Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
I RICORDI DELL’EPOCA: “INVIAVA SOLO QUALCHE PEZZO,
LA PORTA GIREVOLE TRA QUOTIDIANO E PARTITO ERA LA PRASSI”
La premier Giorgia Meloni ha attaccato spesso i giornali da quando è a Palazzo Chigi. Parlando dell’inchiesta di Fanpage sui saluti romani dei giovani di Fratelli d’Italia ha detto che un lavoro del genere «non era mai successo in 75 anni di storia repubblicana».
Chiamando in causa persino il presidente della Repubblica. «In altri tempi sono i metodi che usavano i regimi, infiltrarsi nei partiti politici. Non è un metodo giornalistico, perché sono stati utilizzati anche degli investigatori», ha sostenuto.
Eppure anche Meloni è giornalista. È iscritta all’albo dei professionisti dal 16 febbraio 2006. Esattamente come l’alleato Matteo Salvini, iscritto dal 1999 dopo l’esperienza a La Padania. E come Antonio Tajani, sospeso d’ufficio dopo una vita al Giornale e al Tempo.
Il Secolo d’Italia
Anche Meloni, come Salvini, ha lavorato come giornalista nell’organo ufficiale del partito in cui militava all’epoca, ovvero Alleanza Nazionale. Il Secolo d’Italia oggi è una testata online ed è diretto da Italo Bocchino. All’epoca ci hanno lavorato tante personalità del Movimento Sociale Italiano, come Teodoro Buontempo e Maurizio Gasparri.
Lei, racconta oggi Repubblica, nel suo curriculum non cita l’esperienza. Eppure qualcuno se la ricorda ancora. «In redazione non c’era mai. Inviava solo qualche pezzo. Ma comunque la porta girevole tra partito e quotidiano era prassi consolidata», racconta una fonte al quotidiano. Un’abitudine non solo sua, a sentire Gigi Moncalvo. Che quando dirigeva la Padania non vedeva mai Salvini in redazione.
Giorgia Meloni giornalista
Nel 2006 Gianfranco Fini criticò l’esperienza del Secolo d’Italia perché «avere un giornale così com’è non ha più ragione di esistere. Se voi sapeste quanto costa al partito…». Il giornale riceveva tre milioni di euro di finanziamenti pubblici. In edicola il Secolo d’Italia non c’è più dal 2012.
«Il Parlamento, dall’una e dall’altra parte, è pieno di giornalisti. Non è solo Meloni, parliamo di altre 23 persone che oltrepassano la soglia del palazzo e dimenticano da dove arrivano», dice la segretaria di Fnsi, Alessandra Costante.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
SECONDO IL SERVIZIO POLITICHE SOCIALI DELLA UIL, LE CIFRE PER FARSI CURARE NELLE CLINICHE PRIVATE SONO ASSURDE: SI VA DAI 400 AI 1500 EURO AL GIORNO PER UN RICOVERO A BASSA COMPLESSITÀ ASSISTENZIALE FINO AD ARRIVARE AI 48.400 EURO PER LA RIMOZIONE DI UN TUMORE AL SENO IN CALABRIA… L’ALLARME DELLA UIL: “TUTTI I PROVVEDIMENTI DELLA MELONI IN MATERIA DI SANITÀ VANNO VERSO UN RAFFORZAMENTO DELLA SANITÀ PRIVATA A DISCAPITO DI QUELLA PUBBLICA”
Quanto costerebbe curarsi se la sanità fosse solo privata? Il Servizio politiche sociali della Uil ha messo a confronto i costi di ricoveri, interventi chirurgici e prestazioni di vario tipo presso le strutture private di tre diverse regioni: Lombardia. Lazio e Calabria.
«Il governo, per strizzare l’occhio alla sanità privata, volta le spalle alla sanità pubblica – spiegano dalla Uil –. Tutti i provvedimenti dell’esecutivo Meloni in materia di sanità, a partire dalle leggi di bilancio per finire al recente decreto “abbatti liste”, vanno nella direzione di un rafforzamento della sanità privata a discapito di quella pubblica».
Dalla ricerca emerge che in caso di ricovero a bassa complessità assistenziale, in assenza del Ssn, una persona dovrebbe sostenere una spesa giornaliera che varia da un minimo di 422 euro fino a un massimo di 1.178 in Lombardia, da 435 a 1.278 euro nel Lazio e da 552 a 1.480 euro in Calabria. Se il ricovero fosse invece ad alta complessità, la somma aumenterebbe, da un minimo di 530 euro al giorno nel Lazio sino ad un massimo di 1.800 sempre nel Lazio e in Calabria. Nel caso di un check up cardiologico, invece, il costo in regime privato in Lombardia oscilla tra 220 e 295 euro, da 234 a 275 euro per una donna ai 235-275 euro per un uomo nel Lazio, mentre in Calabria una donna dovrebbe mettere in conto 373-400 euro di parcella ed un uomo tra 343 e 397 euro.
Per un intervento chirurgico, come l’asportazione del tumore al seno, se si dovesse ricorrere al privato, si dovrebbe invece sostenere una spesa che in Lombardia può arrivare sino a 29.400 euro, a 32.400 nel Lazio e a 48.400 euro in Calabria. Per la chirurgia pediatrica, invece, il costo (oltre la parcella del chirurgo), va dai 4.300-9.000 euro della Lombardia, ai 6.100-9.000 del Lazio, ai 6.400-11.000 della Calabria.
