Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
L’IMPORTO NON SOLO E’ LORDO, MA SARA’ CALCOLATO SUL PERIODO LAVORATO NELL’ANNO, DEVI AVERE UN FIGLIO A CARICO: ALLA FINE RIGUARDERA’ SOLO UN MILIONE DI LAVORATORI
Non c’è ancora un testo ufficiale del nuovo decreto fiscale del governo Meloni, che contiene diverse misure specifiche su Irpef e Ires. La misura che più ha fatto discutere, però, è stata spiegata in conferenza stampa dal viceministro dell’Economia Maurizio Leo: si tratta di un bonus una tantum fino a 100 euro lordi che sarà erogato a gennaio 2025 per i lavoratori dipendenti che rispettano requisiti stringenti.
Lo avranno solo coloro che hanno un reddito complessivo al di sotto dei 28mila euro e almeno un figlio a carico. L’importo finale, però, sarà più basso: non solo la somma iniziale è lorda (e quindi sarà tassata), ma sarà anche calcolata sul periodo lavorato nel 2024. I 100 euro, per capirsi, spettano a chi avrà lavorato per l’intero anno. L’intervento, stando a quanto ha detto Leo, dovrebbe essere provvisorio e durare solo per il prossimo anno, in attesa che il governo vari una riforma più ampia per detassare le tredicesime.
Quanto vale davvero il bonus fino a 100 euro lordi
Il bonus vale 100 euro lordi, quindi l’importo sarà tassato. La quantità di soldi netta che rimarrà in busta paga dipenderà dall’aliquota fiscale e dalle detrazioni di ciascuno, ma sarà comunque al di sotto dei 100 euro. In linea di massima, per chi ha un reddito al di sotto dei 28mila euro l’Irpef da pagare è la più bassa (il 23%), quindi in questo caso rimarrebbero poco più di 75 euro in tutto.
Ma bisogna anche considerare che l’importo di partenza del bonus non sarà uguale per tutti. Infatti, 100 euro è la somma che sarà erogata a chi ha lavorato per tutto il 2024. Per gli altri, il bonus sarà calcolato sul periodo lavorato quest’anno. Ad esempio, chi inizierà a lavorare esattamente da metà anno, cioè a inizio luglio, riceverà la metà del bonus, ovvero 50 euro lordi.
I requisiti per ottenerlo
Possono ottenere il bonus i lavoratori dipendenti che hanno un reddito complessivo non superiore ai 28mila euro. Questo include non solo la busta paga, ma anche tutte le altre eventuali entrate. Per ricevere il bonus è necessario anche che l’Irpef lorda sui redditi da lavoro da versare sia più alta di tutte le detrazioni a cui si ha diritto. In più bisognerà rispettare anche altri requisiti: bisogna avere il coniuge e almeno un figlio, entrambi a carico. Può ottenere l’aumento anche chi ha almeno un figlio a carico ed è solo (perché l’altro non c’è o non ha riconosciuto il figlio), non è sposato oppure è separato. La stima del governo è che, complessivamente, ci sarà poco più di un milione di beneficiari.
Come si potrà fare richiesta
Il bonus fino a 100 euro lordi verrà erogato nella busta paga di gennaio 2025. I dettagli sulle tempistiche saranno definiti più avanti, ma è già noto che starà ai dipendenti fare domanda al proprio datore di lavoro per ottenerlo. Come avviene per altre misure simili, bisognerà consegnare una dichiarazione che riporti anche il codice fiscale e del proprio coniuge (se c’è) e del figlio o figli a carico. L’azienda sarà incaricata di fare le verifiche per assicurarsi che solo chi ne ha diritto ottenga il bonus. La stessa averserà la somma nella busta paga e poi la recupererà come detrazione fiscale.
(da Fanpage)
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Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
LA PICCOLA E’ FIGLIA DI UN’IMMIGRATA DELLA COSTA D’AVORIO
Era il 31 luglio del 2021 quando Maria venne alla luce a Lampedusa nell’ambulatorio del punto territoriale d’emergenza: figlia di una donna di 38 anni originaria della Costa D’Avorio arrivata fin lì attraversando il deserto e il Mar Mediterraneo, la piccola fu la prima a nascere sull’isola siciliana. Ad assisterla e supportarla Maria Raimondo, infermiera di Corleone in servizio all’ambulatorio di Lampedusa, da cui la piccola ha preso il nome.
La bambina è stata la prima a nascere sull’isola dopo ben 51 anni e per questa ragione tra due giorni le verrà conferita la cittadinanza onoraria. A deliberarlo è stato il consiglio comunale delle isole Pelagie. Inoltre, a Maria – che oggi è in salute e vive a Piana degli Albanesi, nel palermitano, con i suoi genitori – verrà intitolato anche il nascente parco giochi creato in via Roma. Sarà presente, per il dipartimento Libertà civili e immigrazione, il vice prefetto Carmen Cosentino.
Le motivazioni della cittadinanza onoraria
La cittadinanza onoraria, voluta dal sindaco delle Pelagie Filippo Mannino e deliberata dal consiglio comunale, è stata attribuita alla bimba con la seguente motivazione: “Maria è il simbolo di chi c’è l’ha fatta ma soprattutto di chi non ce l’ha fatta, di chi nutre la speranza di raggiungere un posto migliore dove mettere radici, dove vivere nella piena libertà e legalità, dove il diritto all’infanzia è una priorità. Ed è per questo che la nostra comunità è in dovere e in diritto di riconoscerle la cittadinanza onoraria, un riconoscimento alla vita, alla solidarietà, al rispetto e tutela dei diritti umani e di tutti i bambini che come Maria sono nati a Lampedusa”. Nella motivazione è stata richiamata anche la dichiarazione rilasciata dal direttore generale dell’azienda sanitaria Palermo, Daniela Faraoni: “La forza della vita che irrompe in uno scenario da incubo tra mare e sofferenza”.
