Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
L’ AVVOCATO BORRE’: “UN ANNULLAMENTO SAREBBE L’UNICO MODO DI AGGIRARE LE PRECLUSIONI STATUTARIE”
Un’idea, un’ipotesi che potrebbe però rivoluzionare nuovamente equilibri ed assetti interni del Movimento. In ambienti vicini a Beppe Grillo circola una suggestione: quella che il garante chieda una sorta di “amnistia” per gli espulsi dai Cinque Stelle a causa dell’adesione al governo Draghi. In sostanza quelli che furono cacciati nel 2021 potrebbero tornare all’ovile stellato. Una mossa politica a cui Giuseppe Conte difficilmente potrebbe opporsi. Nelle scorse settimane il presidente ha chiesto pubblicamente scusa proprio per l’adesione al governo tecnico, giustificando in parte così il crollo alle Europee (e creando tensione con Grillo che di quell’adesione fu il portabandiera).
Proprio da qui, facendo leva dalle frasi di Conte, giocandole a proprio favore, muoverebbe il ragionamento di Grillo. L’idea è quella di scardinare «l’imbuto» degli equilibri contiani. «Così il garante metterebbe in scacco il leader», sostiene una fonte. E si domanda: «Come potrebbe opporsi dopo aver chiesto scusa?». C’è chi ha notato la vicinanza con alcuni ex stellati storici. A Roma, per esempio, il garante ha cenato con Alessio Villarosa. Una «amnistia» avrebbe conseguenze importanti.
In teoria, potrebbero riprendere il loro percorso nel Movimento big storici come Barbara Lezzi o Nicola Morra. Ma non solo. Gli espulsi all’epoca furono una quarantina circa, molti parlamentari erano al primo mandato. Un eventuale ritorno in pista permetterebbe loro di partecipare alle prossime selezioni per Politiche e Amministrative. Vedendo ciò che è successo alle ultime consultazioni interne in vista delle Europee, con diversi ex eletti finiti in lista, le possibilità di un successo tra gli attivisti non sarebbero poi così remote. «Un annullamento delle espulsioni? Sarebbe l’unico modo di aggirare le preclusioni statutarie», dice Lorenzo Borrè, storico legale degli espulsi M5S. E commenta: «Si tratta di una ipotesi giuridicamente e politicamente ardita, ma conoscendo il M5S, non impossibile da attuare». Ora, insomma, starà a Grillo decidere se fare la mossa in vista della costituente stellata prevista per l’autunno.
(da agenzie)
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Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
IL VIDEO DEL 2019, L’AMBIENTE DI COLLE OPPIO E IL MITO DEI GABBIANI
Non è un buon momento per Fabio Rampelli dentro Fratelli d’Italia. La sua è l’unica vera “corrente” (i Gabbiani) dentro un partito che ufficialmente non ha correnti.
Dopo aver fatto un passo indietro evitando di andare alla conta nel congresso romano, ritirando il suo candidato Massimo Milani, contava almeno sull’ingresso di Stefano Tozzi all’Europarlamento. Ma il candidato sostenuto da Colle Oppio non ce l’ha fatta, secondo i ben informati perché Lollobrigida non avrebbe rispettato i patti, e così FdI non ha eletto nella circoscrizione centro nessun romano.
Non è un mistero che Rampelli vuole la candidatura a sindaco di Roma. Ha già dovuto fare un passo indietro di fronte alla disastrosa operazione di Michetti orchestrata da Arianna Meloni e Francesco Lollobrigida, ora non vuole più sentire ragioni.
Così, di fronte alle immagini dell’inchiesta di Fanpage.it il vicepresidente della Camera ha preso la palla al balzo, rilasciando due lunghe interviste, una a la Repubblica l’altra al Corriere della Sera dove si presenta come il padre nobile del partito, che fin dagli anni Ottanta ha combattuto contro l’estremismo e il razzismo, traghettando i giovani militanti missini in altri lidi.
Ecco alcune delle dichiarazioni Fabio Rampelli a Repubblica:
“Avevo in mente una destra lontana anni luce da quella caricaturale di alcuni ambienti estremisti che la zavorravano. Io venivo dal Movimento studentesco. E nei licei occorreva saper rispondere nelle assemblee d’istituto alle accuse che la sinistra ci scaraventava. Occorreva studiare. Questo mi ha dato la carica nel tentare di rivoluzionare l’allora Fronte della Gioventù e non sono stato solo. Abbiamo modernizzato la destra, anticipato la svolta di Fiuggi. Di certo non sono mai stati esternati in pubblico, altrimenti i protagonisti sarebbero stati invitati a recarsi altrove. Noi li abbiamo scoperti ora e stiamo agendo mettendo alla porta gli artefici di quelle inaccettabili intemperanze. Sono entrati nel partito sbagliato, ce ne sono certamente altri più in sintonia con il loro estremismo becero. Noi non siamo mai stati razzisti né antisemiti. Ricordo che consegnammo una lettera al Rabbino capo Toaff alla Sapienza nel ‘90 denunciando l’orrore delle leggi razziali. E la nomenclatura all’epoca era più affine a Predappio che a Gerusalemme. È questa la genesi di Fratelli d’Italia”
E al Corriere quasi identiche:
“A guardare quelle immagini sembra proprio di si. Una doppia morale pericolosa e inaccettabile. Preferisco quelli della mia generazione, dicevano quello che pensavano e cercavano di portare la destra nel girone dell’estremismo, alla luce del sole. Quando persero la partita cercarono altri movimenti dove il neofascismo fosse palpabile, capendo che da noi quella storia era finita. Game over.B Il razzismo è il frutto marcio dell’omologazione e noi valorizziamo le identità. Questa destra si è formata nei centri estivi per bambini, nelle notti in tenda con gli immigrati aggrediti dai naziskin, a distribuire coperte e difendere il Centro Aids di Don Di Liegro dagli assalti dei comitati della Roma bene guidati da esponenti Msi. È rispettata per questo. Nessuno la riporterà indietro.
