Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
OTTIMA SCELTA DI SCURATI: CON I SOVRANISTI I TEMPI DELLE DISCUSSIONI SONO FINITI
A Quarta Repubblica, su Rete 4, si parla del caso legato al mancato intervento di Antonio Scurati a Chesarà, la trasmissione Rai condotta da Serena Bortone, che ha scatenato le polemiche degli ultimi giorni.
Siamo nell’ottobre del 2022 e Porro invia un cronista a chiedere, a margine di un evento, un commento a Scurati, che ha già pubblicato i primi tre volumi della trilogia M., sul rischio autoritarismo in Italia, spauracchio ricorrente agitato da sinistra. “Vorremmo chiederle se rischiamo un ritorno del fascismo”, afferma il giornalista con l’autore che appare infastidito. “No grazie”.
“Ma ha paura per il futuro dell’Italia?”, insiste il cronista. “Non l’ho mai detto e non c’è bisogno di chiarire. Non con voi, non ho stima per il vostro lavoro”, è la replica gelida di Scurati.
Alle insistenze dell’inviato di Porro, lo scrittore rimarca: “Leggete i miei libri per conoscere la mia versione. Vi è piaciuto? A me non piacete voi”.
“La cosa che mi rode – afferma Porro – è che Alessandro Sallusti (ospite in collegamento della trasmissione, ndr) mi fece pubblicare una recensione dii M. che mi piacque moltissimo, e da giurato dello Strega l’ho pure votato… Per parlarne con Scurati mi sono beccato questo…”.
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Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
GIORGIA MELONI SI LIMITERÀ A ESSERE AL FIANCO DI SERGIO MATTARELLA ALL’ALTARE DELLA PATRIA, MATTEO SALVINI PRESENTERÀ IL SUO LIBRO A MILANO, IL COGNATO D’ITALIA, FRANCESCO LOLLOBRIGIDA, PER EVITARE DI INCAPPARE NELLE SOLITE GAFFE, È VOLATO A BARCELLONA… QUANDO, NEL 2018, LA DUCETTA FACEVA IL VERSO A “BELLA CIAO”: “O PARMIGIANO PORTAMI VIA”
Ormai è un tic, un’abitudine, se non una strategia: le feste della democrazia — 25 aprile, Primo maggio — sono ritenute un patrimonio della sinistra e dunque da salutare senza troppo clamore. Da celebrare con il minimo sindacale, parlando di cose diverse, facendo altro, magari organizzando contro-appuntamenti. Va così, nella maggioranza di governo di centrodestra.
Stavolta tocca a Matteo Salvini aprire le festività a modo loro dei leader: a Milano, in una libreria a presentare il suo volume “Controvento”, non molto lontano da dove partirà — alla stessa ora di domani — il corteo per la Liberazione.
«Scelta non casuale che poteva evitare», dice il sindaco Giuseppe Sala. Una scelta forse anche rischiosa, che ha acceso il dibattito: aveva già protestato l’Associazione dei partigiani, per cui «una parte del governo non riconosce il 25 aprile»». E si unisce Cecilia Strada, capolista del Pd alle Europee, il leader della Lega mostra «uno scarso senso delle istituzioni ma anche uno scarso senso di rispetto per Milano, città medaglia d’oro della Resistenza».
È un copione che si ripete: l’anno scorso, in questo periodo, il presidente Ignazio La Russa ricordava che nella Costituzione non c’è la parola «antifascismo» e a Praga omaggiava Jan Palach, simbolo di una storia diversa, quella dove i cattivi sono i sovietici, «in un ripudio — si badi — delle aberrazioni di tutti i totalitarismi ».
E Giorgia Meloni? Si limiterà, come l’anno scorso, all’omaggio sotto l’Altare della Patria, al fianco del Capo dello Stato Sergio Mattarella. La premier, d’altronde, già nel 2015 diceva che la Liberazione «è una festa fatta per dividere non per unire» e aggiungeva con fierezza che lei preferiva celebrare il 24 maggio, e farlo sul Piave, «dove tanti italiani sono morti per la nostra terra ».
Gli altri dirigenti di FdI tagliano corto ma non danno troppo peso alla festa: «Dove sarò il 25 aprile? A Pescara, a montare il palco dell’assemblea del nostro partito», dice il responsabile organizzativo Giovanni Donzelli. «Questa sull’antifascismo — aggiunge Donzelli — è una polemica puntualmente sollevata dalla sinistra per motivi elettorali. Ma mi sembra che in Basilicata non sia servita a molto…». Va detto che un ministro proveniente da un’altra cultura, come Antonio Tajani, sarà alle Fosse Ardeatine. Mentre Gennaro Sangiuliano farà visita al museo di via Tasso. Ma i leader della Destra non deflettono dalla loro posa disincantata.
Non festeggerà la Liberazione il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Quanto meno non lo farà in Italia. È volato anche quest’anno a Barcellona, per essere alla fiera internazionale del settore ittico e alla presentazione della festa del brodetto marchigiano. Il 25 potrebbe essere libero da impegni, tornare a Roma, ma in ogni caso si tratterrà in Spagna. Non avrebbe appuntamenti istituzionali nemmeno la ministra del Turismo Daniela Santanchè.