Nelle motivazioni è stato inoltre ricordato: “A Lampedusa non nascono bambini del posto dal 1970, complice la condizione di insularità e le scarse attrezzature medico-sanitarie. Maria fa parte di quel numero esiguo di bambini nati a Lampedusa che rappresentano l’eccezione e la speranza di chi, proprio come le loro mamme, è disposto a rischiare tutto pur di garantire un futuro, un mondo migliore ai propri figli. Raggiungere Lampedusa non è semplice, a volte la speranza di arrivarvi aiuta a non perdersi d’animo, a non rassegnarsi a una vita fatta di crudeltà e violenza. Giungere sulla terraferma per chi affronta il mare con barchini improvvisati è rischioso, molti hanno perso la vita nella traversata e il Mediterraneo è divenuto per i loro corpi una culla eterna”.
(da Fanpage)
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Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
A TBLISI OLTRE 60 PERSONE SONO STATE ARRESTATE DURANTE LE PROTESTE CONTRO LA LEGGE “SUGLI AGENTI STRANIERI”, LA NORMA FILO-RUSSA CHE LIMITERÀ LE ATTIVITÀ DEI MEDIA E DELLE ONG FINANZIATE DALL’ESTERO… I MANIFESTANTI HANNO TENTATO DI IRROMPERE NELLA SEDE DEL PARLAMENTO E DI APPICCARE UN ROGO. LA POLIZIA HA RISPOSTO CON GAS LACRIMOGENI, CANNONI AD ACQUA E SPRAY AL PEPERONCINO
Il Parlamento della Georgia ha cancellato i suoi lavori oggi dopo un tentativo di irruzione di manifestanti che protestavano contro il disegno di legge in discussione sulle influenze straniere. Lo riferisce la stessa assemblea in un comunicato citato dall’agenzia russa Tass, dopo che ieri sera durante scontri davanti al Parlamento vi erano stati otto feriti.
Oltre 60 persone sono state arrestate in Georgia durante le proteste contro la controversa legge sulle influenze straniere, che molti considerano molto simile a quella in vigore in Russia. Diversi manifestanti sono rimasti feriti negli scontri con la polizia durante i cortei a Tbilisi, nel corso dei quali hanno più volte tentato di irrompere nella sede del Parlamento e di appiccare un rogo di fronte a uno degli ingressi secondari dell’edificio.
Gli agenti hanno risposto con schiumogeni antincendio, gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e spray al peperoncino per disperdere la folla.
La legge è stata approvata dal Parlamento in seconda lettura con 83 voti a favore e 23 contrari, dopo il primo voto svoltosi il 18 aprile. Il partito al potere “Sogno georgiano” ha intenzione adottare definitivamente il testo in terza lettura entro metà maggio.
Diversi manifestanti georgiani hanno denunciato l’utilizzo di proiettili di gomma e mostrato le ferite riportate sui social. Le accuse sono state tuttavia smentite dal ministero dell’Interno, durante una conferenza stampa tenuta dal viceministro Aleksandre Darakhvelidze.
La normativa, nota anche come “legge sugli agenti stranieri”, se sarà definitivamente approvata limiterà notevolmente le attività dei media e delle organizzazioni non governative possedute da entità straniere o che ricevono finanziamenti dall’estero.
(da agenzie)
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Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
IL RICORDO DELLA SUA ESPERIENZA DA RAGAZZINO APPENA GIUNTO A BARI DALL’ALBANIA
«Equità è un bambino che non è costretto a studiare in un’altra classe a causa della sua disabilità». Nel monologo dal palco del Concertone del Primo Maggio Ermal Meta attacca il generale Roberto Vannacci, candidato alle prossime europee per la Lega, che in un’intervista a La Stampa, solo pochi giorni fa, aveva ipotizzato classi separate per bambini con disabilità.
È proprio di istruzione che il cantautore e, occasionalmente, conduttore, ha scelto di parlare nel monologo serale dinanzi al pubblico del Circo Massimo, ripercorrendo la propria esperienza personale, il suo primo mese di scuola a Bari appena giunto in Italia dall’Albania quando aveva 13 anni.
«Il mio primo mese nella scuola italiana è stato veramente difficile – dice – Non capivo niente di quello che si diceva in classe. Non capivo i compagni, non capivo i professori. Mi sono dovuto impegnare tanto per recuperare, al punto da addormentarmi sui libri. E per fortuna mi è stata data la possibilità di mettermi al passo con gli altri. Ricordo che i professori mi parlavano più lentamente e mi davano il tempo di appuntarmi tutto ciò che non capivo su dei quaderni. Ecco, penso che sia stato questo, all’inizio, il significato della parola istruzione per me. Avere la possibilità di vivere una scuola inclusiva, quando il termine inclusivo nemmeno si utilizzava»
Uguaglianza ed equità
«La parola istruzione – prosegue Ermal Meta – è fortemente legata ad un’altra parola: uguaglianza, che significa avere tutti gli stessi diritti e le stesse opportunità. A volte, però, pur nell’uguaglianza siamo diversi e qualcuno può partire svantaggiato nel proprio cammino. Ed è così che ci rendiamo conto che la parola uguaglianza, da sola, non è sufficiente. È a questo punto che ci viene in soccorso un’altra bellissima parola: equità. Mentre l’uguaglianza ci mette tutti sullo stesso piano, l’equità si muove dalla diversità di ciascuno, per offrirgli ciò di cui ha bisogno per realizzare sé stesso, perché tutti devono poter guardare l’orizzonte del proprio futuro in egual modo». È in questo momento che il cantautore fa chiaro riferimento alle dichiarazioni di Vannacci: «Equità è un bambino che non è costretto a studiare in un’altra classe a causa della sua disabilità. Equità è valutare il rendimento dei ragazzi in base al loro impegno, ognuno secondo le proprie possibilità. Equità è garantire a tutti, ma proprio a tutti, non gli stessi strumenti, ma gli strumenti di cui ciascuno ha bisogno. In fin dei conti, non si può valutare un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi su un albero». E conclude: «L’equità nell’istruzione è essenziale per garantire un futuro in cui ogni individuo possa realizzare se stesso. Dobbiamo eliminare i pregiudizi e le barriere che limitano l’inclusione, affinché nessuno venga lasciato indietro. Perché il futuro è una promessa che dev’essere mantenuta per tutti».
