Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
MENO OSPEDALI E CASE DI COMUNITÀ
Per il governo non è uno scippo alla sanità, per le Regioni sì. A pochi mesi di distanza dal taglio di 1,2 miliardi al piano nazionale complementare (Pnc) – soldi destinati agli interventi di riqualificazione degli ospedali in chiave antisismica e spostati sul fondo per l’edilizia sanitaria previsto dalla legge 67 del 1988 – nulla si è mosso. Il governo non ha fatto retromarcia e le Regioni – che avevano chiesto almeno un impegno formale per la reintegrazione dei fondi – valutano il ricorso alla Corte Costituzionale. “Ricorso non escluso perché si tratta di un taglio: punto”, dice l’assessore regionale alla Salute dell’Emilia-Romagna Raffaele Donini, che è anche il coordinatore della commissione Sanità della Conferenza delle Regioni. “Ora – prosegue Donini -, siamo costretti a impegnare, con i cantieri già aperti, una quota delle risorse che avrebbero dovuto essere destinate agli investimenti sull’edilizia sanitaria”.
La questione si intreccia alla realizzazione delle case e degli ospedali di comunità previsti dal decreto ministeriale 77 del 2022 che riforma la medicina territoriale. Con la rimodulazione del Pnrr (che complessivamente destina alla sanità 15,63 miliardi) un parte delle strutture, 586 per l’esattezza, è stata dirottata sul fondo per l’edilizia sanitaria: non solo case di comunità (414 su un totale di 1.350) e ospedali (96 su 400) ma anche le centrali operative territoriali (76 su complessive 600), che servono alla organizzazione e al raccordo dei servizi sanitari. Su quel fondo, gestito dal Tesoro, sono fermi 10 miliardi. Solo in teoria, però. Perché, come sottolineato dalla Corte dei Conti, “il loro utilizzo effettivo è subordinato alla indicazione in bilancio di importi spendibili compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica”. Vale a dire che “pur previste a legislazione vigente, tali risorse non sono già scontate nel tendenziale e quindi richiederanno apposita copertura”. Insomma, i soldi devono essere effettivamente stanziati. Eppure è qui che devono attingere le Regioni non solo per gli interventi antisismici ma anche per completare la riforma prevista dal decreto 77. Peccato che anche in quest’ultimo caso sia tutto fermo. Nessuna Regione, rileva il ministero della Salute, è riuscita ad avviare le procedure per incamerare le risorse necessarie a procedere con i lavori. L’ultimo monitoraggio di Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, conferma che il traguardo è ancora molto lontano.
Fatte salve la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Piemonte e il Veneto (quest’ultimo solo per gli ospedali di comunità) la maggioranza delle Regioni è ancora o al punto di partenza o molto indietro. La Lombardia ha già attive oltre 90 case di comunità su un totale di 199, ha realizzato 36 centrali operative territoriali su 101 previste e 17 ospedali di comunità sui 66 che deve assicurare. L’Emilia-Romagna, che era già dotata di case di comunità prima dell’approvazione della riforma, ne ha 43 su 85 e dispone di 5 centrali operative territoriali su 45, mentre per quanto riguarda gli ospedali di comunità ne ha 5 su 27. In Piemonte sono 38 le case di comunità su 82 previste, la Toscana ne ha 6 su 77. La maggior parte delle Regioni non ne ha attivata nemmeno una, né ha dato il via all’attività delle centrali operative. Per quanto attiene gli ospedali di comunità spicca il Veneto (ne ha già 38). L’Emilia-Romagna ne ha 5 (a fronte di 27), 6 la Puglia (ne dovrebbe avere 38), 17 la Lombardia, che ha l’obiettivo di 66 ospedali. Un ritardo evidente (ci sono Regioni, come Abruzzo, Basilicata, Calabria, che sono praticamente a zero). Da cui consegue anche la decisione di caricare sul fondo per l’edilizia sanitaria una parte delle strutture previste dal Pnrr (troppo ravvicinata la scadenza del 2026 per portare a compimento la riforma). Fondo che per questo capitolo è ancora intonso.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
CHI DECIDE DI METTERE IN LOCAZIONE LA PROPRIA ABITAZIONE SULLA PIATTAFORMA “AIRBNB”, NEI PERIODI DI ALTA STAGIONE, PUO’ INCASSARE ANCHE OLTRE 200 EURO A NOTTE, CIOE’ MOLTO DI PIÙ RISPETTO A QUANTO PUO’ PAGARE UN AFFITTUARIO A MEDIO-LUNGO TERMINE
Cercare una casa in affitto a Roma è diventata una missione impossibile. Alla scarsità di appartamenti disponibili si è aggiunta nell’ultimo periodo la bolla speculativa In vista del Giubileo, che inizierà il prossimo dicembre. E così molti proprietari di immobili hanno deciso di tenere liberi gli appartamenti per trasformarli in un bed and breakfast a uso e consumo di turisti e pellegrini.
Un fenomeno che ormai non riguarda più solo il centro storico o i quartieri vicino al Vaticano, ma diverse zone della città. Lo sanno bene Federica Borlizzi, dottoranda all’università di Roma Tre e il suo compagno Roberto. Fino al primo giugno hanno condiviso un appartamento al Pigneto, quartiere di Roma Est adiacente alla stazione Termini: 940 euro mensili per 55 metri quadri.
Ma ora il proprietario di casa ha comunicato di non voler più rinnovare, per la terza volta, il contratto transitorio di 18 mesi. «Vuole metterlo su Airbnb – spiega Borlizzi -. La casa sarà affidata a un’agenzia che gli garantirà un fisso mensile molto più elevato di quanto paghiamo di canone, con la possibilità di avere delle maggiorazioni nei periodi di alta stagione, anche oltre 233 euro a notte».