Né quello dello Sviluppo economico Adolfo Urso, che però annuncia, per l’11 giugno, la presentazione di un francobollo per ricordare i cento anni dalla morte di Matteotti. Il ministro della Cultura Sangiuliano sarà invece al Museo della Liberazione, a Roma, mentre il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, parteciperà a una cerimonia a Frosinone.
Tornerà nella sua Treviso, come ogni anno, il Guardasigilli Carlo Nordio, per «festeggiare la Liberazione». Ma, ricorda, «abbiamo ancora un codice penale fascista che gode di buona salute, mentre il codice intitolato a un eroe della Resistenza come Vassalli è stato demolito: un altro paradosso del nostro Stato».
(da agenzie)
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Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
AL SACERDOTE DMITRY SAFRONOV, CHIERICO A MOSCA, È VIETATO IMPARTIRE BENEDIZIONI, INDOSSARE LA TONACA E PORTARE LA CROCE SACERDOTALE DELLA CHIESA FINO AL 2027
Il capo della Chiesa ortodossa russa, il Patriarca Kirill, ha imposto una sospensione di tre anni al sacerdote che ha tenuto una funzione commemorativa sulla tomba di Alexey Navalny alla fine di marzo, 40 giorni dopo la morte. Lo riporta Meduza.
Al sacerdote Dmitry Safronov, chierico della Chiesa dell’Intercessione della Santa Vergine sulla collina di Lyschikova a Mosca, è ora vietato impartire benedizioni, indossare la tonaca e portare la croce sacerdotale della chiesa fino al 2027, quando il suo futuro sarà rivalutato, ha decretato Kirill.
L’ordine del Patriarca non spiega perché lo abbia sospeso dal condurre le funzioni.
(da agenzie)
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Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
IN 22 OSPEDALI ITALIANI LA PERCENTUALE DEL PERSONALE SANITARIO CHE SI OPPONE È AL 100% …DAL 2020 LA SOMMINISTRAZIONE DELLA PILLOLA RU486 È POSSIBILE ANCHE NEI CONSULTORI, MA SOLO TRE REGIONI LA GARANTISCONO. MANCO L’UNGHERIA DI ORBAN
A 46 anni dall’approvazione della legge 194, abortire in Italia è ancora difficile. A parlare sono i dati: in primis quelli relativi all’obiezione di coscienza, cioè a quei sanitari che si rifiutano, per motivi etici, di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) a una paziente entro i primi 90 giorni di gestazione come previsto dalla legge. Nel nostro Paese, secondo i dati del ministero della Salute relativi al 2021 (gli ultimi disponibili diffusi a ottobre 2023), lo sono il 63,4% dei ginecologi, il 40,5% degli anestesisti e il 32,8% del personale non medico.
Addirittura, come si legge nella ricerca dell’Associazione Luca Coscioni “Mai Dati”, in 22 ospedali (e quattro consultori) italiani la percentuale di obiettori tra il personale sanitario è del 100%. Nel nostro Paese l’Ivg è possibile sia chirurgicamente, sia farmacologicamente (dal 2009) con l’assunzione in due dosi della pillola Ru486. Dal 2020, poi, con l’aggiornamento delle linee guida da parte dell’allora ministro della Salute Roberto Speranza, la somministrazione è possibile anche nei consultori e non solo in ambito ospedaliero. Di fatto, però, solo tre regioni la garantiscono in maniera omogenea: Emilia Romagna – verso cui si dirigono anche donne provenienti da Lombardia e Trentino – Lazio e Toscana.
Un focus sui dati 2022 della Lombardia dice che in 12 strutture su 50 l’accesso alla Ru non è garantito. Sul totale delle Ivg del 2022 (11.003) il ricorso alla pillola è stato in media del 40% con province ancora sotto il 20%. […] Quanto al Piemonte, quasi un medico su 2 è obiettore e, nell’ottobre 2020, la giunta regionale di centrodestra ha diramato una circolare sull’aborto farmacologico che vieta ai consultori di somministrarlo, in dissenso con le indicazioni ministeriali. In Veneto è obiettore oltre il 71% dei sanitari: 252 i ginecologi su un totale di 352.
Com’è, invece, la situazione al Centro-sud? «Pessima» risponde Marina Toschi, umbra, ginecologa: ci sono aree come la Puglia, l’Abruzzo e la Sicilia dove oltre l’80% dei ginecologi si dichiara obiettore.
Nel Lazio la percentuale di strutture che effettuano l’interruzione di gravidanza è il 45,5%, meno della metà. In Molise il 33,3%, un terzo. E in Campania, il 26,2%, vale a dire una su 4. Non va meglio altrove: si va dal 69,2% dell’Abruzzo al 50% della Sicilia o il 65,6% della Puglia. Così si ricava una mappa delle regioni dove i ginecologi non obiettori hanno un carico di lavoro eccessivo: in Abruzzo, ciascuno effettua 2 Ivg in media a settimana, in Molise 2,8, in Puglia 2,1 e in Campania 2,4 con un valore massimo per singola struttura che arriva a 11,8 in Abruzzo, a 10,4 in Campania e a 13,4 in Sicilia.
