Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
“SI CREEREBBERO DELLE REGIONI-STATO, DIVENTEREMMO UN PAESE ARLECCHINO, CON POLITICHE PUBBLICHE DIFFERENTI. E CHI VIVE IN UNA TERRA PIU’ AGIATA AVRA’ SERVIZI MIGLIORI”
Professor Viesti, nel suo libro definisce l’Autonomia regionale differenziata una «secessione dei ricchi». Ci spieghi.
«È così per due motivi. Il primo è che la dimensione delle competenze che la riforma consente di trasferire alle Regioni è simile a quella di uno Stato sovrano. Si verrebbero a costituire delle vere e proprie Regioni-Stato all’interno dello Stato: per questo parlo di “secessione”. E sarebbe una secessione “dei ricchi” perché sono state le tre Regioni più ricche del Paese – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – ad aver chiesto per prime quei poteri».
Questo è il primo motivo. E il secondo?
«Glielo spiego subito. Oltre a quei poteri, Veneto e Lombardia chiedono anche risorse finanziarie. E cercano di ottenere dei meccanismi di finanziamento simili a quelli delle Regioni a statuto speciale. Di fatto è un tentativo di “secedere” dalle regole nazionali del federalismo fiscale. Ed è un tentativo che si basa sull’ipotesi che un territorio più ricco meriterebbe più servizi. Ecco perché, anche da questo punto di vista, sarebbe una secessione “dei ricchi”».
Il ragionamento è: se consentiamo a tutte le Regioni di prendersi più poteri, le Regioni che oggi sono più ricche se ne prenderanno di più, allargando ulteriormente il divario con le Regioni più povere.
«Sì, ma non è questo a mio avviso il punto principale. Il punto principale è sulle materie: se ciascuna Regione chiedesse poteri autonomi su certe materie, avremmo politiche pubbliche gestite in maniera differente a seconda dei territori. Diventeremmo un Paese arlecchino, come non c’è da nessuna parte nel mondo. Fra l’altro, anche se non sono un costituzionalista, credo che si porrebbero anche problemi di costituzionalità, perché applicando l’articolo 116 della Costituzione si cambierebbe l’articolo 117 senza passare per la procedura speciale prevista dall’articolo 138».
Quali sono le materie che secondo lei non dovrebbero essere lasciate alle Regioni?
«Ad esempio la politica energetica, o quella delle reti infrastrutturali di trasporto. O l’istruzione. Poi ci sono le norme generali sulla sanità, che con l’Autonomia differenziata potrebbe essere totalmente regionalizzata. Non sono il solo a pensarla così: anche secondo la Banca d’Italia è dubitabile che le Regioni siano più efficienti dello Stato nella gestione di tutte quelle competenze. Il principale effetto di questa riforma sarebbe concedere un immenso potere ai presidenti di Regione, ma per i Comuni e i cittadini di quelle stesse Regioni non è affatto detto che la situazione migliorerebbe».
La riforma Calderoli subordina però la concessione dell’autonomia alla definizione dei Lep, i livelli essenziali di prestazione: sull’intero territorio nazionale bisognerebbe garantire dei livelli minimi di qualità nell’erogazione dei servizi. Sappiamo che i Lep attendono di essere definiti da diversi anni, ma questa non potrebbe essere la volta buona?
«Siamo un Paese straordinario: nessuno ricorda che già in base al Pnrr abbiamo l’obbligo di definire i Lep in tutte le materie, che siano di competenza statale, regionale o comunale. Quindi legare il processo di definizione dei Lep all’Autonomia differenziata è una mossa politica. Non solo: la legge si applica unicamente alle funzioni statali che vengono trasferite alle Regioni e non dispone stanziamenti ulteriori, quindi il rischio è che, alla fine di un processo lungo e molto complesso, la definizione dei Lep si risolva in una mera fotografia dell’esistente. Lo dice anche l’Ufficio parlamentare di bilancio. E aggiungo un’annotazione: la Calderoli è una legge ordinaria, non ha carattere costituzionale; basterebbe una legge successiva per modificarla».
Osservazione storica: fino a 163 anni fa, eravamo un Paese diviso in tanti piccoli “staterelli”. E ancora oggi dall’Alto Adige alla Sicilia ogni territorio ha caratteristiche ed esigenze diverse. Non basta questo per riconoscere maggior autonomia alle Regioni?
«Questo è un argomento a favore del decentramento dei poteri, cioè a favore del fatto che, ad esempio, su una specifica materia le scelte che si fanno in Sicilia sono diverse da quelle che si fanno in Lombardia. E io sono molto favorevole a questo decentramento, sia a livello di Regioni sia – ancor più – a livello di Comuni. Ma con l’Autonomia differenziata si parla di una cosa diversa. E cioè del fatto che in una Regione quella politica sia decisa dalla Regione e in un’altra Regione sia decisa dallo Stato: non è una sana differenziazione delle scelte, ma una differenziazione dei poteri».
Quindi decentramento sì, ma Autonomia differenziata no.