(da ilfattoquotidiano.it)
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Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
DALLA BISNIPOTE DI GIOLITTI ALL’ETERNO LUIGI GRILLO: SINTENSI INCOMPLETA DELLE LISTE PER LE ELEZIONI EUROPEE
Cosa c’è oltre “Giorgia”? Chi corre dietro ai leader che trascinano le liste con la chiara intenzione di non accettare l’elezione all’Europarlamento? Quali nomi si nascondono dietro a candidature che hanno riempito i giornali negli ultimi giorni? Una volta che l’inquadratura non viene più impallata dal generale Vannacci, quali altre opzioni hanno gli elettori? Molti amministratori locali, ex candidati già trombati una o più volte a elezioni di ogni ordine e grado negli anni passati, qualche figura uscita dalla scena politica che bussa per rientrare, altri novelli che si affacciano dalla cosiddetta “società civile”: imprenditori, funzionari, attivisti. Quella che segue è una breve e incompleta sintesi di qualche nome che si trova nelle “retrovie” dei listoni.
Fratelli d’Italia
Dietro a “Giorgia Meloni detta Giorgia”, per esempio, nelle liste di Fratelli d’Italia c’è “Giovanna“, che porta un cognome dal peso specifico significativo Giovanna Giolitti: è bisnipote dello statista liberale della storia italiana del primo Novecento, la cui figura è ancora controversa dopo cent’anni, anche per la sua maestria a nuotare nelle dinamiche trasformiste tanto che Gaetano Salvemini lo definì il “ministro della mala vita”. E in più si portò dietro la responsabilità di votare la fiducia al primo governo Mussolini, cambiando orientamento solo nel 1924 dopo le leggi con le quali il regime limitò la libertà di stampa. In quota parenti d’Italia c’è anche Giovanni Crosetto, consigliere comunale di Torino, nipote dello zio ministro della Difesa. Sempre con Fdi corre Patrizia Baffi e magari i lombardi si ricordano di lei: in una sola consiliatura regionale fu capace di un volo a planare che la portò dal Pd a Italia Viva e poi appunto al partito di Meloni, e non è detto per sempre. Spiccano poi un paio di giovani del partito come Stefano Cavedagna, portavoce di Gioventù nazionale e già capogruppo in consiglio comunale a Bologna e Nicola d’Ambrosio, presidente di Azione Universitaria. Corrono anche Mario Pellegrini, l’ex vicesindaco del Giglio che fu tra i primi a soccorrere i naufraghi della Costa Concordia, e in quota lobby Anna Olivetti, presidente di Federfarma.
Forza Italia
Tra i manifesti più grandi che si vedono a Milano c’è Letizia Moratti che alle Regionali di qualche anno fa Carlo Calenda provò in tutti i modi di offrire al Pd come la nuova Anna Kuliscioff (“viene da una tradizione famigliare azionista, il papà è stato partigiano”), costringendola a dire frasi choc come “Io vicina al centrosinistra”. Questo giornale si è già occupato poi dell’imprenditore torinese Paolo Damilano, ex candidato sindaco e dato per disperso in consiglio comunale, mentre non è di oggi la notizia del ritorno alla politica di Roberto Cota attraverso Forza Italia, di cui è responsabile Giustizia in Piemonte essendo stato d’altra parte condannato in via definitiva a un anno e 7 mesi per il processo Rimborsopoli. Uscì dalla porta della Lega e rientra ora dalla finestra anche Marco Reguzzoni.
Un altro ritorno è quello di Luigi Grillo, nome che fa sentire tutti un po’ più giovani avendo attraversato varie stagioni politiche non mancando ovviamente quella berlusconiana: dieci anni fa ha patteggiato una pena di 2 anni e 8 mesi e una multa di 50mila euro al termine dell’inchiesta milanese sugli appalti relativi alle gare per Expo 2015: fu anche arrestato e il tribunale del Riesame scrisse tra l’altro che nel corso delle indagini aveva “dato prova di sapersi defilare e di evitare di essere direttamente intercettato”.
Nelle file di Forza Italia c’è anche un Dell’Utri ma non è Marcello bensì Massimo ed è esponente di Noi Moderati, il mini-partito di Maurizio Lupi con cui i forzisti hanno fatto un accordo per le Europee visto che la soglia di sbarramento non l’avrebbe vista nemmeno col cannocchiale. La sfida dei nomi da poter inserire sulla scheda la vince sicuramente l’assessore siciliano Edmondo Tamajo “detto Tamaio detto Di Maio detto Edy Detto Edi Detto Eddy”. Per sbagliare ce ne vuole.
Tra i nomi in lista si segnala Firial Cherima Fteita che durante il primo lockdown fece sue queste parole attribuite al virologo Giulio Tarro: “La notizia del vaccino serve per farci accettare il lockdown, nella convinzione che a brevissimo saremo liberi. Invece non arriverà nessun vaccino. Almeno non prima dell’estate. Il lockdown durerà fino a maggio. Giusto il tempo di portare a termine l’operazione. Una volta che l’intero sistema economico sarà collassato, la grande speculazione finanziaria passerà all’incasso e si porterà via tutto a prezzi stracciati”.
Lega
Nella Lega oltre a Vannacci c’è di più. Per esempio la sindaca di Monfalcone Anna Cisint, che basa la sua celebrità nella sua battaglia per non far pregare i musulmani della sua città. Si ricandida Cinzia Bonfrisco, parlamentare ininterrottamente dal 2006, prima socialista di scuola craxiana, poi berlusconiana, da qualche tempo salviniana. La scuola di formazione leghista produce molti candidati “dal basso” (e a quelli fanno riferimento i detrattori interni della candidatura del generale), come sindaci, consiglieri, assessori, gli eurodeputati uscenti. Tra loro ce n’è uno arrivato giusto un mese fa: l’ex sindaco di Catania Raffaele Stancanelli.
Azione
Con Azione era già nota la candidatura di Alessandro Tommasi, membro del cda del Sole 24 Ore e fondatore di Will Media, che produce informazione sui social. Ha creato anche l’associazione Nos che corre appunto insieme al partito di Carlo Calenda. Tra i nomi noti ci sono quelli di Daniele Nahum, consigliere comunale a Milano che poche settimane fa ha lasciato il Pd in polemica per una posizione non chiara – secondo lui – del partito sulla guerra in Medio Oriente, e di Cuno Jakob Tarfusser (“detto Cuno”), sostituto procuratore generale di Milano e prima ancora capo della Procura di Bolzano e magistrato alla Corte penale internazionale, che ha avuto una botta di fama per la sua iniziativa in favore della revisione del processo a Olindo Romano e Rosa Bazzi.