E quanto si aspetta? In Calabria più di 28 giorni nel 12,4% dei casi. In Sicilia, nell’8,6% dei casi da 22 a 28 giorni e nel 21,6% da 15 a 22. Ancora, in Basilicata il 2,8% delle donne effettua un aborto oltre le 21 settimane di gestazione, l’1,9% in Puglia e l’1,8% in Sicilia. Un altro indicatore importante riguarda gli spostamenti: le donne dovrebbero poter abortire nella provincia e nella regione di residenza.
Invece quasi un’interruzione di gravidanza su 3 effettuata da residenti della Basilicata avviene al di fuori della regione e una su quattro nel caso del Molise, cifre molto superiori alla media nazionale che è dell’8%. Sono 9 le province italiane in cui oltre la metà delle interruzioni avviene al di fuori della provincia. Nessuna si trova a Nord di Fermo, nelle Marche. Oltre a Fermo ci sono Oristano, il sud della Sardegna, Chieti, Frosinone, Salerno, Vibo Valentia, Enna e Caltanissetta. «In Calabria non trovi un posto dove fare un aborto nemmeno per errore – aggiunge Toschi – in Sardegna si praticano troppi raschiamenti, in Basilicata la situazione è difficile, in Sicilia non c’è possibilità di aborto farmacologico. È una lotta continua, ci si affida al buon cuore dei pochi che ancora lavorano in un clima che è sempre più ostile».
(da La Stampa)
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Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
IL CANDIDATO NON PAGO’ IL CONTO PER UN EVENTO DI 615 INVITATI PROMETTENDO AIUTI AI PROPRIETARI (CHE POI NON SONO ARRIVATI)
Davide Bordoni è il segretario generale della Lega nel Lazio. Ma è anche il candidato di punta alle elezioni europee del Carroccio per la circoscrizione Centro. Oggi però c’è su di lui un’indagine. Che ipotizza il reato di finanziamento illecito. E che parte da una cena elettorale celebrata allo Shilling di Ostia.
L’8 luglio 2021 nel locale del litorale ci sono 615 invitati. Il titolare sta cercando il rinnovo della licenza per gli intrattenimenti danzanti nel 2021. «Dal contenuto dei messaggi scambiati tra i due risulta che il proprietario dello stabilimento si rivolga a Bordoni per cercare di risolvere il problema di rilevanza economica per l’imprenditore», si legge in un’informativa della polizia.
Le date
Ci sono due date coincidenti nell’indagine, rivelata oggi dall’edizione romana di Repubblica. La richiesta a Bordoni è questa: «Serve più che mai una parola giusta al direttore». Ma la pratica non si sblocca. E qui arriva il colpo di scena: «L’imprenditore richiede a Bordoni di saldare il conto dell’evento dell’8 luglio 2021 solo dopo la notifica avversa (per la discoteca, ndr) e l’esito non favorevole delle amministrative».
(da agenzie)
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Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
LA SITUAZIONE PARTITO PER PARTITO
Le elezioni Europee saranno decisive per gli equilibri dentro le coalizioni. Il Pd stanzia 1,5 milioni di euro e prova un modello americano di micro-donazioni. I 5S sfruttano il 2×1000. Fdi ha tanti soldi, e spenderà 3 milioni. Forza Italia si regge sull’aiuto della famiglia Berlusconi e di Letizia Moratti. Salvini si gioca tutto: ogni eletto dovrà versare 30.000 euro.
Queste elezioni europee sanno di elezioni politiche. Il tema non è mica l’Unione europea, ci mancherebbe, non osiamo scherzarci su. E nemmeno la competizione fra le coalizioni di centrosinistra (quale?) e centrodestra. Il tema, anzi i temi sono endogeni: chi prevarrà fra il Pd di Elly Schlein e i Cinque Stelle di Giuseppe Conte; chi sarà il secondo azionista di governo fra la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Antonio Tajani più famiglia Berlusconi; in che direzione spira il consenso per Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Tutti presupposti che impongono una campagna elettorale in grande stile o comunque con grandi spese. Dopo un decennio di morigeratezza, è il dato nuovo, i partiti tornano a investire molti soldi per la propaganda. Anche quella classica, ormai vintage, dispiegata su piazze, manifesti, cartelloni. Ovviamente qui parliamo di decine di milioni di euro non di centinaia com’era abitudine, debiti mostruosi compresi, prima che il governo Letta abrogasse i rimborsi pubblici (2013). Il meccanismo delle donazioni attraverso il due per mille con la dichiarazione dei redditi, introdotto dal medesimo governo Letta, è sempre più diffuso e incisivo. Nel 2015 valeva 11,7 milioni di euro. Lo scorso anno ha superato i 24 milioni.
Le risorse per la politica sono in crescita. Con una precisazione: i partiti non possono e non vogliono supportare la campagna elettorale dei candidati europei, tranne in rari casi non offrono servizi o dislocano personale (che peraltro non esiste). Il candidato ideale è Letizia Moratti che, oltre a contribuire al partito nazionale, e di recente l’ha fatto pure il figlio Gabriele, può pagarsi l’intera campagna elettorale. Il limite di legge è 52 mila euro a candidato più 0,01 euro per gli abitanti residenti nella circoscrizione. Per esempio per la campagna nel Nord-Ovest con Forza Italia, l’ex sindaca e ministra potrebbe utilizzare altri 160 mila euro per un totale di 212 mila. Questo vuol dire che i segretari di partito dovrebbero vagliare i candidati secondo canoni politici e anche, forse soprattutto, finanziari. Per censo.