Come evitare il possibile disastro? Per la Uil «per tutelare e rilanciare il Ssn», occorre fermare la legge Calderoli sul regionalismo differenziato, portare la spesa sanitaria sui livelli Ue, combattere gli sprechi delle Regioni ed investire su personale e territori.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
È IL PRIMO PASSO DELLA SVOLTA AL CENTRO CHIESTA DAI “PROPRIETARI” DI FORZA ITALIA, PIER SILVIO E MARINA BERLUSCONI. CON CUI LA SCORSA SETTIMANA L’EX MONARCHICO SI È INCONTRATO
Pranzi ad Arcore chez Marta Fascina, cene ai Parioli, abboccamenti in Transatlantico con 3-4 ingressi da Italia viva dati «per imminenti» dal quartier generale azzurro: «entro ferragosto». Che pazza estate, per Forza Italia. Un anno fa pareva sul punto di spegnersi mestamente e invece dopo le Europee ha trovato una sua centralità.
Anche se forse non ancora una rotta, tra le spinte per il rinnovamento dei Berlusconi e i compromessi del segretario Antonio Tajani, che un po’ deve smarcarsi da Meloni (e soprattutto da Salvini) e un po’ continuerebbe a coltivare un sogno chiamato Colle, che Meloni gli avrebbe promesso. Suggestioni, fantaQuirinale replicano nel giro del vicepremier, si vedrà.
Intanto c’è uno scampolo d’estate movimentato. Nella canicola capitolina, ieri sera Tajani ha radunato i gruppi di Camera, Senato ed Europarlamento. Location: l’antico circolo Tiro al Volo, quartiere Parioli nei paraggi del Tevere, Roma bene in purezza. Tra portate di mozzarelle di bufala, ecco il capogruppo al Senato, Maurizio Gasparri, quello alla Camera, Paolo Barelli, il capodelegazione di Bruxelles, Fulvio Martusciello, sfilata di ministri.
Non c’erano nuovi innesti. Ma dalla sede di San Lorenzo in Lucina arriva questo dispaccio: a dispetto delle previsioni e dell’attendismo che circolava fino a qualche giorno fa, la pattuglia degli eletti azzurri potrebbe ingrossarsi subito. In Transatlantico si parla di 3-4 entrate («anche nomi famosi ») da Italia Viva e un paio da Azione.
«Ma è comunque questione di giorni, non più di settimane», conferma più di una fonte a conoscenza dell’operazione. Circola qualche nome : l’ex calendiana, da qualche mese renziana, Naike Gruppioni. Giulio Cesare Sottanelli, sempre da Azione. C’è chi spera di soffiare al fu Terzo Polo anche Enrico Costa, che sulla giustizia si è ritagliato uno spazio politico-mediatico niente male. Anche se va capito come finirà il progetto al centro di Luigi Marattin, sgradito all’ex Rottamatore, con cui Costa ha un feeling.
L’obiettivo di FI è arrivare a una convention in autunno. Il luogo è già stato scelto: Palermo. Dunque nel Sud sensibile all’autonomia, ma nella Sicilia capeggiata dal più docile Renato Schifani rispetto alla Calabria dell’ambizioso e combattivo Roberto Occhiuto. Le date: dal 25 al 27 ottobre.
Qui Tajani potrebbe avviare un ricambio in qualche casella di vertice per dare seguito alle richieste di Pier Silvio Berlusconi, che un rinnovamento l’ha chiesto senza troppe smancerie.
E in questa partita, appunto, giocano un ruolo gli eredi del Cavaliere. Che nell’agone politico giurano di non voler calare, ma intanto si fanno sentire. Tajani deve ascoltarli, essendo i Berlusconi di fatto, i proprietari di FI, coi famosi 90 milioni e passa di fidejussioni versate per evitare che la creatura azzurra faccia crac.
Dopo il pranzo con Tajani di dieci giorni fa, la scorsa settimana ad Arcore si sono rivisti Marina, Pier Silvio, Fedele Confalonieri e Danilo Pellegrino, l’ad di Fininvest. A fare gli onori di casa l’ultima quasi moglie del fondatore, Marta Fascina. Si è parlato di business, ma anche di politica. È in questo convivio che i figli di Berlusconi sarebbero tornati a chiedere un rinnovamento.
(da la Repubblica)
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Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
A PECHINO LA DUCETTA SI È PRESENTATA CON LA FIGLIA E CON UNA DELEGAZIONE DEBOLE: DA ORSINI (CONFINDUSTRIA) A DESCALZI (ENI), DA CATTANEO (ENEL) A CINGOLANI (LEONARDO) TUTTI HANNO PREFERITO DISERTARE PER EVITARE “RAPPRESAGLIE” DAL POTERE ECONOMICO USA
Gli equilibri mondiali sono chiari per chi vuole vederli: se gli Stati Uniti restano la prima potenza strategico-militare del pianeta, la Cina lo è da un punto di vista commerciale e industriale.
Forte dei suoi monopoli in vari ambiti (fotovoltaico, auto elettriche, batterie, terre rare, tecnologie varie) e del suo predominio nella manifattura a basso costo, Xi Jinping vuole fare della Cina il Paese leader dell’intero Oriente.
