Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
LA DUCETTA SOGNAVA DI COSTRINGERE URSULA A DARLE UNA VICEPRESIDENZA ECONOMICA “DI PESO” ALLA COMMISSIONE MA PER QUEL RUOLO MACRON HA GIÀ UN’IDEA: CONFERMARE THIERRY BRETON AL MERCATO INTERNO. E LA DUCETTA? ANCORA NON SA CHI CANDIDARE: ALEGGIA IL NOME DI FITTO, MA SOLO UFFICIOSAMENTE
Un commissario «di peso», con deleghe e compiti importanti in ambito economico. Nella nuova Commissione europea che verrà l’Italia cerca un posto di primo piano, in un negoziato tutt’altro che scontato per ragioni di politica e di concorrenza con i partner a dodici stelle. Il governo dovrà vedersela soprattutto con le analoghe ambizioni della Francia, desiderosa di un portafoglio come quello che vorrebbe il Belpaese. «Un incarico di serie A, che ci spetta come Paese fondatore» ha sottolineato il ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Una corsa a due appena cominciata, con Parigi che si presenta al nastro di partenza in condizione migliore. Il presidente francese, Emmanuel Macron, esce indebolito sul piano interno dalle elezioni europee del 9 giugno, un vero e proprio terremoto che ha costretto l’inquilino dell’Eliseo a sciogliere le Camere e indire elezioni anticipate.
Ma sul piano europeo è dentro la grande coalizione, e ha già ufficializzato il nome di Thierry Breton, attuale commissario per il Mercato interno, per il prossimo collegio di commissari e sostenuto Ursula von der Leyen per un secondo mandato alla testa dell’esecutivo comunitario. Una mossa con cui chiedere un commissario degno di uno Stato membro fondatore dell’Ue dalla grande forza economica.
Dall’altra parte la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ancora non ha sciolto la riserva sul nome da proporre per il collegio. Aleggia il nome di Raffaele Fitto, a differenza di Breton ancora da ufficializzare. La premier esce isolata dal vertice dei leader di pochi giorni fa. I conservatori europei di cui è esponente non fanno parte di quell’alleanza popolari-socialisti-liberali che è stata sancita dopo le elezioni europee, e a questo Meloni ha aggiunto la propria astensione nei confronti di un von der Leyn bis. Per sostenere la presidente uscente vorrebbe qualcosa in cambio, quella delega «di serie A» evocata dal suo vicepremier Antonio Tajani.
Allora ecco competitività, bilancio, Piani nazionali di ripresa (Pnrr), industria. Tutti temi che non disdegnerebbe l’Italia, ma che fanno gola anche alla Francia.
È qui che si dovrà mostrare abile Giorgia Meloni. Von der Leyen andrà a cercare i voti nell’Aula del Parlamento europeo, e solo dopo la sua elezione inizierà a lavorare per formare la squadra di commissari. Popolari (Ppe), socialisti (Pse) e liberali (Re) insieme dovrebbero garantire la maggioranza semplice richiesta per l’investitura, ma la presidente designata vorrebbe una maggioranza forte e anche un contrappeso contro i franchi tiratori che non digeriscono queste alleanze post-elettorali, e i voti dei 24 parlamentari di Fratelli d’Italia sono una dote non da poco.
Ma servirà anche il nome giusto, per evitare che si ripeta l’esperienza di Rocco Buttiglione, bocciato dal Parlamento nel 2004 per le sue posizioni troppo rigide su diritti Lgbtqia+ e parità di genere.
Certamente dipenderà anche da come von der Leyen vorrà ridisegnare il collegio. Alcuni degli attuali portafogli potrebbero sparire, altri accorpati, e potrebbero comparirne di nuovi, legati alle nuove necessità. Allo stesso tempo l’Italia dovrà lavorare bene. Meloni dovrà negoziare personalmente con von der Leyen e, se vuole avere la meglio sulla Francia, farlo immediatamente, con Macron impegnato com’è a gestire le questioni di politica interna.
A Bruxelles c’è chi ritiene che aver detto «no» alle figure proposte per gli incarichi di rilievo delle istituzioni europee sia stato un errore che ha indebolito Meloni da punto di vista politico e di immagine. Se così è c’è da ricucire uno strappo, ma il negoziato da condurre in porto comunque rimane.
(da la Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
DAL 2020 SONO ANDATI PERSI 1,8 MILIONI DI POSTI DI LAVORO, IL PIL È CALATO E IL POTERE D’ACQUISTO DEI SALARI È SCESO DI 2.000 STERLINE L’ANNO. LE TASSE SONO AUMENTATE DEL 4%, SONO CRESCIUTI I PREZZI DEI BENI PRIMARI
Le ultime elezioni europee hanno premiato gli euroscettici, che lo sono più nelle dichiarazioni che nei programmi. L’uscita dall’Europa oggi la sostiene solo il partito tedesco Afd. Negli anni passati l’aveva cavalcata il Partito Popolare Danese, il Partito delle Libertà in Austria, Perussuomalaiset in Finlandia, il Partito Nazionalista a Malta e il Front National in Francia. In Italia c’era Italexit, mentre Fratelli d’Italia nel programma elettorale per le Europee 2014 proponeva lo «scioglimento concordato dell’eurozona», così come aveva fatto la Lega. […] L’unico Paese che ha lasciato l’Ue è il Regno Unito. Vediamo come è andata.