Fratelli d’Italia è il partito con più vantaggi: è giovane e di governo. In cassa c’erano 3 milioni di euro secondo l’ultimo bilancio. Più o meno la stessa cifra usata per le Politiche ’22 e stanziata per le Europee ’24. Non ci sono problemi di liquidità. Gli introiti aumentano perché aumenta il numero degli eletti. Il partito fondato da Meloni ha saputo sfruttare il due per mille e ogni anno migliora le adesioni: 3,1 milioni di euro nel ’22, 4,8 milioni nel ’23. La Lega di Salvini ha imboccato un percorso uguale, ma di senso opposto. La decrescita è infelice. Quanto inarrestabile.
La coppia di Leghe, la Salvini premier e il vecchio Carroccio, non arriva a 1,5 milioni con il due per mille. La dispendiosa propaganda del ’22, varata da Salvini per cercare un recupero su Meloni, è costata 5,5 milioni di euro e non ha esaurito i suoi effetti sui conti di Lega Salvini premier: lo scorso anno il disavanzo era di 4 milioni, quest’anno si balla sulla linea del pareggio dopo un massiccio taglio dei costi.
Però Salvini non ha rinunciato a una possente campagna elettorale, è in gioco la sua carriera politica, e dunque la Lega ha chiesto un contributo straordinario agli eletti di 30 mila euro. Non è l’obolo da 3.000 euro mensili che i 95 parlamentari in carica destinano al partito, ma è una forma eccezionale che coinvolge anche i parlamentari europei uscenti e che potrebbe generare ricavi per circa 3,5 milioni di euro.
In teoria. Perché la Lega non applica sanzioni ai parlamentari scarsamente generosi o diversamente salviniani. S’è detto che per Forza Italia il modello è Letizia Moratti. La candidata munifica. Autosufficiente. Non s’è detto che la famiglia Berlusconi, che ha in dote 90 milioni di euro di debito su 100 complessivi, verserà al partito 700/800 mila euro con bonifici individuali dei cinque figli di Silvio più il fratello Paolo e la capogruppo Fininvest. Anche la quasi moglie Marta Fascina, deputata, è chiamata a foraggiare il partito e un mese fa ha versato 40 mila euro (ricordiamo che il tetto fissato dalla legge è di 100 mila euro per i soggetti fisici e 200 mila per i soggetti giuridici). I parlamentari di Forza Italia lasciano una mancia al partito, 900 euro, e non sempre se ne ricordano. Per Forza Italia è il primo voto senza Berlusconi, la sopravvivenza non è più in discussione, ma il comando di Tajani lo è costantemente, perciò si riprende la propaganda sul serio. Tant’è che il partito ha prenotato schermi e spazi nelle stazioni per una comunicazione anni Novanta e ha fregato la concorrenza.
Il tesoriere dem Michele Fina si è ritrovato con due grosse questioni da fronteggiare: i debiti passati e i dipendenti. Le rate per la campagna referendaria di Matteo Renzi (otto anni fa!) terminano tra pochi mesi. I dipendenti rimasti sono 107 (di cui 75 a carico, 5 in distacco, 27 in aspettativa) e, dopo una lunga fase in cassa integrazione, sono con stipendi di solidarietà.
Al Nazareno potrebbero assorbire presto a stipendio pieno 60 dei 75. Il bilancio dem è migliorato e la sua base è solida perché proviene dal due per mille (8,1 milioni). Per la campagna elettorale ci sono 1,5 milioni di euro a disposizione. È una previsione assai cauta. Sarà rivelatore un possibile esperimento con micro-donazioni all’americana, una raccolta fondi tramite l’indirizzario di posta elettronica del Pd che vanta più di 4 milioni di iscritti. I Cinque Stelle vanno alle urne con una struttura da partito. Conte potrà verificare l’efficacia dei responsabili locali e attingere dal serbatoio due per mille. Alle Politiche il comitato elettorale del Movimento aveva dichiarato 417 mila euro di entrate e 379 mila di uscite, numeri minuscoli, senz’altro un residuo del periodo francescano. Adesso ci sono 1,8 milioni di euro ottenuti col due per mille.
La tendenza per i partiti, senza particolari distinzioni, è spendere di più. S’è capito che per fare politica servono soldi. Altrimenti gli interessi non sono altri, ma di altri. Agli Stati generali del finanziamento alla politica italiana, un evento promosso da The Good Lobby e Transparency International, è stato presentato uno studio che fotografa perfettamente questa tendenza: «Nel 2022 il mondo della politica – i partiti e i soggetti terzi collegati – ha ricevuto un totale di 32,172 milioni di euro tramite il meccanismo delle donazioni private. Un incremento significativo – pari al 47,78% – rispetto al 2021, quando la somma totale era di 21,774 milioni di euro. Nel 2020 sono stati donati 23,404 milioni di euro, mentre nel 2019 il totale delle erogazioni ricevute era di 27,155 milioni di euro. Nel 2022 la tendenza al calo dei finanziamenti, registrata dal 2019 al 2021, si è invertita. Nel periodo di rilevamento dei dati, che va dal 2018 al 2022, i contributi ricevuti dai soggetti politici ammontano a circa 128,036 milioni».
