAV A SETTEMBRE POTREBBE FARE L’ANNUNCIO… CAIRO E’ FORTE DI SONDAGGI SUL SUO GRADIMENTO
Tutte le grandi avventure iniziano così: “Mi creda, non mento. Ho visto Pier Silvio Berlusconi all’assemblea di Forza Italia, sì, lui. Aveva il bavero alzato. Vi ha fregato. Era lui!”. Un banchiere: “Le confido un segreto. Gira un sondaggio lusinghiero su Urbano Cairo, il faraone del Corriere della Sera e di La7. Il suo gradimento cresce. Vuole scendere in campo. E’ pronto”.
L’ultima fantasia italiana è “Pier Cairo”, lo sbarco in politica degli editori alla milanese, il bipolarismo antenna-tipografia. Alla Camera, Riccardo De Corato, ex vicesindaco di Milano, di FdI, una chioccia, uno che conosce entrambi, è sicuro “che si candideranno. Il difficile è prevedere quando lo faranno”.
Pier Silvio, ad di Mediaset, l’uomo che veste sempre in jeans, dicono che abbia cerchiato come data il 29 settembre 2024, il compleanno del padre e che quello potrebbe essere il giorno dell’annuncio. Matteo Renzi, ai direttori dei quotidiani, da mesi, non fa che ripetere, “ve lo spiego io. Arriva, Pier Silvio. E cambia tutto”. Meloni, sta serena?
Pier Silvio Berlusconi è come Carmelo Bene: appare ormai alla Madonna, al popolo di Forza Italia, ai pargoli di Silvio. Da giorni, alla Camera, corre la voce che sarebbe stato visto partecipare a un evento di Forza Italia. La fonte: “Mi dicono a un evento in Lombardia. Nessuno lo ha scritto”.
Andiamo a chiedere ad Alessandro Sorte, che è il coordinatore di FI in Lombardia, uno che meriterebbe un ritratto per simpatia e perché la moglie, diciamo, è una fan di Elly Schlein.
Dunque, caro Sorte, è vero? “La partecipazione di Pier Silvio a un evento lombardo non mi risulta”. E’ sicuro o mente? “Come potrei con il bene che gli voglio e che voglio al Foglio?”.
Se Pier Silvio non era a Milano qui le cose sono due: o hanno visto un ologramma, uno di quelli di cui scrive Mauro Crippa di Mediaset, il direttore dell’Informazione, un tipo alla Martin Scorsese, oppure Pier Silvio era a Roma al congresso che ha incoronato Tajani.
Un deputato di FI dice che questo “è impossibile. Il Berlusconi presente era Paolo, lo zio”. La fonte: “Vi dico che c’era Pier. Credetemi”.
A Mediaset al settimo piano (non si capisce perché in televisione tutti quelli che comandano, come in Rai, stiano al settimo piano) rispondono che Pier Silvio “è felice che FI cresce. E’ contentissimo di Tajani. Ma questa idea che faccia politica richiederebbe tempo. Per come è fatto, almeno tre anni”.
Anche al padre, Gianni Letta spiegava che non era il caso e che serviva tempo. Si sa come è finita: in due mesi è nata Forza Italia. In verità, allora, uno che la pensava in maniera diversa, a favore della discesa, c’era. Era il capo della pubblicità di Mondadori, un piemontese, l’uomo che più gli somiglia per voglia di vivere, amare; basta andare a su Instagram al profilo Urbano Cairo. Tenacia vuole che Cairo sia oggi il rivale del figlio Pier Silvio e pure qualcosina in più.
Possiede il Torino, il Corriere, e poi su La7 ha Lilli Gruber e Marco Travaglio, che sono i busti di 8 e mezzo. Più che a destra, Cairo guarda a sinistra, al centro, tra Pd e M5s, lo spazio che sarebbe (stato) di Renzi e Calenda se solo non avessero fatto a sportellate. Pier Silvio, che ha un ministro degli Esteri a disposizione, un partito ce l’ha, e pure in salute. Basta lucidarlo con due paroline che tanto gli piacciono. Una è “moderato” e l’altra è “responsabile”.