Così per i due è iniziata quella che non stentano a definire «un’odissea». Gli annunci sono pochi, in zone molto periferiche e i prezzi lievitati. «Per una coppia di precari come noi un incubo – aggiunge la ragazza -. Ci siamo trovati in grossissime difficoltà. Non si trovano più case per affitti di lungo periodo e, riducendosi notevolmente l’offerta, i canoni sono schizzati alle stelle. Manca una regolamentazione, ma noi non accetteremo passivamente di essere cacciati dai nostri quartieri e di vederli trasformati in un luna park per turisti»
Quella di Federica e Roberto non è, infatti, una storia isolata. Sempre più persone, tra lavoratori precari, famiglie giovani e studenti stanno vivendo la stessa situazione. Tanto che l’associazione Nonna Roma, che si occupa di soggetti vulnerabili insieme al circolo Arci Sparwasser, ha lanciato una campagna dal titolo Cara Casa, per indagare la situazione abitativa romana, in particolare nella zona Est. E che servirà per fare proposte concrete all’amministrazione capitolina anche in vista del Giubileo, su come arginare il fenomeno dell’over tourism.
L’iniziativa lanciata su Instagram con un questionario ha già fatto emergere diversi casi al limite: c’è chi paga 500 euro per una stanza che è un “buco”, chi si è visto chiedere anche 800 euro per uno scantinato ammuffito. Inoltre, per il 60 per cento degli intervistati l’affitto pesa oltre un terzo dello stipendio.
Il fenomeno delle città in mano alle piattaforme di b&b riguarda ormai diversi Paesi. E qualcuno comincia a correre ai ripari. Barcellona ha annunciato che vieterà gli affitti brevi dal 2029. Lo stesso ha fatto Firenze con il centro storico.
(da La Stampa)
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Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
LA SCRITTRICE BRUCK: “I GIOVANI DI FDI SONO SUE CREATURE, CRESCIUTE NELLO STESSO LIQUIDO AMNIOTICO”
Dieci militanti di Gioventù Nazionale sono sotto osservazione. E almeno tre a rischio espulsione. Fratelli d’Italia studia il servizio di Fanpage sulla gioventù meloniana che fa battute antisemite e intona cori nostalgici e saluti nazifascisti. Mentre si aggrava la posizione di Flaminia Pace ed Elisa Segnini. Che si è già dimessa da capo della segreteria della deputata Ylenia Lucaselli. Il presidente nazionale di Gn Fabio Roscani è descritto come «distrutto, distante e silenzioso». Anche se da via della Scrofa continuano a far notare che il servizio è «frutto di montaggio e di accostamenti di eventi distanti nel tempo». Intanto la scrittrice Edith Bruck attacca Giorgia Meloni: «La premier se l’è presa con i giornalisti come se fossero spie. Non ha mai preso una distanza netta dal fascismo. Ora ci vuole far credere che lei non sapeva niente dei suoi ragazzi. Ma ovviamente non è così».
Flaminia Pace, antisemita con il padre ebreo
Il Corriere della Sera oggi racconta il caso di Flaminia Pace. Nei video la si sente dire: «La cosa più bella è stata ieri a prendersi per il c.. sulle svastiche e poi io che avevo fatto il comunicato stampa in solidarietà a Ester Mieli». Subito dopo la pubblicazione del filmato ha fatto sapere lei stessa di avere il padre ebreo. Forse per tentare di buttarla in goliardata, come spesso succede quando qualcuno di FdI viene beccato in fallo. Ha anche postato la foto di Alberto Mieli, sopravvissuto ad Auschwitz definendolo “lo zio”. Il padre Corrado Pace è ebreo. Agente immobiliare, tra i fondatori della Flaminia Luxury Living in Rome, ha dato una sede per il partito e aveva raccontato dei suoi rapporti con Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. Nei giorni scorsi la comunità ebraica di Roma ha chiesto a Meloni di dichiararsi antifascista. Per ora senza ottenere risposta.
«A Meloni dico: basta vittimismo»
Così come non ha ottenuto risposta Liliana Segre, che ha chiesto se dovrà lasciare ancora l’Italia. Nessuna replica da Meloni e nemmeno dal presidente del Senato Ignazio La Russa, che della senatrice a vita è buon amico. Invece Giordano Bruno Guerri, storico del fascismo, in un’intervista a Repubblica prima dice che «Fanpage ha fatto il proprio mestiere con mezzi assolutamente legittimi, li utilizzai anche io in passato». Mentre su Meloni dice che «si è arrampicata sugli specchi come avrebbe fatto un leader di partito che difende la propria comunità, del resto è mestiere di chi guida un soggetto politico, non potrebbe fare diversamente».
Guerri fa notare che il vittimismo di Meloni «è una conseguenza dell’essere stati tutta la vita all’opposizione, quel “ci dicono che siamo sporchi brutti e cattivi”. Ora questo rito si è trascinato fino a dopo il governo, ma sarebbe ora che cessassero, non ha senso». Mentre alla premier consiglia di «essere aperti e flessibili nelle posizione prese, il mondo è duttile ed elastico, le posture inflessibili non solo sono destinate a spezzarsi ma non percepiscono la realtà».