Nei bilanci dei partiti si risente la mano statale col due per mille. I partiti vogliono che questa mano sia sempre più accudente. I cittadini se ne accorgono di rado e quindi non protestano. Non funzionano le donazioni dei privati, che siano di militanti o di aziende. Il cortocircuito democratico, invece, è causato dai candidati ricchi che poi diventato eletti ricchi. Come dimostra lo studio i partiti sono degli eletti o, meglio, dell’oligarchia che li seleziona: «Nel 2022 circa il 61,38% dei contributi ricevuti (19,747 milioni di euro) è rappresentato dalle rimesse dei politici eletti. La sostenibilità del sistema, come negli anni precedenti, continua a rimanere appesa alle entrate dei contributi dei parlamentari già eletti in Parlamento. Nel 2022 le donazioni fatte dalle persone fisiche (alcuni imprenditori) ammontavano a 7,13 milioni di euro (22,16%). Le società private hanno donato 4,613 milioni di euro (14,34 %)». Esaurita la stagione populista-pauperista e fallito il soccorso dei privati (timidi) e dei militanti (spariti), i partiti sono pronti a rincasare. La politica è pronta a saltare alla casella di partenza. Viva lo Stato.
(da agenzie)
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Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
L’APERTURA DEI CONSULTORI AI PRO-VITA: PERSONAGGI IDEOLOGIZZATI SENZA ESPERIENZA PER TERRORIZZARE LE DONNE… LA 194 A FATTO SCOMPARIRE GLI ABORTI CLANDESTINI
Passa con il voto di fiducia il decreto Pnrr, compresa la norma che apre le porte dei Consultori a «soggetti del terzo settore che abbiano esperienza nel settore del sostegno alla maternità», insomma ai militanti antiabortisti dei movimenti Pro-Vita. Cosa faranno all’interno di quelle strutture lo ha chiarito Maria Rachele Ruiu, portavoce del movimento, in una recente nota sulla necessità di rappresentare alle donne «i rischi che l’aborto comporta per la salute fisica e psichica».
Nel dettaglio: «aumento del pericolo di cancro al seno del 44% per chi subisce un aborto indotto fino a salire addirittura all’89% per chi ne subisce tre; infezioni pelviche e genitali, emorragie, perforazioni e cicatrizzazioni, aborti spontanei successivi, parti prematuri in caso di altre gravidanze (…) depressioni, disturbo post traumatico da stress, abuso di sostanze e comportamenti autolesionistici fino al suicidio».
Non si sa con esattezza da quali studi arrivi questo spaventoso elenco di disgrazie. E’ invece evidente la conseguenza della norma appena approvata: ogni donna che entra in un Consultorio potrebbe essere esposta a una consulenza terrorizzante , proveniente non da medici, specialisti, scienziati, ma da persone senza alcun requisito specifico oltre una generica «esperienza nel sostegno alla maternità».
Il vulnus alla legge 194 è chiaro. L’errore commesso dalla maggioranza lo è altrettanto. Per compiacere settori minoritari del mondo cattolico si riapre la guerra sul corpo delle donne e lo si fa nel luogo dove sono più esposte, fragili, talvolta confuse: all’interno di strutture dove non dovrebbe entrare nessun tipo di militanza ma solo lo sguardo attento degli psicologi, degli assistenti sociali e dei ginecologi. A loro tocca aiutare le donne a bilanciare i pro e i contro di una interruzione di gravidanza, loro è il compito di aiutare una scelta libera e consapevole.
Neppure la vecchia Dc, la Dc supercattolica di Giulio Andreotti che controfirmò la Legge 194 ignorando gli appelli dell’oltranzismo a dimettersi, aveva mai immaginato di consentire ai privati di intromettersi nel percorso accuratamente prescritto dalla norma.
Al contrario, fece barriera contro le forze che contestavano la decisione di riservare l’intervento alle strutture pubbliche, vietando in via assoluta ai privati di occuparsi di aborto in qualsiasi modo. Molti non lo ricordano, ma i referendum del 1981 furono due: quello del Movimento per la Vita che chiedeva l’abrogazione della 194 e quello dei Radicali che sopprimeva “l’esclusiva” dello Stato sugli interventi di Ivg. Furono entrambi respinti. La legge restò com’è. Con la saggia previsione di un unico intervento dell’associazionismo: a sostegno della maternità difficile «dopo la nascita» (e non prima della scelta).