Ma quale utopia? La pulizia è nei fatti. Di questi ragazzi non mi spaventa solo il doppio gioco (davanti meloniani nell’ombra fascistelli) ma l’assenza di amore. Vale anche a sinistra. Dobbiamo insegnare loro che le idee se non sono accompagnate dal rispetto e dall’amore sono ‘monnezza’.”
È che a ben vedere questa presa di distanza dai “fascistelli” e dall’estremismo sembra essere decisamente lontana dalla realtà alla luce dei fatti da parte di Fabio Rampelli.
Ma andiamo con ordine mostrando foto e video che raccontano una realtà un po’ diversa.
“Presente” per Di Nella: Rampelli tra i saluti romani nel 2019
Il primo è un filmato del 2019, è pervenuto alla nostra redazione alcuni giorni dopo la prima puntata dell’inchiesta. È girato la sera del 9 febbraio del 2019 a viale Libia, giorno del “presente” in onore di Paolo Di Nella, militante del Fronte della Gioventù morto il 9 febbraio del 1983 dopo sette giorni di coma a seguito dei colpi ricevuti dai “rossi” durante un’affissione.
Nel breve documento si vedono i camerati disporsi in fila e poi fare il “presente”. Tra di loro, l’unico che non alza il braccio per il saluto romano, è facilmente distinguibile Rampelli. Se non alza il braccio per ragioni di opportunità non sembra per nulla a disagio nel picchetto e nel rito del presente, come testimonia il video
Gioventù Meloniana e Colle Oppio
D’altronde proprio nella storica sede del Movimento Sociale Italiano di Colle Oppio, di cui Rampelli è il custode e a cui la sua area fa riferimento da sempre,inizia l’avventura della nostra giornalista infiltrata nel “dietro le quinte” della militanza in Gioventù Nazionale. Un concerto dove non si possono fare foto e video perché quello che accade all’interno, tra slogan neofascisti e le solite braccia tese, non può uscire.
Rampelli a braccetto con l’estrema destra a Acca Larentia
Per vedere come Rampelli non ha mai smesso di coltivare i rapporti con la destra più radicale, e di farsi custode dei momenti comunitari e della memoria dei caduti degli anni Settanta, basta vedere quello che è accaduto lo scorso 7 gennaio nell’anniversario della strage di Acca Larentia. Prima del “presente” gestito da CasaPound la mattina sfilano davanti alla sede all’Appio Latino anche molti militanti di Fratelli d’Italia. A fare il “presente” con tanto di saluto romano, sotto l’occhio vigile di Fabio Rampelli e di altri esponenti della sua area (si distingue ad esempio Andrea De Priamo in questo video), ci sono i “vecchi” militanti di Colle Oppio che con una bandiera con il simbolo della sezione si mettono in riga per omaggiare i caduti.
Una presenza la mattina quella dei Gabbiani concertata con CasaPound e gli altri gruppi dell’estrema destra, tanto da vedere i due manifesti, quello affisso dalla destra neofascista e quello dei rampelliani, affissi vicini.
I giovani Gabbiani e il network degli identitari
A margine dell’inchiesta Gioventù Meloniana che mette al centro Gioventù Nazionale, abbiamo anche raccontato come l’organizzazione studentesca del partito Azione Studentesca, sia stata egemonizzata dall’estrema destra degli identitari, a cui anche i giovani rampelliani fanno riferimento tra Colle Oppio e la storica sede di via Sommacampagna, dove “vola” non a caso un gabbiano.
Giorgia Meloni ai suoi esordi in politica, giovanissima promessa della destra italiana, leader prima di Azione Studentesca e poi di Azione Giovani, è stata considerata una “rampelliana”. Tutta la cosiddetta Generazione Atreju ha avuto come punto di riferimento la sezione di Colle Oppio, e non è un caso che proprio a Colle Oppio sia nata la manifestazione che oggi è il più importante appuntamento politico della destra italiana.
E per capire quanto quell’ambiente non fosse così lontano da quello di Gioventù Nazionale oggi, basta pensare al fatto che i gruppi che suonano nei momenti “comunitari” sono sempre gli stessi, a cominciare dagli Aurora (che a Meloni dedicarono una canzone “goliardica”) che ascoltiamo nella nostra inchiesta, fino alle canzoni dei 270 bis di Marcello De Angelis.
Un fermo immagine vale più di tante parole. È il 1996 e il canale televisivo francese Soir 3 fa un servizio sulla destra di Gianfranco Fini. I giornalisti seguono proprio Giorgia Meloni in una giornata di campagna elettorale. E nel famoso servizio dove la futura premier definisce Benito Mussolini “un buon politico”, si fa tappa anche nella sede sezione di via Guendalina Borghese alla Garbatella. Qui, affisso su un muro, tra i manifesti dei Gabbiani per Acca Larentia anche un poster di Benito Mussolini “Uomo di popolo”.
(da Fanpage)
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Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
IN CASO DI SFIDA TRA UN LEPENISTA E UN CANDIDATO DEL FRONTE POPOLARE GUIDATO DA MELENCHON, IL 58% DEGLI ELETTORI CENTRISTI CHE HA VOTATO “ENSEMBLE” SI ASTERREBBE, il 30% SCEGLIEREBBE IL CANDIDATO DI SINISTRA E IL 12% PREFERIREBBE SOSTENERE LE PEN. VICEVERSA, TRA GLI ELETTORI DI SINISTRA, IL 50% SAREBBE PRONTO A DISERTARE LE URNE PUR DI NON SCEGLIERE TRA UN CANDIDATO DI BARDELLA E UNO DI MACRON
È la parola che riempie le discussioni e le analisi sul secondo turno di domenica: «triangolazioni». Ovvero, sfide a tre candidati nella seconda fase del voto, che nella storia elettorale recente della Francia sono state più che altro un’eccezione: per citare le ultime tre tornate, furono 34 nel 2012, una sola nel 2017 e 7 nel 2022.