«In un Paese così ricco di differenze come l’Italia non si può pretendere di decidere da Roma se, ad esempio, nel centro di Bologna le auto devono andare a 30 o a 50 chilometri all’ora. È una scelta che deve fare il sindaco, non il ministro. Ma questo non significa creare delle Regioni che siano “più Regioni” di altre. A livello internazionale ci sono molte differenziazioni di poteri tra le città, anche in Italia: è chiaro che il sindaco di Roma deve gestire una realtà molto più complessa del sindaco di Tagliacozzo. Non esistono, invece, esperienze internazionali di Regioni che sono “più Regioni” di altre, se non nel caso molto discutibile delle Regioni a statuto speciale italiane e della Catalogna in Spagna».
Infatti c’è chi argomenta a favore dell’Autonomia differenziata proprio a partire dall’esistenza delle Regioni a statuto speciale. Si dice: queste Regioni sono la dimostrazione ch la loro maggior autonomia di un territorio non intacca l’unità nazionale.
«Conosco questa argomentazione. In buona sostanza il Veneto, che è il vero regista di quest’operazione, vuole diventare come il Trentino Alto Adige. I veneti vedono i loro vicini di casa con più poteri e più soldi e si chiedono: perché loro sì e noi no? Ad esempio la spesa media per studente in Trentino è più alta del 70% che in Veneto. Il punto è che non è possibile che tutte le Regioni italiane ottengano lo statuto speciale, a meno che non si cambi la Costituzione o si frantumi definitivamente lo Stato. E comunque credo che l’esistenza di Regioni a statuto speciale meriterebbe oggi una riflessione».
In Catalogna, invece, l’autonomismo è diventato indipendentismo.
«Il regionalismo differenziato in Spagna nasce però nei Paesi Baschi, che sono sostanzialmente una regione a statuto speciale più ricca delle altre. I Paesi Baschi ricordano il caso italiano della Provincia autonoma di Bolzano, ma con una differenza importante: quando le fu concessa l’autonomia, Bolzano era molto povera ed è diventata ricca proprio grazie ai super finanziamenti della Provincia autonoma; i Paesi Baschi, invece, quando dopo il Franchismo ottennero maggiore autonomia, erano già ricchi di loro. In quel caso l’autonomia fu frutto di una scelta politica di pacificazione».
Mi dica della Catalogna.
«In Catalogna esisteva un movimento autonomista storico, fra l’altro giustificatissimo perché il Franchismo aveva represso la cultura catalana in modo impressionante. La concessione di ampie autonomie alla Catalogna è stata un processo assolutamente benvenuto. Gli indipendentisti catalani rappresentavano una quota minoritaria, tra il 25 e il 30% secondo i sondaggi di opinione, ma negli anni Dieci del Duemila, con l’avvento in Europa della grande austerità, il livello dei servizi nella regione si è abbassato. E a quel punto i catalani hanno iniziato a pensare, esattamente come i veneti fanno con il Trentino: ma perché i baschi sì e noi no?».
E la situazione ha rischiato di degenerare.
«Dietro la rivolta catalana ci sono storici motivi politico-culturali, ma anche concreti motivi di carattere fiscale, che hanno fatto sì che il sostegno agli indipendentisti sia man mano cresciuto, fino allo scontro del 2017, quando è stato proclamato un referendum per l’indipendenza della regione. Come sappiamo, la Corte costituzionale spagnola ha negato la legittimità di quella consultazione, ma i catalani l’hanno svolta lo stesso e da lì si è scatenata una contrapposizione molto violenta e complessa. Molti l’hanno dimenticato, ma nel 2016 anche il Consiglio regionale del Veneto aveva chiesto un referendum sull’indipendenza. Anche in quel caso la Corte costituzionale italiana disse che la consultazione non si poteva fare. Ed è lì che scattò la differenza con la Catalogna: il Consiglio regionale del Veneto si è accontentato di chiedere maggior autonomia».
Nei giorni scorsi lei è stato a presentare il suo libro proprio a Barcellona. Che clima ha trovato?
«Oggi il clima è più tranquillo. Il Governo socialista non è centralista e sta cercando di avere un rapporto più disteso con la Regione catalana».
Abbiamo parlato di materie. Ora parliamo di soldi: la Lombardia ha un residuo fiscale sui 50 miliardi di euro, il Veneto e l’Emilia Romagna oscillano tra 17 e 18. È giusto che le tasse pagate da un cittadino di Milano vadano a finanziare i servizi ricevuti da un napoletano?
«Così è scritto nella Costituzione: quando nasciamo diventiamo cittadini italiani. Siamo uno Stato unitario decentrato, non uno Stato federale. Il residuo fiscale, quindi, è un concetto politico: non c’è alcun principio che vi attribuisca rilevanza. Anche perché, allargando il discorso, si potrebbe parlare di residuo fiscale provinciale, o comunale. Perché i milanesi devono pagare per i pavesi? O perché quelli di via Montenapoleone devono pagare per quelli del quartiere Gratosoglio? Questo ragionamento per assurdo ci fa capire che, alla fine, il residuo fiscale è in-di-vi-dua-le! La nostra Costituzione dice che i servizi sono garantiti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito. Al contrario, il principio del residuo fiscale tende ad attribuire diritti diversi in base alla ricchezza dei territori in cui si vive. Questo è pericoloso».