A Cologno Monzese, i manager, tutti concentrati sulla costruzione di una piattaforma di tv private con i partner spagnoli e tedeschi, offrono alternative: “Non è Pier Silvio che farà politica, dovete guardare a Via Solferino. Cairo ha il Corriere. E’ una potenza di fuoco. Pensate come sta facendo ballare la famiglia Elkann”.
Parlando di Corriere, e di carta, non si può che rivolgere il pensiero a Marina Berlusconi, presidente di Mondadori, la sorella, la più grande della famiglia, una che ancora ricorda quanto male hanno fatto al papà. Ebbene, sarebbe preoccupata di questa fantasia di Pier Silvio, che fantasia poi non è, anche solo per la prima legge della termoeditoria, la legge di Crippa, il prossimo Fedele Confalonieri. La legge sarebbe questa: “Un editore che non edita la Settimana enigmistica non può che fare politica”.
Berlusconi, che nelle sue ultime ore di vita non ha sbagliato nulla (il partito a Tajani, l’eredità spartita con amore tra i figli) dicono chiamasse Crippa e Confalonieri per ricordare: “Le nostre tv devono trasmettere messaggi di libertà anche dopo di me”.
Sulla libertà, che significa anche essere libertini, lasciarsi andare, dispiace per Berlusconi, ma Cairo vince. Questa storia dei sondaggi sul suo gradimento è arrivata anche a De Corato di FdI: “Ne sento parlare pure io, e secondo me li commissiona Cairo, che, sia chiaro, è un imprenditore abilissimo”.
E a dirla tutta è anche spiritoso, oltre a essere un marinaio. Ha un giornalista in ogni porto, redazione, li seduce (“vieni con me a Solferino”) e poi scappa come nel film “Casablanca”. Cairo conosce la “Roma santa e dannata” di Dagospia e quella di Veltroni, ma Pier Silvio può contare sull’Alfa Gianni Letta, la spider, una macchina velocissima di relazioni romane.
L’ultimo a misurare il gradimento di Pier Silvio è stato Mimum, il direttore del Tg5. Esito? Da Mediaset: “E’ dimostrato che Pier Silvio ha un consenso pure a sinistra”. Piace. Pensare che una delle grandi accuse rivolte a Silvio Berlusconi era di non avere scelto un delfino. Lui, il Cav. l’avrebbe detta così: “Per fare un Berlusconi ne servono almeno due. Un figlio e un faraone”. Pier Cairo.
(da ilfoglio.it)
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Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
“IL MALCONTENTO CRESCE: IN LOMBARDIA LA RIVOLTA E’ PIU’ CHE FORTE CHE IN VENETO”… “VANNACCI? I MILITARI MI SONO SEMPRE STATI SULLE BALLE”
Giuseppe Leoni, 77 anni, è stato deputato ed eurodeputato per la Lega per sei legislature. L’ha fondata con Umberto Bossi e la moglie del senatùr Manuela Marrone il 12 aprile del 1984.
I soldi, ricorda, li ha messi lui: «Umberto ha messo le idee. L’abbiamo fatta insieme. Ma queste sono cose che si sanno, è la nostra storia. Il punto è un altro: pensi come posso sentirmi oggi vedendo questo strazio». E cioè: «Se vai a casa e trovi tua moglie a letto con un altro come ti senti? Ecco. Per l’Umberto forse è anche peggio. Mi metto nella sua testa e provo a immaginare come può stare».
Il Carroccio malato di nazionalismo
Il 12 aprile la Lega compie 40 anni, ma Leoni non sa se festeggerà: «Salvini è uno così, uno che sarebbe capace di dire che la Lega l’ha inventata lui! ( ride) ».
Secondo lui il Capitano non l’ha stravolta: «Peggio, molto peggio. Io sono federalista, lui è fascista. Io voglio l’autonomia, lui vuole i fascisti. Non occorre aggiungere altro».