Questa volta le circoscrizioni in cui sono avanzati tre candidati sono state 306. Merito dell’affluenza elevata — per passare al secondo turno un candidato deve ottenere un numero di voti pari almeno al 12,5% del numero di elettori registrati nella circoscrizione — la più alta al primo turno dal 1997.
Di queste 306 triangolazioni, però, più della metà non sopravvivrà alla tagliola delle 18 di oggi: entro quell’ora, i candidati che intendono ritirarsi devono farlo ufficialmente. A ieri sera, già 173 triangolazioni si erano trasformate in duelli, dopo gli appelli dei macronisti e della sinistra a desistere, a rinunciare cioè a correre nei seggi in cui si è terzi per concentrare i voti su un unico candidato che da solo si opponga a quello del Rassemblement national. Evitando, in questo modo, che il lepenisti raggiungano la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale.
«Il Rassemblement otterrà la maggioranza assoluta se gli altri due blocchi glielo permetteranno», spiega al Corriere Gilles Gressani, direttore della rivista online Le Grand Continent , che, sulla base dei risultati del primo turno e delle proiezioni, ieri ha ipotizzato tre scenari per il nuovo parlamento. Tutti partono da un presupposto: «Da un lato c’è una forza politica che può stravincere, dall’altro ci sono forze che possono coalizzarsi perché ciò non avvenga».
Il primo scenario è quello in cui il «fronte repubblicano» evocato da Macron non si realizzerebbe: il Rn upererebbe i 289 seggi necessari per avere una maggioranza assoluta e si attesterebbe a circa 300 deputati; improbabile Un altro scenario è quello di uno «sbarramento generale», in cui tutti i candidati di sinistra, macronisti e gollisti arrivati terzi rinuncino a correre domenica: a quel punto i lepenisti si fermerebbero a circa 260 seggi, ovvero la maggioranza relativa. Ma i Républicains non hanno dato indicazioni di voto e nello schieramento presidenziale ci sono divergenze e distinguo.
Il terzo scenario è quello di una rinuncia generale dei candidati di sinistra nei seggi in cui sono terzi (129 in tutto), che fermerebbe il Rassemblement e i suoi alleati a 275 seggi. Il Fronte popolare avrebbe circa 150 deputati, Ensemble poco meno di 80. Con questi numeri, esiste anche il rischio di un parlamento bloccato. Lo scenario che sta prendendo forma, spiega Gressani, è una via di mezzo tra il secondo e il terzo
Poi però ci sono le urne. E ci sono gli elettori. Che sono la vera, grande incognita di domenica: «L’alleanza tra i macronisti e il blocco di sinistra in funzione antilepenista potrebbe spingere molti elettori, specie nel campo moderato, a votare per il candidato di destra se non ad astenersi ». Un’indicazione in questo senso potrebbe fornirla l’affluenza: più bassa sarà, più favorirà Bardella.
Qualche «segno di smobilitazione» già c’è: la scorsa settimana, a poche ore dal voto, sondaggi mirati hanno dato indicazioni eloquenti: «In caso di sfida tra un candidato lepenista e uno del Fronte popolare — osserva Gressani — il 58% degli elettori centristi che ha votato Ensemble al primo turno non andrebbe alle urne, il 30% voterebbe il NFP, e il 12% sosterrebbe il Rassemblement.
E le cifre sono molto simili nel campo degli elettori di sinistra: il 50% sarebbe pronto a disertare le urne pur di non scegliere tra un candidato di Bardella e uno di Macron. Non sono numeri marginali, specie in un contesto in cui i lepenisti sono primi in quasi tutte le circoscrizioni».
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
SANNO CHE STANNO PER PERDERE IL POSTO , O PERCHÉ BATTUTI O PERCHÉ COSTRETTI A RINUNCIARE PER IL PATTO DI DESISTENZA… LA POSIZIONE DEGLI IMBECILLI: “NON UN VOTO DEVE ANDARE AL RASSEMBLEMENT NATIONAL, MA NEANCHE ALLA FRANCE INSOUMISE”
Il presidente Macron avrebbe anche deciso di sbarrare la strada al Rassemblement national, o almeno di provarci. Il problema è che i membri della sua maggioranza ne hanno abbastanza di seguire le indicazioni del capo, che in questa fase non gode certo dell’autorevolezza del vincitore.
È il problema storico dello scioglimento dell’Assemblea: come la bomba atomica, è un’arma che funziona fino a quando non viene usata. Si possono controllare deputati e ministri, con la paura di farli tornare davanti al giudizio degli elettori; ma una volta sciolta l’aula e indette le elezioni, l’arma ha già sparato e il patto di fedeltà è già rotto.
Così ieri all’ora di pranzo si è svolta all’Eliseo una riunione che molti descrivono come tesa, nervosa, vicina alla resa dei conti, fra tristezza per la fine di un’era e rabbia per la parte auto-inflitta del disastro.
«La situazione è chiara: è l’estrema destra che sta per accedere alle più alte funzioni, e nessun altro», dice il presidente, secondo quanto riportato da Libération . Quindi, dopo mesi di equivalenza tra le «estreme», tra destra e sinistra, tra Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, Macron ribadisce e spiega meglio la presa di posizione di domenica sera, un’istante dopo i risultati: l’«ampia alleanza democratica e repubblicana» anti-RN vuol dire che «non un voto deve andare all’estrema destra. Dobbiamo ricordarci che nel 2017 e nel 2022, a sinistra, tutti hanno fatto proprio questo messaggio. Altrimenti, né io né voi saremmo qui».
Solo che il presidente continuerà comunque a stare all’Eliseo fino alle prossime presidenziali del 2027, a meno che non decida di dimettersi prima; i ministri e molti deputati stanno invece perdendo il posto, o perché saranno battuti alle urne oppure perché vengono invitati, proprio da colui che li ha messi in questa situazione, a desistere, a non provarci neanche ad andare al ballottaggio, per dare a un avversario di sinistra meglio piazzato una probabilità in più di battere il candidato del RN.