Si può dire, però, che esiste un tema di malgoverno che riguarda soprattutto il Sud?
«Assolutamente sì, ma da questo punto di vista l’Autonomia differenziata non cambierebbe le cose. Anzi. La riforma Calderoli va a modificare l’impostazione del finanziamento alle Regioni disegnata dalla legge 42 del 2009 (la legge delega sul federalismo fiscale, ndr): in base a quel sistema, rimasto peraltro in gran parte inattuato, gli indicatori di finanziamento sono basati sul fabbisogno. È così che possono emergere i maggiori casi di inefficienza. Con l’Autonomia differenziata, invece, le nuove competenze non sarebbero finanziate in base ai livelli di fabbisogno a costi standard e a risultati tangibili in termini di qualità di servizi, ma con una percentuale del gettito fiscale nazionale. Questo significa che il presidente di una Regione che avesse tutte queste nuove competenze sarebbe totalmente irresponsabile: avrebbe i soldi senza destinazione vincolata e potrebbe farci quel che vuole».
Oggi però, almeno in campo sanitario, sono già previsti i Lea (Livelli essenziali di assistenza).
«Ma non sono legati ai meccanismi di finanziamento! Le faccio un esempio che chiarisce molto. Se una Regione ha una bassa capacità di fare screening tumorali, per cui in quel territorio si muore per malattie curabili, non si viene a determinare un fabbisogno. E quindi quella Regione non riceverà delle risorse aggiuntive vincolate a fare gli screening, perché il Fondo Sanitario Nazionale è ripartito in base alla popolazione pesata per età».
Che conclusione dobbiamo trarne?
«È tutto il sistema italiano di costruzione dei meccanismi di responsabilizzazione che è ben lungi dall’essere attuato. Il punto chiave è che le regole di allocazione delle risorse dovrebbero essere uguali per tutti. Invece con l’Autonomia differenziata si va nella direzione opposta: regole speciali per le Regioni a maggior autonomia».
Come si è venuto a creare questo divario tra le Regioni più ricche, che spesso sono al Nord, e le Regioni arretrate, che spesso sono al Sud?
«L’esistenza di un divario di reddito tra i territori non è inconsueta nel panorama mondiale ed europeo: anche in Germania e nel Regno Unito ci sono vari esempi analoghi. Quel che colpisce, in Italia, è la durata del fenomeno e la sua intensità. Da cosa deriva? C’è un insieme complesso di vicende che attengono alla geografia, alla storia e alle politiche che sono state fatte. Ci sono poi divari di efficienza: il caso più rilevante è appunto quello delle sanità, dove incidono contemporaneamente una gestione clientelare e dei meccanismi di finanziamento, che fanno sì che, ad esempio, la sanità del Sud sia sotto-finanziata. Ma finché non si mettono in campo indicatori più precisi, basati sui fabbisogni, un presidente di Regione potrà sempre dire che la sua Regione ha una sanità peggiore perché dispone di molte meno risorse di un’altra. Ma la sanità è un argomento molto complesso».
A cosa si riferisce?
«Col complessivo sotto-finanziamento della sanità italiana, i sistemi sanitari dell’Emilia-Romagna, prevalentemente pubblico, e della Lombardia, prevalentemente privato, stanno in piedi grazie alla mobilità sanitaria. Se i sistemi sanitari del Sud diventassero improvvisamente efficienti e si azzerasse la mobilità sanitaria, in Emilia-Romagna e Lombardia si aprirebbero colossali problemi».
Pensa che il regionalismo in Italia abbia fallito?
«No. Io sono per fare analisi basate sui fatti e sulle performance. Quando sento dire che le Regioni hanno fallito e bisognerebbe ri-accentrare tutto, non sono d’accordo. Sicuramente, se fossimo un Paese serio, dovremmo preoccuparci di fare una valutazione sulla riforma del Titolo V della Costituzione, che quest’anno compie 23 anni: dovremmo analizzarne i risultati e intervenire dove serve, ma resto dell’idea che l’Italia non è un Paese che si può governare da Roma. Bisogna trovare la miglior combinazione dei poteri che consenta di progredire sul profilo dell’efficienza».
E questa combinazione, secondo lei, non è certo nell’Autonomia differenziata.
«Negli ultimi mesi il dibattito sulla riforma ha assunto una colorazione politica – la maggioranza a favore, l’opposizione contro – che fino a poco tempo fa era meno netta. Andando più indietro nel tempo, ricordo ad esempio che nel 2014 Giorgia Meloni presentò una proposta di legge per abolire le Regioni… Oggi non mi aspetto che la riforma possa subire “scricchiolii” in parlamento. Qualcosa per contrastarla possono farla invece i sindacati, le rappresentanze delle imprese e i cittadini. Il tema è complicatissimo dal punto di vista tecnico ma molto chiaro dal punto di vista politico: dove sta il potere in Italia? Quali garanzie di controllo hanno i cittadini? Su cosa basare l’uguaglianza tra i cittadini indipendentemente da dove vivono?».