Giorgia Meloni, con zero speranze di ottenere un commissario di peso in campo econonomico o industriale dopo il voto contrario a Ursula von der Leyen, prima nel Consiglio Europeo come premier italiana e poi come leader di Fratelli d’Italia in Commissione, davanti alle molteplici possibilità d’affari con il Dragone, si è detta: perché non andare a Pechino, visto che anche Macron e Scholz, prima di me, hanno stretto la mano al presidente del partito comunista cinese?
La Melon-Cina deve aver pensato che il viaggio fosse un’ottima occasione anche per esprimere, agli occhi del mondo, il suo lungimirante pensiero strategico. Come quando ha rimarcato, anche in conferenza stampa, di aver consigliato alla Cina di non legarsi troppo le mani con la Russia (“la smetta di sostenerla, non ne ha convenienza”).Come se non sapesse, l’ingenua premier nata Underdog, che Mosca ha retto due anni e mezzo di conflitto in Ucraina solo grazie al sostegno economico, industriale e militare di Pechino, che, a sua volta, ha tutto l’interesse a tenere il puntello russo piantato alla gola dell’Occidente. Oggi Putin è solo un vassallo alla corte di Xi Jinping.
Pensare che, davanti ai rimbrotti coatti della “Psiconana” (copyright Grillo), l’autoritario Xi receda dai suoi piani di conquista del mondo, è roba da avanspettacolo della Garbatella.
Certo, la sora Giorgia voleva mandare anche un segnale all’Unione europea, e all’Italia, orgogliosamente rivendicata come seconda potenza manifatturiera d’Europa, di essere una leader forte, che non si fa intimidire dall’aura minacciosa di Xi Jinping, e che può dialogare da pari a pari con tutti i potentoni della Terra.
Peccato che la delegazione che l’ha accompagnata nel viaggio a Pechino fosse molto deludente agli occhi della controparte cinese. Erano assenti i pezzi da novanta dell’industria e della finanza: non c’era innanzitutto il capo di Confindustria, Emanuele Orsini, ma la sua vice, Barbara Cimmino.
Assenti anche gli amministratori delegati delle più importanti partecipate di Stato: Descalzi (Eni), Del Fante (Poste), Cattaneo (Enel), Cingolani (Leonardo) e di Folgiero (Fincantieri).
I grandi manager hanno preferito disertare per evitare l’accusa di “italian job”. Nel giro di sei anni, prima sono stati incoraggiati a percorrere la Via della Seta, poi si sono sentiti chiedere, soprattutto a seguito degli input americani, di recedere dai rapporti economici e commerciali con la Cina.
E ora, all’improvviso, contrordine! di nuovo si torna a Pechino, col cappello in mano? In questo caos della politica, meglio esercitare un po’ di cautela, e non esporsi troppo, per evitare di essere uccellati successivamente dal grande potere americano: i maggiori fondi, da Blackstone a Kkr, spadroneggiano nei Cda delle più importanti aziende italiane.
Dunque, nella corte che ha seguito Giorgia Meloni in Cina c’erano soprattutto i Ceo di medie aziende. L’unico big era Dario Scannapieco, che in quanto boss di Cdp è presidente del Business Forum Italia-Cina. Il manager era a Pechino soprattutto per sbrogliare il dossier Open Fiber.
L’obiettivo di Scannapieco (Cdp è azionista di maggioranza della società della fibra) era sbloccare i 250 milioni, sui 9 miliardi di investimenti raccolti tra banche e fondi di investimento. che la Bank of China e altri tre istituti collegati hanno congelato.
All’assenza dei grandi industriali ha fatto da contraltare l’onnipresenza di Patrizia Scurti, segretaria e “padrona” della Meloni, che era seduta al fianco della premier al tavolo con Xi Jinping, insieme al consigliere diplomatico, Fabrizio Saggio, all’ambasciatore italiano in Cina, Massimo Ambrosetti, e all’interprete.
Il regime cinese si considera molto soddisfatto per il summit. I quotidiani di propaganda hanno sottolineato con enfasi la rinnovata amicizia con la Cina dell’Italia, finalmente emancipata dal veto americano.
Si è messa in evidenza la rinascente armonia tra due grandi Paesi e i vantaggi che entrambi potranno ottenere da una “risoluzione delle divergenze”, in termini di “stabilità e cooperazione”.
Come hanno preso a Washington il nuovo flirt italo-cinese, con la Ducetta felice di sbandierare il ritorno alla Via della Seta? Agli occhiuti funzionari di Cia, Pentagono e Dipartimento di Stato non è piaciuto lo scambio di affettuosità, soprattutto nell’orgoglio con cui i cinesi hanno sbandierato il ritorno dell’Italia attovagliata tra springroll e anatra alla pechinese.
Un progetto, quello di Xi Jinping, che gli americani hanno impiegato anni a sabotare, riuscendoci lo scorso dicembre con l’uscita dell’Italia dal memorandum firmato da Giuseppe Conte. Certo, il fastidio statunitense è rimasto circoscritto al Deep state, visto che i vertici di democratici e repubblicani sono in tutt’altre faccende affaccendati (c’è la campagna elettorale dai contorni folli e nessuno degna di attenzione quello che accade in quell’espressione geografica a forma di stivale inzeppata di basi Nato).
