Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
UNA PARACULATA CHE POTREBBE INNESCARE TENSIONE SUI MERCATI E FAR IMBIZZARRIRE LE AGENZIE DI RATING CHE TRA APRILE E MAGGIO DOVRANNO VALUTARE LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA
Palazzo Chigi e il Tesoro hanno l’accordo sul Def: l’idea è approvare un Documento di economia e finanza solo con il quadro macroeconomico tendenziale, ovvero con le stime a legislazione vigente, senza indicare gli obiettivi di finanza pubblica stabiliti dal governo. Questo è il ragionamento con cui si sono lasciati Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti venerdì pomeriggio, quando si sono visti per fare il punto sul Def. La decisione definitiva, però, sarà presa soltanto oggi, anche alla luce degli ultimi dati del Superbonus, che ha già superato i 210 miliardi di euro di impatto e veleggia verso i 250.
L’ipotesi di presentare un documento al buio, rinviando tutte le scelte di politica economica era stata discussa nei palazzi già la settimana scorsa, con il timore sottolineato dai tecnici che un messaggio del genere potesse innescare tensioni sui mercati. Da non sottovalutare, spiega una fonte, anche l’effetto di tale incertezza sulle agenzie di rating, che tra aprile e maggio dovranno valutare le prospettive dell’Italia.
La struttura del Mef non è abituata a fare un lavoro a metà, negli ultimi anni non si ricordano precedenti simili, solo la Nadef di Mario Draghi dell’autunno 2022 venne varata dal Consiglio dei ministri senza il quadro programmatico, ma allora si erano tenute le elezioni il 25 settembre, e un esecutivo dimissionario non poteva certo prendersi in carico le responsabilità sulla manovra successiva.
Anche guardando al lavoro che stanno preparando Francia, Germania e Spagna, non c’è la sensazione che questi Paesi vogliano rinunciare a rivelare i propri target sulla crescita e i conti pubblici. Il ministro Giorgetti lascia intendere che questo sia un comportamento prudente in attesa delle linee guida della nuova Commissione europea, c’è chi invece la giudica una scusa.
Negli ambienti tecnici, gli economisti dell’Upb, dell’Istat, di Ref ricerche e di altri osservatori consultati da Parlamento ed esecutivo si interrogano su un’opzione di questo tipo.
Secondo Giampaolo Galli dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, «il governo sarebbe tenuto a fare sia il quadro tendenziale sia quello programmatico. Io penso che il governo sia in qualche imbarazzo e sia tentato di scaricare le responsabilità sull’Europa se non riuscirà a confermare le promesse, come la riduzione del cuneo fiscale. Certo non si poteva aspettare le proporzioni disastrose del Superbonus – ricorda – ma il problema sta anche nell’aver sottovalutato lo stato della finanza pubblica».
La scelta di Meloni è essenzialmente politica, peraltro condivisa da Giorgetti, e rientra nella strategia cara a Palazzo di Chigi di voler discutere con Bruxelles in una logica di pacchetto. Dopo il voto per le europee dell’8 e 9 giugno, la presidente Meloni ha intenzione di trattare personalmente con il futuro vertice della Commissione sulle cariche e sui vincoli di bilancio.
Un atteggiamento che si scontra su alcuni punti fermi difficilmente trascurabili: l’Italia andrà incontro a una procedura per disavanzo eccessivo e già quest’estate potrebbe dover dare il via libera a una manovra correttiva e ridurre il deficit strutturale dello 0,5%. Giorgia Meloni, invece, vorrebbe strappare almeno 10 miliardi di extra deficit a Bruxelles da utilizzare a copertura della prossima manovra. Palazzo Chigi è convinto di poter dare le carte dopo le elezioni di giugno arrivando a concordare l’extra deficit necessario alla legge di bilancio. Probabilmente serviranno dei buoni alleati in Europa.
(da “la Stampa”)
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Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
LA PERCENTUALE DEI MINORI CHE PRATICA UNO SPORT E’ DIMINUITA IN TUTTE LE FASCE D’ETA’: UNO SU CINQUE NON SI ALZA DAL DIVANO
Con il tablet in mano, oppure seduti sul divano a guardare la televisione. Di usare le scale invece dell’ascensore, nemmeno a parlarne. Figuriamoci se si tratta di fare qualche spostamento a piedi: quasi tutti preferiscono farsi accompagnare con la macchina da mamma e papà.
La sedentarietà dei bambini e dei ragazzi sta diventando ormai un problema di sanità pubblica. I medici ne osservano le conseguenze negli ambulatori da diversi anni, visto che i bambini sono sempre più in sovrappeso. E la situazione purtroppo durante la pandemia è peggiorata, come dimostrano i dati elaborati da openpolis con l’impresa sociale
Tra il 2019 e il 2021 la quota di sedentari nella popolazione è passata dal 35,6% al 33,7%. Al contrario, l’incidenza dei minori che non fanno sport è cresciuta dal 18,5% al 24,9% tra i 6 e i 10 anni, e dal 15,7% al 21,3% tra 11 e 14 anni. Più stabile tra i 15-17enni, dove è comunque aumentata dal 18,8% al 19,9%.