E infatti la decisione del presidente è contestata: non può pretendere che esista ancora una maggioranza che lui stesso ha ucciso, come ha detto qualche giorno fa l’ex premier Edouard Philippe. «Non un voto deve andare al Rassemblement national, ma neanche alla France Insoumise», dice adesso Philippe, seguito dal suo ex collega di partito nei Républicains, il ministro delle Finanze Bruno Le Maire, anche lui furioso sia per la dissoluzione insensata, sia per l’improvvisa svolta a sinistra di Macro
Il più fedele sembra Gabriel Attal, il premier che fino a domenica alle 20 diceva — probabilmente senza crederci — di volere vincere le elezioni e che adesso è certo di lasciare Matignon e la poltrona di primo ministro. Attal promette ai deputati uscenti che «l’avventura non si ferma qui» e al tg delle 20 poi difende l’idea di «una terza via, un’Assemblea plurale in seno alla quale i nostri candidati saranno presenti per proteggere i francesi dagli aumenti delle tasse e dalle divisioni».
Attal sembra fare propria la proposta già avanzata da Edouard Philippe, e cioè una possibile maggioranza di grande coalizione da trovare in aula, dopo il voto, senza la France insoumise di Mélenchon. Ma bisognerebbe prima evitare che il RN arrivi alla maggioranza assoluta […]
Non aiuta il sospetto che Macron in realtà si stia già preparando alla coabitazione, come dimostrerebbe la fretta con la quale cerca di imporre i suoi uomini in posti chiave, da Thierry Breton alla commissione ad Alexandre Adam come vice-capo gabinetto di Ursula von der Leyen, al nuovo capo di stato maggiore dell’aviazione al direttore Ue del quai d’Orsay, fino a tre ambasciatori. Presto, ancora qualche giorno, prima che le nomine cominci a farle Bardella.
(da agenzie)
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Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
“VOLEVANO UN SUPERGRUPPO UE, MA NON HANNO TROVATO L’ACCORDO… PRONTO IL PIANO B CON SALVINI
Sono ore di lavoro febbrile per Viktor Orbán, e ad una scala insolitamente europea. La sua Ungheria ha preso infatti oggi ufficialmente le redini temporanee dell’Ue, ereditando dal Belgio la presidenza semestrale del Consiglio, organo di rappresentanza dei 27 Stati membri. Compito sempre delicato, che richiede capacità di leadership ma pure di tessitura: delicatissimo in questa fase, quella dell’avvio di un nuovo ciclo istituzionale quanto mai incerto dopo le Europee del 6-9 giugno. Il funambolico Orbán dà mostra di non temere la prova, fiero del suo ruolo di premier di gran lunga più esperto d’Europa (guida il governo del suo Paese ininterrottamente dal 2010, spegnendo ong, contrappesi e voci critiche con le buone e con le cattive). Ai suoi uomini a Bruxelles ha lasciato la parte delle colombe – «saremo un honest broker tra i governi», è la linea ufficiale fatta trapelare – mentre lui si tiene le mani libere, in equilibrio perenne tra “bombardatole” sovranista delle istituzioni e abile negoziatore. Nella capitale belga oggi ha preso il testimone da Alexander De Croo, ha visto il presidente (uscente) del Consiglio europeo Charles Michel e consegnato la sua linea sui temi economici al Financial Times (sparando a zero sulle ambizioni Ue di transizione ecologica). Ma il lavorio più intenso è quello che Orbán sta conducendo sul piano politico. In pentola bolle un nuovo gruppo di «patrioti» al Parlamento europeo, e questa sera il premier ungherese ha svelato qualche interessante retroscena che riguarda da vicino pure l’Italia
Il dialogo fallito tra le due donne della destra Ue
Subito dopo le Europee d’inizio giugno, ha raccontato Orbán un’intervista alla tv ungherese M1, le due più chiare vincitrici del voto sul fronte delle destre Ue hanno cominciato a parlarsi. I semi del dialogo li avevano piantati d’altra parte già nelle settimane precedenti, Giorgia Meloni e Marine Le Pen. Il punto d’arrivo cui i tifosi dell’alleanza tra le due donne forti della destra Ue guardavano era (e resta) un gruppo unitario al Parlamento europeo, in grado di incidere pesantemente sugli equilibri politici. Ma la cosa non è andata da nessuna parte, almeno per ora. «Non sono riuscite a mettersi d’accordo sui passi da compiere», svela ora Orbán, né soprattutto a raggiungere un accordo sul programma. Possibile che la linea di divisione sia stata quella sul sostegno all’Ucraina e l’opposizione a Vladimir Putin, tema su cui i sovranisti d’Europa sono quanto mai spaccati. Fatto sta, dice ora Orbán, che «alcuni volevano muoversi più velocemente e altri volevano muoversi più lentamente». Il suo partito però, Fidesz, di una nuova casa europea ha bisogno, dopo aver abbandonato – stava per essere espulso – il Ppe nella scorsa legislatura. Così avrebbe fatto un altro tentativo: quello di entrare nel gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr), quello guidato da Giorgia Meloni. La quale però «ha rifiutato Fidesz», svela il premier magiaro. E così Orbán si sarebbe deciso ad andare avanti di testa sua, con il nuovo progetto appena presentato.
Se son rose fioriranno
Si chiama «Patrioti europei» il gruppo che dovrebbe sorgere ufficialmente la prossima settimana, sulla base del manifesto presentato domenica a Vienna con il presidente ceco Andrej Babiš (leader dei liberal-populisti di Ano) e col leader del Partito delle Libertà austriaco (Fpö). Il lancio ufficiale è in programma per lunedì prossimo 8 luglio, e per quella data – ha svelato ancora Orbán – a salire a bordo da altri Paesi europei saranno diversi altri partiti di simile tendenza. «Diventeremo un grande gruppo parlamentare più velocemente di quanto si pensi ora, ancora 4-5 giorni e molti saranno sorpresi», ha anticipato sempre in tv il premier. Ricordano come la nuova alleanza sia aperta a tutti «coloro che vogliono migliorare l’Europa». Ma chi altro entrerà, di preciso? Orbán i nomi ancora non li fa, ma quasi. «Ai cechi, agli austriaci e agli ungheresi si sono già aggiunti i portoghesi (di Chega, ndr) e gli italiani si aggiungeranno presto», così che il nuovo gruppo arriverà a essere «il terzo più grande» al Parlamento europeo. E tutto lascia pensare che il partito italiano pronto ad aderire sia la Lega di Matteo Salvini. Anche se non è chiaro al momento cosa ne sarà esattamente di Identità e Democrazia, il partito che il Carroccio condivide con il Rassemblement National e tanti altri. Fusione? Incorporazione? O competizione?