Tra l’altro la 194, come risulta con chiarezza dalle annuali relazioni parlamentari, è incontestabile sotto il profilo dei risultati. La piaga degli aborti clandestini è stata stroncata. L’Italia è felicissimo fanalino di coda nella classifica del tasso abortivo, con numeri sempre più esigui anno dopo anno. E allora perché incrinare questo equilibrio, riaprire una delle poche “questioni etiche” che si sono chiuse, ormai da decenni, con soddisfazione di quasi tutti? Il calcolo politico è evidente. Maria Rachele Raiu sarà tra gli ospiti d’onore della tre giorni di Pescara che nel prossimo week end lancerà la campagna di FdI per le Europee. La sua presenza conferma il dialogo privilegiato della destra con i gruppi Pro-Vita, che una volta era appannaggio del salvinismo alla Simone Pillon. E tuttavia vai a vedere se questo rubabandiera porterà vantaggi elettorali: al momento assicura soprattutto polemiche interne e sospetti europei.
(da La Stampa)
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Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
SVILUPPO SOSTENIBILE: SERVONO STUDI, OBIETTIVI E STRATEGIE INDIPENDENTI
«La sfida più grande in questo nuovo secolo è quella di adottare un’idea che sembra astratta: lo sviluppo sostenibile» Con questa dichiarazione il settimo segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan inaugurò il terzo millennio. La sfida è un imperativo per tutti i Paesi del pianeta da quasi 30 anni: per ridurre le emissioni di Co2 devono fare tutti le stesse cose. La sostenibilità invece è diventata un obbligo molto concreto, con l’adozione di modelli produttivi meno impattanti, consumi più consapevoli, riciclo delle materie prime, protezione ambientale ecc. Chi deve trovare il punto di equilibrio nell’adozione di pratiche responsabili e a lungo termine sono i governi, che però devono fare i conti con le resistenze dei grandi inquinatori, con le imprese che devono adeguarsi a standard virtuosi, e quelle dei cittadini abituati a consumare come se non ci fosse un domani. È cruciale quindi che ogni decisione sia presa a seguito di studi rigorosi e indipendenti, anche perché siamo già in ritardo e la natura è indifferente alle nostre miserie. A indicare obiettivi e strategie ai Paesi dell’Unione, è la Commissione europea, che per fissare degli standard praticabili deve studiare gli impatti sulle emissioni di tutti i settori produttivi, sul consumo di risorse, sul riutilizzo delle materie prime, sulla produzione di combustibili fossili, sull’agricoltura. Per fare questo serve personale altamente specializzato, che la Commissione europea non ha. Per questo l’Europa, come tutte le istituzioni internazionali, si rivolge a consulenti esterni, che però non sono soltanto, come sarebbe logico pensare, le Università o i centri di ricerca. E allora vediamo come funziona questa macchina che dovrebbe portarci verso un futuro più green.
I costi in aumento e il «piede in due staffe»
Per consulenze di tutti i tipi, in sei anni l’Ue ha speso oltre 5 miliardi. Tra gli ambiti nei quali si ricorre di più alle consulenze c’è proprio quello della tutela dell’ambiente e della lotta al climate change: dal 2014 la Direzione generale Ambiente ha distribuito incarichi per oltre 200 milioni di euro (80 solo nel triennio 2017-2019), mentre all’Agenzia per il clima (Cinea) – nata nel 2021 per gestire progetti strettamente legati alla lotta al cambiamento climatico – gli esperti esterni sono costati in un anno 52 milioni di euro.
Il tema, scrive la Corte dei conti europea, è che gran parte delle società di consulenza lavorano non solo per chi scrive le regole (in questo caso l’Ue) ma anche per chi deve rispettarle, poiché forniscono alle aziende i consigli per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità e ottenere le certificazioni, comprese quelle ambientali.
Il ruolo politico e quello privato
L’Ue assicura: le consulenze sono importanti per avere un contributo tecnico, ma le decisioni le assumiamo in totale autonomia. Però gran parte delle consulenze si concludono proprio con dei consigli su quali politiche adottare. Ad esempio, nel 2021 la Ramboll Management Consulting viene pagata oltre 200mila euro per realizzare un report sull’adattamento degli edifici al cambiamento climatico (nell’ambito del programma Life). Come viene spiegato fin dalla presentazione, lo studio contiene «strategie per i decisori politici» come quella di fissare degli standard per prevenire il surriscaldamento degli edifici e suggerisce quali sono le soluzioni migliori per realizzare edifici resistenti agli eventi climatici estremi. Contemporaneamente, attraverso il proprio sito web, la Ramboll si propone ai privati per la costruzione di edifici sostenibili e resilienti «agli shock come le condizioni meteorologiche estreme». La stessa cosa vale per il progetto di valutazione dell’impatto ambientale che i sistemi di guida automatizzata avranno sul trasporto pubblico europeo: a coordinare il progetto (al costo di 720mila euro) è stata chiamata la Bable Gmbh, che nel frattempo collabora con aziende del settore mobilità come Mercedes, e quella di componenti per automotive Thinkz e Mahle. Ma la rete di collegamenti tessuta dai consulenti, non sempre è così palese. Un esempio è la Task Force on Climate-related Financial Disclosures (Tcfd), il gruppo di esperti che ha sviluppato il criteri attraverso i quali le aziende possono misurare il proprio impatto ambientale e che l’Europa ha reso obbligatorio per le società quotate e quelle con più di 500 dipendenti. Della Tcfd – che dopo aver assolto il suo compito si è sciolta – hanno fatto parte i soci delle big mondiali della consulenza (Deloitte, Kpmg, Pwc, Ernst&Young), che hanno subito lanciato servizi per assistere le imprese che devono adeguarsi al sistema di rendicontazione.