Con la fine dell’emergenza, i dati sono leggermente migliorati, ma non abbastanza: i sedentari scendono al 21,7% tra 6 e 10 anni, al 17,2% tra 11 e 14, al 19,3% tra 15 e 17. Numeri più bassi del 2021, ma più alti comunque del 2019. E non consola affatto osservare che con la fine della pandemia, la percentuale di bambini e ragazzi che non fanno sport resta comunque del 20% (uno su cinque).
Ma se l’uso indiscriminato dei social ha certamente un peso non indifferente nell’attitudine dei ragazzi a restare fermi per ore, in realtà, molto conta anche la condizione economica e sociale della famiglia. L’impossibilità di potersi permettere un’attività di svago fuori da casa a pagamento, come emerge dai dati di openpolis, riguarda quasi un minore su 10 (9,1%); tra quelli in condizione di deprivazione, sfiora addirittura il 60% nel 2021 (58,4%). In entrambi i casi, con valori in crescita rispetto alla precedente rilevazione pre-pandemica, nel 2017.
Non aiuta, poi, la mancanza di palestre scolastiche attrezzate in diverse aree del Paese: il 40% nel nord-ovest (41,3%), e si attesta ad alcuni punti da questa soglia nel nord-est (37%) e nel centro Italia (36,7%). Resta invece piuttosto indietro il mezzogiorno (31,7%). Tra le regioni, dopo la Liguria (52,4%), è la Puglia a mostrare la presenza più diffusa (48,4%), seguita da Toscana, Veneto e Lombardia (44-45% circa). Agli ultimi posti, con meno di un edificio su 4 dotato di palestra, Sicilia (24,6%), Umbria (23,3%) e Calabria (meno del 20%).
I bambini, dunque, non fanno sport. Né sono messi in condizione di farlo. Intanto, però, si prova a invertire la rotta. A cominciare dalle iniziative istituzionali, proposte da Sport e Salute, la società in house del Mef (il ministero dell’economia e di finanza) che si occupa di sviluppo dello sport.
(da il Messaggero)
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Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
D’ORA IN POI, PER OTTENERE IL “WORK PERMIT” SARA’ RICHIESTO UNO STIPENDIO ANNUO DI ALMENO 38.700 STERLINE (CONTRO I PRECEDENTI 26.200)… I RISTORATORI E ALBERGATORI INGLESI TREMANO PER LE RIPERCUSSIONI SUL SETTORE DELL’OSPITALITÀ
Non era bastata la Brexit, dallo scorso primo aprile è partita una nuova stretta decisa dal governo di Rishi Sunak per rafforzare ulteriormente le norme anti-immigrazione nel Regno Unito. evitando in futuro migliaia di ingressi tra studenti, manodopera e neolaureati. Se il loro stipendio annuo non è infatti di almeno 38.700 sterline (contro i precedenti 26.200) non possono più essere sponsorizzati da nessuna azienda ed è quindi impossibile ottenere il visto per motivi di lavoro.
Nel 2022, nonostante la Brexit, il Regno Unito ha visto il record nel saldo tra ingressi e uscite nel Paese: +745mila in un anno. Ora, con la nuova stretta, il governo inglese vuole ridurre questo numero di circa 300mila unità all’anno, favorendo l’ingresso solo di “personale qualificato”.
«Al momento in tutto il Regno Unito spiega a Il Messaggero il console generale a Londra, Domenico Bellantone ci sono oltre 550mila italiani iscritti all’Aire, il registro dei residenti stranieri, ma considerando anche i non registrati si superano le 700mila persone. L’età media è di 37 anni e circa il 30% (almeno 200mila persone) sono ragazzi e ragazze under 30».
«Nonostante la Brexit aggiunge il console – dal 2021 abbiamo avuto 20mila iscrizioni di connazionali all’Aire ogni anno. Adesso, però, quelle 38.700 sterline sono un salario che guadagna solo il 27% degli inglesi, quindi gli arrivi dovrebbero calare».
Gli italiani sono sempre stati molto richiesti e ora vengono sostituiti dagli indiani già presenti nel Regno Unito e non, con i visti per loro più facili: la qualità dei servizi sta calando a picco.
Per anni chi arrivava in Uk per svolgere mansioni di cui c’era carenza poteva essere sponsorizzato anche con un salario del 20% inferiore al minimo. Il rischio, a sentire i ristoratori della capitale britannica, è che se il settore dell’ospitalità è meno attraente può andare in crisi, portando ancora più in basso il Pil quando già siamo in recessione tecnica. Già alcuni big come Rocco Forte, che credeva nel Regno Unito, si stanno spostando verso l’Italia e altri Paesi.