Parte tutto nel 1993 A chiedere l’uscita dalla Ue fin dal 1993 sono gli indipendentisti dell’Ukip, che sotto la guida di Nigel Farage nel 2014 diventano il primo partito.
David Cameron indice il referendum e il 23 giugno 2016, contro tutte le previsioni, il 51,9% dei votanti sceglie «Brexit». Dopo lunghi negoziati a gennaio 2020 viene siglato il divorzio.
Il Regno Unito, pur versando meno del dovuto, era un contribuente netto, con un saldo negativo di 6 miliardi di euro all’anno.
Oggi il contributo è scomparso, ma Londra non è diventata più ricca. Deve saldare il passivo che ha con Bruxelles: all’approvazione del bilancio comunitario, come fa ogni Stato membro, si era impegnata a versare fondi, ricevendone altri in cambio (aiuti, fondi strutturali, progetti di ricerca). Secondo i conti fatti a luglio 2019 dall’ Obr, l’Ente di controllo sul Bilancio statale, il debito era di 32,8 miliardi di sterline. Nel 2024 ne resta da pagare ancora la metà, mentre il think tank britannico Ippr calcola che quello che il governo riesce a stanziare è il 57% di quanto dava l’Europa
Cresce la spesa pubblica: il ripristino delle frontiere, dogane e tutta la burocrazia connessa agli organismi di controllo ha comportato un aumento del personale di 100 mila unità. Il Regno Unito ha perso l’accesso a quel mercato unico da 450 milioni di consumatori ricchi, non compensato dagli accordi commerciali con i Paesi del Commonwealth, mentre quello di libero scambio con Stati Uniti è naufragato. Il principale mercato di esportazione è ancora quello con la Ue, solo che ora Londra non ha più strumenti per influenzare le decisioni politiche europee.
Fuori dagli standard comuni che facilitavano le importazioni, ora i nuovi controlli sui prodotti alimentari sono a carico delle imprese britanniche con un costo di 2 miliardi di sterline all’anno in più e conseguente crescita dell’inflazione dello 0,2% annuo (Allianz Trade). Per il governo il conto annuale è più basso: 330 milioni di sterline. Intanto per raffreddare l’aumento del costo della vita sono state sospese per i prossimi due anni le nuove tariffe doganali su automobili, carburanti, metalli e beni alimentari, che rappresentano il 45% delle importazioni.
Londra ha dovuto lasciare la Banca europea per gli investimenti (Bei) perché i suoi azionisti sono solo i Paesi membri dell’Ue. La Bei, che raccoglie fondi sui mercati ed eroga prestiti a condizioni favorevoli, nel corso degli anni ha investito nel Regno Unito 146 miliardi di sterline, tra cui il tunnel sotto la Manica, gli ammodernamenti della metropolitana di Londra e lo sviluppo delle energie rinnovabili. Oggi il governo riesce a mettere a disposizione solo 2,4 miliardi di sterline l’anno, meno della metà degli investimenti garantiti dalla Bei tra il 2009 e il 2016.
Nel 2015 il Regno Unito era la quinta economia del mondo, nel 2023 è scesa al sesto posto. Le analisi più accreditate concordano: per Goldman Sachs dal referendum del 2016 il Paese ha avuto risultati inferiori alle altre economie avanzate, con una crescita più bassa e un’inflazione più alta. Sul fonte dell’immigrazione sono calati drasticamente gli europei e aumentati in modo significativo gli extracomunitari.
I dati elaborati da Bloomberg evidenziano che dal 2016 il Pil è cresciuto del 6% contro il 24% di quello della Ue, mentre nei dieci anni precedenti la Brexit aveva guadagnato il 12% rispetto a quello medio europeo.
L’Obr nel report di marzo 2024 certifica: commercio meno 15%, produttività meno 4%. Ne identifica le cause nelle nuove barriere sulle merci e nella parziale perdita di Londra del ruolo di hub. Già a partire dal 2016 banche e broker con sede nel Regno Unito, in vista dell’impossibilità a operare liberamente nei Paesi Ue, hanno spostato attività per 900 miliardi di sterline a Dublino, Parigi, Francoforte e Amsterdam.
A differenza di quanto assicuravano i pro-Brexit il carico fiscale reale è aumentato: oggi, scrive l’Obr, è del 37,1%, il 4% in più rispetto al 2016. Crescono i prezzi dei beni primari, più 30% per gli alimentari, cala il potere d’acquisto di quasi 2.000 sterline l’anno sul reddito medio e il mercato del lavoro perde 1,8 milioni di posti.
Il mercato del lavoro perderà altri 1,2 milioni di posti con una decrescita del 10,1%. Tutto questo farà salire il costo complessivo dell’uscita dall’Ue a 311 miliardi di sterline. Eppure gli inglesi godevano delle condizioni migliori per stare nel «club», ma gli euroscettici hanno preferito raccontare un’altra storia e ora sono i cittadini a pagare il conto salato. Dal 2022 i delusi sono sopra il 50% e ormai si parla apertamente di «Bregret» (pentimento). L’ultimo sondaggio di YouGov è del 27 marzo 2024: contrario alla Brexit il 55%.