E in Europa? A Bruxelles il viaggio di Giorgia Meloni in Cina ha fatto molto più rumore. Ursula von der Leyen, a differenza di quanto propagandato da Fratelli d’Italia, non ha perdonato alla Ducetta il voto contrario alla sua rielezione.
I rapporti tra le due sono freddi, non ci sono più contatti diretti, ma solo mediati dai funzionari. Persino sul commissario destinato all’Italia non c’è un canale aperto: alla Ursula che vuole avere un nome e di una donna da ogni paese per un posto da commissario, la Melona ha giustamente replicato che prima di squadernare i nomi vuole sapere quale sarà il loro ruolo.
Ad occuparsi del collegamento tra le due signore bionde è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. L’ex monarchico si sta adoperando con il Ppe e con la stessa Ursula, a cui tra l’altro aveva dato per certo il voto di Fdi in Parlamento.
La tensione tra Ursula e Giorgia si è manifestata dopo il faccia a faccia con Xi: agli occhi degli euro-poteri, gli accordi italo-cinesi non sono fuori dalle regole, ma avrebbero richiesto una condivisione più approfondita con Bruxelles, soprattutto nel delicatissimo passaggio sulla produzione di auto elettriche in Italia, che è l’unico vero risultato ottenuto dalla Meloni all’interno di un documento sostanzialmente pieno di aria fritta.
Roma e Pechino si sono accordate per creare uno stabilimento in Italia per la produzione di auto elettriche cinesi, e sarebbe il primo in Europa, per veicoli nella fascia 15-20mila euro. Un’intesa che arriva in un momento di grande difficoltà del settore, visto che Stellantis e altre case automobilistiche incontrano molti ostacoli, a partire dai costi e dall’approvvigionamento di batterie (in mano a produttori cinesi), nel produrre e vendere macchine a emissioni zero. Solo nel primo trimestre del 2024 c’è stato un piccolo rimbalzo del 5% con 537mila nuovi veicoli venduti. Ma la quota di mercato della auto elettrica, nonostante i ricchi incentivi, resta confinata al 20%
A conferma dei problemi nel settore, in Germania, la ZF, colosso della componentistica, ha chiuso 2 fabbriche e licenziato 12mila operai, non riuscendo a competere nel mercato della transizione ecologica, dominato appunto dai cinesi, che hanno già aperto, tramite il gigante Catl, uno stabilimento di batterie in Ungheria, per la gioia del filo putiniano Viktor Orban.
La porta spalancata da Giorgia Meloni ai produttori di auto cinesi è un doppio colpo per la vendi-cattiva Ducetta: da un lato, mette i bastoni tra le ruote del nemico John Elkann (Stellantis ha in progetto di produrre auto elettriche, in joint venture con i cinesi di Leapmotors).
Dall’altro è uno sgarbo all’Unione europea, che soltanto qualche settimana fa ha varato i dazi contro le eco-macchine, proprio per limitare l’invasione cinese. Se uno dei molti marchi del Dragone producesse in Italia, aggirerebbe in automatico le euro-sanzioni: a quel punto, sarebbero in molti a piangere
(da Dagoreport)
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Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
IN POCO PIÙ DI UN ANNO, I PALINSESTI SONO STATI INFARCITI DI FORMAT “AUTARCHICI” E CONDUTTORI AMICI… IL CASO SCURATO, IL BLACK-OUT SUL VOTO FRANCESE E GLI SCAZZI PER LE NOMINE DEI VERTICI
Sostiene Giorgia Meloni che il rapporto sullo Stato di diritto è pieno di fake news e distorsioni a uso politico. Pilotate dai giornali non allineati, specie in materia di informazione e servizio pubblico televisivo, che invece non sono mai stati tanto liberi e indipendenti come sotto il suo esecutivo. È quanto prova a spiegare la presidente del Consiglio nella risposta alla Commissione europea. Inanellando tuttavia una serie di falsità e mistificazioni che val la pena analizzare.
Scrive Meloni con malcelato vittimismo: non solo la legge sulla Rai è targata Renzi, dunque Pd, ma «anche l’attuale governance è stata determinata dal governo precedente (Draghi), con FdI unico partito di opposizione che si è pensato di escludere perfino dal Consiglio di amministrazione, creando — quella volta sì — un’anomalia senza precedenti e in violazione di ogni principio di pluralismo ».
La memoria selettiva della premier omette di ricordare che furono Lega e FI, all’epoca in maggioranza, a giubilare con una manovra di palazzo il suo consigliere per conservare i propri rappresentanti in Cda. E comunque lei venne ricompensata con la promozione di alcuni fedelissimi, da Paolo Petrecca alla direzione di Rainews a Paolo Corsini vice agli Approfondimenti, che le hanno consentito di mettere subito le mani su notiziari e talk.
Prosegue ancora Meloni: «Salvo la nomina obbligata di un nuovo amministratore delegato nel 2023 a seguito delle dimissioni del suo predecessore, l’attuale governo e la maggioranza parlamentare non si sono ancora avvalsi della normativa vigente per il rinnovo dei vertici aziendali».