LE ALTRE NORME
Quella dello stipendio minimo per poter stabilirsi nel Regno Unito non sarà poi l’unica novità. A breve scatterà anche una stretta sui visti per gli studenti e per i lavoratori socio-sanitari o di bassa manodopera. E chi vuole raggiungere un familiare in Uk, per ottenere il visto avrà bisogno di un salario minimo che sale subito da 18.600 sterline a 29mila, per poi arrivare a 38.700 a inizio 2025. L’unica alternativa per ricongiungersi è quindi prendere la cittadinanza inglese, ma lo si può fare solo dopo cinque anni ininterrotti di lavoro e vita nel Paese, più uno con il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Una prospettiva quasi impossibile per i giovani italiani alle prime esperienze di lavoro. Ma una possibile soluzione c’è.
(da il Messaggero)
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Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
NON SI FERMA L’ADDIO DI CONSIGLIERI COMUNALI VERSO FORZA ITALIA E FDI… ORA SALVINI TENTA LA CARTA DELL’AUTONOMIA PER SALVARSI, L’ENNESIMA GIRAVOLTA
Il quarantennale della fondazione della Lega, semi-dimenticato fino a qualche giorno fa, all’improvviso è stato recuperato dal cesto dei ricordi ingombranti, lucidato, messo in mostra.
Il 12 aprile il partito lo festeggerà un po’ ovunque ma soprattutto a Varese, davanti alla storica sede di piazza del Podestà, e all’ultimo momento Salvini ha dato (ha dovuto dare) la sua adesione: andrà. Al tavolo della risottata organizzata dai militanti potrebbe esserci anche Umberto Bossi, il patròn da anni esiliato dai palchi ufficiali del Carroccio.
L’eventuale foto al suo fianco segnerà per il Capitano un’inedita esperienza: il passaggio sotto le forche caudine del leghismo delle origini che credeva di aver stroncato in via definitiva, quello dei Borghezio e degli Speroni, della libera Padania più europeista che nazionalista, così ostile alla retorica del sovranismo tricolore da tifare contro la Nazionale pure ai Mondiali di calcio.
La nostalgia dei bei tempi è la trappola in cui Matteo Salvini è costretto a cadere anche se non ci crede, anche se non corrisponde alla sua natura e soprattutto all’evoluzione delle cose.
La vecchia Lega che fa sospirare i nemici interni – “dobbiamo tornare lì, alle radici” – era un adolescente disinteressato al potere nazionale, affezionato solo ai suoi territori, indifferente alle destre e alle sinistre e capace di far cadere il primo governo di Silvio Berlusconi dopo un’intesa con Massimo D’Alema per sostenere un esecutivo tecnico guidato da Lamberto Dini. Quell’antico ragazzino scapestrato non aveva problemi di alleabilità. Era il partito del Settentrione sviluppato. Stava con chi gli conveniva. Con il Cavaliere, prevalentemente, ma anche no. Con Roma Ladrona mai, al punto che nel 2010 sfiorò la crisi per difendere il Gran Premio di Monza che qualcuno voleva spostare nella Capitale.
È evidente che quel tipo di passato non può essere ricostruito. Ma la nostalgia dei bei tempi è un dato di fatto che Salvini è obbligato a prendere in considerazione.
Non è solo il chiodo fisso della base leghista in Veneto, Lombardia, Piemonte, ma anche la giustificazione prevalente della transumanza di massa avviata dai quadri intermedi, preoccupati per il loro avvenire. Quaranta addii in tre mesi solo al Nord, hanno calcolato, tutti o quasi verso Forza Italia. Altri venti tra europarlamentari, consiglieri regionali e municipali scappati via nell’ultimo trimestre del 2023, nella consapevolezza che il declino dei sondaggi rendeva i loro posti a rischio senza offrire alternative convincenti.
Persino sotto la bandiera di San Marco i cambi di casacca risultano ormai uno stillicidio: la campagna di proselitismo di Flavio Tosi, l’ex-sindaco di Verona passato a FI, segnala con cadenza settimanale nuove adesioni strappate al Carroccio. Leghisti della prim’ora, assessori comunali, consiglieri, cercano nuove prospettive al Centro (e l’addio, quasi sempre, è motivato con la delusione per lo smarrimento dell’identità originaria).
L’apertura della campagna elettorale per le Europee a Torino, alla presenza dei governatori del Nord, ha visto Salvini impegnato a blandire questa nostalgia, vera o alibistica che sia. Lo ha fatto con il grande classico dell’Autonomia differenziata e del ritorno all’elezione diretta delle Province ma anche con la più recente suggestione della “pace edilizia”, il piano casa che non si deve chiamare condono e che però sanerà gli impicci del popolo delle villette e dei capannoni. Battaglie pragmatiche, questioni di danè, di sghei, di posti di potere nei consigli, da portare in vetrina al posto delle fumose rivendicazioni sovraniste. Persino il corpo a corpo contro gli immigrati sembra dimenticato. Non è più né una bandiera né una priorità. Paga poco, non tanto perché la vittoria governativa sul barbaro invasore non si vede, ma perché al Nord gli stranieri servono come il pane, in fabbrica, nell’edilizia, ovunque, al punto che l’assessore lombardo Guido Bertolaso vola da Milano in Paraguay per arruolare medici e infermieri.