Edith Bruck e Giorgia Meloni
La scrittrice Edith Bruck, intervistata da La Stampa, va all’attacco: «La premier se l’è presa con i giornalisti, come se fossero delle spie, perché hanno mostrato ciò che era meglio tenere nascosto. Poi c’è stata una condanna solo delle frasi antisemite, mentre sugli slogan nazisti e i richiami al fascismo hanno sorvolato. Come se fascismo e antisemitismo siano due cose che si possono tenere distinte. Ma, d’altra parte, su questo punto Giorgia Meloni non ha mai dato una risposta adeguata». Perché «non ha mai preso una distanza netta dal fascismo, ogniìvolta si arrampica sugli specchi. Mostra due facce, forse tre, rivolta sempre la frittata. In questo caso, vuole far credere che lei non sapeva niente di cosa pensano e dicono i suoi ragazzi, ma ovviamente non è così. Sono sue creature, cresciuti in un liquido amniotico simile al suo. E non sono pochi casi isolati».
4 o 5 esaltati?
E ancora: «Vogliono farci credere che sono 4 o 5 esaltati, ma in realtà sono centinaia e sono lo specchio di un pezzo di Italia, che ha votato Meloni e il suo partito». Per la scrittrice c’è un pezzo di Italia che è antisemita «e che non ha fatto i conti con il proprio passato, non lo rinnega, anzi lo rivendica con orgoglio. Ma questo non avviene solo in Italia, ora vediamo la Francia, c’è una nuvola nera che incombe sull’intera Europa. Io sono ungherese, ora ci tocca vedere Orban presidente di turno dell’Unione europea. Un uomo che dice cose agghiaccianti sulla supremazia della razza ungherese. Non a caso, grande amico di Meloni».
(da agenzie)
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Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
“HO SENTITO IL COMANDANTE DELLA MIA UNITÀ PARLARE AL TELEFONO CON I GENERALI E DIRE: ‘IO NON LI PORTO I MIEI LAGGIÙ, NON LI MANDO A FARSI MACELLARE’. MA A VOLTE VENIVAMO SPINTI AVANTI A TUTTI I COSTI”… “NON HO VISTO QUANDO VENIVANO UCCISI I CIVILI. MA HO VISTO I LORO CORPI GETTATI PER STRADA E HO SENTITO IL SUONO DEI COLPI DELLE ESECUZIONI”
Alexander è un ufficiale di carriera russo, ha 25 anni, è laureato all’accademia dell’esercito come ingegnere del genio militare. È entrato in Ucraina all’alba del 24 febbraio 2024. Ci è rimasto per sei mesi, rischiando più volte la vita, dopo è diventato un disertore. Come migliaia, forse decine di migliaia di disertori russi (si stima siano tra diecimila e trentamila) Sasha è fuggito in Kazakhstan – protetto dalla rete di dissidenti in esilio «Point of No Return» – ma non si sente al sicuro: su di lui il governo di Mosca ha spiccato un mandato di cattura internazionale.
Per questo accetta di parlare al «Corriere» solo in forma anonima. Ma quel che racconta è una finestra sui crimini di guerra e contro l’umanità sui quali indaga il Tribunale penale internazionale dell’Aia. E’ una finestra, soprattutto, su quella che Hannah Arendt chiamava “la banalità del male” osservata trovandovisi in mezzo.
Sasha, com’è iniziata la sua esperienza in Ucraina?
«Ero stato mandato in Crimea per delle esercitazioni militari. Come ufficiale di carriera non potevo rifiutarmi, anche se ci ho provato».
Si è reso conto subito che c’era l’intenzione di scatenare un’invasione totale?
«All’inizio non c’erano evidenti segni di una guerra imminente, ma intorno al 18 o 20 febbraio ho iniziato a pensare che stava per succedere qualcosa di grave. Alla nostra unità arrivavano dall’alto ordini di preparare i mezzi per utilizzarli in ambienti urbani. Non aveva senso in un’esercitazione, perché di solito si sta su strade di campagna, in campi aperti o nella foresta»
Cos’ha pensato quando si è reso conto che stavate per attaccare?
«Non ci potevo credere. Mi sono rifiutato di crederci fino al 24 febbraio. Fino al momento dell’annuncio di Vladimir Putin alla televisione. Ma mi ero accorto che avevamo visite sempre più frequenti di generali che controllavano i materiali, i mezzi, l’equipaggiamento. Pensavamo tutti che magari non era proprio un’esercitazione, ma al massimo volevamo mostrare un po’ i muscoli all’Ucraina. Che avremmo fatto un po’ di scena al confine e poi sarebbe finito tutto, come altre volte. Lo pensavamo tutti. Non ci ho creduto fino all’inizio dell’invasione».
E’ vero che il vostro esercito era disorganizzato e saccheggiava le case e i negozi?
«Abbiamo guidato per 200 chilometri verso Melitopol, la prima grande città sulla nostra strada. Eravamo completamente disorganizzati. Nessuno sapeva dove stavamo andando e cosa dovevamo fare. I comandanti erano sempre al telefono per cercare di capire. Ricevevano ordini strada facendo, non c’era un piano prestabilito. Eravamo come un grande serpente lungo dieci chilometri di mezzi militari, che procedeva lentamente. Il primo giorno viaggiammo fino a tarda sera, ma non riuscimmo neanche ad arrivare a Melitopol».
Quando si è trovato nella prima battaglia?
«La prima scaramuccia è stata quando ci siamo avvicinati a Melitopol. E si è creato subito il caos. Chi combatteva, chi fuggiva nel bosco con i mezzi corazzati, chi si buttava nei supermercati a saccheggiare. Abbiamo avuto le prime istruzioni precise su cosa fare due ore dopo il primo scontro a fuoco. Prima eravamo persi, nessuno sapeva cosa fare. Ci hanno detto, di nuovo, di disporci in lunghe file e cambiare direzione».
Cosa stava pensando in quel momento?