In più le cose «non vanno bene da un po’. Salvini si è giocato il 30% di voti. E non è proprio vero, come dicono, che la nostra Lega era ai minimi termini. L’abbiamo portata a tirare eccome. Quando abbiamo eletto Formentini a Milano non eravamo al 3%. Forse qualcuno se l’è dimenticato».
Per lui prima «la Lega era federalista, si batteva per il Nord, per l’autonomia, per le industrie, per i lavoratori. Adesso è malata di nazionalismo e di fascismo. Per me che, come Bossi, vengo da una famiglia antifascista, è doloroso. Ma la Lega tornerà federalista, questo glielo garantisco. Per farle un esempio: mia figlia Micol ha 35 anni ed è federalista».
Veneti e lombardi
Per questo, dice Leoni, di Salvini «non solo i veneti, anche i lombardi ne hanno piene le scatole. Lo sapete che la rivolta, il casino è molto più forte in Lombardia? Però i giornali non ne parlano, viene bellamente silenziato. I capoccia lo sanno, il perno è qui, se viene giù la Lombardia viene giù tutto. Nella storia della Lega i veneti non hanno mai contato un cavolo, loro sono 3 milioni, in Lombardia siamo 9 milioni. I lombardi non ne possono più di questa Lega, io passo le giornate a rispondere a ragazzi, lavoratori, imprenditori. Tutti che mi chiedono: ma dove stiamo andando a finire?».
Secondo il leghista se ne esce «coi congressi, ma Salvini non vuole farli. Prende tempo. Forse ha paura di andare a casa. Intanto il malcontento sta montando sempre di più, dopo le Europee vediamo che cosa succede. O forse anche prima».
(da agenzie)
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Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
I “DIVISIVI” FINISCONO AMMAZZATI, GLI IMBECILLI MAI
Tra i motivi per cui la maggioranza degli studenti del liceo scientifico di Partinico si oppone alla decisione di intitolare la scuola a Peppino Impastato ce n’è uno che mi ha colpito: è ritenuto «troppo divisivo». Per quei ragazzi la militanza di Impastato prevale su qualunque altra considerazione, persino sul martirio.
Non gli contestano di essere stato un eroe della lotta alla mafia, ci mancherebbe. Ma di esserlo stato con una maglietta ideologica addosso. Come se la passione politica, che un tempo era un valore, si fosse trasformata in fattore sminuente e rendesse meno universale il suo sacrificio. Per meritarsi di essere eternato in una targa, un martire, ma anche un artista o uno statista (qualora ce ne fossero), deve dunque piacere in tutto a tutti?
Da ragazzo, Impastato si ribellò al padre mafioso, che lo cacciò di casa. Avrei immaginato che fosse questo il particolare della sua biografia in grado di accendere la fantasia di un gruppo di adolescenti, oltre alla battaglia inesorabilmente perdente, e perciò ancora più romantica, che Peppino ingaggiò dai microfoni di una radio libera contro il boss Tano Badalamenti, la cui abitazione distava cento passi dalla sua.
Impastato era comunista, così come Borsellino non negò mai la vicinanza al Movimento Sociale. Eppure, non mi verrebbe mai in mente di definirli «divisivi». In comune avevano le cose essenziali: a cominciare dall’avversario, quello sì «divisivo», che infatti e purtroppo li ha ammazzati entrambi.
(da corriere.it)
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Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
LA DELUSIONE DEL FRATELLO: “PROBLEMA CULTURALE”… L’ERRORE E’ INTERPELLARE PURE GLI STUDENTI, DECIDANO I DOCENTI CHE HANNO IL CERVELLO CONNESSO
A non volere che la loro scuola, il liceo scientifico Savarino, porti il nome di Peppino Impastato, il giornalista militante di Democrazia Proletaria assassinato dalla mafia nel 1978 per le sue battaglie contro i clan, sono gli studenti. Ben 797 (il 73%), interpellati dai loro rappresentanti, hanno votato contro la decisione del Consiglio di istituto poi ratificata dai commissari prefettizi che hanno retto il Comune di Partinico sciolto per mafia. Impastato «è divisivo perché politicamente schierato», hanno scritto in una lettera indirizzata tra gli altri al direttore dell’ufficio scolastico, al prefetto e alla Consulta degli studenti.