E tuttavia anche l’inchino alla storia risulterà poca cosa se Salvini non riuscirà a smentire la sensazione che la sua Lega sia ruota di scorta di una destra che la sottostima e non la rispetta.
L’esodo dei quadri, oltre il velo del rimpianto per i bei tempi, è soprattutto una questione di potere. Nessuno si sognava di dire addio al Capitano di cinque anni fa, piazzato al 34 per cento, anzi la corsa era in direzione opposta: da FI e FdI verso il Carroccio in massa, di gran carriera, senza contestazioni per “fasci e svastiche” degli alleati europei – come hanno scritto di recente i dissidenti interni – e anzi esaltati dalla prospettiva di una Lega proiettata verso la maggioranza relativa e il ribaltone continentale.
Questo tipo di sentimento mica lo riattivi con i ricordi: servono posti e voti. Serve la dimostrazione di contare qualcosa nel governo. Serve una vittoria di palazzo che cancelli il timore dell’irrilevanza. Insomma, serve l’ultimo sì della Camera all’Autonomia differenziata, subito, prima delle elezioni Europee, in modo da poterla sventolare in tempo utile davanti al popolo del Nord che chiede una prova di efficacia. Anche per questo la nostalgia dei bei tempi a cui Salvini ha ceduto rischia di trasformarsi in una trappola: senza quel sì – promesso dagli alleati per fine aprile, ma vai a vedere come finirà – cosa racconterà ai molti, nostalgici o non nostalgici, che si sono stufati di lui?
(da La Stampa)
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Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA DEL CORRIERE DELLA SERA
Qualcuno ricorda il Cara di Mineo? Originariamente si chiamava «Residence degli Aranci», a 50 km da Catania, con 404 abitazioni di 160 metri quadrati ciascuna, dotate di 3-4 camere da letto e fino a 3 bagni. Era stato costruito dalla società Pizzarotti, una delle principali imprese di settore italiane, per le famiglie dei marines di stanza alla base americana di Sigonella. Nel 2011, scaduto il contratto di affitto, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro dell’Interno Roberto Maroni, lo hanno ribattezzato «Residence della solidarietà», per dare una collocazione alle migliaia di migranti accalcati sull’isola di Lampedusa. Così il 2 marzo 2011 viene requisito dal prefetto Giuseppe Caruso (qui pag. 11), trasformato in un centro per richiedenti asilo, e la gestione affidata al consorzio Sol. Calatino Terra d’Accoglienza, ente pubblico formato da un raggruppamento di comuni del comprensorio.
È stato un disastro. Le 34 etnie presenti, mischiate in un unico luogo, hanno innescato situazioni drammatiche di conflittualità. Contro una capienza del centro di 3 mila persone sono stati ammassati fino a 4 mila migranti, con punte di 5 mila, e tempi di attesa alle loro richieste d’asilo che sforavano i 3 anni. Una gestione funzionale alle infiltrazioni criminali che reclutavano nel giro delle prostituzione le donne appena arrivate, e fornivano abbondante manovalanza in nero per la raccolta delle arance. Si sono aperti processi per turbativa d’asta e corruzione, il centro commissariato e poi definitivamente chiuso nel 2019 da Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno.
L’imprenditore scende in campo
Su Lampedusa i migranti continuano a sbarcare, mentre le navi delle Ong vengono dirottate lungo i porti italiani. Né pare risolutivo l’accordo di parcheggiare 3 mila migranti nei centri albanesi (vedi Dataroom del 25 marzo). Lo scorso novembre il presidente della società Paolo Pizzarotti, proprietaria del «Residence degli Aranci», si rivolge alla Presidenza del Consiglio, e ai ministri dei Trasporti, Interno, Difesa ed Economia: «Se è di vostro interesse riaprire il centro di Mineo la nostra società è disponibile a gestirlo in prima persona, con all’interno laboratori artigiani, industriali e agricoli: 100 corsi complessivi della durata di 100 ore a corso per formare ogni anno 2.500 richiedenti asilo».
Il progetto è dettagliato ed indica i costi di affitto e gestione: 23 milioni l’anno. Più l’impegno ad assumere nei propri cantieri 400 migranti per il 2024, 400 per il 2025, e altri nell’indotto. Ad oggi la proposta di Pizzarotti non ha avuto alcuna risposta
La manodopera che non si trova
Dai dati presentati da Unioncamere, solo tra febbraio e aprile 2024 le nostre imprese hanno bisogno di 24.450 fonditori, saldatori, lattonieri e carpentieri: il 70% non si trova; 29.190 meccanici artigianali, montatori, riparatori e manutentori: difficoltà a trovarne il 69,8%; come il 62,9% dei 18.090 operai specializzati richiesti e il 62,3% dei 66.320 autisti necessari. Nella ristorazione servono 178.460 camerieri e baristi: il 56,8% manca. E il lungo elenco continua con il personale nei servizi di pulizia, costruzioni, manifattura, commessi, ecc.