Qui la deformazione della realtà è patente. Non solo il Cda, scaduto da due mesi, non si riesce a rinnovare per le liti furibonde fra alleati che non trovano la quadra sulle poltrone, ma in questa storia di “obbligato” c’è solo l’addio di Carlo Fuortes: la spinta a farsi da parte, con tanto di incontri irrituali a Palazzo Chigi, fu talmente brutale da non lasciargli altra via d’uscita.
Lo scrisse lui stesso nella lettera con cui formalizzò il passo indietro: «Dall’inizio del 2023 sulla carica da me ricoperta e sulla mia persona si è aperto uno scontro politico che contribuisce a indebolire la Rai. All’interno del Cda ho registrato il venir meno dell’atteggiamento costruttivo indispensabile alla gestione della prima azienda culturale italiana», il suo j’accuse.
Per convincerlo il Cdm varò persino una norma ad hoc, di recente dichiarata incostituzionale, per pensionare i sovrintendenti stranieri delle fondazioni liriche e liberare così il San Carlo di Napoli per l’Ad in uscita.
Continua Meloni, con una spudoratezza senza pari: con FdI fuori dal board, «non si comprende come si possa imputare a questo governo una presunta ingerenza politica nella governance Rai».
La verità è che dopo la cacciata di Fuortes, si pose il problema di come prendersi la Tv di Stato per molti anni a venire: a causa del tetto dei due mandati, l’ex missino Giampaolo Rossi, che aveva già fatto il consigliere, sarebbe potuto restare Ad solo per un anno, fino alla scadenza dell’attuale Cda.
Venne perciò sistemato alla direzione generale (che non ha tetti), con la promessa di promuoverlo al turno dopo. A tenergli in caldo il posto fu chiamato Roberto Sergio, previo “patto della staffetta” per scambiarsi i ruoli a giugno 2024. Memento utile a rammentare alla presidente che TeleMeloni opera ai massimi livelli da oltre un anno. Proprio quello a cui si riferisce il report Ue sullo Stato di diritto.
È in quest’ultimo anno che «l’ingerenza politica» disconosciuta da Meloni si fa pesante. E produce danni. Appena insediato, il tandem Sergio- Rossi fa piazza pulita e cambia quasi tutti i direttori di Tg e generi.
Un’infornata mai vista prima, che regala al governo il controllo sulla Rai: al Tg1 Gian Marco Chiocci, legato alla premier; al Tg2 il forzista Antonio Preziosi; a Rainews si conferma Petrecca. Agli Approfondimenti e al DayTime ascendono due “fratellini” doc: Corsini e Angelo Mellone.
Talk e programmi sono tutti nelle mani della destra. I palinsesti vengono infarciti di format autarchici e conduttori amici, in barba a performance disastrose: Pino Insegno dovrà chiudere in anticipo la sua trasmissione, ma questa stagione ne vince due, come pure Nunzia De Girolamo. Incoronata Boccia, Sylos Labini e meloniani vari fanno uno share da prefisso telefonico e vanno avanti uguale.
L’azienda censura il monologo antifascista di Antonio Scurati, ma a pagare è la conduttrice Serena Bortone, epurata dal video. Una debacle, certificata dai numeri. Nel 2023, per la prima volta, Mediaset sorpassa la Rai negli ascolti relativi all’intera giornata.
E Meloni mente pure quando nega che «il cambiamento della linea editoriale avrebbe determinato le dimissioni di diversi giornalisti e conduttori », per lei imputabili a «normali dinamiche di mercato». A parte Fabio Fazio, che capita l’antifona fa le valigie prima dell’avvento dei nuovi vertici, in sequenza lasciano Bianca Berlinguer, Lucia Annunziata, Massimo Gramellini, da ultimo Amadeus: tutti in ragione del clima inospitale, più o meno dichiarato, che si comincia a respirare in Rai. A confermarlo, le denunce dei giornalisti, che rivelano pressioni e censure mai accadute prima. L’Usigrai proclama persino uno sciopero generale per accusare il governo di aver ridotto il servizio pubblico a suo megafono.
(da Repubblica)
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Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
KAMALA SFIDA IL TYCOON: “SE HAI QUALCOSA DA DIRE, DIMMELO IN FACCIA”. E I SUOI SOSTENITORI URLANO “LOCK HIM UP” (IN GALERA), PARAFRASANDO LO SLOGAN USATO DA TRUMP CONTRO HILLARY CLINTON NEL 2016
Donald Trump ha rilanciato in un’intervista radiofonica l’accusa che la vicepresidente Kamala Harris, sposata con un ebreo, “non ama gli ebrei” ed è sembrato essere d’accordo con il conduttore, che ha definito il second gentleman Doug Emhoff “un ebreo di merda”.
“Si può vedere il suo disprezzo”, ha detto alla radio conservatrice Wabc di New York, dopo aver sostenuto che Harris pareva a disagio durante l’incontro della scorsa settimana con il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu.
“Numero uno, non le piace Israele. Numero due, non le piacciono gli ebrei. Lo sai tu, lo so io e lo sanno tutti e nessuno vuole dirlo”, ha dichiarato. Incalzato dal conduttore, che gli ricordava che Emhoff è ebreo definendolo “un ebreo di merda”, il tycoon ha risposto “sì”.
“Lock him up!”, “Lock him up!”, “in galera, in galera”: quando Kamala Harris ha contrapposto il suo passato da procuratrice ai processi contro il suo avversario Donald Trump la folla ha gridato in coro la stessa grase che gridano i fan del tycon contro la sua ex rivale Hillary Clinton.