La strategia di Salvini
Quel che è certo è che Salvini stesso aveva dato nelle ore precedenti segnali del tutto compatibili con quelli lanciati da Orbán. «Se aderiremo al gruppo dei patrioti europei lanciato dal primo ministro ungherese? Mi sembra la strada giusta unire chi mette al centro lavoro, famiglia, sicurezza, futuro dei giovani e non finanza, burocrazia e austerità». Matteo Salvini non nasconde le strategie per fare opposizione nella prossima legislatura europea. E, a Radio 1, afferma di stare trattando con il premier ungherese, anche se ciò volesse dire sciogliere il gruppo Identità e democrazia presieduto dal “suo” Marco Zanni. «Stiamo valutando tutti i documenti», dice il segretario della Lega, condividendo l’idea di «fare un grande gruppo che ambisca a essere il terzo nell’Europarlamento e che porti avanti quello che i cittadini ci hanno chiesto, ad esempio su un ambientalismo intelligente e non ideologico»
I riflessi del voto in Francia
Il vicepremier del governo italiano commenta anche quanto sta avvenendo in Francia, dove si è concluso il primo turno delle elezioni nazionali. Quando votano, «i cittadini hanno sempre ragione» e la tornata francese è «utile anche a livello europeo» visto che a Bruxelles «stanno costruendo la stessa ipotesi di alleanza». Salvini, poi, fa un endorsement alla sua alleata d’Oltralpe, Marine Le Pen: «Ha preso i voti di oltre un terzo dei francesi» e questo «allarme estremismo è folle perché non si tratta di estrema destra, ma di un movimento alternativo alla sinistra» per cui hanno votato tanti «lavoratori». Sul secondo turno, aggiunge: «Mi pare curioso che coloro che hanno protestato in piazza contro Emmanuel Macron ora si alleino per paura di perdere il posto. Poi uno si chiede perché la gente non va a votare».
(da agenzie)
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Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
VITTORIA DI LE PEN, ALLEANZA O PARLAMENTO BLOCCATO
Le parole chiave sono due: desistenza e triangolazioni. Le elezioni in Francia si decideranno nel secondo turno in programma il 7 luglio. La vittoria del Rassemblement National non è in discussione. Ma saranno importanti i numeri. Quello decisivo è 289. Ovvero il numero minimo di seggi che un partito deve conquistare all’Assemblea Nazionale per avere la maggioranza. Al primo turno sono stati infatti eletti 39 deputati del RN, contro i 32 del Nuovo Fronte Popolare. Tutti gli altri per arrivare in Parlamento dovranno arrivare primi (senza avere la maggioranza assoluta) nel secondo turno. E per Marine Le Pen e Jordan Bardella tutto potrebbe diventare più complicato. Perché in base agli accordi tra i partiti i candidati potrebbero ritirarsi ed effettuare una desistenza per indebolire Rn. In base a questo si ipotizzano tre scenari differenti.
Triangolazioni e desistenze
Le sfide a tre candidati nei collegi dipendono dalla peculiarità del sistema francese, che non prevede il ballottaggio tra i primi due classificati come nei sistemi maggioritari a doppio turno tradizionali. Al voto del 7 luglio accede infatti chiunque abbia raggiunto almeno il 12,5% dei voti. E l’altissima affluenza ha favorito esattamente questo scenario. E così arriverebbero almeno tre candidati in ogni collegio: quello del Rn, quello del Nuovo Fronte Popolare e quello di Ensemble, la formazione di Emmanuel Macron. Nella storia elettorale recente della Francia le triangolazioni sono state 34 nel 2012, una sola nel 2017 e 7 nel 2022. Invece stavolta sono ben 306. Ma entro le 18 di oggi i candidati che intendono ritirarsi devono farlo ufficialmente. E hanno già annunciato che lo faranno in 173. Hanno rinunciato, di volta in volta, macroniani o mélénchoniani per favorire l’altro candidato che è più in alto nei risultati. Effettuando una desistenza.
Tre scenari
Chi sceglie di ritirarsi lo fa in base a un ragionamento politico. Ovvero che l’elettore che ha scelto di votare al centro o a sinistra al primo turno decida di rivolgersi all’altro candidato pur di fermare quello del Rn. Ma su questo ci sono molte incognite. Perché non trovare il proprio candidato alle urne potrebbe invece spingere l’elettore ad astenersi. Oppure a votare per Le Pen e Bardella, se non gli piace il candidato di sinistra. Secondo i sondaggi il 58% degli elettori che ha votato Ensemble al primo turno non ha intenzione di partecipare al secondo in caso di desistenza del suo candidato. il 30% voterebbe il Nfp, il 18% Le Pen. Anche a sinistra il 50% degli elettori potrebbe disertare le urne. In base a questo, spiega oggi al Corriere della Sera Gilles Gressani, direttore della rivista Le Grand Continent, ci sono tre scenari per il nuovo parlamento.