Utilizzo dei richiedenti asilo
Eppure ogni anno abbiamo 80 mila richiedenti asilo. Si potrebbe attingere lì, visto che dopo 2 mesi dalla presentazione della richiesta per la protezione internazionale per legge possono lavorare. Il problema è che vanno formati, e in Italia un programma di formazione-lavoro è possibile solo per chi ha ottenuto il diritto d’asilo, e l’iter burocratico può durare anche 2 anni. Durante questo limbo i migranti vengono reclutati nel mercato del lavoro nero, o dalla criminalità per finire nel giro della prostituzione e dello spaccio.
La legge non ha mai previsto che nei centri di prima accoglienza ci fossero programmi per l’inserimento lavorativo (decreto legislativo 142/2015, art.10). E con il decreto-legge Cutro del marzo 2023 («Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare» D.L. 20/2023, art. 6-ter) vengono eliminati anche i corsi di lingua italiana, che per le imprese è un requisito fondamentale, e perfino i servizi di accompagnamento e iscrizione agli uffici del lavoro
Le iniziative dei privati
Per lo Stato il richiedente asilo è più un problema che una risorsa utilizzabile, e quindi restano solo le iniziative isolate. Le Agenzie per il Lavoro associate ad Assolavoro, e finanziate dalle imprese, offrono la possibilità di seguire corsi di lingua italiana e di formazione professionale per operatori socioassistenziali, saldatori e carpentieri. I partecipanti possono chiedere il rimborso per le spese di vitto e alloggio e hanno diritto a ricevere 3,50 euro per ogni ora di formazione. Al termine del corso ricevono un’indennità una tantum di mille euro. Tra il 2022 e il 2023 sono stati formati in 4.500 tra richiedenti asilo e rifugiati. Nello stesso periodo di tempo, grazie all’incrocio della domanda con l’offerta fatto da Assolavoro, oltre 30 mila migranti hanno avuto accesso a una occupazione con la retribuzione e i diritti tipici del lavoro dipendente. C’è poi il programma Welcome dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite, che ha avviato in Italia oltre 30 mila itinerari di inclusione lavorativa in 7 anni. Nel 2022 hanno aderito 167 imprese, ed hanno dato un’occupazione a 9.300 migranti, principalmente nel settore alberghiero e ristorazione (il 23%), nelle attività manifatturiere (22%), e quello delle costruzioni (7%).
Infatti i numeri di Unioncamere parlano da soli. E la conseguenza della mancanza di un piano organico per l’ingresso nel mondo nel lavoro dei migranti e dei richiedenti asilo favorisce solo il mercato del lavoro illegale, con un danno per l’intera società.
Il modello tedesco
Anche in Germania le aziende hanno un enorme fabbisogno di manodopera, ma si sono organizzati in modo totalmente differente: migranti e richiedenti asilo, a partire da 3 mesi dall’arrivo sul suolo tedesco, partecipano all’Ausbildung, il sistema di formazione professionale tedesco che dura dai due ai tre anni e mezzo e prepara per 330 professioni con un costo a tirocinante di 15.300 euro all’anno. Una spesa sostenuta quasi interamente dalle imprese private, mentre lo Stato contribuisce con 600 euro. Oggi sono in 40.329 i partecipanti a questo programma. Previsto anche un Ausbildungsduldung, un permesso speciale che consente di rimanere in Germania per la durata della formazione e potenzialmente più a lungo
Quanto paga la formazione
Non tenere i migranti parcheggiati nel nulla pagherebbe anche in Italia. Tra il dicembre 2019 e il luglio 2021, all’interno del progetto Forwork – finanziato dalla Commissione Europea, coordinato dall’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (soppressa il 1° marzo 2024) insieme con la fondazione Debenedetti – sono stati reclutati nei centri di prima accoglienza del Piemonte 1.262 richiedenti asilo
Metà di loro vengono inseriti in corsi di 20 ore con formatori che li aiutano a preparare un curriculum per valorizzare le loro competenze, presentarlo e entrare in contatto con potenziali datori di lavoro.L’altra metà, come d’uso, non viene coinvolta in alcun progetto.