«All’inizio non capisci nulla. Sei sotto choc, non riesci a renderti conto che sei in una guerra vera e tu stai prendendo parte a quella guerra. Prima di allora la guerra nella mia testa era qualcosa di virtuale, non riuscivo a immaginare una situazione in cui mi ci sarei trovato dentro. Ma quando poi ci sei, non sai cosa fare. Non sai se devi combattere o ti devi nascondere. Non hai l’abitudine, ti senti del tutto impreparato e incerto».
Ha assistito ad atrocità e uccisioni di civili?
«Non ho visto con i miei occhi quando venivano uccisi. Ma ho visto i corpi gettati per strada e ho sentito il suono dei colpi delle esecuzioni di civili, sì».
Può raccontare meglio?
«Un giorno stavamo viaggiando lungo una strada di campagna e abbiamo visto un’auto che veniva nella nostra direzione, dentro c’erano dei civili. Tre giovani. Le forze speciali hanno fermato l’auto. Li hanno messi a faccia in giù a terra, li hanno spogliati a torso nudo per controllare se avessero dei tatuaggi. Hanno chiesto via al comando cosa dovevano farne. Dal comando ci hanno risposto semplicemente di ucciderli e bruciare l’auto. Ho sentito i tre colpi dietro di me, perché ero già andato avanti; poi ho visto il fumo che si alzava dall’auto in fiamme».
Non era solo disorganizzazione: l’esercito era sotto ordini precisi di uccidere i civili?
«Era il quarto giorno dell’invasione. A quel punto c’era un po’ più di organizzazione, tutti chiedevano ordini chiari ed eravamo tutti un po’ più abituati alle condizioni di guerra. C’era più struttura».
Dunque c’è stata una decisione da parte dei comandi militari di uccidere i civili?
«Sì».
Per quanto tempo è andata avanti così?
«Non succedeva sempre. Magari i nostri comandanti pensavano che i civili fossero in realtà dei combattenti che si dissimulavano. In ogni caso io non era d’accordo, non sono mai stato d’accordo».
Ha assistito a altri episodi che potevano costituire dei crimini di guerra?
«Personalmente no, non sono stato un testimone oculare. Ma ho sentito i racconti. Un commilitone una volta a tavola, mentre mangiavamo tutti insieme, era ubriaco e mi ha detto che avevano torturato delle persone in uno dei centri abitati lì intorno. Verso i primi di marzo gli ucraini avevano colpito un nostro posto di comando, era rimasta uccisa molta gente. I nostri erano furiosi. Erano andati a cercare qualcuno che facesse una soffiata, ci desse le coordinate giuste. Hanno raccolto tutti i civili in una stanza, hanno iniziato a interrogarli uno a uno e hanno controllato i loro telefoni».
Come li interrogavano?
«Con l’uso della forza. Li picchiavano. Quel collega ubriaco mi ha detto che a uno dei prigionieri aveva tagliato un dito. Mi ha spiegato come aveva fatto. Da quel giorno ho evitato di sedermi a tavola con quell’uomo».
All’epoca lei pensava che l’invasione fosse una buona idea o pensava già che ci fosse qualcosa di sbagliato?
«Mi sono sentito in totale disaccordo dall’inizio e ne ho anche parlato ad alcuni dei miei superiori. Temevo che l’invasione avrebbe prodotto conseguenze negative per la Russia, oltre che per l’Ucraina: forse una guerra più vasta o qualcosa di molto brutto».
E i suoi superiori cosa le rispondevano?
«Uno di loro mi ha detto: aspetta dieci giorni e sarà tutto finito. Questa storia non dura, mi ha detto. Il giorno dopo era morto».
Ma davvero era così facile esprimere dei dubbi? Lei si fidava a condividere liberamente opinioni con i suoi commilitoni?
«Ne potevo parlare con i miei amici più vicini, quelli della mia cerchia ristretta. La pensavano tutti come me. Di sicuro non ne parlavo con altri, ma è nella cultura russa non parlare di certe cose se non con le persone che conosci molto bene».
Lei in guerra ha avuto paura?
«Certo, in certi momenti ha pensato che fosse finita. Se sei una persona normale, in guerra hai paura. Se non ne hai, sei un idiota o uno che non ha mai visto la guerra e non sa cos’è. Oppure hai un’enorme esperienza. E io non rientravo in nessuno di questi casi».
È i comandanti vi mandavano all’attacco restando completamente indifferenti al vostro destino? Oppure cercavano in qualche modo di proteggervi?
«Ho avuto esperienze di entrambe le situazioni. In una situazione i comandanti erano molto attenti alle loro truppe, in altre gli ufficiali buttavano le gente in un bagno di sangue giusto per raggiungere degli obiettivi indicati dai comandi superiori».
Può spiegare meglio?
«C’erano momenti in cui arrivavano ordini assolutamente demenziali di entrare in zone molto popolate e tenerle a tutti i costi. Non c’erano nessuno scrupolo per la fine che avremmo fatto noi soldati. Ho sentito con le mie orecchie il comandante della mia unità parlare al telefono con i suoi superiori, dei generali. Gli diceva: ‘Io non li porto i miei laggiù, è come andare a suicidarsi. Non mando i soldati a farsi macellare’. Ma a volte venivano spinti avanti a tutti i costi. Dipendeva dalle situazioni».Per esempio?
«All’inizio andavamo a tutta forza, nessuno contava. Non è che non risparmiavano la gente, non risparmiavano nulla: né le munizioni, né i materiali, né le persone. Poi quando sono iniziate le grandi perdite i comandanti hanno iniziato a trattare il personale con un po’ più di attenzione».
Quando ha iniziato a pensare alla fuga?