Nel suo comizio ad Atlanta Kamala Harris ha usato più volte un tono di sfida aperta con Donald Trump, deridendolo per la sua marcia indietro sul duello tv di settembre dopo essersi impegnato a farlo con Joe Biden (“non vi sembra bizzarro?) e auspicando che “riconsideri di incontrarmi sul palco del dibattito”. “Donald, se hai qualcosa da dire, dimmelo in faccia”.
Nel suo intervento ad Atlanta, Kamala Harris ha ripercorso i temi dei suoi ultimi comizi: attacchi a Trump, alle sue politiche e all’agenda estrema di Project 2025, impegno per la middle class e la riduzione dei prezzi per le famiglie, lotta contro Big Pharma e per le libertà, a partire da quella di abortire.
“Il primo giorno del mio insediamento mi occuperò delle speculazioni sui prezzi e di abbassare i costi. Vieteremo altre commissioni nascoste e spese di mora a sorpresa che le banche e altre aziende usano per aumentare i loro profitti”: lo ha promesso Kamala Harris nel suo comizio ad Atlanta.
Kamala Harris sarà l’unica candidata dem alla votazione virtuale per la nomination, che comincera’ il primo agosto e terminera’ entro il 5 dello stesso mese. Lo ha reso noto il comitato nazionale del partito, dopo che per gli eventuali sfidanti sono scaduti i termini per raccogliere le firme necessarie e comparire nella roll call. La vicepresidente si e’ gia’ assicurata verbalmente l’impegno di 3923 delegati, ben oltre il quorum necessario per diventare la candidata del partito alla Casa Bianca.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
DALLA SEGNALETICA INSUFFICIENTE AI VOLONTARI CHE NON PARLANO INGLESE
Pur animati da autentico amore per la Francia e da grande entusiasmo olimpico, si può cominciare a dire che l’organizzazione di Parigi 2024 è un mezzo disastro; o come minimo che ci sono parecchie cose che non vanno.
La Senna
Rischio. Il principale lascito dei Giochi doveva essere la restituzione del fiume alla città: tutti dovevano poter nuotare liberamente nella Senna, tornata limpida come all’alba dell’era industriale. L’obiettivo è fallito. Lo prova il balletto attorno alla prova di nuoto del triathlon, che alla fine si è fatta – bellissime le immagini, per carità – nonostante le rilevazioni dei giorni precedenti, che segnalavano acque troppo inquinate e quindi pericolose per gli atleti. Se anche dovesse finire tutto bene, già il fatto di dover stare lì con la provetta in mano alla ricerca di batteri dai complessi nomi latini è imbarazzante; figuriamoci se a qualche concorrente dovesse venire il mal di pancia.
E comunque Parigi ha fallito la prova della Senna anche nella cerimonia inaugurale: al di là del giudizio estetico, gli atleti e i capi di Stato stranieri sono stati esposti a eccessivi disagi, che le competizioni imminenti e l’età avrebbero sconsigliato.
I trasporti
Inesistenti. In tutte le Olimpiadi vengono predisposte navette per consentire a chi le segue per lavoro di spostarsi da un’arena all’altra. In tutte, tranne che a Parigi. Le navette non si vedono. Ufficialmente ci sono, anche se poche; ma non si trovano quasi mai. Motivazione ufficiale: inquinano. E farle elettriche? Risposta: ingombrano. Certo, c’è il metrò; a volte però chiude presto, a volte qualche stazione in centro non apre proprio. E, come in tutti i Paesi del mondo tranne uno – indovinate quale -, a Parigi si trovano i taxi per strada. Poi però i tassisti devono districarsi in un labirinto di transenne, blocchi, controlli affidati a ogni sorta di reparto delle forze armate francesi, con certi chepì coloniali tipo Dien Bien Phu (peraltro i militari, tra cui moltissime donne, sono tutti gentili, per quanto sempre più arrabbiati).
Infrastrutture
Di facciata. Va bene riciclare; però bisognerebbe almeno adattare. Qui invece hanno preso il palazzo dei congressi della Porte Maillot e l’hanno chiamato centro stampa, senza neppure garantire gli spazi per tutti. Hanno preso il padiglione più brutto della fiera della Porte Versailles, e l’hanno chiamato Arena della pallavolo, fatta con i tubi delle tribune provvisorie. Si tira di scherma (tra ignobili torti arbitrali) al Grand Palais: meravigliose le vetrate, sia pure schermate; ma il Grande Palazzo è un cantiere, si scavalcano cataste di legno e di cavi, si respira polvere di calce e si infastidiscono gli operai al lavoro. Ma la storia più grave è quella della piscina, che non si è potuta fare profonda tre metri, come sempre, a causa di un parcheggio sotterraneo: la vasca è troppo bassa, l’acqua si muove di più – Ceccon se n’è subito accorto -, e i nuotatori perdono quei decimi che fanno la differenza tra un ottimo tempo e un record del mondo.