Il no dei ragazzi non nasce solo dall’eccessiva connotazione politica di Impastato, ma anche dal metodo usato per la scelta del suo nome. Un iter travagliato e complesso, quello della nuova intitolazione, avviato proprio su proposta degli studenti ai quali Savarino, ex discusso politico locale che disse sì alle leggi razziali, proprio non piaceva. Per rimpiazzarlo i ragazzi avevano scelto due personalità, il giudice ucciso dalla mafia Rosario Livatino, e l’ex sindaco del paese Gigia Cannizzo. Ai due nomi i docenti avevano affiancato quello del premio nobel Rita Levi Montalcini. Il militante di Dp è arrivato insieme a una serie di altri candidati solo in un secondo tempo. Ma al momento del voto il collegio dei docenti ha scelto la scienziata. Fino a due anni fa, quando con 8 assenti e la metà dei rappresentanti di istituto presenti, si era rivotato facendo “vincere” Impastato. La parola era passata a quel punto ai commissari e poi alla Giunta che aveva bocciato la decisione.
Per l’ennesima volta si è data la parola ai ragazzi che a grande maggioranza hanno detto no. Una presa di posizione massiccia che non ha impedito al consiglio di istituto di reiterare la decisione di intitolare la scuola a Impastato, nonostante tutti e quattro i rappresentanti degli studenti, forti del voto dei compagni, si siano detti contrari e in tre, tra genitori, docenti e personale amministrativo si siano astenuti. «Non si è tenuto conto delle nostre proposte», dicono i rappresentanti degli studenti. «Non abbiamo nulla contro Impastato anche se avremmo preferito una persona meno divisiva, ma non ci piace il metodo seguito». Deluso e amareggiato il fratello del militante di Dp, Giovanni Impastato: «Peppino è un personaggio amatissimo dai giovani, forse gli studenti del liceo non hanno studiato la sua storia», commenta. La decisione, suggellata dal voto dei primi di marzo, del consiglio di istituto, è presa. «Ma il clima non ci piace – dice Impastato – Secondo me i ragazzi sono stati strumentalizzati e comunque a questo punto c’è un problema culturale».
(da agenzie)
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Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
CIÒ LO CONDANNA A UN RUOLO DI ETERNO SECONDO. HA FATTO TANTO PER USCIRE DAL CONO D’OMBRA IN CUI LO HA CONFINATO LA MELONI, SOLO PER RITROVARSI SUCCUBE DEL RASSEMBLEMENT
Qualcosa si muove nell’estrema destra europea. E a prendere l’iniziativa è Marine Le Pen, amica e alleata del nostro Salvini.
La presidente del Rassemblement National è la leader di fatto del gruppo trasversale che si definisce “Identità e Democrazia”, più a destra dei Conservatori (ECR) che fanno riferimento a Giorgia Meloni e con cui i rapporti sono ai minimi termini. La discriminante è la politica verso la Russia di Putin.
Le Pen, Salvini, ovviamente i semi-nazisti di AfD in Germania, ora anche i portoghesi di Chega e altri sono gli amici dell’autocrate russo in Europa. Sullo sfondo, il premier ungherese Orbán è il più autorevole interprete della linea che aspetta solo la vittoria di Trump in America per destabilizzare l’Unione.
L’altro fronte, i Conservatori, è più ambiguo. La premier Meloni ha scelto di condividere la scelta atlantica sull’Ucraina, affermata ancora di recente in sintonia con Biden, altri sono più sfuggenti circa la relazione con Mosca (come il nuovo arrivato, il francese Zemmour, l’anti-Le Pen).
Cosa è accaduto dunque nelle ultime ore per iniziativa della presidente del FN? Due cose.