I partecipanti sono per il 77% maschi, con un’età media di 27 anni, che hanno frequentato 9 anni di scuola nel loro Paese d’origine (Asia e Africa per la quasi totalità dei casi). A distanza di un anno e mezzo l’esito è questo: il 50% di chi ha seguito il corso si è inserito nel mondo del lavoro, contro il 30% degli altri.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)
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Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
E ALLORA SI ACCONTENTA DI ORGANIZZARE UN BLITZ ALLA CONVENTION DEI REPUBBLICANI A MILWAUKEE: PRESENTARSI E SPERARE IN UNA STRETTA DI MANO E UNA FOTO… IL DEPUTATO PAOLO FORMENTINI È INCARICATO DI TESSERE UNA RETE DI RELAZIONI CON LA GALASSIA “MAGA”. PER ORA, IL CARROCCIO HA AGGANCIATO SOLO PERSONAGGI MINORI
Oltreoceano, lungo la linea che corre da Washington a Mar-a-Lago, gli uomini di collegamento tra il Partito repubblicano e la politica italiana assicurano che l’agenda di Donald Trump sia così fitta, da qui alle elezioni presidenziali di novembre, da rendere quasi impossibile l’organizzazione di una chiacchierata con il vicepremier italiano Matteo Salvini. Una questione di tempo, ma anche di correttezza istituzionale verso la premier, Giorgia Meloni.
L’agenda del leader della Lega, invece, dopo le Europee dell’8 giugno è ancora vuota. E allora, l’idea capace di stuzzicare Salvini potrebbe essere quella di organizzare un blitz: una delegazione leghista che partecipi alla convention del Partito repubblicano americano che si terrà a Milwaukee, nel Wisconsin, dal 15 al 18 luglio, e lì, in uno spazio di pochi minuti, riuscire ad avere una foto e una stretta di mano con Trump.
Non sarebbe gran cosa, ma molto di più di quanto abbia ottenuto nel 2016, quando si presentò negli States alla corte del tycoon, che forse non riconoscendolo si rifiutò di stringergli la mano. Per far sì che l’ex presidente Usa abbia ben a mente con chi si sta facendo fotografare, il leader della Lega avrebbe incaricato il deputato Paolo Formentini di iniziare a tessere una rete di relazioni con la galassia Maga (dallo storico slogan di Trump “Make America great again”), nominandolo di recente – di fatto – il nuovo responsabile Esteri del partito.
Formentini è vicepresidente della commissione Affari esteri e consigliere della Fondazione Italia-Usa, come il senatore Andrea Paganella, uno degli uomini storicamente più vicini a Salvini, anche lui da tempo attivo sull’altra sponda dell’Atlantico.
La rete di relazioni costruita fin qui ha portato a gravitare intorno alla Lega due ex funzionari dell’amministrazione Trump: Matt Mowers, ex consigliere senior dello studio ovale presso il Dipartimento di Stato, e Joe Grogan, ex direttore del Consiglio per le politiche interne della Casa Bianca. Mower e Grogan sono i fondatori del think tank “Eu-Us Forum”, nato solo poche settimane fa, ma già in grado di finanziare in Italia una campagna pubblicitaria da 250 mila euro contro le «politiche europee che vogliono distruggere la civiltà occidentale» e sponsorizzare su una terrazza romana la festa notturna dei sovranisti europei di Identità e democrazia, riuniti nella Capitale dalla Lega sabato 23 marzo.
Quel giorno, sul palco e in platea, gravitano intorno a Salvini una serie di personaggi minori della galassia Maga. C’è l’imprenditore farmaceutico Vivek Ramaswamy, ex candidato alle primarie repubblicane, poi ritiratosi per sostenere la corsa di Trump e un fautore della «deportazione di massa» dei migranti.
Ma a Roma ci sono anche influencer come Ashley St. Clair, attivista anti-transgender già invitata a un evento dei sovranisti a Firenze alcuni mesi fa, e Chaya Raichik, anche lei attivista anti-Lgbtq+, che ha pubblicamente difeso Salvini sui suoi canali social perché «sotto processo per aver tentato di fermare l’immigrazione di massa in Italia». Era in platea anche Terry Schilling, capo del network conservatore “American Principles Project”, dove trovano sfogo varie teorie complottiste, e insieme a lui c’era Dana Loesch, ex portavoce della National Rifle Association (la lobby delle armi).
Sono anche loro quelli che, nei piani leghisti, dovrebbero iniziare a far girare il nome di Salvini nel mondo trumpiano
(da La Stampa)
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Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
OGNUNO HA LE SUE BUONE RAGIONI PER OPPORSI AL DUO DI COFANE BIONDE, CHE NEGLI ULTIMI MESI SONO DIVENTATE INSEPARABILI, AUTO-ISOLANDOSI DALL’EUROPA CHE CONTA
Una nuova alleanza. In grado di determinare i rapporti di potere all’interno dell’Unione Europea. Di scegliere i nuovi vertici dell’Ue, a cominciare dalla Commissione, di ridimensionare le chance a favore di un bis di Ursula von der Leyen ed emarginare la destra, compresa quella di Giorgia Meloni.
Il “Triangolo di Weimar”, il gruppo di cooperazione tra Francia, Germania e Polonia, sta diventando qualcosa di più di un semplice accordo di collaborazione. Un patto per guidare e orientare politicamente l’Unione nel prossimo futuro. Con poche simpatie per l’attuale squadra di comando di Palazzo Berlaymont e molti sospetti nei confronti del governo Meloni.