I volontari
Carinissimi; ma quasi tutti vecchi, tra cui molti non parlano inglese. I pochi giovani sono perlopiù stranieri, che non parlano francese. I ragazzi parigini sono tutti al mare; e i loro coetanei francesi non potevano o non volevano mantenersi a Parigi, condizione indispensabile per fare i volontari. Tutti, vecchi e giovani, sono accomunati da una cosa: non sanno niente. Assolutamente niente. Non sanno dove devono entrare i fotografi, dove i cameramen, dove i membri del Cio, dove gli spettatori, dove i tiratori d’arco, dove i judoka. Non sanno dove sia la toilette e dove sia la buvette, in cui trovare almeno un po’ d’acqua
L’acqua
Con i 36 gradi dell’altro ieri, giustamente venivano diffusi inviti a idratarsi. Ma come? Le bottigliette di plastica sono abolite. Giusto: ma proprio dall’Olimpiade bisognava cominciare? Le code ai vari baretti sono lunghissime. Con i prezzi qualcuno ne approfitta: in un caffè scalcagnato due bottigliette da 25 centilitri d’acqua possono costare 11 euro (voi direte: ordina una bottiglia da un litro. Ma quella non te la danno; «solo ai clienti che mangiano»). Quindi si deve andare in giro con un bicchierone, con cui attingere acqua dove capita, magari al rubinetti della toilette, se la si è trovata. Ma qui torniamo al problema della Senna e dei batteri dal nome latino.
La segnaletica
Insufficiente. Cartelli rosa che tendono a staccarsi, non una cartina, solo App: nostalgia della civiltà della carta, o almeno analogica. Nelle altre Olimpiadi, ognuno apprendeva dai cartelli dove entrare, dove sedersi, dove fare i controlli. Qui ci sono generici «ingressi accreditati», dove in code omeriche si trova di tutto. Al Roland Garros Stefanos Tsitsipas – fisico alto e sottile da divinità olimpica a dieta – si è fatto un quarto d’ora di fila al metal detector con noi mortali; davanti aveva un fotografo con uno zaino enorme; gliel’hanno fatto aprire, dentro c’era un’attrezzatura da spedizione himalayana, esaminata pezzo a pezzo. Tsitsipas con le sue racchette non ha fatto una piega. Ovviamente al Roland Garros ci sono l’ingresso fotografi e l’ingresso atleti. Ma all’evidenza erano chiusi; o forse i volontari hanno indirizzato sia i fotografi sia Tsitsipas nello stesso posto.
Musica
Insistente. I francesi amano Paolo Conte, ma all’evidenza hanno dimenticato la canzone in cui aspetta Bartali: «Sono seduto in cima a un paracarro/ e sto pensando agli affari miei/ tra una moto e l’altra c’è un silenzio/ che descriverti non saprei». Il silenzio nello sport è meraviglioso: la tensione tra un colpo e l’altro, quell’attimo sospeso tra la grazia e l’inferno. Però c’è sempre un dj a rovinarlo con le musichette. È così da tempo; ma ora l’inquinamento acustico sta degenerando. La pallavolo ha adottato i tormentoni musicali del beach volley; a Italia-Brasile il dj metteva Eros Ramazzotti e i Ricchi e Poveri a palla, anche quando dovevano servire i brasiliani, che giustamente si sono lamentati. Se poi c’è una fase di studio nella scherma, gli spettatori partono con la Marsigliese: mai visto, neppure a Pechino 2008, un tifo nazionalista così intenso. Pazienza; in fondo la Marsigliese è un canto universale; però sbagliare l’inno di un Paese martire come il Sud Sudan è stato imperdonabile.
Detto tutto questo, Parigi è meravigliosa, le Olimpiadi sono sempre bellissime, e a Roma lo sarebbero state ancora di più. Alla fine si griderà al successo; perché, come sempre in Francia, quello che conta è appunto la facciata.
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
L’OFFERTA DEL DEPUTATO E’ STATA GIA ACCETTATA DALLA PROCURA: ULTIMA PAROLA AL GIUDICE
La vicenda del profumo sottratto al Duty Free del Terminal 1 dell’aeroporto di Fiumicino dal deputato Pd Piero Fassino si potrebbe chiudere oggi al tribunale di Civitavecchia. Il giudice per le indagini preliminari deciderà, infatti, se accettare o meno la proposta dell’avvocato del parlamentare di estinguere il reato di tentato furto con una riparazione pecuniaria di 500 euro.
Il codice penale viene incontro a Piero Fassino e l’articolo 162 ter gli dà la possibilità di chiudere la faccenda. L’istanza del legale Fulvio Gianaria è stata presentata dopo la visione del video che riprende Piero Fassino dentro il Duty Free. «Davanti a un video che è molto equivoco, dove sembra che siamo davanti a una dimenticanza – dice a Repubblica l’avvocato Gianaria – abbiamo intrapreso questa strada per non affrontare un processo e la sua portata mediatica».
Il risarcimento proposto dal deputato, quando le indagini non sono ancora concluse, appare congruo rispetto a quanto ha cercato di portare via dagli espositori del corner Chanel dello scalo romano la mattina del 15 aprile. Fassino si stava per imbarcare su un aereo diretto a Strasburgo. Sotto cinque telecamere ha preso dallo scaffale il profumo, lo ha infilato in tasca. Il parlamentare si è sempre difeso dicendo che «stavo andando a pagare alle casse». A bloccarlo è stata una guardia giurata appena fuori dal Duty Free, il profumo che Fassino aveva dentro la giacca era uno Chanel Chance del valore di 130 euro.