(da TPI)
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Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
BONACCINI: “UNA DISCRIMINAZIONE VERGOGNOSA”… CRESCE LA PROTESTA ANCHE TRA LE ASSOCIAZIONI DI VOLONTARIATO CHE GESTISCONO RESIDENZE SANITARIE, ORFANOTROFI
Pericolo scampato per i terremotati, ma non per tutti. La cessione dei crediti legati al Superbonus che serve per integrare il contributo sisma di ricostruzione è stato ripristinato solo per l’Abruzzo 2009 e il Centro Italia 2016, ma non per gli altri terremoti di Emilia-Romagna (2012), Ischia, Catania, Campobasso.
Cresce la protesta anche tra le associazioni di volontariato che gestiscono residenze sanitarie, orfanotrofi e case di comunità, che restano esclusi dalla cessione del credito.
Dopo la sollevazione dei governatori del Centro Italia e gli ultimi ritocchi, il decreto che chiude la stagione del Superbonus è stato firmato ieri dal presidente della Repubblica
Dal primo aprile cessione del credito e sconto in fattura, nei pochi casi in cui erano ancora previsti dopo la stretta di febbraio 2023, non saranno più possibili. Facendo marcia indietro il governo ha salvato le case terremotate in Abruzzo e Centro Italia (anche se con un tetto di spesa di 400 milioni per il ’24), ma ha confermato lo stop alla cessione per i nuovi interventi sugli immobili colpiti dagli altri terremoti, per quelli degli Iacp, per le barriere architettoniche anche dove in famiglia ci sono disabili, per gli immobili del terzo settore (che gestiscono la metà delle residenze assistenziali sanitarie per gli anziani in Italia).
«Una discriminazione vergognosa» sbotta Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, che «colpisce le famiglie che ancora oggi stanno completando la ricostruzione dei propri immobili». «Penso sia un errore, una dimenticanza. Comunque non capisco perché con situazioni identiche ci siano trattamenti differenti» dice Salvatore Scalia, commissario per il terremoto di Catania del Natale 2018, che martedì incontrerà i sindaci del cratere etneo.
Preoccupatissimi come quelli di Ischia. «Si vede che per il governo ci sono terremotati di serie A e di serie B. A Ischia servono più fondi per ricostruire, e invece ce li tolgono» dice il sindaco di Casamicciola, Giosi Ferrandino. Perplessità e critiche anche dal Forum del Terzo Settore.
(da “Corriere della Sera”)
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Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
SECONDO IL COMUNICATO DIFFUSO DAI GOLPISTI AL POTERE, CARAVELLI AVREBBE “PORTATO UN MESSAGGIO DI SOLIDARIETÀ DA PARTE DI GIORGIA MELONI”: SIAMO ALLA FOLLIA
La giunta militare del Niger ha ricevuto ufficialmente giovedì scorso, 28 marzo, una missione italiana guidata dal generale Giovanni Caravelli, direttore dell’Aise, i servizi di sicurezza esteri.
L’incontro è stato documentato dalla televisione nigerina Rtn, che ha diffuso un breve servizio mostrando il capo dell’intelligence militare italiana accompagnato da due funzionari, mentre era ricevuto da Abdourahamane Tchiani, il generale alla guida del Paese dopo il colpo di Stato, e dal responsabile dei servizi di sicurezza interni.
Il filmato è stato pubblicato anche sulla pagina Facebook dell’emittente, evidenziando la presenza del direttore dei servizi italiani, definito «Consigliere del primo ministro del governo italiano».
Sotto il post moltissimi commenti, gran parte dei quali inneggiavano alla Russia, il partner privilegiato del Niger dal giorno del colpo di Stato. L’incontro è stato annunciato – con tanto di foto – anche sul canale Twitter del Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie (Consiglio nazionale per la salvaguardia della Patria), l’organismo che ha sostituito il governo legittimo il 26 luglio 2023.
Secondo il comunicato diffuso dalla giunta militare, Caravelli avrebbe «portato un messaggio di solidarietà da parte del primo ministro del governo italiano Giorgia Meloni che ha confermato la disponibilità a rinforzare la cooperazione tra i due Paesi».
Le stesse fonti nigerine hanno evidenziato che «l’Italia è l’unico Paese che ha proseguito normalmente e senza interruzioni la cooperazione con il Niger dopo gli avvenimenti (ovvero il golpe, ndr) del 26 luglio».
L’incontro – confermato a La Stampa anche da fonti italiane – presenta aspetti ancora da chiarire, che potrebbe creare problemi alla nostra diplomazia.
Il colpo di stato del luglio 2023 è stato condannato da tutti i paesi occidentali e dall’Unione europea. La giunta, nei mesi scorsi, ha espulso il contingente francese, presente da diversi anni in Niger, e l’ambasciatore del governo Macron. Una sorte simile potrebbe toccare anche ai militari statunitensi, attivi nel Paese del Sahel con una base, impegnata nell’osservazione del territorio particolarmente delicato per la presenza di forze jihadiste.
Nello stesso tempo, Niamey sta rafforzando i rapporti con la Russia e la Cina, aprendo le porte alla cooperazione militare con Mosca. Quarantotto ore prima dell’incontro tra il capo dell’Aise e la giunta militare, il generale Tchiani ha avuto un meeting telefonico con Vladimir Putin, annunciando l’intensificazione della cooperazione militare tra i due Paesi.