Da un lato l’estrema destra transalpina ha votato contro l’ultimo pacchetto di aiuti a Kiev deciso da Macron. Tuttavia l’aspetto originale è la condanna dell’aggressione di Mosca all’Ucraina. Mai la Le Pen si era spinta a tanto. Mai aveva avuto il coraggio di esprimersi con tanta chiarezza circa l’origine della guerra. Tuttavia questa mossa imprevista non significa che il RN abbia modificato la sua politica estera. Al contrario.
Il rapporto con Putin è troppo antico e consolidato per essere messo in crisi. Tra l’altro, i russi avrebbero finanziato a suo tempo la campagna elettorale dell’estrema destra francese con 9 milioni di euro. Non risulta che si siano pentiti del loro investimento. Quel che è mutato è il profilo di Marine Le Pen.
Oggi lei è a tre passi da un risultato strepitoso : essere il primo partito di Francia, sconfiggendo Macron alle europee e rendendo così meno nebbioso il traguardo delle elezioni presidenziali nel ’27.
Dopo secoli, siamo ancora alla celebre affermazione di Enrico di Navarra, vicino a coronare l’ambizione di essere re: “Parigi val bene una messa”.
La differenza è che la conversione al cattolicesimo del pretendente al trono era definitiva, mentre oggi l’attacco ai russi invasori è pura tattica. Il vero stato d’animo del Rassemblement è nel voto contrario agli aiuti a Zelensky: è quello che davvero interessa al Cremlino .
Si tratta di tattica per creare sconcerto nel campo di Macron […]. L’estrema destra, viceversa, si prepara a trasformarsi nell’interlocutrice di Trump. E se questo comporta un aggiornamento della posizione contraria a Kiev, ben venga. Il sapore del successo, peraltro, spinge la Le Pen, ma non il capo leghista, ad allentare un po’ il legame coi tedeschi di Alternative.
E Salvini in tutto questo? Il suo ruolo resta marginale. Il capo del Carroccio non stato nemmeno capace di anticipare la svolta tattica della sua amica Marine. Ciò lo condanna a un ruolo di eterno secondo. Ha fatto tanto per uscire dal cono d’ombra in cui lo ha confinato la Meloni, solo per ritrovarsi succube del Rassemblement. Anche lui, ovviamente, spera in Trump. A lui sono rivolti i suoi pensieri quando si scaglia contro Ursula Von der Leyen e invoca “meno Europa”. Ma deve quanto meno attendere novembre e non è detto che la crisi della Lega non esploda prima. Anzi, è alquanto probabile.
(da Repubblica)
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Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
IL SUPERBONUS TRAINO DI UNA CRESCITA RECORD PER L’ITALIA
L’Italia negli ultimi quattro anni ha fatto registrare la miglior performance economica tra i grandi Paesi europei. A dirlo è il Financial Times, citando i dati Istat sulla produzione ed evidenziando come quella di Roma sia stata la miglior ripresa, addirittura doppia rispetto a Francia e Regno Unito e ancor di più rispetto alla Germania. Il merito? È in gran parte del Superbonus.
L’articolo del Financial Times è stato rilanciato anche dal co-fondatore del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, che vuole così sottolineare i meriti del governo guidato da Giuseppe Conte che ha introdotto il 110%.
Ma cosa dice davvero il Financial Times e perché il Superbonus è stato così importante per la crescita italiana?
Innanzitutto, il giornale economico sottolinea “l’enormità” della misura, che è persino considerata difficile da comprendere. Gli investimenti in Italia, comprensivi di quelli edilizi, sono aumentati del 30% rispetto al quarto trimestre del 2019. Basti pensare che in Francia sono saliti solo del 4% e nel Regno Unito del 7%.
Nicola Nobile, economista di Oxford Economics, sottolinea che questi dati sono “dovuti ai forti incentivi fiscali nell’edilizia”. E quindi il Superbonus. Tanto che anche nell’ultimo trimestre del 2023 la crescita italiana, dello 0,2%, è stata del tutto legata al settore delle costruzioni. Inoltre a dicembre 2023 la produzione è diminuita del 13% in Spagna, del 7% in Germania, mentre in Italia è aumentata del 40% in quattro anni.