Domenico Affinito e Milena Gabanelli
per il “Corriere della Sera”
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
E ORA TEME L’OFFENSIVA DI SALVINI IN EUROPA
Non è andata come sperava. Giorgia Meloni sognava una vittoria totale di Marine Le Pen. Si aspettava che la presa del potere della figlia di Jean-Marie fosse chiara già al primo turno. Non perché consideri la leader francese la migliore alleata possibile — le due si parlano il giusto e si sopportano per interesse — piuttosto per una ragione tattica evidente: un’affermazione totale del Rassemblement National avrebbe scompaginato già da ieri sera gli equilibri europei, indebolendo ulteriormente Emmanuel Macron e aprendo forse una breccia nel fronte europeista che l’ha emarginata sui top jobs.
I risultati, però, dicono altro. La partita francese sembra aperta. E la presidente del Consiglio dovrà attendere almeno un’altra settimana prima di capire cosà accadrà a Parigi. Senza una vittoria di Bardella e senza coabitazione, si restringerà ulteriormente il potere negoziale della presidente del Consiglio in Europa.
Rendendo il dilemma degli ultimi giorni ancora più stringente: cedere i propri voti a Ursula von der Leyen per puro spirito istituzionale e senza contropartite politiche, oppure piazzarsi all’opposizione per marcare le destre sovraniste che intanto si organizzano?
Dovesse scegliere la prima strada, potrebbe costruire un dialogo con la nuova Commissione. Si convincesse invece della strada della radicalizzazione, si ritroverebbe ininfluente a Bruxelles e rischierebbe comunque di trasformarsi in una copia sbiadita degli identitari Le Pen, Viktor Orban e Matteo Salvini.
Da ieri sera, il rischio di finire impantanata nella terra di mezzo è dunque per Meloni ancora più concreto.
Mentre infatti in Francia le prime proiezioni assegnavano il 65% al blocco di sinistra, macroniani e repubblicani — lasciando aperto ogni scenario in vista del secondo turno — a Bruxelles si iniziava a intravedere il profilo di un gruppone sovranista, euroscettico e con marcate venature putiniane. Più combattivo di Ecr, forse più numeroso. Questa, almeno, la sensazione della premier, allarmata dalle mosse di Salvini.
Proprio le manovre del premier ungherese e del leghista non sono passate inosservate a Palazzo Chigi.
Orban ha presentato un progetto assieme all’estrema destra austriaca e ha ottenuto la benedizione del segretario del Carroccio, che ha auspicato una convergenza tra i nazionalisti dell’Est ed Identità e democrazia, promettendo che nel logo entrerà la parola “Patrioti”. Uno schiaffo a Meloni.
Un cantiere a cui Salvini fa sapere di lavorare da settimane: «C’è già un accordo di massima», trapela. Potenzialmente, si tratta di una pattuglia di almeno 75 parlamentari. Se al nuovo gruppo aderisse anche il Pis polacco — che ha venti eurodeputati in Ecr, è in freddo con Fratelli d’Italia e ha in agenda dopodomani la riunione in cui deciderà il proprio destino — allora si verificherebbe un mortificante sorpasso: 95 a 63, con i Conservatori che perderebbero il terzo gradino del podio, scavalcati dal nuovo soggetto.
Questa possibilità rende ancora più stringente il bivio della premier. Se Meloni volesse infatti ricucire con von der Leyen, la possibile saldatura degli estremisti potrebbe addirittura convenirle: la metterebbe a capo dell’unica destra disponibile a ragionare con nuova Commissione. A una condizione, però: accettare di offrire i propri voti a Ursula senza il riconoscimento politico sperato, che non arriverà mai. Meloni deve insomma decidere se garantire “da premier” e non da leader di Ecr i 25 voti di FdI. E concordare al massimo un buon portafoglio per il commissario italiano.
È lo scenario per cui premono riservatamente il Colle, Forza Italia, il Tesoro, la Ragioneria dello Stato e chi conosce gli enormi problemi che il Paese dovrà affrontare in autunno sui mercati e con l’Europa, a causa di un deficit troppo alto. Questa svolta, però, esporrebbe Meloni a un gigantesco problema politico con ciò che si trova alla sua destra
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
TRA I COLLABORATORI ASSUNTI DALL’AGENZIA INTERINALE ADECCO SPUNTA PURE FERDINANDO COLLOCA, ALIAS “MR FERDY IL GURU”, BODY PAINTER E DJ, NONCHÉ CANDIDATO DI CASAPOUND A OSTIA E LEGATO PER MOTIVI DI AFFARI ALLA FAMIGLIA SPADA
Come si suol dire, chi trova un amico trova un tesoro. O meglio, trova un lavoro, e se è per un figlio ancora meglio. Gli amici in questione sono Roberto Sergio, amministratore delegato della Rai ormai arrivato a conclusione del suo percorso con questo ruolo […] e Giovanni Tarquini: il primo fu testimone di nozze del secondo, nel 1990, un rapporto duraturo fatto di vacanze e iniziative pubbliche assieme con le rispettive consorti.