Secondo la rivista francese Jeune Afrique, «la diplomazia russa si trova in una posizione favorevole in Niger, dopo che la Francia è divenuta il bersaglio delle nuove autorità». I militari nigeriani hanno poi annunciato «di voler mettere fine alle due missioni Ue sul proprio territorio, mentre accoglievano la delegazione russa», riferisce Jeune Afrique.
L’alto rappresentante dell’Unione europea lo scorso anno aveva duramente condannato il colpo di Stato, dando il pieno sostegno al presidente Bazoum, deposto dai militari e ancora oggi detenuto ai domiciliari. Il consiglio dell’Unione europea il 23 ottobre scorso ha approvato il regolamento che impone una serie di sanzioni nei confronti dei responsabili del colpo di stato militare.
La notizia dell’incontro doveva rimanere segreta, hanno commentato alcune fonti della Farnesina e intelligence contattati dalla La Stampa. «Si trattava di una missione tecnica, riservata», è il commento riferito da fonti da altre fonti di intelligence.
L’Italia avrebbe chiesto alle autorità del Niger la rimozione il video da Facebook. Peraltro, ieri il sito della Repubblica africana non accessibile perché in mantenimento. Decisamente troppo tardi.
Il Niger ha un’importanza strategica crescente nel contesto del Sahel. Era uno dei principali fornitori dell’uranio per la Francia – Paese che ha ancora diverse centrali nucleari in funzione – e nella zona Sud-Ovest, al confine con il Benin, è entrato da poco in funzione l’oleodotto più lungo del continente africano (circa 2000 chilometri) gestito dalla China National Petroleum Corporation. Ed è proprio il dossier della produzione energetica uno dei temi più delicati in questo momento.
L’Italia è al momento il Paese europeo che ha mantenuto i rapporti più stretti con il Niger. La missione militare del nostro Paese, ridotta a 250 uomini dopo il golpe, è l’unica dei Paesi dell’Ue ancora attiva.
Il problema, a questo punto, potrebbe essere proprio la discovery della missione “riservata” da parte delle massime autorità nigerine. La giunta militare ha diffuso le fotografie e i video ripresi dalla televisione governativa ufficiale ovunque, dai social (Twitter e Facebook), ai siti web dei principali giornali locali. Una scelta decisamente irrituale.
(da agenzie)
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Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
IL GOVERNO VUOLE REGALARE LA POSSIBIITA’ DI METTERSI IN REGOLA CON L’INPS SENZA PAGARE I CONTRIBUTI ARRETRATI DOVUTI E LE SANZIONI
Il rapporto privilegiato di Coldiretti con il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida non è certo un mistero. Meno noti sono i legami e le amicizie della principale sigla del mondo dell’agricoltura italiana all’interno del parlamento, che pure non mancano. E forse anche grazie a una di queste “relazioni speciali”, per i proprietari di imprese agricole potrebbe arrivare una gradita sorpresa di Pasqua: una sanatoria tombale sui contributi non versati per i lavoratori delle aziende e sulle relative sanzioni. A proporre il colpo di spugna è Mattia Aldo, oggi deputato di Fratelli d’Italia, fino a ieri membro di vertice di Coldiretti.
La proposta è contenuta in un emendamento al decreto Pnrr in discussione alla Camera e si concentra sulle denunce aziendali, che le imprese agricole devono mandare all’Inps. In pratica, quando i datori di lavoro assumono operai agricoli con contratto di lavoro subordinato (all’inizio dell’attività o in momenti successivi) hanno l’obbligo di presentare all’istituto di previdenza un documento, che attesti le caratteristiche del fondo, le attività che vengono svolte e le modalità con cui si svolgono. In questo modo, l’Inps può classificare l’azienda e così calcolare correttamente i contributi dovuti per gli occupati. Analoga comunicazione va inviata, anche nel caso di modifiche nella composizione agro-economica dell’azienda e conseguente variazione nel fabbisogno di manodopera.
Il colpo di spugna su contributi e sanzioni
Fratelli d’Italia ora vuole “salvare” i datori di lavoro agricoli, che non hanno invato la denuncia iniziale e/o le successive comunicazioni di variazioni dei dati, dando tempo fino al 31 dicembre 2024 per mettersi in regola. Chi lo farà non dovrà pagare le sanzioni previste per il ritardo nella presentazione dei documenti. Non solo, per chi aderisce alla sanatoria, lo Stato rinuncia anche a recuperare tutti gli eventuali contributi non versati nel corso degli anni, in cui i dati aziende agricole sono rimasti nascosti all’Inps. Insomma, un vero e proprio condono contributivo tombale, peraltro senza distinzione di dimensione o fatturato tra le imprese.