Tra i veterani spunta il nome di Mario Raffaelli, dirigente trentino di Azione, che ha un cursus honorum politico che affonda le sue radici nella fine degli anni Settanta. E’ stato in parlamento per 15 anni fino al 1994 e 4 volte sottosegretario. Per la quota generali ci riprova, dopo il flop delle Politiche del 2022, Vincenzo Camporini, mentre per la quota Confindustria c’è Lara Bisin, vice presidente fino a qualche settimana fa dell’associazione industriali di Vicenza. In lista anche Nataliya Kudryk, giornalista ucraina, 49 anni, da venti a Roma. Con Azione c’è anche Sonia Alfano, già eurodeputata dal 2009 al 2014 con Italia dei Valori.
Stati uniti d’Europa
Negli Stati Uniti d’Europa – la lista guidata da Italia Viva e +Europa – tenta la rielezione, questa volta a Strasburgo, Gianfranco Librandi che è rimbalzato da un partito all’altro negli ultimi 20 anni e ora sembra aver trovato pace tra i renziani: fu berlusconiano (con Forza Italia e Pdl), poi si candidò con Scelta Civica di Mario Monti, passò al Pd (quando tra l’altro la stagione renziana era già calante) e infine l’approdo a Iv. I radicali portano in dote il nome storico di Marco Taradash, il volto noto Alessandro Cecchi Paone e la giovanissima presidente Patrizia De Grazia (25 anni).
Nello strano remix renziano sono candidati nelle stesse liste da una parte il corrispondente di Liberation – il giornale della sinistra francese – Eric József e dall’altra Alessandrina Lonardo Mastella detta Sandra Mastella, ex senatrice e moglie dell’ex ministro e ora sindaco di Benevento. O ancora da una parte il capolista nel Nord Est è Graham Robert Watson, scozzese di nascista, italiano per matrimonio, storico eurodeputato dei liberaldemocratici inglesi (“Ho paura che l’Italia faccia lo stesso errore commesso dal Regno Unito” ha detto) e dall’altra riecco l’ex ministra Teresa Bellanova. La linea garantista esprime il recordman in questa disciplina, l’ex presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza
Pd
Superati i molti nomi noti nelle liste del Pd, fa capolino il nome di Davide Mattiello, ex parlamentare, molto attivo in quella sua unica legislatura sui temi della legalità: fu relatore tra l’altro della modifica del reato di voto di scambio. Fece notizia il fatto – più che anomalo per la politica italiana – che quando smise di fare il deputato andò a lavorare, sul serio: nel 2020 cominciò a lavorare come conducente e netturbino. Qua e là poi si trova un po’ di gioventù democratica come quella di Elena Accossato (29 anni, segretaria regionale dei Giovani democratici in Piemonte) e Silvia Panini, che è in lista in forza dell’accordo del Pd con Volt, partito politico paneuropeo, che attira soprattutto i più giovani. Al Centro è candidata Elena Improta, mamma di Mario, un ragazzo con una grave disabilità, e fondatrice di una onlus che si occupa del “Dopo di noi”. Candidato anche Michele Franchi, il sindaco di Arquata del Tronto, il paese ascolano distrutto dal terremoto del 2016. Al Sud ci sono l’architetto Francesco Forte, figlio di Mario che fu brevemente ex sindaco Dc di Napoli, e Shady Alizadeh, avvocata 35enne barlettana di famiglia iraniana, esperta di welfare aziendale di genere nonché attivista del movimento “Donna vita libertà”.
M5s
Le selezioni online dei 5 Stelle hanno prodotto una mole notevole di attivisti del territorio, i cui nomi non dicono niente all’opinione pubblica nazionale, ma suggeriscono di più nei rispettivi territori. Per questo Giuseppe Conte ha puntato su qualche figura più riconoscibile di cui è stato già scritto. I nomi che sono rimasti un po’ nell’ombra sono quelli di Ugo Biggeri, economista specializzato nella finanza etica e sostenibile, tra i fondatori di Banca Popolare Etica, Cinzia Pilo, manager con esperienza internazionale in ambito finanziario e dei pagamenti digitali, madre di un “bambino farfalla”, che da anni ha messo le sue competenze anche al servizio volontario in ambito sociale e dell’assistenza ai malati e alle loro famiglie, e Maurizio Sibilio, pedagogista, docente e prorettore a Salerno. Anche in questo caso – e in questo caso dopo aver superato le votazioni interne – ci sono nomi già noti all’elettorato M5s per aver ricoperto in passato altri incarichi, come l’ex deputato Paolo Bernini (attivista animalista che durante il mandato ebbe vari momenti di notorietà per alcune sue uscite apparentemente complottiste), l’ex senatore Gianluca Ferrara e l’ex sindaco di Bagheria Patrizio Cinque.
Verdi-Sinistra
I leader Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli lasciano il posto di capolista: di Ilaria Salis sanno ormai tutti, gli altri sono esponenti che hanno avuto già esperienze politiche in passato: l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano e l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Le liste rossoverdi sono piene di attivisti del territorio. Spiccano Benedetta Scuderi, esponente della nuova generazione ambientalista, poco più che trentenne, attivissima sui social e energica ospite da talk show, e Marilena Grassadonia, storica attivista di Sinistra Italiana sulle tematiche Lgbtqi+. Al Centro si candida Christian Raimo, scrittore e insegnante, noto per le sue battaglie “antifà”, attento alle questioni delle periferie della Capitale, al Sud c’è il nome di Anna Grazia Maraschio, tra le poche ad aver già perso il posto nella giunta di Michele Emiliano in attesa di “reset”, mentre nelle Isole colpisce il nome di Cinzia Dato che alle spalle ha già l’esperienza da parlamentare con la Rosa nel Pugno nella legislatura, brevissima, del governo Prodi II.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
NELL’ARCO DELLE 24 ORE MEDIASET REGISTRA 3.09 MILIONI DI SPETTATORI CONTRO I 3.04 DI VIALE MAZZINI…. IN CRESCITA IL COLOSSO WARNER BROS CON IL NOVE
La Rai torna al centro dei riflettori, ancora. Questa volta perché, come rileva l’Agcom, Mediaset ha superato la televisione pubblica negli ascolti che riguardano le 24 ore.