Ecco, nelle settimane scorse c’è stata una piccola infornata di “programmisti multimediali” contestata dai sindacati della Rai perché fatta aggirando le rivendicazioni del personale della tv di Stato, la stabilizzazione dei precari e le liste di disoccupazione; utilizzando come tramite una selezione curata dalla società di intermediazione Adecco. E chi c’è tra i pochi fortunati? Matteo Tarquini, “figlio di”, beneficiato di un inquadramento di livello 1, in pratica un funzionario, che per la specifica mansione se si è dentro la Rai tocca sudare vent’anni.
Infatti le rappresentanze sindacali unitarie pretendono invece «il riconoscimento di un iter di carriera chiaro e trasparente nel rispetto di ruoli e mansioni». Va detto che a ottobre 2023 la Direzione Risorse Umane e Organizzazione, “a fronte dell’esigenza manifestata dalla direzione radio di individuare 5 programmisti multimediali, da inserire nel proprio organico e in quello dei canali radiofonici” si era detta “disponibile a valutare eventuali candidature […] di dipendenti del gruppo Rai con contratto a tempo indeterminato”. Ma il bando interno non era andato a buon fine «perché estremamente specifico e illogico», spiega una fonte interna.
Così si è passati ad Adecco, la quale ha raccolto i curricula arrivati, e si parla di oltre mille autocandidature inviate alla multinazionale. Ne è uscita una rosa limitata, consegnata a una commissione interna alla tv di Stato che ha fatto delle proprie valutazioni sui singoli e sulle rispettive esperienze e capacità. Il “ma”, indicibile pubblicamente, è che siano state segnalati dei nomi specifici. Persone che insomma qualcuno teneva molto passassero. Nel caso di Tarquini, dopo la prima “collaborazione artistica professionale in qualità di esperto letterario e arti figurative per il programma di Rai Radio1” nel 2020 e altri impieghi tutti nel mondo delle radio Rai, “regno” di Sergio dal 2017, è arrivata l’assunzione.
Tra i collaboratori assunti attraverso Adecco c’è pure Ferdinando Colloca, in arte anche detto “Mr Ferdy il Guru”, body painter e dj, mandato alla direzione intrattenimento day time cioè ai programmi, quindi in tv, nonostante la selezione fosse per la radio; Colloca è stato esponente di Casapound ad Ostia, candidato alle regionali, legato per motivi di affari alla famiglia Spada ed è anche fratello di un esponente di Fratelli d’Italia e poi Lega, Salvatore, che è programmista regista in Rai; e di Gaetano, anche lui dipendente Rai nell’area digital. Ma c’è un detto anche per questo: non c’è due senza tre.
Appena letta la notizia su Repubblica, Roberto Sergio ha fatto sapere di aver “attivato un audit a tutela dell’azienda e del ruolo dell’amministratore delegato”. Mentre Vittorio Di Trapani, presidente del sindacato dei giornalisti Fnsi e già alla guida di Usigrai, commenta così su X: “Dopo anni di concorsi […] si torna a metodi della vecchia politica: assunzioni per amici e parenti. Il trucco è in una modifica al piano anticorruzione che infatti Usigrai contestò”.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
DOPO DECENNI DI COLONIALISMO ARRIVA IL KARMA
Secondo molti francesi il loro paese sta diventando in una colonia africana. Karma nazionale dopo decenni di colonialismo. Hanno paura, Macron è inutile e così votano Le Pen. Volano gli stracci ma l’antidoto a certi rigurgiti è farli governare, non ghettizzarli. Certe giurassiche contrapposizioni ideologiche servono giusto per spartirsi le poltrone e presto ci arriveranno anche oltralpe. Quanto all’immigrazione, siamo solo all’inizio. Si va verso il meticciato globale e il tema rimane giustamente al centro della scena politica in tutto l’Occidente dove il cielo è sempre più nero. Anche in Inghilterra presto al voto e negli Stati Uniti dove Trump addirittura rilancia il muro col Messico. Già, l’immigrazione clandestina di massa è il fenomeno storico più significativo degli ultimi decenni, esodi che fanno tremare i fragili equilibri esistenziali di noi occidentali ed alterano le nostre società con conseguenze ancora tutte da decifrare. Un fenomeno che genera paura e non c’è come la paura per smuovere le masse. Paura di perdere roba e false certezze e perfino identità. Neoliberalismo che prima ti sprona ad identificarti con le cose materiali e poi ti fa vivere nella paura di perderle. Paura che la politica sfrutta senza combinare nulla perché di fatto impotente. Le migrazioni di massa possono al massimo venire gestite meglio, ma servirebbero istituzioni e classi dirigenti internazionali che non esistono. Già, l’Europa intera rischia di diventare una colonia africana mentre i veri nativi americani anche del sud, si riprenderanno gli Stati Uniti. Karma occidentale dopo secoli e secoli di colonizzazioni, guerre e spensierato neoliberalismo. L’unico modo per arginare almeno in parte gli esodi sarebbe fare in modo che i poveri del mondo abbiamo di che vivere decentemente a casa loro, ma questo vorrebbe dire rimettere in discussione il nostro modello economico e sociale oltre che considerare la pace come scelta obbligata e l’ambiente come emergenza. Vorrebbe dire guardarsi allo specchio. La grande maggioranza degli esseri umani vive in miseria mentre una minoranza sempre più esigua nel lusso e nello spreco, volano missili ovunque, il pianeta è una discarica eppure la politica occidentale litiga per qualche poltrona e promette muri immaginari. Col paradosso che gli occidentali non fanno più né figli né certi lavori e quindi hanno un dannato bisogno dei poveri per mantenere in funzione la loro folle macchina neoliberista. Altro che ipocrisie politiche. Solo una giustizia sociale globale permetterebbe all’Occidente di sopravvivere come è oggi, altrimenti il suo destino è il meticciato globale. Tra qualche decennio gli esseri umani non saranno più né bianchi né neri ma di diverse sfumature di marrone così perlomeno cesserà la scemenza delle razze oltre che quella dei confini anche mentali con cui ci dividiamo. Ma se non verrà risolto il problema di fondo, anche i meticci esclusi prima o poi si metteranno in viaggio verso quelli privilegiati e si ripeteranno le stesse dinamiche. Macron strilla, la Le Pen vince e i cieli occidentali son sempre più neri ma la tempesta all’orizzonte è tutt’altra. Altro che giurassiche contrapposizioni ideologiche, in attesa del meticciato e quindi di una società civile globale, va riformato il modello neoliberista.