«Sono stato in Ucraina per sei mesi e per sei mesi ho cercato una via di uscita. Varie volte ho cercato di rompermi un braccio. Quando nessuno mi vedeva, mettevo un braccio su una barricata di cemento e cercavo di romperlo con una pietra. Per fortuna dopo sei mesi mi hanno dato dei giorni di congedo e sono potuto rientrare in Russia».
Come le è venuta l’idea di disertare?
«Ho iniziato a pensarci quando mi sono reso conto che non c’era altra via di fuga. Dopo diversi tentativi di farmi congedare, ho avuto finalmente due settimane libere subito prima della mobilitazione del settembre 2022. A quel punto ho capito che non avevo altra soluzione se non diventare un disertore».
Dunque quale è stato il piano?
«Nella mia unità mi hanno formato i documenti del congedo, dunque ho potuto visitare la mia famiglia e raccontare quello che avevo visto. Non avevo un piano molto chiaro. Ma subito prima della mobilitazione il mio superiore diretto mi ha telefonato e mi ha chiesto di tornare in Ucraina in anticipo. Gli ho detto che non l’avrei fatto. Ha insistito, diceva che la mobilitazione stava per scattare. Allora ho comprato un biglietto aereo per il Kazakhstan, perché lì si può entrare dalla Russia anche senza passaporto».
E le hanno permesso di volare verso il Kazakhstan, pur essendo sotto le armi?
«In Russia non c’è una banca dati comune dell’esercito. Sapevo che avrei potuto far perdere le mie tracce per due giorni prima che iniziassero a cercarmi e segnalassero il mio nome nei terminali dei posti di frontiera. Contavo che al 95% non avrei avuto problemi in aeroporto, se fossi partito entro 48 ore».
Come vede il suo futuro? Qual è il suo piano?
«Adesso sono uno dei disertori bloccati in Kazakhstan. Non abbiamo passaporti, dunque non possiamo avere visti per altri Paesi, anche se vorremmo tutti andarcene da qui perché stare in Kazakhstan non è sicuro. Alcuni di noi sono stati i arrestati. In un caso uno è stato arrestato e consegnato alla Russia. Il Kazakhstan ha un accordo di estradizione con la Russia per gente come me, ma nel complesso ci lasciano tranquilli perché il governo cerca di sembrare neutrale. Sto chiedendo permessi umanitari in Francia, in Germania o negli Stati Uniti».
Come vive?
«Cerco di cavarmela facendo il rider o altri lavoretti, sempre in nero. Ho chiesto asilo qui, ma me l’hanno negato».
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
LA DECISIONE SULLA RETRIBUZIONE DEL PRESIDENTE FIGC MATURATA NEL 2021 HA AVUTO LA SEGUENTE MOTIVAZIONE: “PER L’ATTIVITÀ E PER LA RESPONSABILITÀ” DI GUIDARE IL CLUB ITALIA”
Gravina si è aumentato lo stipendio di sette volte: da 36mila a 240mila euro. Lo scrive Paolo Ziliani sul Fatto quotidiano.
Ecco cosa scrive Ziliani:
Correva l’anno 2021 e Gabriele Gravina, nonostante fosse fresco di nomina a vicepresidente Uefa per “meriti” acquisiti sul campo (l’ultimo in ordine di tempo: l’archiviazione a tempo di record della Juventus dopo l’esplosione del “caso Suarez”, quello dell’esame di italiano sostenuto a Perugia nell’estate 2020 per ottenere la cittadinanza italiana: per la Figc non c’erano “elementi sufficienti per ritenere provate condotte illecite rilevanti nell’ambito dell’ordinamento federale sportivo di dirigenti o comunque tesserati”) e nonostante la nomina a vice di Ceferin all’uefa gli fosse valso un compenso annuo di 150 mila euro che tuttora percepisce, Gravina convocò un Consiglio Federale – era il 26 aprile – in cui all’ordine del giorno inserì la nota: “Determinazione di un compenso per gli incarichi federali”; e con una disinvoltura degna di miglior causa si alzò lo stipendio di Presidente federale da 36 mila a 240 mila euro, aumentandoselo cioè di 7 volte.
Motivazione: l’aumento di stipendio gli veniva riconosciuto (cito testualmente dal comunicato emesso il giorno stesso) “per l’attività e per la responsabilità” di guidare il Club Italia, e cioè l’organismo che “riunisce le squadre nazionali” e che “è presieduto dal presidente federale che detta le linee guida delle attività, approva i programmi tecnici, definisce l’organigramma”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
“IN UN’ALTRA IPOTESI, POTREBBE ACCETTARE DI SOSTENERE UN GOVERNO NON STRETTAMENTE SUO, CON CIOTTI PRIMO MINISTRO”
“Una cosa è già chiara: il Rassemblement National è diventato il primo partito francese in numero di voti, e avrà il primo gruppo politico all’Assemblée Nationale dal 7 luglio” dice Marc Lazar professore a Sciences Po e titolare della cattedra Bnp-Bnl Paribas relazioni italo-francesi per l’Europa alla Luiss.
L’estrema destra alla soglia del potere. Al secondo turno, può vedere sfumare la maggioranza assoluta per governare?
«Mi sembra difficile ma dipende da alcuni fattori. Il tasso di partecipazione è stato molto elevato in questo primo turno. Vediamo se al secondo turno sarà un’affluenza ancora più forte. La sinistra spera in una sorta di elettrochoc dei francesi davanti al rischio concreto di una vittoria del Rn che si è visto nei primi risultati di ieri sera. L’altro fattore chiave sarà più chiaro domani, con la decisione sulle triangolari, che sono da record».
Il Nouveau Front Populaire è in seconda posizione. Che ruolo può giocare?