Piero Fassino, per la procura di Civitavecchia, è un incensurato. Nel fascicolo d’inchiesta sono stati inseriti i cinque video depositati dalla polizia di frontiera di Fiumicino che ha ricevuto la denuncia della Aelia. In uno di questi c’è la ricostruzione di quanto avvenuto. In sei hanno testimoniato dicendo che non era la prima volta che il deputato portava via un profumo.
Il sostituto procuratore Alessandro Gentile ha già dato parere favorevole e ha trasmesso il fascicolo al gip. La decisione, senza fissazione di udienza, spetta adesso al giudice.
(da agenzie)
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Luglio 31st, 2024 Riccardo Fucile
PRINCIPALE OBIETTIVO: COLTIVARE LA PROPRIA FELICITA’… METE PREFERITE LE CITTA’ DI MARE
Quasi un italiano su dieci – l’8%, per la precisione –, mollerà tutto e cambierà vita «a breve, al massimo entro un anno». Uno su quattro confida di farlo «sicuramente più avanti», mentre addirittura uno su due lo vorrebbe ma al momento «è solo un’idea o un sogno nel cassetto». Di conseguenza, non stupisce come solo il 9% dei nostri connazionali ammetta di trovarsi bene nella propria situazione attuale. È uno scenario contraddistinto da grande insoddisfazione professionale quello emerso da un’analisi condotta nei mesi scorsi dalla società di recruiting Hays Italia in collaborazione con la piattaforma digitale per il benessere mentale Serenis, i cui risultati sono stati resi noti mercoledì. Quasi mille le persone intervistate, solo il 28% delle quali si è detto «molto o abbastanza» soddisfatto del proprio lavoro. Viceversa il 38% ha risposto «poco o per nulla», con il restante 34% a selezionare l’opzione «mediamente».
Obiettivo felicità
Principali ragioni addotte da chi vorrebbe voltare pagina, incrementare la propria felicità (60%), migliorare la qualità della vita (57%), avere più tempo e ritmi meno frenetici (54%) e ridurre lo stress (44%): come evidente, tutti fattori profondamente legati l’un l’altro. Sotto questo profilo, il 59% dei partecipanti alla rilevazione si trasferirebbe in una città marittima, il 31% in un’isola, il 29% in montagna, il 23% in campagna e il 21% in una città d’arte. Metropoli soltanto seste a quota 20%, segno di come sia desiderio di molti lasciarsi alle spalle caos, smog e cemento. Gli obiettivi più frequenti? Avviare un’attività in proprio in un settore totalmente nuovo (32%), aprire un B&B o un agriturismo (28%) e lavorare vivendo in campagna o montagna (26%). Molti comunque anche «quelli che vorrebbero viaggiare tutto l’anno svolgendo lavori saltuari, togliersi il vestito da “colletto bianco” e diventare artista / influencer o aprire il “classico” chiringuito», si apprende.
I profili più coinvolti
Quanto poi all’identikit del tipico lavoratore che non vede l’ora di dare le dimissioni, se da un lato non sussistono particolari differenze di genere, dall’altro costui «vive principalmente da solo, ha dai 50 ai 64 anni, è un profilo tendenzialmente alto (C-level) ma coinvolge anche i giovanissimi appena entrati nel mondo del lavoro, vive in comuni molto piccoli, al di sotto di 5 mila abitanti, o medio grandi, da 100 mila a 500 mila, lavora nelle grandi aziende». Da qui «la necessità per le aziende stesse di creare dei punti di ascolto con i propri dipendenti in modo da individuare le possibili cause di insoddisfazione che spesso non dipendono solo dal lavoro in senso stretto, ma anche da fattori personali o esterni», come analizzato a commento degli esiti del report dal People & Culture Director di Hays Italia Alessio Campi.
I consigli dell’esperta
«È importante che chi decide di intraprendere una nuova strada lo faccia con consapevolezza, preparazione e supporto adeguato, per trasformare un sogno nel cassetto in una realtà sostenibile e appagante», ha raccomandato la direttrice della Formazione e psicoterapeuta di Serenis Martina Migliore. In tale ottica – ha proseguito – «è fondamentale seguire alcuni consigli». Ecco i principali
Pianificare con cura ogni aspetto del cambiamento, dalla situazione finanziaria alle nuove opportunità professionali, per ridurre i rischi di insuccesso
Cercare il sostegno di amici e familiari per mantenere la motivazione e affrontare eventuali difficoltà
Essere consapevoli delle sfide emotive e psicologiche che un cambiamento radicale comporta e lavorare su sé stessi, con l’aiuto anche di uno psicoterapeuta, per sviluppare la necessaria resilienza
Acquisire nuove competenze e conoscenze nel settore in cui si desidera entrare per aumentare le probabilità di successo
«Se possibile, inoltre – ha concluso Migliore –, è bene adottare il nuovo stile di vita in modo graduale, ad esempio con periodi di prova o progetti part-time, per valutare la fattibilità e l’adattabilità». Ne può valere ampiamente la pena. Sempre secondo gli intervistati, infatti, «solo il 6% degli amici che ha fatto il grande passo nel nuovo progetto di vita si è poi pentito, e solo il 4% è tornato indietro. Quasi tre quarti si dicono invece soddisfatti o addirittura entusiasti».
(da agenzie)
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