(da Infosannio)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
ISOLATASI AL CONSIGLIO EUROPEO PER NON VOTARE LE NOMINE, MA ANCHE IN PARLAMENTO (I CONSERVATORI DIVENTEREBBERO IL SESTO-SETTIMO PARTITO)
Giorgia Meloni sapeva. E lo sapeva dal 12 giugno scorso. Quel giorno, mentre lei era alle prese con gli ultimi preparativi del G7, in un hotel di Bruxelles si sono incontrati Matteo Salvini e Marine Le Pen, e con loro gli altri leader di Identità e democrazia (Id), il gruppo deciso a far pesare la nuova ondata di destra in Europa e il trionfo della regina degli ultranazionalisti in Francia. Da allora, in meno di venti giorni, Meloni ha visto sgretolarsi le possibilità di mantenere la presa salda sui sovranisti.
Ora sta accadendo quello che più temeva. Essere prigioniera della sua stessa duplice condizione: leader di un partito saldamente piantato a destra dei popolari, fuori dalla maggioranza che governa l’Europa, e presidente del Consiglio di un Paese fondatore e terza economia dell’Unione.
Le conseguenze potrebbero essere molto peggio di quelle che si aspettava: dopo il doppio no sulle nomine dei vertici europei e l’astensione tattica sul bis di Ursula von der Leyen alla Commissione, Meloni rischia di rimanere isolata a Bruxelles e politicamente indebolita, alla testa di un gruppo, i Conservatori e riformisti (Ecr) che sta per scivolare al sesto-settimo posto tra le famiglie dell’Europarlamento.
Manca solo l’annuncio, ma – da quanto filtra – la Lega di Salvini entrerà a far parte della nuova famiglia dei Patrioti, battezzata ieri a Vienna. I padrini sono Viktor Orbán, premier ungherese e leader di Fidesz, allontanato dal Ppe e lasciato fuori da Ecr, Herbert Kickl, ex ministro dell’Interno austriaco e capo del Partito della Libertà (FPÖ), fuoriuscito da Id, e Andrej Babis, ex premier ceco, leader dei liberal-populisti e fuoriuscito dall’Alde.
Di fatto sarà una sorta di ri-brandizzazione di Identità e democrazia (Id), o un suo spin-off, si sta decidendo in queste ore.
Di certo si tratterà di un allargamento e all’interno del nome ci sarà la parola “patrioti”. Altra beffa per Meloni: proprio lei che in Italia ha quasi proprietà esclusiva sul termine, ora dovrà sentirlo in bocca a un ex secessionista come il capo della Lega. Salvini ha aspettato la conferenza stampa di Vienna per rivendicare un progetto che sente come suo e su cui lavora da molto mesi, in accordo con Le Pen.
La nuova creatura sembra nascere con una studiata coincidenza: nel giorno in cui Marine Le Pen porta il Rassemblement National a confermarsi primo partito, al primo turno delle legislative, e alla vigilia dell’inizio della presidenza di turno ungherese dell’Ue.
Orbán celebra così il semestre in cui guiderà l’Unione, forte di una strategia che ha fatto leva sulla mancata adesione ad Ecr. Nonostante l’amicizia, l’intesa storica e la simpatia, Meloni e Orbán non hanno unito i loro destini. Ha pesato la variabile filorussa e i tentennamenti del primo ministro di Budapest nel sostegno alla resistenza di Kiev.
Così la premier ha potuto lasciare spazio nei Conservatori al partito romeno che nel suo statuto ha dichiarate ostilità verso gli ungheresi. Un po’ poco per sperare di stabilizzare un gruppo, Ecr, che rischia di svuotarsi, se anche il PiS (Diritto e Giustizia) dell’ex premier polacco di Mateusz Morawiecki porterà via la sua truppa di oltre venti eurodeputati.