Se meno di due anni fa nasceva sul treno verso Kiev il “Triangolo Draghi-Macron-Scholz”, quell’intesa è ormai dimenticata e l’Italia non fa più parte del blocco di leadership europeo. Un ridimensionamento consistente per Roma.
Non è un caso che il Triangolo di Weimar sia tornato a riunirsi dopo una pausa di oltre tredici anni. Il presidente francese, il Cancelliere tedesco e il nuovo premier polacco Tusk hanno rispolverato un vecchio accordo proprio per creare in Europa un nuovo equilibrio. In primo luogo sulla guerra in Ucraina, ma il patto si sta spostando a tutto il resto.
Un “feeling” che prende spunto dalla circostanza che la Polonia sta diventando un punto di riferimento della Nato in Europa. Basti pensare che è tra i pochi partner che rispettano il contributo del 2 per cento del Pil per le spese militari. Varsavia è addirittura al 3,92 per cento. Più degli Usa. E non è un caso che la settimana scorsa i ministri degli Esteri dei tre paesi abbiano firmato un editoriale con un chiaro obiettivo: fermare il fronte pro-Putin delle destre del Vecchio Continente. «Non possiamo permettere alcuna “zona grigia”», scrivevano il 3 aprile scorso.
I governi di Parigi, Berlino e Varsavia stanno diventando dunque la traslazione plastica della maggioranza europeista che fino ad ora ha prevalso nell’Europarlamento: Liberali, Socialisti e Popolari. Con poca simpatia nei confronti di Ursula von der Leyen. Per motivi diversi. Il presidente francese, che l’aveva indicata cinque anni fa, si sente tradito dalle sue ultime mosse e ritiene che per affrontare i prossimi cinque anni serva un candidato più “pesante”. Addirittura all’ultimo Consiglio europeo aveva delineato l’identikit di un “tecnico”.
Il Cancelliere, in qualità di leader della Spd, non è pronto a fare le barricate per la sua connazionale e sa che senza di lei può concedere ai suoi alleati Verdi una poltrona da Commissario Ue. Il premier polacco non sopporta le concessioni fatte dalla Commissione ad alcun leader di destra, in primo luogo Meloni, che non hanno ambiguamente tagliato i rapporti con i fronti filorussi, in particolare quello dell’ungherese Viktor Orban.
La presidente della Commissione ha iniziato così a capire che la linea seguita fino ad ora sta compromettendo la corsa alla conferma. Ieri, allora, ha aperto la campagna elettorale in Grecia con il premier popolare di Atene Mitsotakis.
«Gli amici di Putin qui in Europa – ha sottolineato – stanno cercando di riscrivere la nostra storia e di sabotare il nostro futuro, come populisti o demagoghi, che si tratti dell’AfD in Germania o del Rassemblement National in Francia, di Konfederacia in Polonia o altri: i nomi possono essere diversi ma il loro obiettivo è lo stesso, calpestano i nostri valori e vogliono distruggere la nostra Europa. Non permetteremo mai che accada».
Ma il feeling con la presidente del Consiglio italiano si sta rivelando controproducente. E infatti Antonio Tajani, ministro degli Esteri influente tra i popolari europei, inizia a usare prudenza: «Il Ppe ha votato al congresso, e suggerisce il nominativo di Ursula von der Leyen. Ma per il trattato non esiste ancora un candidato. È molto presto per capire come andranno a finire le cose».
E Giorgia Meloni sta comprendendo che potrebbe non essere più il cavallo vincente. E anzi che il processo della sua emarginazione nelle procedure decisionali di Bruxelles sta diventando allarmante. Le recenti proteste dell’Eurocamera nei confronti degli accordi siglati con la Tunisia e l’Egitto nell’entusiasmo della leader di Fdi sono stati solo l’ultimo avvertimento.
(da la Repubblica)
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Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
FINO A 200.000 EURO, MA IL SEGGIO PUO’ VALERE ANCHE 3 MILIONI
C’è più di un motivo se in queste settimane i sondaggi sulle elezioni europee di giugno vengono analizzati febbrilmente nelle segreterie di partito e dai diretti interessati. Il costo della campagna elettorale dei candidati è alto e spesso ricade sui singoli, non potendo i partiti coprire le spese di tutti gli aspiranti europarlamentari. E così il posizionamento in lista, alla luce dei predetti sondaggi, diventa fondamentale per capire se quelle spese verrano poi ripagate dalla conquista del seggio. Il Messaggero nell’edizione odierna mette in fila lo stipendio, i rimborsi e gli altri benefit dovuti ai deputati dall’Eurocamera, che aiutano a capire perché a due mesi dal voto i candidati danno così peso ai candidati per capire se valga la pena auto-finanziarsi la campagna elettorale in giro per i vaste circoscrizioni elettorali, con la concreta possibilità di essere poi eletti. Secondo il quotidiano romano, per sostenere una corsa al seggio con qualche possibilità di vittoria costa dai 50mila euro in su. Come si diceva, i partiti coprono per intero le spese solo per i big, mentre gli altri devono provvedere da soli.