I dati dell’Osservatorio sulle Comunicazioni relativi all’intero 2023, pubblicati ieri, registrano un netto calo di spettatori rispetto alla concorrente. Più nel dettaglio, l’azienda di Cologno Monzese vanta – sull’intero giorno – 3,09 milioni di spettatori contro i 3,04 della Rai. Un gap di 50 mila ascoltatori che ha del clamoroso, perché segna un sorpasso storico che finora non si era mai verificato.
Rispetto al periodo pre pandemico, inoltre, l’editore pubblico perde complessivamente 510 mila spettatori (-14,4 per cento) sull’intero giorno, a fronte dei 50 mila (-1,6 per cento) di Mediaset. Nel comunicato viene spiegato come siano i canali televisivi “minori” a determinare la debacle della Rai, benché la stessa si confermi leader della fascia “prime time” con uno share pari a 7,17 milioni (37,8 per cento) a fronte dei 7,12 di Mediaset (37,5 per cento), soprattutto grazie ai tre canali principali e generalisti: Rai 1, Rai 2 e Rai 3, che sull’intero anno tengono.
La rilevazione dell’Agcom non è una sorpresa per l’azienda, che di recente ha attirato su di sè i riflettori. L’addio del giannizzero Fabio Fazio – ormai un anno fa, dopo quarant’anni di fedele servizio – aveva causato a suo tempo malumori e sollevazioni popolari, sapientemente cavalcate dall’opposizione. L’affaire Scurati, a metà tra la censura e una non oculata mossa comunicativa dei vertici di Viale Mazzini, ha poi riacceso le polemiche. A perorare la causa del bavaglio di stato, poi, il dietrofront di Amadeus, il quale si è pubblicamente lamentato dell’invasione di campo nella direzione artistica, con Povia e Pino Insegno divenuti capri espiatori di una bagarre che ha portato il celebre conduttore ad accettare la proposta del colosso Warner Bros. Prossima destinazione: Discovery. E a guardare i dati, i nuovi volti della piattaforma americana, tra i più noti della televisione italiana, stanno decisamente dando i loro frutti.
L’arrivo di Fazio sul Nove sembrerebbe avere attratto una consistente fetta di pubblico e non è azzardato presumere che lo stesso succeda con Amadeus. Sempre in base ai dati pubblicati da Agcom, infatti, nell’ultimo trimestre del 2023 la Nove ha aumentato gli ascolti giornalieri del 2,2 per cento, registrando addirittura una crescita complessiva del 46,4 per cento nella fascia di programmazione serale. A testimoniare l’exploit fanno da contraltare le consistenti flessioni nello stesso periodo delle principali reti pubbliche, Rai 2 (-9,5 per cento) e Rai 3 (-20 per cento). Più in generale, il canale italiano di Warner Bros è il terzo più visto in Italia nell’arco delle 24 ore durante il 2023.
(da agenzie)
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Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
“AVREMO UN PAESE ARLECCHINO, CHI VIVE IN UNA TERRA PIU’ AGIATA AVRA’ SERVIZI MIGLIORI”
Professor Viesti, nel suo libro definisce l’Autonomia regionale differenziata una «secessione dei ricchi». Ci spieghi.
«È così per due motivi. Il primo è che la dimensione delle competenze che la riforma consente di trasferire alle Regioni è simile a quella di uno Stato sovrano. Si verrebbero a costituire delle vere e proprie Regioni-Stato all’interno dello Stato: per questo parlo di “secessione”. E sarebbe una secessione “dei ricchi” perché sono state le tre Regioni più ricche del Paese – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – ad aver chiesto per prime quei poteri».
Questo è il primo motivo. E il secondo?
«Glielo spiego subito. Oltre a quei poteri, Veneto e Lombardia chiedono anche risorse finanziarie. E cercano di ottenere dei meccanismi di finanziamento simili a quelli delle Regioni a statuto speciale. Di fatto è un tentativo di “secedere” dalle regole nazionali del federalismo fiscale. Ed è un tentativo che si basa sull’ipotesi che un territorio più ricco meriterebbe più servizi. Ecco perché, anche da questo punto di vista, sarebbe una secessione “dei ricchi”».
Il ragionamento è: se consentiamo a tutte le Regioni di prendersi più poteri, le Regioni che oggi sono più ricche se ne prenderanno di più, allargando ulteriormente il divario con le Regioni più povere.
«Sì, ma non è questo a mio avviso il punto principale. Il punto principale è sulle materie: se ciascuna Regione chiedesse poteri autonomi su certe materie, avremmo politiche pubbliche gestite in maniera differente a seconda dei territori. Diventeremmo un Paese arlecchino, come non c’è da nessuna parte nel mondo. Fra l’altro, anche se non sono un costituzionalista, credo che si porrebbero anche problemi di costituzionalità, perché applicando l’articolo 116 della Costituzione si cambierebbe l’articolo 117 senza passare per la procedura speciale prevista dall’articolo 138».
Quali sono le materie che secondo lei non dovrebbero essere lasciate alle Regioni?
«Ad esempio la politica energetica, o quella delle reti infrastrutturali di trasporto. O l’istruzione. Poi ci sono le norme generali sulla sanità, che con l’Autonomia differenziata potrebbe essere totalmente regionalizzata. Non sono il solo a pensarla così: anche secondo la Banca d’Italia è dubitabile che le Regioni siano più efficienti dello Stato nella gestione di tutte quelle competenze. Il principale effetto di questa riforma sarebbe concedere un immenso potere ai presidenti di Regione, ma per i Comuni e i cittadini di quelle stesse Regioni non è affatto detto che la situazione migliorerebbe».
La riforma Calderoli subordina però la concessione dell’autonomia alla definizione dei Lep, i livelli essenziali di prestazione: sull’intero territorio nazionale bisognerebbe garantire dei livelli minimi di qualità nell’erogazione dei servizi. Sappiamo che i Lep attendono di essere definiti da diversi anni, ma questa non potrebbe essere la volta buona?