Non possiamo dire con certezza se il “regalo” per le aziende agricole fuori norma sia ispirato da Coldiretti. Ma certo, il rapporto tra l’associazione e il deputato che ha presentato la proposta è più che provato. Come accennato, infatti, il parlamentare di Fratelli d’Italia Mattia Aldo è stato a lungo un uomo di punta dell’organizzazione guidata da Ettore Prandini. Prima di entrare a Montecitorio nel 2022 con il partito di Giorgia Meloni, infatti, Aldo fin dagli anni ’80 ha ricoperto ruoli di primo piano dentro Coldiretti: tra l’altro è stato consigliere nazionale, capo della federazione regionale del Lazio dal 2009 al 2017 e poi direttore dell’associazione delle imprese agricole in Basilicata.
Non si capisce bene, peraltro, cosa c’entri la proposta di una sanatoria sui contributi e le relative sanzioni non versati dalle aziende agricole, con un decreto destinato atradurre in pratica le modifiche al Pnrr, decise dal governo. Questo tuttavia non ha impedito a Fratelli d’Italia di inserire l’emendamento firmato da Aldo tra i supersegnalati, cioè quelli che diversi gruppi parlamentari ritengono prioritari da discutere, durante l’esame parlamentare del testo. Si può ipotizzare che a pesare sulle scelte del principale partito di maggioranza siano state anche le proteste dei trattori, andate in scena nelle ultime settimane. Ma certo questa mossa – più che al necessario sostegno a un comparto fondamentale per l’economia italiana – assomiglia a un vero e proprio regalo, per i furbetti del settore agricolo.
(da Fanpage)
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Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
SEQUESTRATO TUTTO IL MATERIALE TROVATO SUL VELIVOLO RADIOCOMANDATO, OVVERO HASHISH, COCAINA E QUATTRO TELEFONINI
Un drone che trasportava droga e cellulari smartphone nel carcere avellinese di Sant’Angelo dei Lombardi è stato intercettato dalla polizia penitenziaria. Tutto il materiale trovato a bordo del velivolo – hashish, cocaina e quattro telefoni – è stato sequestrato.
Lo rende noto il delegato regionale dell’Uspp Maurizio Repola. “Grazie alla professionalità degli agenti – spiega il sindacalista -, coordinati dal comandante del reparto, nella serata di ieri è stato intercettato e catturato un drone che trasportava tre micro telefoni, uno smartphone, 180 grammi di hashish, e 20 grammi di cocaina”.
“Nonostante la carenza di personale, – sottolinea Repola – è stato impedito, grazie alla professionalità degli operatori della Polizia Penitenziaria che il carico giungesse all’interno dell’istituto”.
Il delegato regionale USPP si complimenta con i colleghi Sant’Angelo dei Lombardi che, dice, “ancora una volta, in condizioni operative emergenziali, riescono a garantire la legalità e a contrastare i traffici della criminalità tra l’esterno e l’interno del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi”. Per Ciro Auricchio e Giuseppe Moretti, rispettivamente segretario regionale e presidente dell’Uspp, “bisogna dotare la polizia penitenziaria di strumenti tecnologicamente avanzati come i dissuasori di droni e jammer per i continui tentativi di introduzione di droga e cellulari”.
(da agenzie)
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Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
TUTTI I DOCENTI SI SONO RIFIUTATI DI ACCOMPAGNARE GLI STUDENTI: “NON SONO MATURI NE’ RESPONSABILI”
Svastiche su lavagne e pareti e fotomontaggi offensivi con gli insegnanti vestiti da Hitler. Sono queste le immagini dolorose che studenti e professori si sono ritrovati in una classe della scuola media di Saint-Vincent in Valle d’Aosta.
Di fronte a questo scenario, fa sapere la preside, «tutti i docenti del consiglio di classe hanno revocato la propria disponibilità ad accompagnare i ragazzi in un’uscita di due giorni, con una nottata fuori».
I responsabili sarebbero stati gli studenti del 3°B che avrebbe dovuto visitare Boves, luogo di una tragica vicenda storica durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il 19 settembre 1943 i nazisti uccisero 25 civili e bruciarono 350 case.
L’indagine interna
Nonostante la gravità degli eventi, nessuno degli studenti ha ammesso di essere responsabile delle azioni compiute.
Di conseguenza, è stata avviata un’indagine interna dove è stato chiesto ai ragazzi di indicare i nomi dei responsabili. Modalità che ha portato all’adozione di note disciplinari individuali da parte dei professori, poi successivamente riviste e annullate a seguito di un colloquio con gli studenti e i loro genitori.
La dirigente scolastica, Antonella Dallou, ha comunicato ai genitori che gli studenti della classe 3°B sono stati ritenuti colpevoli di atti vandalici ricorrenti durante l’anno scolastico. Motivo per cui i docenti hanno revocato la loro disponibilità ad accompagnare gli studenti nella gita a Boves, considerando che non possono essere ritenuti maturi e responsabili delle proprie azioni.
(da agenzie)
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Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
IL SUO TORTO E’ DI COLLABORARE CON LA FONDAZIONE NAVALNY
Il tribunale distrettuale di Basmanny a Mosca ha ordinato la custodia cautelare in carcere almeno fino al 28 maggio per la giornalista russa Antonina Favorskaya: lo riporta la testata online MediaZona, secondo cui Favorskaya figurerebbe «in un procedimento penale sulla partecipazione alle attività della Fondazione Anticorruzione» di Navalny, bollata come «estremista» dal Cremlino.