Tante le voci da mettere in conto: lo staff, l’affitto delle sedi elettorali, la comunicazione via social e non solo, realizzazione e diffusione degli spot, l’affissione dei cartelloni elettorali, le cene e i banchetti – che servono anche a raccogliere donazioni.
Ma poi bisogna aggiungere le spese per la macchina (almeno una) con la quale girare il collegio elettorale per partecipare agli eventi, farsi vedere, farsi conoscere e riconoscere.
Secondo Il Messaggero, provare a vincere il seggio può costare fino a 200mila euro. Ma indebitarsi momentaneamente, con la sicurezza o quasi della rielezione, può non essere una cattiva idea dal momento che poi all’Europarlamento stipendio e altri benefit permettono di ripagare lo sforzo.
Stipendi e benefit dell’Europarlamentare
L’europarlamentare prende uno stipendio lordo di 10mila euro, con aliquota fiscale agevolata che porta a un netto di 7.850 euro mensili, ai quali si aggiungono 4.950 euro per le spese generali e 350 euro a presenza. I lavori tra Strasburgo e Bruxelles procedono per cinque giorni a settimana, tre settimane al mese agosto escluso. Il totale della diaria sale a 5.250 euro, e il compenso netto per ciascuno è di 18.050. Vi sono poi altre voci che consentono all’europarlamentare di coprire i costi degli spostamenti, quelli dello staff, la palestra. Si tratta di 27.800 euro per avere tre assistenti a Bruxelles, 2.630 mensili per le spese di attività, altri 400 per le trasferte fuori dal Paese di elezione per motivi diversi dalle visite ufficiali, il rimborso totale dei viaggi verso il Belgio. A questo si aggiunge la possibilità di inviare 110 visitatori l’anno nelle sedi dell’Europarlamento, 540 euro a testa, per far conoscere le istituzioni dell’Unione Europea. In tutto, fa i conti Il Messaggero, l’elezioni può valere fino a 3 milioni, garantiti, nei cinque anni di legislatura.
(da il Messaggero)
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Aprile 8th, 2024 Riccardo Fucile
IL CONFLITTO DI INTERESSI IN RAI E LE SFILATE DEI MINISTRI
Stasera Corrado Formigli e Alberto Nerazzini debuttano con 100 minuti su La7. Si parte con l’inchiesta “Roma città aperta” sulle mafie nella capitale. Il format prevede un unico ospite: questa sera il primo sarà Nicola Gratteri, procuratore di Napoli. E oggi in un’intervista a La Stampa il conduttore di Piazzapulita parla del veto di Fratelli d’Italia e della Lega: «Lo hanno emesso Giorgia Meloni e Matteo Salvini». Mentre in Rai «con la riforma delle strutture approvata durante il governo Draghi, la responsabilità dei programmi è passata ai direttori delle macrostrutture che sono trasversali alle reti. Questo ha cancellato riserve indiane come Rai 3 dove si faceva un’informazione diversa».
Il divieto
Formigli spiega come funziona il divieto di FdI e del Carroccio: «Dai ministri ai consiglieri dei comuni più piccoli, se qualcuno vuole partecipare al mio programma deve prima chiedere il permesso dell’ufficio comunicazione dei partiti. E l’ufficio blocca la loro partecipazione impedendo alle persone il diritto di esprimersi. In Lega e Fratelli d’Italia si intende la comunicazione decidendo di andare dove vogliono loro, parlando quando vogliono loro e rifiutando di andare in contesti in cui non c’è il tappeto rosso. A me sembra una truffa, un esempio di enorme arroganza da parte del potere ai danni dei cittadini che non vengono informati in modo corretto e libero come è loro diritto».
Le Europee
Mentre riguardo la campagna elettorale delle elezioni europee «un’anticipazione l’abbiamo avuta prima delle elezioni in Abruzzo quando tanti ministri sono andati a spese dei contribuenti a inaugurare strade e a visitare scuole: gli italiani hanno pagato la campagna elettorale del centrodestra. Siamo di fronte a una vera emergenza con leader che non si confrontano, ministri che si scandalizzano se li aspetti per strada per fare una domanda. È tutto irregimentato ma non c’è bisogno di far parlare loro per fare informazione».
Il conflitto d’interesse
Anche se Berlusconi non c’è più l’ex inviato di Michele Santoro dice che il problema del conflitto d’interesse è ancora presente: «Bisogna partire da un presupposto: in Italia esiste un’anomalia che si accentua con la destra al governo. Le tre reti private di Mediaset fanno riferimento a Forza Italia e al centrodestra. Quando chi governa si prende anche la Rai – e mai se l’è presa con tanta ingordigia come sta accadendo adesso eliminando qualsiasi voce dissenziente – ci troviamo di fronte a sei reti che fanno riferimento al governo. A questa situazione di base va aggiunto che la par condicio, una legge di per sé ridicola per qualsiasi giornalista, si è imposta proprio in virtù dell’anomalia italiana».
(da agenzie)
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