Strategie ambientali e bilanci certificati
Negli ultimi anni, le più importanti società del settore fanno della lotta al climate change una bandiera anche perché – stando a uno studio diffuso da Kpmg – quest’anno il mercato delle consulenze sulle emissioni-zero già vale 5,5 miliardi di dollari e nel 2028 sfonderà quota 15 miliardi. Ma la loro principale fonte di incarichi non è certo l’Ue, bensì le grandi aziende private, inclusi i più grandi inquinatori del pianeta. Un’inchiesta del New York Times del 27 ottobre 2021 ha messo in risalto come la Mc Kinsey abbia guadagnato centinaia di milioni di euro consigliando come tagliare i costi e aumentare i profitti ad almeno 43 tra le 100 aziende che inquinano di più, soprattutto nel settore di gas e petrolio. Lo stesso si potrebbe dire per le collaborazioni con le multinazionali del fast fashion, il cui sistema produttivo usa e getta sta generando un grave impatto ambientale (vedi Dataroom del 10 gennaio): il gruppo spagnolo Inditex – che detiene brand come Zara, Stradivari e Oysho – rendiconta secondo le raccomandazioni Tcfd e affida la revisione a Ernest ad Young; mentre Deloitte controlla i conti di H&M, alla quale certifica anche la conformità dell’informativa sulla sostenibilità.
Competenze «a senso unico»
Non c’è nulla di illegale in tutto questo, e le società di consulenza assicurano di seguire rigidi protocolli per tenere ben distinti gli interessi dei loro clienti, che siano pubblici o privati. Ma la Corte dei Conti sottolinea che i contratti sottoscritti con l’Europa prevedono clausole standard che si riducono a «controlli formali, che da soli non possono garantire la gestione dei rischi di conflitti di interesse». Inoltre, entrando nella «stanza dei bottoni» i consulenti esterni acquisiscono informazioni e quindi nuove competenze. Ma questo funziona a senso unico: nessuno dei contratti esaminati dalla magistratura contabile include «una condizione specifica per il trasferimento delle competenze dai consulenti al personale della Commissione». Il risultato è che si crea un meccanismo di dipendenza da queste società che costringe a rinnovare continuamente i bandi, poi vinti sempre dagli stessi: il 53% dei soldi spesi in consulenze dalla Direzione generale dell’Ambiente sono finiti ad appena 10 soggetti (sui 117 che lavorano con la Dg), cioè quelli che nel frattempo sono diventati più competenti.
Le porte girevoli
Una volta dentro i palazzi europei, il colossi della consulenza si portano via i migliori manager, offrendo stipendi non comparabili con quelli pubblici. Ogni anno 400 dipendenti dell’Ue, subito dopo essersi licenziati, chiedono l’autorizzazione a esercitare un’attività professionale potenzialmente a rischio di conflitto d’interesse. Lo dice il Mediatore Europeo, che esorta la Commissione a un «approccio più deciso» (quindi a dire qualche «no» in più) anche perché non c’è «alcuna misura (…) per monitorare il rispetto dei propri obblighi da parte degli ex dipendenti». La Corte dei conti dice anche un’altra cosa: «La Commissione non valuta sistematicamente la performance dei consulenti esterni», e quindi è difficile dire quale sia il loro vero valore aggiunto. Solo il tempo ci dirà se l’obiettivo di arrivare a un’Europa a impatto climatico zero entro il 2050 sarà rispettato, grazie alle politiche elaborate anche con i loro consigli. Nelle scorse settimane è però uscito il primo grande rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente che segnala «lacune critiche» e «incoerenze nelle politiche esistenti» della lotta al climate change. Infine la Corte rileva che l’Ue ha sovrastimato i propri investimenti all’interno del bilancio all’azione per il clima, inserendo iniziative che nulla hanno a che fare con gli obiettivi di sostenibilità.
I paradossi e le ricadute
Nel 2022 la Commissione per il controllo dei bilanci del Parlamento Ue incarica il Centre for Strategy & Evaluation Services (Cses) di Dublino di analizzare come la Commissione utilizza le società di consulenza. Le conclusioni del Cses (che nel corso degli anni ha ricevuto incarichi dalla Commissione europea per 4,4 milioni di euro) sono le seguenti: «Vi è margine per migliorare alcuni aspetti» ma nel complesso «i sistemi sviluppati dalla Commissione per l’utilizzo di consulenti a sostegno dell’elaborazione delle politiche sembrano funzionare bene». Ovvero, per l’oste il vino è sempre ottimo. Un meccanismo che sta portando a un continuo impoverimento di competenze all’interno della pubblica amministrazione Ue, nelle grandi istituzioni internazionali, fino ai ministeri dei singoli Paesi. I migliori dirigenti non vengono certo incentivati, al contrario lo spoil system impone un continuo ricambio, e il criterio di reclutamento è il livello di fedeltà a questo o quel partito, quasi mai il grado di esperienza e conoscenza nel settore che dovranno dirigere. Tanto c’è sempre una lunga schiera di consulenti a dirti cosa devi fare. Basta pagarli. Se poi le indicazioni sono contrarie all’interesse pubblico, ma la mancanza di competenza non consente di accorgersene, non è colpa di nessuno.