«La sinistra ottiene un bel risultato. Fare un accordo elettorale tra la sinistra radicale e quella più riformista è stata una strategia efficace nelle urne. Uno dei grandi errori di Macron è stato credere che la gauche non si sarebbe unita. ra il blocco delle sinistre peserà in parlamento anche se dubito che il Nouveau Front Populaire continuerà a esistere oltre il 7 luglio. Molto dipenderà dai rapporti di forza interni bisogna aspettare di capire quanti deputati socialisti sono eletti, quandi della France Insoumise. Se non ci fosse una maggioranza assoluta per il Rn non è escluso che una parte della sinistra riformista provi a immaginare un governo di salvezza nazionale con una parte dei macronisti e dei Républicains. Ma non ci credo molto».
Jordan Bardella ha già detto che non andrà al governo se non ottiene una maggioranza assoluta.
«È una tattica per mobilitare il suo elettorato. Se il Rn ottenesse una maggioranza relativa alta sono sicuro che potrà convincere una trentina di parlamentari dei Républicains a dare un sostegno esterno o addirittura diretto, entrando nel governo. In un’altra ipotesi, più remota, il Rn potrebbe accettare di sostenere un governo non strettamente suo, per esempio con Ciotti primo ministro. Sarebbe un modo di mostrarsi responsabile, ma soprattutto tenere nel mirino l’obiettivo principale di Le Pen: la presidenziale».
Una presidenziale che è prevista nel 2027. O già prima?
«Comunque vada, possiamo già dire che Macron ha perso la sua scommessa. Aveva una maggioranza relativa di deputati, e ora ha una minoranza assoluta. Sarà costretto a un governo di coabitazione. E il suo peso ridimensionato. Nella Quinta Repubblica il capo dello Stato è molto potente quando ha anche la maggioranza parlamentare, ma in caso contrario perde molto della sua influenza. Quindi sarà indebolito e penso che sia il Rn che a sinistra, penso a Jean-Luc Mélenchon che pure guarda alla presidenziale, chiederanno le sue dimissioni. Proverà a resistere,ma non sarà facile. D’altro canto Bardella e Le Pen devono stare attenti perché vogliono dimostrare di essere un partito responsabile e di governo».
Bardella e Le Pen si sono ‘méloniser’, come dicono alcuni osservatori francesi: stanno diventando più pragmatici?
«Credo che chi in Francia usa questo termine non conosce bene cosa sta facendo Meloni in Italia e in Europa. Meloni ha due volti: uno è quello che abbiamo visto durante la campagna per le europee, e nell’ultimo voto sulle nomine al Consiglio Ue. Di forte critica. Poi c’è il volto di Meloni più dialogante e pragmatico perché l’Italia ha bisogno dei soldi della Commissione europea. Infine, Meloni è anche in Italia la leader che conduce una battaglia di egemonia culturale, di difesa di valori molto conservatori, di misure drastiche sull’immigrazione, e di intimidazione su giornalisti. Al livello nazionale penso che in effetti Bardella e Le Pen si ispireranno dal governo italiano».
(da La Repubblica)
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Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
“HO VOTATO PER IL NUOVO FRONTE POPOLARE SENZA INDUGIO. LA PRIORITÀ È EVITARE CHE L’ESTREMA DESTRA ARRIVI AL GOVERNO. I MIEI CONSIGLI A MACRON? NON SONO SICURO LI ASCOLTI PIÙ”
La cohabitation, c’est moi. Jacques Attali era all’Eliseo nell’ombra di François Mitterrand quando il presidente socialista si trovò davanti a Jacques Chirac, diventato premier con una maggioranza di destra. Così è nata la coabitazione. «Non era mai successo nella Quinta Repubblica, ci trovammo a inventare una prassi repubblicana» ricorda Attali, per dieci anni consigliere di Mitterrand e poi mentore di Emmanuel Macron che coinvolse giovanissimo per partecipare al suo rapporto sulla “liberazione della crescita”.
Economista, intellettuale, direttore d’orchestra, popolare saggista, ora Attali lancia un appello al Presidente per fare patti di desistenza con la sinistra in vista del secondo turno.
«Ho votato per il Nuovo Fronte Popolare senza indugio. Per me la priorità è evitare che l’estrema destra arrivi al governo in Francia» confida Attali, 80 anni, che non nasconde il pessimismo in vista di un ipotetico duello ai vertici dello Stato tra Macron e Jordan Bardella.
Quale consiglio darebbe a Macron per affrontare la crisi che si prospetta?
«Intanto non sono sicuro che ascolti più i miei consigli. Ero contrario all’idea di uno scioglimento dell’Assemblée Nationale, per giunta a poche settimane dai Giochi Olimpici in cui tutto il mondo guarderà alla Francia. Ci proiettavamo verso una festa come i Giochi di Parigi del 1924, adesso rischiamo di avere quelli di Berlino del 1936. Ormai il danno è fatto, speriamo non sia irrimediabile. Detto questo, vedremo se Macron avrà sangue freddo a sufficienza per imporsi come fece Mitterrand. Ma nel suo caso c’è già una differenza».
Ovvero?
«Tutti sanno che non potrà ricandidarsi alla prossima presidenziale. Il peso politico di Macron all’Eliseo è necessariamente minore. Oggi c’è una debolezza oggettiva di Macron che i suoi avversari avranno buon gioco di esaltare. Sia Marine Le Pen che Jean-Luc Mélenchon hanno interesse a una presidenziale prima del 2027.
Macron non potrà candidarsi per un terzo mandato. Avrà perso gran parte dei suoi deputati e in sette anni non ha mai voluto costruirsi un vero partito. Quindi aumenteranno le pressioni affinché lasci. Io ovviamente non me lo auguro. Anzi, penso sia molto importante che non se ne vada: deve proteggere le istituzioni, che sono il vero tesoro della nostra République».