IL BONUS CANCELLATO DAL GOVERNO METTE A RISCHIO L’ECONOMIA
Ma ora, viene sottolineato dal Financial Times, potrebbe cambiare tutto con la revoca della misura. Già ridimensionata e presto cancellata del tutto. Ci si attende, secondo gli economisti, una correzione imminente. Intanto, a fine 2023, c’è stato un nuovo boom di richieste del Superbonus, ben oltre le previsioni, arrivato prima della scadenza della misura. E da gennaio si è invece già registrato un calo inevitabile.
Ovviamente viene sottolineato che il Superbonus ha avuto costi molto alti, come dimostra anche il deficit più alto per il 2023 rispetto alle previsioni del governo. Ma il ritorno c’è stato, eccome.
Il vero problema è un altro: la crescita record legata al Superbonus non basta. Rispetto al 2000 l’economia italiana è salita solo del 9%, a fronte di percentuali tra il 30% e il 40% negli altri Paesi. Quindi il Superbonus non è bastato a risolvere i grandi problemi strutturali dell’Italia, come la scarsa crescita della produttività e il fatto di avere la popolazione più anziana d’Europa.
(da Repubblica)
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Marzo 16th, 2024 Riccardo Fucile
IL PIANO MATTEI DELLA MELONI E’ SOLO UN MODO PER RAPINARE ANCORA IL CONTINENTE RIDOTTO ALLA POVERTA’
Nell’ultimo articolo dicevo che noi dovremmo imparare dal diritto latino. Ma dovremmo imparare qualcosa anche da quelle che sprezzantemente chiamiamo “culture inferiori”, in particolare da quella africana.
L’intera storia dell’Africa Nera, naturalmente prima che noi ne ibridassimo e distruggessimo la cultura, le tradizioni, l’economia, non col colonialismo classico, che era in un certo senso ‘romano’ (noi occupavamo e depredavamo, ma gli indigeni continuassero pure a vivere secondo le loro tradizioni e costumi) ma col più recente e devastante colonialismo economico, è caratterizzata dal negoziato. Scrive l’antropologo John Reader (Africa, 2001) parlando del Delta del Niger: “Il rischio di conflitti era altissimo: in termini antropologici il delta interno del Niger avrebbe dovuto essere un ‘focolaio di ostilità interetnica’. Eppure ciò che distingue la regione durante i 1600 anni di storia documentata non è la frequenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifiche relazioni reciproche”. E questo vale, sempre per Reader, per tutta l’Africa Nera. Ma com’è possibile, dirà il lettore, se attualmente l’Africa è attraversata da conflitti particolarmente feroci come quello in Sudan, mentre è ancora nella memoria di tutti il dramma del conflitto tra Tutsi e Hutu? Ma questo è lo stato delle cose “attualmente”, cioè più o meno dell’ultimo mezzo secolo, in cui è stata distrutta la comunità tribale. In questa non comandava il re, che era un simbolo, il meno libero della tribù, un po’ come il re o la regina d’Inghilterra, ma le decisioni venivano prese dalla collettività. È chiaro che se tu alla realtà tribale sostituisci le strutture di uno Stato moderno questo avrà bisogno di eserciti e di polizia con cui schiacciare i sudditi, non tanto diversamente peraltro da quanto avviene nelle moderne democrazie occidentali.
Ora, per non farci mancar nulla, l’Italia con l’appoggio esplicito o implicito della cosiddetta comunità internazionale (Ursula von der Leyen, Ocse, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) ha messo in piedi il cosiddetto “Piano Mattei”. È evidente che la Comunità internazionale agisce sotto l’impulso di un senso di colpa: dopo aver distrutto l’Africa Nera abbiamo il dovere morale di ricostruirla, soprattutto economicamente.