Resta l’ostacolo delle affinità di Orbán con Mosca, mal sopportate in Polonia, ma i sovranisti di Morawiecki ci stanno pensando. E questa, nelle prossime ore, potrebbe essere una delle grandi novità a cui alludeva Kickl, assieme all’annuncio di Salvini e all’arrivo di Le Pen. La Madame degli ultranazionalisti vorrebbe aspettare il secondo turno delle elezioni in Francia prima di formalizzare la partecipazione alla nuova sigla dei Patrioti, dove il Rassemblement sarebbe il partito più forte e lei il punto di riferimento naturale.
Un ruolo di guida della destra nazionalista che verrebbe scippato a Meloni. Non solo: se si confermeranno gli auspici e le previsioni di Orbán, Babis, Kickl e Salvini – e se si uniranno anche alcuni partitini dell’estrema destra estone e greca – la casa dei Patrioti potrebbe rivelarsi molto attrattiva e diventare la terza più affollata dell’Europarlamento. I Conservatori di Meloni crollerebbero dietro due spinte opposte: i più moderati attratti dal Ppe, e più radicali sedotti dai nazional-populisti.
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
A FINE 2023 SONO STATI USATI APPENA 43 MILIARDI SUI 102 INCASSATI: ORMAI È DIFFICILE RAGGIUNGERE TUTTI GLI OBIETTIVI ENTRO IL 2026… IL MINISTERO CHE HA ACCUMULATO I MAGGIORI RITARDI È QUELLO DI SALVINI: OLTRE 33 MILIARDI ANCORA DA SPENDERE
A che punto è la spesa del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr)? Il governo Meloni vanta alcuni primati rispetto alla dimensione del programma, ma tra tutti gli indicatori di efficienza, quello della messa a terra delle misure resta problematico. Nell’ultima relazione al Parlamento, al 31 dicembre 2023, chi governa la macchina del Pnrr un po’ si autoassolve, citando il penultimo rapporto della Commissione europea.
Che, facendo una valutazione intermedia dei piani, il 21 febbraio scorso, ha ammesso che «in tutti gli Stati membri, il livello di spesa effettivamente sostenuto finora è inferiore alle risorse trasferite, in quanto nei primi anni di attuazione dei Piani nazionali gli obiettivi da raggiungere sono stati in prevalenza di natura qualitativa».
A piccoli passi
E così, il nostro Paese, alla fine dell’anno scorso, a fronte dei 101,93 miliardi di euro ottenuti, corrispondenti a circa il 52% del totale del Pnrr, compreso il prefinanziamento iniziale, ha speso 45,6 miliardi di euro. Un dato che però si riferisce al piano prima della sua revisione, comprensivo anche delle spese, pari a circa 2,6 miliardi, relative alle misure fatte slittare dal Piano. Dunque, alla fine, siamo a quota 43 miliardi effettivi. Nel solo 2023 l’esborso è stato di 21,1 miliardi di euro, valore di poco inferiore a quanto registrato cumulativamente nel biennio 2021-2022. Un dato inferiore alle previsioni: 40,9 miliardi di euro (Nota di aggiornamento al Def 2022).
Il dato di spesa relativo al primo semestre di quest’anno dovrebbe crescere a seguito dell’entrata in vigore di nuove disposizioni che rafforzano l’obbligo per le amministrazioni di aggiornare tempestivamente le informazioni rilevanti.
Intanto però, dati alla mano, a revisione fatta, restano da spendere 151,4 miliardi in tre anni, più del triplo di quanto sia stato speso finora. Nella riprogrammazione del Pnrr si prevede di spendere 43 miliardi nel 2024 e 56 nel 2025. Cifre che, date le premesse, sembrano inarrivabili. Gli economisti Gustavo Piga e Gaetano Scognamiglio, dall’Osservatorio Recovery Plan, propongono una semplice proiezione: «Al momento — scrivono —, la spesa Pnrr certificata dal governo corrisponde a un trend mensile di 1,5 miliardi di euro».
Se così stanno le cose, proseguono, «ipotizzando un andamento costante di tali spese, si potrà arrivare a una spesa complessiva di 100 miliardi di euro al 31 dicembre 2026, con un Pnrr che vale nel suo complesso 194 miliardi di euro. Abbiamo dunque 94 miliardi di spesa a rischio».
Il percorso
Esiste una qualche possibilità che la spesa acceleri da quest’anno in poi? E se esiste, dipenderà da come è stato riprogrammato il Pnrr? Finora in cima alla classifica dei ministeri che hanno speso di più, al 31 dicembre 2023, c’è l’Ambiente e la sicurezza energetica, con 14 miliardi. A seguire, il ministero delle Imprese e del made in Italy con 13,76 miliardi. Al terzo posto, con sei miliardi, si piazzano le Infrastrutture. Quindi Istruzione, Università e Transizione digitale. Da qui in poi la spesa crolla sotto il miliardo.
Ma chi deve spendere ancora le maggiori risorse? Ancora una volta troviamo le Infrastrutture con la bellezza di 33,78 miliardi da sborsare entro il 2026. Seguono l’Ambiente, con scarsi venti miliardi, le Imprese e la Salute, ciascuno con circa 15 miliardi e così via.