Milena Gabanelli e Andrea Priante
(da corriere.it)
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Aprile 24th, 2024 Riccardo Fucile
IL PPE, DI CUI FA PARTE FORZA ITALIA, SENZA PAROLE. IL GRUPPO DEI CONSERVATORI, DI CUI LA MELONI È PRESIDENTE, ACCOGLIE “CON MALUMORE” LA SCELTA DI FDI (IN PARTICOLARE I POLACCHI) – ORA IL TESTO TORNA IN CONSIGLIO E SERVE L’UNANIMITÀ (IN PRATICA L’ITALIA DEVE DIRE SI’ O NO)
«La cosa più importante è che i due terzi del Parlamento approvano il nuovo Patto di Stabilità ». Durante la riunione della Commissione Ue, solo un breve riferimento è stato rivolto al via libera alla riforma delle regole economiche dell’Unione. La presidente Ursula von der Leyen lo ha fatto con queste parole. Ma si tratta di una soddisfazione piena di “non detti”. Colma di sorpresa per il mancato voto favorevole dei partiti che sostengono il governo italiano.
Perché l’intesa siglata a dicembre scorso sulle procedure di rientro dal deficit e dal debito eccessivi è passata anche attraverso il dialogo tra “l’amica Ursula” e Giorgia Meloni. E il fastidio nei confronti del nostro centrodestra e di Palazzo Chigi è stato piuttosto palpabile fin dalla mattina.
Due le accuse principali: «Incoerenza e inaffidabilità». Il Ppe, di cui fa parte Forza Italia, e che con il suo presidente, il tedesco Manfred Weber, ha sempre cercato un feeling con la leader di Fratelli d’Italia, è rimasto senza parole. E persino l’Ecr, di cui proprio Meloni è presidente, ha accolto con malumore la scelta di Fdi. In particolare i polacchi lo hanno detto chiaramente durante la riunione serale del gruppo.
Bastava allora ascoltare Markus Feber, il popolare tedesco responsabile del Ppe in Parlamento per l’economia, per capire quanto l’Italia stesse perdendo credibilità nelle istituzioni europee. «Non vedo alcun motivo – diceva – per cui gli eurodeputati italiani dovrebbero astenersi. Il risultato è equilibrato e riflette molti dei problemi che l’Italia ha avuto in passato con le regole fiscali.
Soprattutto dal punto di vista italiano, le nuove regole non possono che essere considerate un grande miglioramento rispetto a quelle vecchie. Le traiettorie di riduzione del debito sono molto più favorevoli, è più facile soddisfare le specificità nazionali e la politica anticiclica diventerà più semplice».
Il punto è che di recente il governo italiano si è nascosto per troppe volte dietro il “gioco delle tre carte”. Lo ha fatto anche su un provvedimento considerato una concessione a Roma, il Patto Migranti e Asilo.
Dare cioè il via libera in Consiglio, ossia con i membri dell’esecutivo, e poi nascondere la mano al momento del voto palese in Parlamento.
Tutti ricordano quello che dicevano a dicembre scorso sia la presidente del consiglio sia il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.
«È’ importante – spiegava la premier – che sia stato trovato tra i 27 Stati membri della Ue un compromesso di buonsenso per un accordo politico sul nuovo Patto di stabilità e crescita.
Tra l’altro il “giochetto” rischia di essere smascherato rapidamente.
Nelle procedure europee infatti il testo approvato dal Parlamento deve comunque tornare al Consiglio per una rapida ratifica. E in quell’occasione l’Italia dovrà dire sì o no, e serve un voto all’unanimità. Inevitabilmente la “squadra meloniana” dovrà ribadire il sì esponendo il Paese a un’oscillazione imbarazzante.
E anche inspiegabile.
In questo contesto, allora, se il Ppe non nascondeva il suo imbarazzo, anche dentro i Conservatori di Ecr non sono mancate le critiche.
Non è un caso che la parte largamente maggioritaria di questo gruppo ha votato a favore del nuovo Patto. Tutti i rappresentanti del nord e dell’est Europa erano favorevoli isolando di fatto Fratelli d’Italia.
È dunque evidente che la campagna elettorale abbia valicato i confini nazionali. E tutti i partiti italiani, anche quelli d’opposizione, si sono dimenticati dove si trovassero e per cosa stessero votando. Il Pd è riuscito persino a mettersi contro il suo commissario europeo, Paolo Gentiloni
Da Roma il centrodestra ha cercato di difendersi. E di certo l’unico che avrebbe preferito soluzioni diverse da questa è proprio Giorgetti che ha trattato, discusso e poi accettato la formulazione definitiva. «Io – ha ribadito ieri riservatamente – ho sempre saputo che si trattava di un compromesso e come tale scontentava tutti. Ma era l’unico possibile».
E poi ha riversato sul Pd le critiche ricevute: «Chiediamoci se è una sconfessione per Gentiloni che ha definito la riforma la migliore possibile. Il Pd però si è astenuto».
(da la Repubblica)
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