«Siamo un Paese straordinario: nessuno ricorda che già in base al Pnrr abbiamo l’obbligo di definire i Lep in tutte le materie, che siano di competenza statale, regionale o comunale. Quindi legare il processo di definizione dei Lep all’Autonomia differenziata è una mossa politica. Non solo: la legge si applica unicamente alle funzioni statali che vengono trasferite alle Regioni e non dispone stanziamenti ulteriori, quindi il rischio è che, alla fine di un processo lungo e molto complesso, la definizione dei Lep si risolva in una mera fotografia dell’esistente. Lo dice anche l’Ufficio parlamentare di bilancio. E aggiungo un’annotazione: la Calderoli è una legge ordinaria, non ha carattere costituzionale; basterebbe una legge successiva per modificarla».
Osservazione storica: fino a 163 anni fa, eravamo un Paese diviso in tanti piccoli “staterelli”. E ancora oggi dall’Alto Adige alla Sicilia ogni territorio ha caratteristiche ed esigenze diverse. Non basta questo per riconoscere maggior autonomia alle Regioni?
«Questo è un argomento a favore del decentramento dei poteri, cioè a favore del fatto che, ad esempio, su una specifica materia le scelte che si fanno in Sicilia sono diverse da quelle che si fanno in Lombardia. E io sono molto favorevole a questo decentramento, sia a livello di Regioni sia – ancor più – a livello di Comuni. Ma con l’Autonomia differenziata si parla di una cosa diversa. E cioè del fatto che in una Regione quella politica sia decisa dalla Regione e in un’altra Regione sia decisa dallo Stato: non è una sana differenziazione delle scelte, ma una differenziazione dei poteri».
Quindi decentramento sì, ma Autonomia differenziata no.
«In un Paese così ricco di differenze come l’Italia non si può pretendere di decidere da Roma se, ad esempio, nel centro di Bologna le auto devono andare a 30 o a 50 chilometri all’ora. È una scelta che deve fare il sindaco, non il ministro. Ma questo non significa creare delle Regioni che siano “più Regioni” di altre. A livello internazionale ci sono molte differenziazioni di poteri tra le città, anche in Italia: è chiaro che il sindaco di Roma deve gestire una realtà molto più complessa del sindaco di Tagliacozzo. Non esistono, invece, esperienze internazionali di Regioni che sono “più Regioni” di altre, se non nel caso molto discutibile delle Regioni a statuto speciale italiane e della Catalogna in Spagna».
Infatti c’è chi argomenta a favore dell’Autonomia differenziata proprio a partire dall’esistenza delle Regioni a statuto speciale. Si dice: queste Regioni sono la dimostrazione ch la loro maggior autonomia di un territorio non intacca l’unità nazionale.
«Conosco questa argomentazione. In buona sostanza il Veneto, che è il vero regista di quest’operazione, vuole diventare come il Trentino Alto Adige. I veneti vedono i loro vicini di casa con più poteri e più soldi e si chiedono: perché loro sì e noi no? Ad esempio la spesa media per studente in Trentino è più alta del 70% che in Veneto. Il punto è che non è possibile che tutte le Regioni italiane ottengano lo statuto speciale, a meno che non si cambi la Costituzione o si frantumi definitivamente lo Stato. E comunque credo che l’esistenza di Regioni a statuto speciale meriterebbe oggi una riflessione».
In Catalogna, invece, l’autonomismo è diventato indipendentismo.
«Il regionalismo differenziato in Spagna nasce però nei Paesi Baschi, che sono sostanzialmente una regione a statuto speciale più ricca delle altre. I Paesi Baschi ricordano il caso italiano della Provincia autonoma di Bolzano, ma con una differenza importante: quando le fu concessa l’autonomia, Bolzano era molto povera ed è diventata ricca proprio grazie ai super finanziamenti della Provincia autonoma; i Paesi Baschi, invece, quando dopo il Franchismo ottennero maggiore autonomia, erano già ricchi di loro. In quel caso l’autonomia fu frutto di una scelta politica di pacificazione».
Mi dica della Catalogna.
«In Catalogna esisteva un movimento autonomista storico, fra l’altro giustificatissimo perché il Franchismo aveva represso la cultura catalana in modo impressionante. La concessione di ampie autonomie alla Catalogna è stata un processo assolutamente benvenuto. Gli indipendentisti catalani rappresentavano una quota minoritaria, tra il 25 e il 30% secondo i sondaggi di opinione, ma negli anni Dieci del Duemila, con l’avvento in Europa della grande austerità, il livello dei servizi nella regione si è abbassato. E a quel punto i catalani hanno iniziato a pensare, esattamente come i veneti fanno con il Trentino: ma perché i baschi sì e noi no?».
E la situazione ha rischiato di degenerare.
«Dietro la rivolta catalana ci sono storici motivi politico-culturali, ma anche concreti motivi di carattere fiscale, che hanno fatto sì che il sostegno agli indipendentisti sia man mano cresciuto, fino allo scontro del 2017, quando è stato proclamato un referendum per l’indipendenza della regione. Come sappiamo, la Corte costituzionale spagnola ha negato la legittimità di quella consultazione, ma i catalani l’hanno svolta lo stesso e da lì si è scatenata una contrapposizione molto violenta e complessa. Molti l’hanno dimenticato, ma nel 2016 anche il Consiglio regionale del Veneto aveva chiesto un referendum sull’indipendenza. Anche in quel caso la Corte costituzionale italiana disse che la consultazione non si poteva fare. Ed è lì che scattò la differenza con la Catalogna: il Consiglio regionale del Veneto si è accontentato di chiedere maggior autonomia».
Nei giorni scorsi lei è stato a presentare il suo libro proprio a Barcellona. Che clima ha trovato?
«Oggi il clima è più tranquillo. Il Governo socialista non è centralista e sta cercando di avere un rapporto più disteso con la Regione catalana».
Abbiamo parlato di materie. Ora parliamo di soldi: la Lombardia ha un residuo fiscale sui 50 miliardi di euro, il Veneto e l’Emilia Romagna oscillano tra 17 e 18. È giusto che le tasse pagate da un cittadino di Milano vadano a finanziare i servizi ricevuti da un napoletano?