Per capire se è possibile accelerare bisogna però guardare in che ambito la spesa finora è corsa più veloce: a svettare è la categoria «Concessione di contributi a soggetti diversi da unità produttive» (è stato speso il 94,5% di quanto attribuito), seguita dalla voce «Concessione di incentivi ad unità produttive» (32,8%): sono soprattutto misure relative a Ecobonus e Transizione 4.0. La terza categoria di spesa è quella relativa alla «Realizzazione di lavori pubblici» per la quale, a fronte di una dotazione finanziaria di circa 80 miliardi di euro, si rileva un livello di spesa di 10,07 miliardi, pari al 12,5% del budget.
In questa categoria la quasi totalità delle risorse è stata assorbita da Rfi (Rete ferroviaria italiana), il principale soggetto attuatore in termini di avanzamento di spesa (5,4 miliardi), seguita dagli Enti pubblici territoriali (3,2 miliardi).
Qualche trucchetto
A seguito della revisione del Piano, gli incrementi più significativi, in termini di risorse disponibili, riguardano i ministeri delle Imprese e dell’Agricoltura, nonché la Struttura commissariale per la ricostruzione, assente nel precedente Pnrr, dove a essere coinvolto era il ministero dell’Interno.
Interessante notare anche quali siano le misure più finanziate dal nuovo Pnrr: 14 miliardi vanno solo all’Ecobonus, 8,9 miliardi a Transizione 4.0, e 6,3 miliardi a Transizione 5.0. Fin qui si direbbe che si è scelto il metodo più semplice per spendere i soldi. Seguono con 5,5 miliardi le Politiche attive del lavoro e la Formazione. Solo successivamente si ritrovano voci relative a Lavori pubblici, il capitolo che più segna il passo per la lentezza della messa a terra dei progetti e per la molteplicità dei soggetti coinvolti nell’attuazione.
Scrivono Piga e Scognamiglio che, di fronte a questa situazione, diventa fondamentale considerare «l’attivazione di poteri sostitutivi per accelerare le autorizzazioni da parte degli enti pubblici competenti». Allo stesso tempo suggeriscono un programma straordinario di riorganizzazione delle stazioni appaltanti qualificate «per garantire la presenza di personale tecnico competente e motivato». Basterà a portare a casa il Piano entro il 2026?
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
‘NON POSSIAMO LASCIARE MORIRE GLI ANIMALI. PER TRE DECENNI, LA MANUTENZIONE ESSENZIALE DELLA RETE DI IRRIGAZIONE È STATA TRASCURATA”
Ogni mattina, appena sveglio, Luca Cammarata guarda il cielo nella speranza che qualche nuvola all’orizzonte porti qualche goccia d’acqua. Nella sua fattoria, nell’entroterra siciliano, non piove da mesi. Le 200 capre di Cammarata pascolano in un paesaggio arido che assomiglia a una superficie lunare, costrette a mangiare erbacce secche e a bere da uno stagno fangoso, scrive The Guardian.
Il 53enne non ha mai vissuto una siccità simile. “Se le cose continuano così”, ha detto, “sarò costretto a macellare il mio bestiame e a chiudere la mia fattoria”.
Il deserto sta invadendo la Sicilia, l’isola più grande e popolosa del Mediterraneo, dove nel 2021 è stata registrata una temperatura massima europea di 48,8°C. Le precipitazioni sono diminuite di oltre il 40% dal 2003. Negli ultimi sei mesi del 2023 sono caduti appena 150 mm di pioggia.
“La situazione è drammatica, non c’è più acqua da bere per gli animali”, ha detto Cammarata. “L’unica risorsa idrica che abbiamo è questo stagno artificiale, ma ora c’è solo fango. Chiediamo alle autorità di inviare l’esercito per aiutarci a portare l’acqua alle fattorie. Non possiamo lasciare che gli animali muoiano. Un contadino non può sopportare di vedere i propri animali morire di sete”.
A maggio il governo di Roma ha dichiarato lo stato di emergenza per la siccità in Sicilia, stanziando 20 milioni di euro di aiuti, ben al di sotto dei 130 milioni di euro richiesti dal governo regionale.
Tradizionalmente, l’acqua potabile dell’isola proviene dalle falde acquifere, strati rocciosi sotterranei saturi d’acqua, mentre l’acqua per l’agricoltura viene immagazzinata in grandi serbatoi costruiti dopo la seconda guerra mondiale. Entrambi i sistemi si basano su precipitazioni invernali sempre più scarse. Per tre decenni, la manutenzione essenziale della rete di irrigazione è stata trascurata, riducendo la capacità dei serbatoi dell’isola
Nell’ottobre 2023, le temperature medie dell’isola hanno oscillato tra i 28 e i 30°C, con picchi che hanno raggiunto i 34-35°C, rendendolo l’ottobre più caldo degli ultimi 100 anni in Sicilia.
Ma il vero problema arriva in estate, quando le temperature sfiorano i 48°C e le ondate di incendi polverizzano quel poco di vegetazione rimasta. L’anno scorso, secondo una stima dell’agenzia regionale di protezione civile, gli incendi hanno causato danni per oltre 60 milioni di euro (51 milioni di sterline). Più di 693 ettari di boschi sull’isola sono stati distrutti.