A parte il fatto che per questo Piano non abbiamo consultato i diretti interessati, cioè gli africani, come ha lamentato Moussa Faki, il presidente dell’Unione Africana, l’Inferno, come si sa, è lastricato di buone intenzioni, anche ammesso e nient’affatto concesso che il Piano Mattei abbia buone intenzioni.
Giorgia Meloni ha affermato che il Piano Mattei non ha “un approccio predatorio”. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Il sottosuolo africano possiede il 30% delle risorse naturali e minerarie necessarie alla transizione energetica globale. E non è certamente un caso che al Piano Mattei sia molto interessata l’Eni, nota confraternita di anime pie (nel 2006 furono rapiti due tecnici Eni nel Delta del Niger perché lo sfruttamento del petrolio andava a tutto vantaggio della società italiana e non al popolo nigeriano. I capi del Mend, Movimento per la liberazione del Delta del Niger, dissero: “Noi non siamo criminali, ma voi ci costringete a esserlo”).
Ma l’Africa Nera non è interessante solo per le sue risorse, ma per il numero dei suoi abitanti, circa 700 milioni escludendo il Sudafrica che fa storia a sé. Insomma si vuol fare degli africani dei forti consumatori.
Consumatori di che non è molto chiaro visto che, come dicono tutti, l’Africa è alla fame. Lo è oggi, non lo era nell’immediato ieri. Ai primi del Novecento, l’Africa era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%) nel 1961. Ma da quando ha cominciato a essere aggredita dall’integrazione economica – prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante – le cose sono precipitate. L’autosufficienza è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere che è successo dopo non sono necessarie statistiche: basta guardare le migrazioni dei subsahariani che, passando dalla pericolosissima Libia di oggi (quando c’era Gheddafi la Libia era un Paese ordinato e nient’affatto pericoloso) e per la Tunisia, dove sono odiati dalla popolazione locale che tende a ricacciarli in mare.
Insomma in Africa Nera non è più questione di povertà ma di fame, della brutale fame. E non sarà certo il blocco navale progettato da Salvini a fermare questa gente.
Ritorniamo ai problemi, ai drammi, dell’agricoltura africana. “In un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato all’alimentazione degli animali dei Paesi ricchi. I poveri del Terzo mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli” (Il vizio oscuro dell’Occidente, 2002). È la legge del mercato e del denaro.
L’interesse per l’Africa Nera non è dettato solo da ragioni economiche rapinatorie ma da interessi geopolitici. Si scrive che in Africa sono presenti i russi attraverso la Wagner. I russi non sono mai stati presenti in Africa, non hanno mai avuto interessi coloniali di tipo occidentale (alla Russia interessa ciò che accade nel proprio territorio e in quelli vicini, cioè territori europei o parzialmente asiatici) così come non fu né coloniale né neocoloniale il nazismo, Namibia a parte che, credo non a caso, è oggi il Paese più ordinato e tranquillo dell’Africa Nera. La fantomatica Wagner, che si dice che esista ma nessuno sa dire con precisione dove stia, è un pretesto per addebitare a Putin ciò che di Putin non è. Si dice che la Wagner sia presente in Mali. Le cose non stanno proprio così. Il Mali è diviso in due parti, il Mali del Sud sotto la Francia, non nei modi neocoloniali ma nei modi di un colonialismo in senso stretto scomparso da tempo (da quelle parti si batte una moneta francese, il Franco Cfa) e un Mali del Nord abitato da animisti, tuareg, islamici non radicali. Qualche anno fa alla Francia è venuta la bramosia di occupare anche il Mali del Nord.
Conseguenze: i tuareg si sono salvati perché nomadi, gli animisti sono stati spazzati via e gli islamici, fino ad allora quieti, sono diventati Isis.
All’epoca di un summit organizzato dal primo G7, i sette Paesi africani più poveri con alla testa il Benin organizzarono un contro-summit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Invece di fare le anime belle, con Piani Mattei e simili, dovremmo seguire questa volontà autoctona. “Oh che partenza amara, Meloni cara, Meloni cara”.
(da ilfattoquotidiano.it)
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