«Così è scritto nella Costituzione: quando nasciamo diventiamo cittadini italiani. Siamo uno Stato unitario decentrato, non uno Stato federale. Il residuo fiscale, quindi, è un concetto politico: non c’è alcun principio che vi attribuisca rilevanza. Anche perché, allargando il discorso, si potrebbe parlare di residuo fiscale provinciale, o comunale. Perché i milanesi devono pagare per i pavesi? O perché quelli di via Montenapoleone devono pagare per quelli del quartiere Gratosoglio? Questo ragionamento per assurdo ci fa capire che, alla fine, il residuo fiscale è in-di-vi-dua-le! La nostra Costituzione dice che i servizi sono garantiti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito. Al contrario, il principio del residuo fiscale tende ad attribuire diritti diversi in base alla ricchezza dei territori in cui si vive. Questo è pericoloso».
Si può dire, però, che esiste un tema di malgoverno che riguarda soprattutto il Sud?
«Assolutamente sì, ma da questo punto di vista l’Autonomia differenziata non cambierebbe le cose. Anzi. La riforma Calderoli va a modificare l’impostazione del finanziamento alle Regioni disegnata dalla legge 42 del 2009 (la legge delega sul federalismo fiscale, ndr): in base a quel sistema, rimasto peraltro in gran parte inattuato, gli indicatori di finanziamento sono basati sul fabbisogno. È così che possono emergere i maggiori casi di inefficienza. Con l’Autonomia differenziata, invece, le nuove competenze non sarebbero finanziate in base ai livelli di fabbisogno a costi standard e a risultati tangibili in termini di qualità di servizi, ma con una percentuale del gettito fiscale nazionale. Questo significa che il presidente di una Regione che avesse tutte queste nuove competenze sarebbe totalmente irresponsabile: avrebbe i soldi senza destinazione vincolata e potrebbe farci quel che vuole».
Oggi però, almeno in campo sanitario, sono già previsti i Lea (Livelli essenziali di assistenza).
«Ma non sono legati ai meccanismi di finanziamento! Le faccio un esempio che chiarisce molto. Se una Regione ha una bassa capacità di fare screening tumorali, per cui in quel territorio si muore per malattie curabili, non si viene a determinare un fabbisogno. E quindi quella Regione non riceverà delle risorse aggiuntive vincolate a fare gli screening, perché il Fondo Sanitario Nazionale è ripartito in base alla popolazione pesata per età».
Che conclusione dobbiamo trarne?
«È tutto il sistema italiano di costruzione dei meccanismi di responsabilizzazione che è ben lungi dall’essere attuato. Il punto chiave è che le regole di allocazione delle risorse dovrebbero essere uguali per tutti. Invece con l’Autonomia differenziata si va nella direzione opposta: regole speciali per le Regioni a maggior autonomia».
Come si è venuto a creare questo divario tra le Regioni più ricche, che spesso sono al Nord, e le Regioni arretrate, che spesso sono al Sud?
«L’esistenza di un divario di reddito tra i territori non è inconsueta nel panorama mondiale ed europeo: anche in Germania e nel Regno Unito ci sono vari esempi analoghi. Quel che colpisce, in Italia, è la durata del fenomeno e la sua intensità. Da cosa deriva? C’è un insieme complesso di vicende che attengono alla geografia, alla storia e alle politiche che sono state fatte. Ci sono poi divari di efficienza: il caso più rilevante è appunto quello delle sanità, dove incidono contemporaneamente una gestione clientelare e dei meccanismi di finanziamento, che fanno sì che, ad esempio, la sanità del Sud sia sotto-finanziata. Ma finché non si mettono in campo indicatori più precisi, basati sui fabbisogni, un presidente di Regione potrà sempre dire che la sua Regione ha una sanità peggiore perché dispone di molte meno risorse di un’altra. Ma la sanità è un argomento molto complesso».
A cosa si riferisce?
«Col complessivo sotto-finanziamento della sanità italiana, i sistemi sanitari dell’Emilia-Romagna, prevalentemente pubblico, e della Lombardia, prevalentemente privato, stanno in piedi grazie alla mobilità sanitaria. Se i sistemi sanitari del Sud diventassero improvvisamente efficienti e si azzerasse la mobilità sanitaria, in Emilia-Romagna e Lombardia si aprirebbero colossali problemi».
Pensa che il regionalismo in Italia abbia fallito?
«No. Io sono per fare analisi basate sui fatti e sulle performance. Quando sento dire che le Regioni hanno fallito e bisognerebbe ri-accentrare tutto, non sono d’accordo. Sicuramente, se fossimo un Paese serio, dovremmo preoccuparci di fare una valutazione sulla riforma del Titolo V della Costituzione, che quest’anno compie 23 anni: dovremmo analizzarne i risultati e intervenire dove serve, ma resto dell’idea che l’Italia non è un Paese che si può governare da Roma. Bisogna trovare la miglior combinazione dei poteri che consenta di progredire sul profilo dell’efficienza».
E questa combinazione, secondo lei, non è certo nell’Autonomia differenziata.
«Negli ultimi mesi il dibattito sulla riforma ha assunto una colorazione politica – la maggioranza a favore, l’opposizione contro – che fino a poco tempo fa era meno netta. Andando più indietro nel tempo, ricordo ad esempio che nel 2014 Giorgia Meloni presentò una proposta di legge per abolire le Regioni… Oggi non mi aspetto che la riforma possa subire “scricchiolii” in parlamento. Qualcosa per contrastarla possono farla invece i sindacati, le rappresentanze delle imprese e i cittadini. Il tema è complicatissimo dal punto di vista tecnico ma molto chiaro dal punto di vista politico: dove sta il potere in Italia? Quali garanzie di controllo hanno i cittadini? Su cosa basare l’uguaglianza tra i cittadini indipendentemente da dove vivono?».
(da TPI)
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Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
IL PICCOLO GIALLO: FINO A POCO TEMPO FA CASANOVA ERA DATO PER CERTO
C’è un piccolo giallo nelle liste per le Europee 2024 ufficializzate da Matteo Salvini: non compare il nome dell’eurodeputato uscente della Lega Massimo Casanova. La sua assenza ha sorpreso anche altri candidati del partito che il loro posto in lista hanno ottenuto: Casanova è il proprietario del Papeete beach, il locale sulla spiaggia di Milano Marittima dove Salvini trascorse le vacanze 2019 brindando a mojito e facendo il dj alla consolle mentre le cubiste gli ballavano intorno. Durante quei brindisi il leader della Lega decise di staccare la spina al governo gialloverde di Giuseppe Conte rompendo con il M5s e sperando inutilmente di andare ad elezioni per potere governare senza di loro.