Secondo il giornale, la reporter sarebbe accusata di aver pubblicato dei post sulle piattaforme online della fondazione di Navalny, cosa che però viene negata dalla fondazione stessa, la cui attività in Russia è stata vietata dal governo. Il suo arresto è considerato di matrice politica e arriva in un momento in cui Mosca sta inasprendo la repressione contro il dissenso e contro la stampa indipendente.
L’udienza si è svolta a porte chiuse su richiesta della pubblica accusa e nonostante la contrarietà della difesa a tale misura.
«Sono completamente contraria a un processo a porte chiuse. La stampa deve sapere cosa sta succedendo qui, di cosa sono accusata», ha detto Favorskaya alla corte.
La giornalista ha seguito per anni i processi di matrice politica contro il rivale numero uno di Putin, Alexey Navalny.
(da agenzie)
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Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
LA SOCIETA’ HA DECISO DI NON PRENDERE PIU’ PARTE ALLE INIZIATIVE ISTITUZIONALI CONTRO LE DISCRIMINAZIONI, PURA IPOCRISIA SE POI NON SI AGISCE CON FATTI CONCRETI
Gli undici titolari del Napoli contro l’Atalanta, insieme ai calciatori della panchina, al rientro dopo la pausa per le nazionali e gli strascichi per il caso Acerbi-Juan Jesus, si sono presentati all’ingresso in campo davanti al pubblico del Maradona appoggiandosi su un ginocchio. Un gesto di denuncia, e di protesta, che è nato nel 2016 negli Stati Uniti per manifestare contro il razzismo sistemico delle forze di polizia. Il primo atleta a inginocchiarsi, appoggiandosi su una gamba sola, è stato il giocatore di football americano Colin Kaepernick, che eseguì il gesto ribattezzato Taking the knee durante l’inno nazionale quando indossava la maglia dei San Francisco 49ers. I giocatori del Napoli hanno così deciso di protestare contro la decisione del giudice sportivo che ha assolto il difensore dell’Inter Francesco Acerbi, accusato dal collega del Napoli Juan Jesus di avergli rivolto insulti razzisti. Il giudice ha riconosciuto la natura offensiva e minacciosa delle parole rivolte al calciatore, ma ha sottolineato che non vi sono né prove né testimoni degli insulti razzisti. La società ha successivamente annunciato che non prenderà più parte a iniziative istituzionali contro il razzismo: «Continueremo a farle da soli, come abbiamo sempre fatto, con rinnovata convinzione e determinazione», si legge in una nota del club. Parole confermate a DAZN anche dal ds Meluso: «Siamo rimasti delusi dalla vicenda, le manifestazioni contro le discriminazioni le faremo in modo privato».
(da agenzie)
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Marzo 30th, 2024 Riccardo Fucile
INTERVISTA AD ADAM JASSER, ANALISTA DI VISEGRAD INSIGHT: “IL PERICOLO DI UNA GUERRA E’ SERIO, NOI LO CAPIAMO, L’EUROPA MOLTO MENO”
I polacchi “sono pronti a combattere se ce ne fosse bisogno”, la violazione del loro spazio aereo da parte di missili russi “fa parte dei test a cui Mosca sta sottoponendo i Paesi Nato per capire quanto siano pronti a reagire a una escalation”. E Varsavia invita i partner europei a “concentrarsi sulla deterrenza” per far capire a Mosca che l’escalation non paga.
Parola di Adam Jasser, ex capo della Cancelleria e grand commis dei governi di Donald Tusk. Oggi, vice direttore del think tank Visegrad Insight
La memoria storica dei polacchi è un sostegno sicuro per la politica di Tusk volta a rafforzare la difesa nazionale e a “risvegliare” gli europei dal torpore di tanti meravigliosi anni di pace, dice Jasser a Fanpage.it. Non si tratta di fondare un esercito europeo. Ci vorrebbe troppo tempo. Ma “si deve rafforzare il fronte Est dell’Alleanza Atlantica”. Se possibile, insieme agli americani. Sennò, anche senza.
Le relazioni tra Polonia e Russia sono pessime da almeno quattro secoli. Per trovare motivi recenti di animosità, non c’è bisogno nemmeno di risalire al patto Molotov-Ribbentrop con cui l’Urss e la Germania nazista si divisero il Paese nel 1939, o all’eccidio di Katyn, dove un anno dopo i sovietici massacrarono 20 mila polacchi.
Basta infatti ricordare il disastro aereo di Smolensk, nel vicino 2010. Costò la vita al presidente della Repubblica Lech Kaczynski a sua moglie e ad altre 94 persone. E creò risentimenti feroci, per il sospetto che si fosse trattato di un attentato ordinato da Putin.
Abbiamo parlato con Adam Jasser in videoconferenza dagli uffici di Visegrad Insight a Varsavia.
Dottor Jasser, come si sentono i polacchi in questa situazione?