La vittoria di Le Pen, l’alleanza tra le destre, il pareggio
Il primo scenario è quello del fallimento del Fronte Repubblicano. In questo caso Rn, alleato con i gollisti di Ciotti e la destra radicale di Reconquete, supererebbe i 289 seggi necessari per la maggioranza assoluta, attestandosi a poco più di 300 voti all’Assemblea Nazionale. Si tratta, per Gressani, di uno scenario per ora «improbabile». L’altro scenario è quello dello sbarramento generale, in cui tutti i 300 arrivati terzi rinunciano a correre domenica 7. A quel punto i lepenisti si fermerebbero a 260 seggi. Anche questo appare improbabile, visto che né i Républicains né Macron hanno per ora dato questa indicazione. Il terzo scenario invece è quello che Gressani giudica più probabile. Prevede una rinuncia generale dei candidati di sinistra nei seggi in cui sono terzi, ovvero 129 in tutto
Il parlamento bloccato
In questo caso il Rassemblement e i suoi arrivati arriverebbero a 275 seggi. Il Nuovo Fronte avrebbe 150 deputati ed Ensemble 80. E con questi numeri si verificherebbe il fenomeno del Parlamento bloccato. E Le Pen e Bardella non potrebbero aspirare al premierato. Per arrivare a formare il governo ci dovrebbe essere un grande accordo tra forze concorrenti alle elezioni. E una delle due alleanze escluderebbe o proprio il Rn o la sinistra dal patto. Le Monde scrive che sono 173 i candidati che sono passati al secondo turno delle elezioni legislative ma che si sono ritirati per fare “barrage” contro i candidati del Rassemblement National. Il conteggio del giornale indica che 122 candidati che si sono ritirati sono della sinistra del Nuovo Fronte popolare, 46 del blocco macronista e uno dei Repubblicani.
Il voto di campagna, il voto di città
Intanto l’analisi del voto del primo turno porta molte sorprese. La prima è quella del voto dei giovani tra i 18 e i 24 anni, che hanno scelto per il 48% la sinistra, mentre nella stessa fascia d’età l’Rn ha raccolto il 33%. I lepenisti vanno invece forti tra i 50-59enni e tra i 60-69enni. Dove arrivano a percentuali del 40%. Per quanto riguarda le categorie professionali, il partito di Le Pen ha preso il 57% dagli operai, il 44% dagli impiegati e il 31% dai pensionati. Rn è il primo partito tra chi guadagna meno di 1250 euro al mese. Mentre il 37% di chi ha un alto titolo di studio ha votato il Nuovo Fronte Popolare. Le cartine come quella di Libération invece tradiscono un voto di campagna sempre più a destra e un voto di città sempre più a sinistra: Parigi è rossa, tutto intorno è tutto nero.
(da agenzie)
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Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
PERSA LA SCOMMESSA SU VON DER LEYEN E LA LEGITTIMAZIONE DELLA SEGRETARIA DEL PD E’ STATO UN CLAMOROSO AUTOGOL
Il tocco magico, ammesso ci sia mai stato, è ormai un ricordo. Uno dopo l’altro, infatti, Giorgia Meloni è riuscita a inanellare una sequenza di errori che la stanno portando a essere sempre più debole in Italia, in Europa e addirittura oltreoceano. Dalle europee in poi, la leader di Fratelli d’Italia sta vivendo un momento di forte appannamento. Per non dire di crisi. Archiviata gli slogan di giubilo per la vittoria elettorale e riposti i lustrini del G7 a Borgo Egnazia, dove ambiva ad accreditarsi agli occhi dei grandi del pianeta, il mondo reale ha presentato il conto.
Le scelte errate degli ultimi mesi, tra compagni di strada sbagliati e la presunzione di essere indispensabile e imbattibile, stanno sfatando l’aura della donna vincente e lungimirante a ogni curva. A cominciare dalla legittimazione di Elly Schlein come vera avversaria. L’obiettivo era quella di metterla all’angolo di schiacciarla con la forza mediatica. E invece la polarizzazione della sfida politica ha favorito la segretaria del Pd, messa al centro della scena con una visibilità che ha sfruttato bene, rilanciando le parole d’ordine dal salario minimo agli investimenti sulla sanità, senza dimentica la battaglia contro l’autonomia differenziata. Oggi Schlein sta forgiando l’immagine di leader alternativa a Meloni, che l’ha vista arrivare e l’ha sottovalutata.
FLOP VON DER LEYEN
Ma l’esempio paradigmatico è l’all-in sul ruolo di Ursula von der Leyen. Meloni ha puntato sulla presidente della commissione europea, convinta che potesse realizzare il capolavoro di portare i conservatori, nonostante l’imprinting post-fascista, nella maggioranza che reggerà l’Ue nei prossimi anni. Uno sdoganamento storico, una riproduzione su scala europea di quanto fece Silvio Berlusconi con Gianfranco Fini negli anni Novanta.
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la volontà politica delle principali famiglie politiche europee, popolari, sociali e liberali. Von der Leyen è tutt’altro che una leader intoccabile, ma una regina travicella. Tanto che deve pensare a salvare sé stessa e conservare l’incarico a Bruxelles senza addentrarsi in complicate alchimie politiche per elargire ricompense ad altri. La premier italiana, come spesso le capita dinanzi alle difficoltà, ha reagito minacciando di fare la guerra all’establishment europeo. Il risultato? Chiudersi ancora di più nell’isolamento che la terrà lontano dalla stanza dei bottoni dell’Unione europea. La strategia è stata altrettanto claudicante sulla donna del momento, Marine Le Pen, corteggiata solo quando il Rassemblement national (Rn) francese era già in odore di trionfo. «Ho sempre auspicato anche a livello europeo che venissero meno le vecchie barriere tra le forze alternative alla sinistra e mi pare che anche in Francia si stia andando in questa direzione», ha detto Meloni commentando l’esito del voto per le legislative francesi. Solo che in quel campo, la presidente del Consiglio è arrivata troppo tardi.
Prima ha pensato di poter guidare in prima persona l’operazione della “super destra” in Europa per spostare l’asse politico, inglobando le altre forze di quell’area politica, dalle moderate alle più radicali. Ma quello che nelle intenzioni voleva fare Meloni, lo sta realizzando nei fatti Le Pen, che trascina con sé il vero partner italiano, Matteo Salvini, strettamente legato alla leader del Rn. Sono nella stessa famiglia europea, Identità e democrazia, fin dalla precedente legislatura. Meloni è arrivata dopo, nonostante il carico di voti. Pesa l’errore di valutazione, o per meglio dire di sottovalutazione, della presidente del Consiglio verso l’alleato leghista: ha immaginato che il vicepremier fosse politicamente in fase calante, contando esclusivamente sul bottino di consenso delle europee. Invece Salvini, per quanto indebolito, è riuscito a trovare una doppia scialuppa di salvataggio, in Italia con Roberto Vannacci, e in Europa proprio con Le Pen.
Resta tutto da valutare quanto possa essere duratura questa strategia; di sicuro, al momento, Salvini sta acquisendo un peso maggiore rispetto alla premier italiana nonostante abbia un terzo dei suoi voti. Alla fine sarà Fratelli d’Italia a dover chiedere una mano alla Lega per farsi accreditare in Europa.Una sinfonia di svarioni di Meloni. Per completare l’opera è incrinato lo storico sodalizio con il primo ministro ungherese, Viktor Orban, intenzionato a recitare un ruolo di primo piano nello scacchiere europeo. Senza fare da alfiere alla leader italiana, da cui è sempre più lontano sul sostegno militare all’Ucraina contro la Russia. Insomma, da palazzo Chigi vedono gli amici storici prendere un’altra direzione. Lasciando sempre più sola la leader che sognava di fare la regista della destra in Europa.
ASSALTO AL COLLE
E se a Bruxelles va male, a Roma non va certo meglio. Di fronte alle parole antisemite e razziste di militanti e dirigenti di Gioventù nazionale, la presidente del Consiglio se l’è presa per la modalità dell’inchiesta di Fanpage. Lo scopo era di mettere in secondo piano il contenuto fino a tirare la giacca al capo dello Stato, Sergio Mattarella. «È consentito da oggi infiltrarsi in un partito politico e riprenderne segretamente le riunioni? Lo chiedo ai partiti politici, al presidente della Repubblica», ha detto con una rara sgrammaticatura istituzionale, che ha momentaneamente raffreddato i rapporti con il Colle, sempre improntati alla cordialità con palazzo Chigi.
Il silenzio del Quirinale è piuttosto rumoroso, mentre altri a destra hanno pubblicamente reagito. È il caso di Alessandro Giuli, giornalista d’area meloniana e attuale presidente del Maxxi: «Meglio aver illuminato l’abisso prima che l’abissa sia venuto a cercarci», ha detto in un’intervista al Corriere della Sera. La presidente del Consiglio dovrebbe ringraziare Fanpage per aver scoperchiato la vergogna dei giovani di Gn che inneggiano al fascismo: così può ripulire il partito dai nostalgici del fascismo presenti tra le nuove leve. Invece Meloni si è rifugiata nel corpo a corpo, nell’atavico complottismo, rinfocolando lo scontro con la libera stampa.
In questa affannosa gara al riposizionamento, Meloni appare in ritardo addirittura oltreoceano. La sua vicinanza con il presidente statunitense, Joe Biden, è stata funzionale a puntellare la posizione atlantista. Solo che adesso non si può sbianchettare con qualche manovra last minute. L’avvicinamento a Donald Trump, che pure politicamente è più affine alla leader di FdI, sta avvenendo fuori tempo massimo. Ancora una volta, l’eterno rivale che ha in casa, Salvini, ha saputo anticipare le mosse della presidente del Consiglio, intestandosi la stelletta del trumpiano d’Italia numero uno. La sua fascinazione per il tycoon, che punta a tornare alla Casa Bianca, è di vecchia data ed è stata coltivata per mesi, lontano dai riflettori. Non è stata rinnegata nemmeno quando Trump sembrava caduto in disgrazia per i suoi guai giudiziari.
Per Salvini l’ex presidente degli Usa è stato «vittima di una persecuzione giudiziaria e di un processo di natura politica». In quella fase, Meloni era totalmente bidenizzata come testimonia il feeling geopolitico sull’asse Roma-Washington rafforzato sul sostegno militare all’esercito ucraino. Una scommessa sul bis di Biden, che dopo la deludente performance nel duello televisivo sembra un’ipotesi remota. E Meloni adesso sta compiendo gesti da equilibrista per non voltare definitivamente le spalle al presidente statunitense in carica e allacciare contatti con Trump. Trovando, però, il carro del possibile vincitore pieno. Con Salvini pronto a fare selezione all’ingresso.
(da editorialedomani.it)
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Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
“GASPARRI PUO’ AVERE UN FUTURO COME CORRETTORE DI BOZZE, NON E’ UN CAZZO”…. “SALLUSTI? UN VIGLIACCO, ME NE SBATTO I COGLIONI DI QUELLO CHE PENSA”
A Vittorio Feltri, decano del giornalismo e grande situazionista del dibattito pubblico, è riuscita un’impresa notevole: far litigare l’ex partito di Berlusconi e l’ex quotidiano di Berlusconi.
Nell’editoriale sul Giornale di domenica, Feltri si è permesso di criticare Antonio Tajani, segretario di Forza Italia, per “l’inciucio” su Ursula Von der Leyen e per aver “tagliato fuori” Giorgia Meloni. I notabili forzisti – da Maurizio Gasparri in giù – si sono precipitati a contestarlo con argomenti poco urbani (“superficiale”, “distratto”, un uomo in “senile confusione”). In pratica, gli hanno dato del rincoglionito. Quando c’è da sfilarsi i guanti, Feltri è sempre felice: “Ho scritto una considerazione personale e sono stato ricoperto da una valanga di insulti. Questo la dice lunga sul livello di elaborazione intellettuale di questi signori e sui loro argomenti. Poveretti”.
Gli interventi pubblici contro di lei sono molteplici. Qualcuno le ha scritto anche in privato?
No, in privato nessuno. Non li conosco, non ho rapporti con loro. Tajani ha lavorato al Giornale una trentina d’anni fa, io ero il direttore, ma non abbiamo mai avuto una frequentazione.
Com’era Tajani in redazione?
Mah. Un anonimo giornalista. Un pistola qualsiasi.
Bene. È un pistola anche da segretario?
No, gli va dato atto che dopo la morte di Berlusconi non si è comportato male, se non altro ha tenuto in piedi la baracca. Semplicemente non sono d’accordo su come si è comportato a Bruxelles sulla questione Von der Leyen. Può capitare, ma non capisco perché mi hanno insultato. Non gli ho mica dato del cornuto, cazzo.
L’hanno attaccata in branco.
Il più pirla di tutti è Gasparri.
Benissimo.
Ha presente Gasparri? Lui.
Non lo stima?
Io su questa storia ho fatto un tweet, ma non ho tanta dimestichezza con i social e queste robe, mi è successo di scrivere “sgagnozzi” invece che “scagnozzi”. Un semplice refuso. Lui è intervenuto per correggermi e prendermi per il culo. Complimenti, Gasparri, hai un futuro come correttore di bozze.
Barelli invece le ha attribuito “una senile confusione di idee lontana dalla realtà”.
Non so chi sia, ma questo è il loro atteggiamento: fanno razzismo sui vecchi. È molto ironico: il loro leader se lo sono tenuto fino alla veneranda età di 86 anni e nessuno ha mai osato dirgli nulla. Giustamente, perché li avrebbe cacciati a calci nel culo.
Mi pare che il suo direttore, Alessandro Sallusti, abbia preso felpatamente le distanze dal suo editoriale.
Eh vabbè, Sallusti lo conosciamo. Non è certo un cuor di leone. Faccia quello che vuole, io me ne sbatto i coglioni. Non ho problemi ad addormentarmi la notte se qualcuno si lamenta di quello che scrivo. E non ho nessuna stima di questi politichetti del cazzo.
Chiaro. È riuscito a far danni anche in Calabria, ha detto che la Salis “è vestita come una cameriera di Catanzaro”.
Ho visto che è intervenuto anche il sindaco di Catanzaro, non ha di meglio da fare? Una volta si parlava delle massaie di Voghera, non mi risulta che a Voghera si sia mai offeso nessuno. Sono cambiati i tempi.
È riuscito a far litigare Forza Italia e il Giornale, capolavoro.
Ma io non volevo proprio litigare con nessuno, mi sono permesso di esprimere la mia opinione e in cambio sono stato insultato.
Tende ad essere un filo sopra le righe. Poi non si lamenti se malignano sulle sue presunte performance etiliche.
Questa è una sciocchezza, una leggenda. Io bevo un bicchiere di vino a mezzogiorno e uno la sera, poi al limite faccio un aperitivo. Le assicuro che non basta per ubriacarmi.
Anche su questo deve convincere Gasparri.
Ma chi è Gasparri? Non è un cazzo.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Luglio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
LA PIAZZA: “UNITA’, UNITA'”… ASSENTE CALENDA MA SOLO PERCHE’ CONVALESCENTE DOPO L’OPERAZIONE
I leader dell’opposizione – da Elly Schlein a Giuseppe Conte, da Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli a Riccardo Magi e Maurizio Acerbo, sono saliti questa sera tutti sullo stesso palco, quello della festa dell’Anpi a Bologna.
“Ci riuniamo sulla base di due principi: difesa della Costituzione antifascista”, ha detto il presidente dei partigiani italiani, Gianfranco Pagliarulo. “Abbiamo tante ragioni per essere qui insieme”, ha fatto eco la leader dem, sottolineando l’importanza di aver accolto l’invito ed “esserci insieme con altri leader delle forze alternative alla destra”.
Schlein ha sottolineato che sono tanti i temi su cui l’opposizione può e deve lavorare insieme: “Questa è un’occasione per ribadire alcune battaglie comuni sui temi costituzionali: la sanità pubblica e la sua difesa dai tagli e dalla privatizzazione che sta portando avanti il governo Meloni, la scuola pubblica come prima grande leva di emancipazione sociale, il lavoro dignitoso visto che continuano a bloccare la proposta unitaria che abbiamo fatto sul salario minimo”. Per poi citare anche la battaglia contro le “riforme sbagliate” del governo Meloni.
Un punto, quest’ultimo, su cui si sofferma anche il leader M5s: “Io non credo che sia lesiva della maestà e contro il disegno di costruire dei nostri costituenti la possibilità di discutere di riforme della Costituzione. Ma non si può pensare di farlo a colpi di maggioranza o con un sistema squilibrato”.
Il segretario di Sinistra Italiana, da parte sua, ha proseguito: “Tenere dritta la barra per difendere la Costituzione nata dalla Resistenza Antifascista, contro chi vuole spaccare l’Italia, e per dare a questo Paese una credibile alternativa politica e sociale di fronte ad una destra identitaria e regressiva, una delle peggiori destre d’Europa. Come si vede in Francia, per fermare la destra serve una proposta alternativa coraggiosa”.
Dal palco si è anche parlato di quanto emerso dall’inchiesta di Fanpage.it, Gioventù Meloniana. “L’inchiesta mi ha preoccupato fortemente. C’è un problema politico e culturale acuito dal fatto che non c’è da parte del presidente del Consiglio la condanna chiara e ferma, un intervento chiaro che sia definitivo. Meloni deve estirpare da quelle sezioni tutti i coinvolti. Non puoi dimostrare nessuna tolleranza”. E ancora: “Non c’è un fascismo buono e uno cattivo, se no non ci ritroviamo su un processo culturale che ci deve unire tutti”.
Bonelli poi, richiamando ancora una volta alla necessità che le opposizioni rimangano unite, ha detto: “Speriamo che in Francia sia chiaro e forte il messaggio che la destra è un pericolo per l’Europa. Noi oggi diciamo solo una cosa: Unità in difesa della democrazia, della Costituzione, dei servizi pubblici del Paese, unità costruendo anche un programma che metta al centro questioni su ci è complicato dividersi, e lo diciamo che noi non mettiamo veti, sarebbe imperdonabile ricommettere gli errori del passato, per cui unità”.
(da Fanpage)
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