Cosa succede se nessun partito ottiene la maggioranza assoluta domenica prossima?
«Saluto la decisione del blocco centrale e di quello di sinistra sui patti di desistenza, ovvero di ritirare candidati per impedire la vittoria dell’estrema destra. Questi accordi possono essere la base per larghe intese dopo il voto, in mancanza di una maggioranza assoluta. In questo scenario, il presidente nominerebbe un premier come Monti o Draghi. Purtroppo non sarà facile trovare figure simili nell’establishment francese perché non abbiamo l’abitudine agli esecutivi tecnici».
L’alleanza del partito socialista con la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon non le ha impedito di votare a sinistra?
«Non voterò mai per il Rn, assolutamente mai, e voterò sempre per il candidato della sinistra, anche per un candidato della France Insoumise, ad eccezione di alcuni nomi smaccatamente antisemiti. È profondamente ingiusto equiparare l’estrema destra alla maggior parte della socialdemocrazia. E penso che la sinistra riformista potrà riconquistare un suo spazio nell’immediato futuro. Nel 1974, avevo trent’anni, feci la prima campagna presidenziale di Mitterrand. I socialisti avevano il 12-13% dei voti e i comunisti l’85%. Il Pc era un partito di Mosca, molto lontano da noi. Eppure eravamo convinti che l’alleanza era necessaria e saremmo poi riusciti a invertire il rapporto di forza. È quello che poi è successo. Ora può accadere di nuovo».
(da La Repubblica)
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Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
AL PRIMO TURNO ELETTI SOLO 39 DEPUTATI LEPENIANI, 32 DEL FRONTE POPOLARE E 3 DI MACRON… LA PARTITA E’ APERTA MA OCCORRONO PAROLE CHIARE DA MACRON, LA SUA PARTE MELENACHN L’HA GIA’ FATTA, DANDO INDICAZIONI DI VOTO
L’esito del primo turno potrebbe cambiare con gli accordi di desistenza. Il magic number è 289. Questo è il numero di seggi che un partito deve conquistare all’Assemblea Nazionale per avere la maggioranza. E molte sfide si decideranno nel secondo turno del 7 luglio. Nel quale correranno tutti i candidati che hanno ottenuto il 12,5% dei voti. «Abbiamo bisogno della maggioranza assoluta», ha detto Le Pen. E averla potrebbe essere complicato.
Il secondo turno alle elezioni in Francia
Il magic number è 289. Questo è il numero di seggi che un partito deve conquistare all’Assemblea Nazionale per avere la maggioranza assoluta. Al primo turno sono stati eletti 39 deputati del RN, contro i 32 del Nuovo Fronte Popolare. E, pronostica Afp, probabilmente domenica prossima il partito di Bardella e Le Pen riuscirà a ottenere una forte maggioranza relativa. Ma rimane possibile anche lo scenario di un’Assemblea Nazionale bloccata senza alleanze tra i tre blocchi. Di certo la scommessa di Emmanuel Macron di sciogliere l’Assemblea nazionale la sera della disfatta dei suoi candidati alle elezioni europee del 9 giugno è definitivamente perduta. E oggi l’ipotesi più probabile rimane quella di una convivenze senza precedenti tra il presidente e un governo completamente diverso. «L’estrema destra è alle porte del potere», ha avvertito il primo ministro Gabriel Attal.
Cos’è la desistenza
Ma c’è ancora un grosso ostacolo che Le Pen e Bardella devono superare. E dipende dal sistema elettorale francese, che prevede un maggioritario a due turni. Per essere eletti al primo bisogna ottenere la maggioranza assoluta dei seggi e un numero pari a un quarto degli elettori locali registrati. Nel secondo turno, in programma il 7 luglio, l’elettore trova sulla scheda tutti i candidati che hanno ottenuto almeno il 12,5% dei voti. E viene eletto chi ottiene la maggioranza relativa. Di solito lo sbarramento fa sì che si vada a sfide uno contro uno. Ma l’alta affluenza ha consentito in molti seggi l’avanzamento di tre candidati. In teoria ci saranno decine di triangolari. In pratica, come hanno già annunciato alcuni partiti, ci sarà la desistenza. Ovvero un partito sceglierà di ritirare il suo candidato nella corsa a tre per favorire l’avversario del Rassemblement National.
Come funziona il secondo turno
Per non far vincere il Rn l’unica possibilità adesso è l’accordo tra sinistra e macroniani. Al secondo turno nei seggi in cui ci sono tre candidati i due contendenti devono ritirare il candidato che ha meno chances di vincere. La sinistra ha già detto sì. «Sosterremo il candidato in grado di battere il Rassemblement, a prescindere dalle divergenze», ha detto il leader della sinistra riformista Raphaël Glucksmann, che guida Place Publique: «Ritireremo i nostri candidati appena ci sarà il rischio di una vittoria del Rassemblement», ha fatto sapere il segretario del Partito socialista franceseOlivier Faure.
Ma l’apertura più significativa è quella di Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise: «Nel caso in cui il Rassemblement arrivasse primo e noi terzi, ritireremmo in quel ballottaggio la nostra candidatura. Né un voto né un seggio in più per il Rn».
Il problema
I Républicains però, nonostante l’annuncio di Macron, per ora non sembrano voler fare accordi di desistenza. O meglio, come spiega oggi il politologo Mar Lazar a Repubblica, non ci sarà un impegno complessivo a ritirare i candidati ovunque ma una scelta seggio per seggio. Evitando di fornire vantaggi ai candidati di sinistra ritenuti indigesti.