Due mesi prima Salvini aveva mandato a Strasburgo il patron del locale, Casanova, che per altro in questi anni ha preso molto sul serio l’impegno. I due sono sempre stati amici e quindi ci sarebbe da pensare a una scelta personale dell’imprenditore. Ma la vicenda si tinge di giallo perché solo nel marzo scorso, dopo che Casanova ha rischiato di essere ucciso da ladri che si erano intrufolati in casa e nella sua fattoria romagnola, il patron del Papeete dichiarò solennemente: «Non me ne andrò da qui, ho sentito anche Matteo, che mi incoraggia. Se avevo qualche dubbio a ricandidarmi alle Europee, ora sono spariti: sarò in campo per tentare di cambiare qualcosa in questo paese».
La decisione ribadita il primo giorno della campagna elettorale davanti a Marine Le Pen
Il 20 marzo scorso Casanova aveva partecipato anche all’inizio della campagna elettorale di Salvini a Roma nel “Winds of change” a cui erano invitati molti dei sovranisti più a destra in Europa fra cui la francese Marine Le Pen che in un video collegamento aveva attaccato frontalmente Giorgia Meloni scatenando molte polemiche. Quel giorno il patron del Papeete aveva pubblicato sul suo account Fb le foto della giornata scrivendo: «Qui Roma. Con Matteo Salvini. Con la #Lega. Con Identità e Democrazia. Per portare insieme il cambiamento in Europa». Nulla, dunque, faceva presagire l’intenzione di non ricandidarsi a giugno. Ora che la notizia è stata ufficializzata sia pure senza spiegazioni, si può dire che Salvini abbia archiviato definitivamente quel Papeete che non gli portò molta fortuna (su quella spiaggia sarebbe iniziato il suo declino elettorale).
(da Open)
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Maggio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
TRANSFUGA LAST MINUTE: MARIA VERONICA ROSSI IL 30 APRILE LASCIA LA LEGA E IL 1 MAGGIO E’ NELLA LISTA DI FDI
Il fatto che “Giorgia” sia candidata come capolista in tutte e cinque le circoscrizioni cambia un po’ la parità di genere nelle candidature. Escludendo lei che anche se eletta rinuncerà all’incarico restano in lista 70 candidati e di questi 37 sono uomini e 33 sono donne. Solo in due circoscrizioni si raggiunge la parità: nel Nord-Est con 7 uomini e 7 donne e nelle isole con 3 uomini e 3 donne. La maggiore parte dei candidati viene dalle file della militanza interna a Fratelli di Italia. Molti se eletti dovranno però lasciare l’incarico che ricoprono oggi. Nelle liste oltre a 9 eurodeputati uscenti ci sono infatti 12 consiglieri regionali e membri di giunta in carica, 5 deputati in carica, 8 sindaci e membri di giunta in carica, tre consiglieri comunali. Non altissimo il contributo dalla società civile: 6 imprenditori, 4 professionisti e 2 manager di azienda.
Non mancano i candidati diventati di Fratelli di Italia in tempi recenti o recentissimi con il più classico dei cambi di casacca.
Candidato in Lombardia l’ex ras di Forza Italia Mario Mantovani, che cambiò casacca qualche anno fa vaticinando una sua candidatura alle Europee 2024: aveva ragione.
Ben più vicino il cambio di maglia di Manuel Vescovi, che la Meloni ora ha messo in lista nell’Italia centrale. Vescovi era un leader di primo piano nella Lega di Salvini ed era anche il segretario regionale della Toscana: nel giugno 2023 decise di lasciare la Lega per Fratelli di Italia.
Ma la medaglia per l’operazione voltagabbana al fotofinish la conquista Maria Veronica Rossi. Subentrata a Strasburgo nell’aprile 2023 come prima dei non eletti della Lega grazie alle dimissioni dell’eurodeputata Simona Baldassarre, nominata assessore nella Regione Lazio, la Rossi è stata una delle leghiste più presenti e osservanti le regole di partito in Europa. Poi la doccia fredda: «Dopo dieci anni di militanza, ho deciso di prendere una decisione importante: lascio la Lega. Una decisione sofferta, ma inevitabile, perché, ormai, all’interno del mio vecchio partito si erano create delle condizioni tali da non consentire più lì il prosieguo della mia esperienza politica. Sono stati dieci anni fantastici nei quali ho vissuto momenti belli ed esaltanti ed altri meno belli”»
Dichiarazione del 30 aprile 2024. Il primo maggio è risorta apparendo nelle liste europee di Fratelli di Italia. Un vero miracolo, che ha visto la regia di Nicola Procaccini, eurodeputato uscente (e ricandidato) vicinissimo alla Meloni.
Due sorprese fra le candidature di personaggi esterni alla militanza di FdI. La prima è la candidatura nel Nord Ovest di Federica Picchi Roncali, bocconiana ed ex manager prima di Roland Berger e poi di JpMorgan Chase, per diventare imprenditrice nel settore del cinema fondando nel 2010 la Dominus Production srl, società produttrice e distributrice di film. Attività per cui è diventata un punto di riferimento dei cristiani tradizionalisti (cattolici ed evangelici) per avere portato nelle sale e in streaming film rifiutati dai circuiti ufficiali e divenuti poi campioni al botteghino. Come God’s not dead (scontro fra professore ateo e studente evangelico), Sound of freedom (film sulla tratta dei bambini in Sud America), Unplanned (storia della direttrice di una clinica degli aborti convertita e diventata no aborto) e tanti altri come i film religiosi prodotti dagli evangelici di Angel Studios. La seconda sorpresa viene dalla candidatura in Centro Italia di Civita di Russo, vicecapo di gabinetto vicario del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca e presidente dell’associazione della via Francigena. Civita era la donna a fianco di Andrea Giambruno nel convegno sul turismo del 19 ottobre 2023 a Pavia: l’ultimo evento a cui il giornalista partecipò come moderatore a poche ore del post della Meloni in cui fu ufficializzata la rottura della loro unione sentimentale.
(da Open)
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