Fin dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, in Polonia è presente un senso di accresciuto rischio per la sicurezza. Quando il nostro spazio aereo è violato dai missili di Mosca, come avvenuto la scorsa settimana, la percezione di pericolo aumenta. Ma la nostra aviazione sa cosa fare. Lo ha dimostrato nelle scorse ore. Peraltro agendo del tutto in linea con le procedure in tali situazioni.
Ma pensa che sia stato un caso, la violazione del vostro spazio aereo?
Per niente. I russi stanno sondando i nostri limiti. Per vedere fin dove possono arrivare senza far scattare rappresaglie o azioni clamorose. Quindi è molto importante che le autorità polacche mantengano i nervi saldi.
Come sta reagendo il governo Tusk all’escalation russa?
Tusk sottolinea che l’Europa è nella situazione più difficile dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dal punto di vista della sicurezza. Sostiene che la minaccia di guerra non sia imminente. Mantiene i nervi saldi, appunto. Ma riconosce che la situazione è grave e che la Polonia deve continuare a sviluppare la sua capacità di deterrenza. Per mettersi in grado di respingere qualsiasi attacco.
Infatti avete alzato la spesa della difesa al 4% del Pdl…
Ma non è solo una questione di spesa. Si tratta anche di sviluppare capacità industriali per poter effettivamente produrre abbastanza munizioni.
Che brutta cosa, rilanciare l’industria delle armi. È davvero necessario?
Giustamente, l’industria della difesa non era la preferita dei governi, in Europa. Non solo per motivi morali. Era vista principalmente come una sorta di industria di esportazione in declino. La situazione è cambiata. L’Europa ha fallito nel suo obiettivo di fornire all’Ucraina un milione di proiettili di artiglieria (secondo il governo ucraino è arrivato solo un terzo del munizionamento promesso, ndr). E ora abbiamo questa iniziativa ceca per acquistarli da paesi terzi (il governo di Praga ha individuato la possibilità per un consorzio europeo di comprare 800mila proiettili dalla Corea del Sud e da Paesi africani e asiatici, ndr). Fortunatamente, la maggior parte dell’Europa è d’accordo. Questa è la strada da seguire. L’Ucraina inizierà a ricevere queste munizioni. Ma si sa, il problema è che in Europa sembra che siamo sempre un passo indietro. E Tusk sta cercando di dare questo messaggio: dobbiamo essere in anticipo rispetto alla curva invece che in ritardo come al solito.
Nelle sue più recenti interviste, Tusk ha fatto un vero e proprio appello all’Europa affinché si prepari a difendersi. Come? Con un esercito europeo? Ci vorrebbero almeno dieci anni, per arrivarci…
Tusk non spinge per un esercito europeo in quanto tale. In questa fase, non è una priorità. Si tratta invece di rafforzare da subito il fronte orientale della Nato. Perché la visione in Italia, da noi, in Germania e nei paesi nordici, è che la NATO rimane il perno della difesa e della deterrenza.
La priorità assoluta è cambiare la mentalità e rendersi conto che il rischio è serio. E questo è ciò che sostengono tutti i leader dell’Europa centrale e orientale, ad eccezione dell’Ungheria di Orban. E spendere più soldi per la difesa, per gli appalti. Molti governi devono cambiare il loro approccio alla difesa. Aumentarne la capacità. Non si fa in un giorno. Ma va fatto sul serio.
Tusk ha vinto un’elezione impossibile contro l’estrema destra conservatrice e clericale del Pis, il partito di Kaczynsky. I suoi elettori accettano l’idea di prepararsi a una guerra?
In Europa, sia nell’Europa occidentale che in quella centrale, la pace e la prosperità sono state date per scontate per molto tempo. E a volte è semplicemente difficile per le persone immaginare che possa ripetersi una vera guerra, in cui si spara, si uccide e si muore.
Secondo un sondaggio il 58% degli italiani non vorrebbe un intervento militare nemmeno se ci fosse un attacco diretto contro il Paese. Percentuali analoghe in Germania…
E questo è il problema. Perché la guerra in Europa c’è già. Per molti europei l’Ucraina è da qualche parte a Est. Ma se guardiamo una mappa e consideriamo la storia dell’Ucraina, capiamo bene che è un paese europeo. È stato parte dell’Unione Sovietica. Ma è Europa. In tutto il continente dobbiamo renderci conto che la minaccia è reale, che la Russia è imprevedibile, che Putin è ossessionato dalla ricostruzione dell’Impero. E ciò potrebbe avere conseguenze di vasta portata, come ad esempio un attacco a un paese della Nato, prima o poi.
E i polacchi, che sarebbero in prima linea, sono pronti a combattere?
In Polonia è tradizionalmente diffusa la percezione che la Russia sia una minaccia alla sicurezza. Le invasioni russe sono rimaste nella coscienza collettiva. Tra i miei amici anche alcune persone più anziane di me dicono che si arruolerebbero se la Polonia venisse attaccata. Ho pochissimi dubbi che ci sarebbe un ampio consenso politico per resistere e combattere. Speriamo che non sia necessario. Penso che “deterrenza” sia la parola chiave. La deterrenza per avere successo deve essere credibile. È questo ciò per cui dobbiamo lottare ora in Europa. Proprio per poter evitare una guerra.
(da Fanpage)
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