“Avremo una mappa più chiara domani sera, quando scade il deposito delle candidature per il secondo turno, e prima di qualche giorno le proiezioni sui seggi sono da leggere con molta prudenza», avverte. Bardella ieri ha detto che non andrà al governo se Rn non ottiene la maggioranza assoluta.
Ma secondo Lazar si tratta di «una tattica per mobilitare l’elettorato: «Se il Rn ottenesse una maggioranza relativa alta sono sicuro che potrà convincere una trentina di parlamentari dei Républicains a dare un sostegno esterno o addirittura diretto, entrando nel governo. In un’altra ipotesi, più remota, il Rn potrebbe accettare di sostenere un governo non strettamente suo, per esempio con Ciotti primo ministro. Sarebbe un modo di mostrarsi responsabile, ma soprattutto tenere nel mirino l’obiettivo principale di Le Pen: la presidenziale».
La partita è aperta
Per questo, spiega oggi Sandro Gozi in un’intervista a La Stampa, la partita è ancora aperta. L’europarlamentare di Renew dice: «Dobbiamo lavorare per costruire alleanze tra repubblicani e democratici, facendo una valutazione collegio per collegio e trovando un accordo di desistenza per convergere sul candidato più competitivo per battere l’estrema destra. Noi siamo pronti a ritirare i nostri candidati dove sarà necessario. Del resto, già al primo turno avevamo rinunciato a presentarne in 60 collegi per lo stesso otivo. Chi è terzo e ha meno possibilità di vincere si faccia da parte».
Intanto in Francia il dibattito è già partito. E si assiste ai primi annunci. La segretaria di Stato alla cittadinanza e deputata uscente Sabrina Agresti-Roubache ha dichiarato il suo ritiro dopo essere arrivata terza alle elezioni legislative nella prima circoscrizione elettorale di Marsiglia. E chiedendo un voto contro il Rassemblement National. «Questa sera la scelta era chiara, 45% per il Rn, 27% per il Nuovo Fronte Popolare. Ovviamente mi ritiro e in queste condizioni, lo dico molto chiaramente, nel mio collegio elettorale non si voterà per il Rassemblement National», ha dichiarato.
Faure, leader dei socialisti, punzecchia Macron: «Questa sera sento molti leader del campo macroniano parlare senza dare chiare istruzioni di voto. Le loro parole sono troppo confuse. Spetta a loro lanciare un chiaro appello alla mobilitazione e alla Repubblica».
(da Open)
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Luglio 1st, 2024 Riccardo Fucile
IL NUOVO FRONTE POPOLARE AL 27,9% CON UN CLAMOROSO BOOM TRA I GIOVANI DOVE ARRIVA AL 41%… MACRON RISALE AL 20%, REPUBLICAIN ANTI-CIOTTI AL 6,5%
Il Rassemblement National arriva in testa al primo turno delle legislative anticipate con il 29,2%, secondo lo spoglio definitivo delle schede. Solo con l’aggiunta della lista Républicains di Eric Ciotti il blocco dell’estrema destra arriva al 33,1%.
L’alleanza del Nouveau Front Populaire ha ottenuto il 27,9%, la lista Ensemble della maggioranza presidenziale uscente 20%, i Républicains anti Ciotti il 6,5% a cui si possono aggiungere i Divers Droite al 3,6%.
Adesso, in vista del secondo turno di domenica prossima, il blocco dell’estrema destra parte in testa nella maggior parte delle circoscrizioni. I candidati del Rassemblement National e di Ciotti sono al primo posto in 297 circoscrizioni. A seguire i candidati del Nouveau Front populaire (155 circoscrizioni), la lista dei macronisti (62), e i Républicains (34).
L’estrema destra avanza anche al di fuori dei suoi feudi storici, in nuove regioni. Per la prima volta nella sua storia, la Bretagna ha visto candidati del Rn qualificarsi per il secondo turno in 26 circoscrizioni, risultando addirittura in testa in 5. Solo l’Ovest della Francia ha resistito, a vantaggio della maggioranza presidenziale e dei suoi alleati. Il Nuovo Fronte Popolare è invece più alto nell’Île-de-France, in particolare le periferie e nella capitale.
Già ieri sera, superando il 50% dei voti, alcuni candidati sono stati eletti al primo turno. In particolare Marine Le Pen e altri 39 candidati del Rassemblement National, 32 del Nouveau Front Populaire e solo due nella lista Ensemble.
Secondo l’ultima proiezione in seggi dell’Ifop, aggiornate con i primi accordi di desistenza annunciati a sinistra e dai macronisti, il Rassemblement National e Ciotti potrebbero conquistare un massimo di 270 seggi, mentre Ipsos prevede 10 seggi in più, ovvero 280. La maggioranza assoluta all’Assemblée Nationale è di 289 deputati.
L’affluenza per votare ieri è stata storica: 66,7% pari a 32.911.132 elettori, ben al di sopra del 47,51% registrato nel 2022. Forte anche la partecipazione dei giovani: secondo un sondaggio Toluna Harris Interactive, il 41 per cento degli elettori francesi di età compresa tra 18 e 24 anni hanno votato a sinistra, per le Nouveau Front Populaire, il 23% ha invece il Rn e i suoi alleati. Fedeli a Emmanuel Macron sono rimasti il 13% dei giovani elettori, che hanno votato per Ensemble pour la République, mentre l’8% ha optato per i repubblicani.
Dati sostanzialmente identici per la fascia di età appena più alta, dai 25 ai 34 anni, come spiega il sondaggio. Nel 2017 i risultati furono molto diversi. Secondo Ipsos e Sopra Steria, il neoeletto presidente della Repubblica Macron e il suo partito La République En Marche avevano attirato il 32% dei giovani tra i 18 ei 24 anni.
(da agenzie)
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