La produzione agricola nazionale è diminuita dell’1,8% nel 2023 a causa dell’impatto dell’emergenza climatica, secondo l’agenzia nazionale di statistica. L’agenzia ha segnalato una diminuzione del 17,4% della produzione di vino e dell’11,2% della produzione di frutta.
La Coldiretti, la più grande associazione italiana di agricoltori, si sta impegnando a sostenere gli allevatori con l’acquisto di acqua per riempire i laghi artificiali. Ma questo sforzo da solo non è sufficiente.
“La situazione continua a peggiorare”, ha dichiarato Francesco Ferreri, presidente siciliano della Coldiretti. “I danni subiti dal settore agricolo si stanno ora riverberando su altri ambiti economici. Dobbiamo affrontare questo problema e gestire con prudenza le limitate risorse a disposizione, dando priorità agli agricoltori più bisognosi”.
Secondo gli scienziati, l’emergenza climatica potrebbe spazzare via dal Mediterraneo le colture agricole tradizionali, costringendo i coltivatori a cercare alternative tropicali. Negli ultimi tre anni la produzione di avocado, mango e papaya è raddoppiata in Sicilia, mentre nell’orto botanico di Palermo i ricercatori hanno registrato per la prima volta la fioritura della welwitschia, una pianta originaria del deserto del Namib dell’Africa meridionale. Nel 2021 la famiglia Morettino, con una storia centenaria nell’industria del caffè, ha coltivato con successo il proprio caffè in un piccolo appezzamento di terreno in Sicilia, con l’obiettivo di creare la piantagione di caffè più a nord del mondo.
“È vero che la Sicilia sta diventando più tropicale [in termini di temperature]”, ha detto Mulder. “Ma nelle aree tropicali non è raro avere 2-3 metri di precipitazioni all’anno, un valore ben lontano dalle medie della Sicilia”.
In provincia di Enna i bacini idrici sono in secca e il paesaggio rurale in estate assomiglia ai deserti del West americano. La scorsa settimana il sindaco ha annunciato che l’acqua sarà razionata a giorni alterni.
(da Guardian)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
L’IMPORTANTE E’ NON DISTURBARE L’ORDINE PUBBLICO, POI SE DAL PROPAGARE IDEE RAZZISTE E ANTISEMITE QUALCHE CERVELLO BACATO UN DOMANI COMMETTE UN REATO NON INTERESSA AL PEGGIORE MINISTRO DELL’INTERNO CHE L’ITALIA ABBIA MAI AVUTO DOPO SALVINI
Tutto parte dall’intervista rilasciata dal titolare del Viminale a SkyTg24. Interpellato sulle esternazioni antisemite portate alla luce dall’inchiesta di Fanpage, liquida il caso derubricandolo a una questione interna al partito della premier: “L’inaccettabilità delle cose viste è stata affermata anche da Giorgia Meloni e sarà sanzionata con degli allontanamenti dal partito giovanile di FdI”, dice.
Poi si premura di sottolineare che al Viminale interessano maggiormente altri contesti: “L’antisemitismo che si traduce anche in azioni che possono mettere a repentaglio la sicurezza e l’ordine pubblico non si è evidenziato da quel gruppo giovanile ma da ben altri che nelle nostre piazze e nelle nostre università hanno bruciato le bandiere di Israele, gli assalti alla Brigata ebraica il 25 aprile, cose molto più pericolose che non sono state poste in essere da quel gruppo giovanile”.
Matteo Piantedosi, commenta l’europarlamentare dem Matteo Ricci, “nega la realtà e dice che da Gioventù Nazionale non ci sono ‘comportamenti pericolosi’. Dal ministro dell’Interno ci aspettiamo risposte e non benaltrismo”.
Le posizioni del ministro vengono ritenute “gravi” anche da Simona Malpezzi, capogruppo Pd nella Commissione straordinaria intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione all’odio e alla violenza: “Qui non si tratta di classifiche – contesta la parlamentare –, o si è razzisti e antisemiti o non lo si è. Vorremmo però sapere dal ministro, alla luce delle sue affermazioni, quanti tra quegli studenti che accusa di antisemitismo fanno parte di giovanili di partito, coordinano circoli di partito, fanno gli assistenti parlamentari, gridano Sig Heil, fanno apologia di fascismo. Se ha tutti questi dati che gli hanno consentito di fare le affermazioni che ha fatto oggi li fornisca a tutti. Il ministro si preoccupi di dirci se è normale che la giovanile di un partito che siede al governo possa comportarsi in questo modo”.
Insorgono anche i collettivi: “Non si sono mai verificati in Italia episodi di antisemitismo verso studenti o docenti, così come non ci sono mai stati contenuti antisemiti nelle mobilitazioni per la Palestina. In più occasioni abbiamo spiegato e dimostrato che il sentimento antisionista non c’entra nulla con quello antisemita che a noi non appartiene minimamente, a differenza di Fratelli d’Italia”, affermano i ragazzi del Coordinamento Collettivi della Sapienza.
E l’organizzazione studentesca Cambiare Rotta contesta: “La violenza è venuta dagli ambienti sionisti e fascisti di questo Paese, come accaduto il 25 aprile, quando è stata la brigata ebraica ad assaltare i pro Palestina con bombe carta, e non il contrario”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »