Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
QUESTA SELEZIONE DELLA CLASSE DIRIGENTE TRASFORMA L’ALBERO GENEALOGICO IN QUELLO DELLA CUCCAGNA. UN ‘PREMIO FEDELTÀ’. FDI NON È SCALABILE, NON C’È SPAZIO PER CHI CRITICA
La rivoluzione non sarà un pranzo di gala, ma forse di famiglia sì. Sorelle e cognati, mogli e mariti, figli e nipoti, compagne e fidanzati, cugini di ogni ordine e grado, padri e madri, nonni e zii, magari anche d’America. Sono i parenti d’Italia, ovvio. Risposta sanguigna, muscolare e sfacciata alla deplorata egemonia dell’“amichettismo” de sinistra.
Un romanzo popolare arcitaliano che regala ogni giorno un nuovo cadipitolo. E puntualmente rivendicato, mento all’insù, nel nome dell’ancestrale militanza che evidentemente deve essere meglio della misticanza. “Embè?”. Risulta così quasi beffardo, profetico e gioioso il nome del partito in cui tutto questo è norma e fluidità, luogo comune e punto di forza: Fratelli d’Italia.
Una selezione della classe dirigente che può trasformare l’albero genealogico in quello della cuccagna. Il riconoscimento di una vita di sacrifici, ma anche il “premio fedeltà”, come la trasmissione di Radio Deejay. La storia – meglio: la cronaca – sono loro.
A mettere insieme prime donne, protagonisti, secondi attori, comparse e maschere sono tanti, tantissimi. Un clan – nell’accezione politica del termine – senza eguali.
Dalle parti della “Fiamma magica”, che governa e prospera nel paese, si registra una certa sistematicità di questo fenomeno. Sembra quasi una regola tribale d’ingaggio. A Roma, compound meloniano, la mettono così: semo cresciuti insieme. Un’endogamia nelle istituzioni che parte e si rispecchia nel partito, avanti e indietro come un elastico.
La prima forza d’Italia anche con l’ultima tornata di congressi locali ha perpetrato logiche un po’ di vassallaggio e molto di appartenenza senza mai aprirsi – nonostante il boom di iscritti – a nuove culture politiche nei ruoli che contano. Sempre loro, solo loro. D’altronde, aggiungerebbe Corrado Guzzanti: “Aborigeno, io e te ma che se dovemo di’?”.
Figurarsi legittimare minoranze interne che da statuto sembrano non essere contemplate: niente si può scalare, mettere in discussione, ma solo continuare. E comunque si può sempre fare un gioco: cercate e contate le interviste in disaccordo o lievemente critiche con la linea del partito, dunque del governo, uscite sui media in questa legislatura. Spoiler: zero. Nemmeno le mezze frasi rubacchiate nei corridoi del Transatlantico dai cronisti più svelti: nisba.
E dunque la sera uscivamo a Colle Oppio, culla- cripta del tutto meloniano con vista sul Colosseo? Sì certo, va bene, ma non solo. La storia, ripetuta tutte le volte con più o meno convinzione e con sbalzi di epos e pathos, è sempre la stessa: eravamo giovanissimi, poi una piccola corrente di An, non contavamo un’acca, vivevamo di politica e manifesti affissi dalla mattina alla sera con coraggio e visione, emarginati nelle università e fuori dai salotti, ma alla fine la sera non si poteva vivere solo di politica… Logiche normali in una polisportiva, ma di sicuro inedite nel panorama italiano.
Che diventano prassi, e sì, modus vivendi, in una formazione che ormai è conclamata e acclamata forza di governo dall’ottobre del 2022. Ed è subito la “ mejo gioventù”. Quella dei campi base, quella del romanticismo e, certo, di Tolkien.
Dicono quelli bravi che “l’origine” è una vecchia ossessione di tutte le destre sovraniste europee. Un modo per essere sospettosi, per principio, verso “lo straniero” o colui che viene dall’esterno (Marine Le Pen è la figlia di Jean Marie, ha una nipote in politica con la quale si è ricongiunta, Marion Maréchal sposata con l’ex eurodeputato di FdI Vincenzo Sofo, ha candidato la sorella Marie Caroline alle politiche e perfino l’enfant prodige del Rassemblement national Jordan Bardella è stato fidanzato con una delle sue nipoti per diversi anni).
Non a caso, una delle frasi più ricorrenti della premier italiana, forse anche a ragione, è: “Sì, ok è bravo, ma non lo conosco: mi posso fidare?”.
Lo scorso 4 gennaio a Roma si celebrò l’ultima conferenza stampa della premier e presidente di FdI, Meloni, la capa. Da quel giorno, siamo a luglio inoltrato, la presidente del Consiglio non ha più organizzato un evento simile con i giornalisti italiani, nemmeno dopo fatali Consigli dei ministri.
Bene, in quell’occasione di sei mesi fa, negli annali del 2024, il Foglio domandò letterale: “Buongiorno, presidente, il caso Pozzolo (il deputato che si presentò con una pistola a un veglione di Capodanno e da cui partì un colpo che ferì una persona) mette in luce un problema di classe dirigente nel suo partito che, nonostante ottimi sondaggi, sembra ancora conservare la struttura di quando era al 4 per cento, quasi a conduzione familiare: in prospettiva, crede sia necessario allargare il suo partito alle forze migliori del paese e magari di archiviare la Fiamma dal simbolo dopo le europee?”.
Meloni ammise di voler rappresentare sempre più cittadini e di voler allargare la sua classe dirigente. E alla fine si disse “stufa” delle accuse di familismo. Dunque portò un esempio, a suo dire, fattuale. Era una domanda che si aspettava, dopo i minuziosi carotaggi dello staff nei giorni precedenti nelle redazioni.
Così rispose la premier, tutta d’un fiato: “Nell’attuale legislatura ci sono due coppie di coniugi, entrambe a sinistra: nel Pd e in Sinistra italiana. In quest’ultimo partito c’è un gruppo di otto persone e quindi queste due persone fanno circa il 25 per cento del gruppo. Non ho mai sentito l’accusa di familismo nei loro confronti. E sarebbe sbagliata.
Perché chi milita, chi fa politica spesso sa che diventa tanto altro e che le persone che fanno politica con te diventano anche i tuoi amici, i tuoi fidanzati, tuo marito e tua moglie. Ma questo non può togliere il valore di un militante politico. E, come è normale per le persone di cui sto parlando, non accetto che si faccia con me. Mia sorella è una militante, da trent’anni lavora in Fratelli d’Italia. Ha ragione – rispose rivolta al cronista con un tono che preludeva la stoccata – forse potevo metterla in una partecipata, ma non me la sono sentita e l’ho messa a lavorare nel partito mio”.
Rewind, ultima frase: l’ho messa a lavorare nel partito mio, proprio così disse Meloni. Basta riascoltare, si ritrova tutto su YouTube. E allora, senza mettere in discussione l’assoluta capacità di tutti i quadri di FdI che hanno solo la “colpa” di aver marciato insieme, uniti come una testuggine, in questi anni duri e tempestosi di opposizione e ghetto, eccone una rapida carrellata. Che tanto rapida, nomi e cognomi alla mano, non è. Prima gli elefanti nella stanza. Arianna Meloni, la sorella d’Italia.
Nata sotto il segno dei Gemelli, 49 anni, due più di Giorgia, accompagnati da cinque centimetri in più che la fanno svettare. Dallo scorso agosto è responsabile della segreteria politica di FdI, oltre che del tesseramento. Potente, ma con un tocco popschietto- rivendicativo che la rende empatica come la sorella underdog. Arianna ha un filo: tiene sempre con sé, legato con un cordino tricolore, uno dei cellulari più influenti del paese.
Da quello smartphone passa tutto o quasi: nomine, lamentele interne, soluzioni nel partito e nel governo, ricerche di protezione, la ristrutturazione della sede di via della Scrofa, piccole vendette e grandi sospetti, oltre a una serie sterminata, quando l’affare si ingrossa, di “ne parlerò con Giorgia, ho capito, baci”.
Arianna Meloni, che spesso occupa la stanza della sorella-presidente che fu di Giorgio Almirante ai tempi del Msi e di Gianfranco Fini in quelli di An prima della bancarotta politica, da oltre vent’anni è la compagna – “con normali alti e bassi”, raccontano dalla corte dove si vive anche di sapidi pettegolezzi – di Francesco Lollobrigida.
Attenzione: Lollo è Lollo. E’ il ministro della Sovranità alimentare e capo delegazione di FdI al governo. Scaltro, sfacciato, agile, stratega, polemista con licenza di gaffe, guascone. Insostituibile a prima vista. Ha iniziato facendo il consigliere provinciale con Giorgia Meloni. La coppia ha due figlie: Rachele e Vittoria. Si conobbero alle “feste dei rioni” organizzate dalla sezione di Colle Oppio, quando davvero la fiamma ardeva – gratis – la passione politica di questi ragazzi. […]
Tuttavia, anche la squadra di governo può dare soddisfazioni. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento è Luca Ciriani da Pordenone, già capogruppo in Senato nella passata legislatura, prima di aver ricoperto anche l’incarico di consigliere regionale e di vicepresidente della regione Friuli Venezia Giulia.
Gavetta a destra, dal Msi a salire, di curva in curva, con le piccole svolte, evitando le buche più dure. Il ministro Ciriani, uomo di lettere con voce piana, ha un fratello di tre anni più piccolo. Si chiama Alessandro: è stato presidente della provincia di Pordenone poi sindaco di Pordenone per otto anni fino allo scorso giugno.
Quando Ciriani jr è stato eletto europarlamentare di Fratelli d’Italia nella circoscrizione nord-est con 43.965 preferenze. Un fratello chiama un nipote come nel caso di Giovanni Crosetto, classe 1990, eletto a Strasburgo un mese fa (indovinate con quale partito) con una dote personale di 33.964 voti.
Già capogruppo di FdI nel Comune di Torino (1002 preferenze) è il nipote di Guido, ministro della Difesa, cofondatore di FdI, anima liberal e non intruppata di un partito un po’ caserma e animato da un pensiero magico.
Pare che gli stia un po’ sul gozzo l’area – non chiamatela corrente – vicina a Giovanni Donzelli, capo dell’organizzazione di FdI, homus totus machina. Guido è l’unico raccontano cronache a cui fare la tara in questo pissi pissi – in grado di sostenere liti accese con “il presidente” del Consiglio senza finire su un aereo per le Filippine con un biglietto di sola andata. E’ l’unico a dirle e a scriverle, in privato, “cara Giorgia, ti stai sbagliando”.
In questo turbinio di “Mariti e mogli”, tipo film di Woody Allen, appena si formò il governo uscì fuori la storia che il silente (dote non banale) ministro della Sanità Orazio Schillaci, già rettore dell’Università di Tor Vergata, fosse il cugino di seconda grado acquisito di Lollobrigida, e cioè del politico “nato parente” (come ebbe a dire egli stesso a questo giornale con una fulminante battuta ricordando il cognome che lo legava alla Lollo nazionale, la star Gina da poco scomparsa, nipote del fratello del suo bisnonno). Fu una di quelle notizie ritenute verosimili.
Siamo andati a cercare conferme: “Tendiamo a escluderlo, ma possiamo informarci, questa però non l’abbiamo mai sentita”, dicono i dirigenti del ministero con la curiosità di chi fa gli album delle figurine Panini: “Ah, questa ci manca”. Come, restando sempre nello spettro del governo, in tanti segnalano la presenza (è una minuzia) nel gabinetto di Palazzo Chigi, via Ente nazionale del turismo, di Silvia Cavallari, figlia della ministra della Famiglia (giustamente) Eugenia Roccella, personalità poliedrica con storia e pedigree fuori dall’ordinario da raccontare e contenuto nel bel libro ‘Una famiglia radicale”
Poi, certo, c’è la famiglia missina. Quella della seconda carica dello stato, all’anagrafe Ignazio Benito Maria La Russa. Lo zio di FdI. Tutto abbastanza noto: è figlio dell’avvocato e parlamentare Antonino da Regalna (Paternò) trapiantato poi a Milano. Una gens che ha attraversato, con un armamentario ideologico-fattuale abbastanza appuntino per offendere e difendersi, tutto il Novecento: dal Pnf, al Msi, poi Fiuggi, An, Pdl e FdI.
Uno dei figli del presidente del Senato, invece, è Geronimo Antonino. E’ il presidente dell’Aci di Milano, nominato da questo governo (dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: niente fischi, please) nel cda del teatro Piccolo di Milano, fondato il 14 maggio 1947 da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi con “il desiderio di dare vita a un teatro inteso come servizio pubblico: un’istituzione necessaria e a vantaggio di tutta la cittadinanza”, si legge nel sito del Piccolo.
Giorgia Meloni a domanda sull’opportunità di questa nomina, a margine di un’iniziativa, rispose così alle telecamere di “Piazzapulita”: “Non conosco la vicenda e il modo con cui questa è accaduta: conosco Geronimo per aver fatto diverse cose nella sua vita e tendenzialmente non per indicazione del padre. Dopodiché capisco che possa generare delle polemiche, ma penso anche che le persone debbano avere delle possibilità indipendentemente dal cognome che portano. Altrimenti tutti quelli che hanno un cognome affine a un politico e magari lavorano nelle partecipate statali sono arrivate in quei posti per raccomandazione, no?”.
Lo “zio Ignazio” è la seconda carica dello stato in quota FdI. La quinta tecnicamente è ricoperta da Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera. Ex olimpionico di nuoto, ideologo e architetto del nucleo fondante romano e non solo, gabbiano maximum, da cui tutto è nato – o quasi – ha due sorelle.
Una di queste, Manuela, è la moglie di Marco Scurria, lunga gavetta iniziata con gli universitari di destra, europarlamentare ai tempi del Pdl nel 2009 e ora senatore, da poco nominato vicepresidente del gruppo in virtù degli accordi raggiunti da Rampelli e Arianna Meloni durante il congresso di Roma (vinto senza avversari da Marco Perissa, onorevole, svelto nonché cocco della sorella della premier, dopo il ritiro del gabbiano Marco Milani, diventato vice di Donzelli all’organizzazione).
Tutto parte da Colle Oppio, rifugio di esuli e prima sede del Msi, attualmente l’Ena italiana (sic). Insomma, non se ne esce. Altro che tessera di partito, servirebbero le analisi del sangue. Quando il governo Meloni decise di mettere le mani sull’Istituto superiore della sanità, sostituì Silvio Brusaferro con Rocco Bellantone, direttore del centro dipartimentale di chirurgia endocrina e dell’obesità del Gemelli e già preside della facoltà di medicina.
Titoli in regola, lecito spoils system, ma spuntò fuori che era anche il cugino di Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, genio della lampada del melonismo. Uomo centrale e ruvido, c’è chi dice geniale e c’è chi dice esiziale, del governo.
“E’ mio cugino di terzo grado”, disse “Fazzo”. “L’avrò visto tre volte”, aggiunse il neo presidente dell’Iss. Più diretto – evviva la sincerità – è stato Edmondo Cirielli, ras del partito in Campania e viceministro degli Esteri, che non ha battuto ciglio quando un paio di settimane fa il Consiglio dei ministri ha nominato la compagna, Maria Rosaria Campitiello, a capo del dipartimento prevenzione ed emergenze sanitarie del ministero della Salute, guidato da Schillaci.
Altri sottosegretari in famiglia: la viceministra del Lavoro Maria Teresa Bellucci ha un marito psicologo e da lungo tempo esperto di lotta alle tossicodipendenze: un’attività da far valere anche nel dipartimento tematico di Palazzo Chigi. I maligni dicono che la nomina governativa sia arrivata quando Bellucci ha lasciato l’area di Rampelli (non chiamatela corrente: vi aspetta sotto casa) per andare dannunzianamente “verso la vita”, cioè le sorelle Fiamma).
Se tutto è consequenziale, anche gli staff non sono da meno: cognati, sorelle, mariti, nipoti albergano a Palazzo Chigi, nei ministeri e alla Camera, professionisti che non occupano ruoli politici, seppur pagatissimi. Logiche esplicative che restano però sotto la dicitura di un prezioso sottobosco non diverso da quelli del passato. E’ tutto un paradosso denso di normalità. “Embè?”. Al punto che la consigliera comunale di FdI, nonché la più votata a Roma, Rachele Mussolini, figlia di Romano e nipote di Lui, si è lamentata di non essere stata candidata alle europee per via del cognome. A questo punto è quasi il colmo, no?
(da il Foglio)
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Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
UN COMPAGNO DI LICEO DELL’ATTENTATORE CHE SABATO HA SPARATO A DONALD TRUMP RICORDA: “DURANTE LE LEZIONI DI STORIA L’INSEGNANTE DIVIDEVA GLI STUDENTI IN BASE ALLA LORO POSIZIONE POLITICA. LA MAGGIORANZA DELLA CLASSE ERA DALLA PARTE LIBERAL, MA THOMAS RIMANEVA SEMPRE DALLA PARTE CONSERVATRICE”
Un ex compagno di classe di Thomas Crooks, l’attentatore dell’ex presidente Donald Trump, ricorda che al liceo il ventenne era “certamente un conservatore”.
Max R. Smith, 21 anni, ha raccontato al Philadelphia Inquirer di aver condiviso una lezione di storia americana con Crooks e ha ricordato un finto dibattito in cui il loro insegnante faceva stare gli studenti da un lato o dall’altro della classe per segnalare la loro fedeltà politica.
“La maggioranza della classe era dalla parte liberal, ma Tom, qualunque cosa accadesse, rimaneva dalla parte conservatrice”, ha aggiunto: “Questa è ancora l’immagine che ho di lui. Da solo da una parte mentre il resto della classe era dall’altra”.
Quindi, Smith ha detto di chiedersi “come mai avrebbe tentato di assassinare il candidato conservatore” alle elezioni.
L’ex compagno di classe ha poi definito Crooks come generalmente gentile e intelligente, anche se riservato.
(da agenzie)
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Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
DOMANI IL TEAM BIPARTISAN DI POLITICI AFFRONTERA’ LA NAZIONALE CANTANTI ALL’AQUILA
Il destino vuole che succeda proprio all’Aquila. Dove l’ultima volta che hanno «giocato» assieme, alle Regionali di qualche mese fa, era finita malissimo.
Stavolta si gioca nel senso letterale della parola: Elly Schlein e Giuseppe Conte indosseranno gli stessi colori; sfileranno dietro lo stesso capitano, il presidente della Camera Lorenzo Fontana; serviranno assist al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti; e saranno «agli ordini», come si diceva nelle telecronache di un tempo, di Ignazio La Russa.
Di lui, nel perimetro del M5S, si parla genericamente di «piedi buoni», che nel racconto tramandato di gesta calcistiche individuali di chiunque può voler dire tutto o nulla; lei invece ha un passato prossimo consolidato da calciatrice amatoriale, ha indossato il numero 5 della rappresentativa dei parlamentari, la propensione a numeri da scuola sudamericana è nelle testimonianze di tante sue colleghe, anche del centrodestra.
Non sarà il campo larghissimo a cui lavora il centrosinistra ma è un campo comunque lungo e sì, sufficientemente largo: al «Gran Sasso – Italo Acconcia» del capoluogo abruzzese, martedì, andrà in scena la Partita del cuore che vedrà una rappresentativa di politici nazionali, che così di alto rango non si vedeva forse dall’edizione del 1996, sfidare la Nazionale cantanti, allenata da Al Bano.
Gli ingredienti che resero celebre il primo precedente di quasi trent’anni fa ci sono tutti: una squadra composta da politici bipartisan, la sfida su Rai1 (mercoledì), uno scopo benefico (ricavato e incasso saranno divisi tra il progetto «Accoglienza» per i genitori dei bambini ricoverati al Bambin Gesù di Roma e l’Ospedale San Salvatore dell’Aquila) e anche un numero di telefono solidale (45585) già attivo per sostenere l’iniziativa.
Inimmaginabile ai tempi della Prima Repubblica, il rapporto tra politici e calcio giocato ha conosciuto all’inizio della Seconda i suoi momenti di gloria. Nel 1996, la partita al Bentegodi di Verona tra politici e cantanti rimase nell’immaginario collettivo per l’abbraccio in diretta tv tra il postfascista Gianfranco Fini e il postcomunista Massimo D’Alema, dopo un gol. In campo, alcuni che sono sul proscenio ancora oggi: da Walter Veltroni ad Antonio Tajani, da La Russa a Casini.
Fino a Mastella, che ricorda: «Capii là che i semi dell’antipolitica stavano per attecchire. Tutto lo stadio era per i cantanti, che giocavano come indemoniati. Andammo da Gianni Morandi per chiedere una sorta di tregua…».
(da agenzie)
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Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
L’ACCUSA DEL PARTITO DI MÉLENCHON: “I SOCIALISTI OPPONGONO UN RIFIUTO COSTANTE E CONTINUO A TUTTE LE PROPOSTE SUL TAVOLO” … MACRON HA SPIEGATO DI VOLER COSTRUIRE UN ESECUTIVO DI LARGHE INTESE SENZA LE “ALI ESTREME”, IL RASSEMBLEMENT NATIONAL DI LE PEN MA ANCHE LA FRANCE INSOUMISE DI MELENCHON… L’ALLARME DELLA CORTE DEI CONTI: “IL RISANAMENTO DEI CONTI È URGENTE”
Una settimana dopo il voto, la sinistra francese cerca ancora un accordo unitario per indicare un nome di premier. Il Nuovo Fronte Popolare, arrivato in testa come numero di deputati anche se lontano da una maggioranza assoluta, aveva promesso di trovare un’intesa entro lo scorso weekend ma i negoziati si sono arenati tra divisioni e veti incrociati. Il coordinatore della France Insoumise, Manuel Bompard, accusa ora il partito socialista di «opporre un rifiuto costante e continuo a tutte le proposte sul tavolo».
Bompard – braccio destro di Jean-Luc Mélenchon – critica il segretario dei socialisti, Olivier Faure di fare “un’opposizione totale a ogni proposta diversa da quelle che sono uscite dal suo partito”.
La France Insoumise annuncia quindi il ritiro dai negoziati che al momento sono interrotti. Tra gli ultimi nomi proposti ci sono quelli della presidente della regione de la Réunion, Huguette Bello, e della sindaca di Lille e figlia di Jacques Delors, Martine Aubry.
Sulla prima, avanzata dal Partito comunista e poi appoggiata dalla France Insoumise, Faure ha detto di non essere stato contrario, ma che «i socialisti ritengono che il partito che ha vinto le elezioni europee a sinistra, è il partito socialista». Faure allude al risultato della lista guidata da Raphaël Glucksmann che ha ottenuto il 14 per cento, mentre la lista della sinistra radicale era arrivata al 9 per cento. Sulla Aubry, secondo i socialisti, il rifiuto è venuto dalla stessa sindaca di Lille.
Faure, che aveva dichiarato di essere candidato alla premiership, sostiene che “non si tratta di una questione personale”. “Nella settimana appena trascorsa abbiamo proposto altri socialisti” spiega il segretario del Ps. Tra i nomi che sono circolati anche quello di Boris Vallaud, capogruppo dei socialisti all’Assemblée Nationale. Faure ha ipotizzato la ricerca di una candidatura nella società civile e promesso di raggiungere un’intesa entro questa settimana.
Intanto, i cinque dissidenti della France Insoumise, usciti dal partito in disaccordo con Mélenchon, hanno deciso di unirsi al gruppo ecologista. Tra di loro anche François Ruffin e Alexis Corbière.
Giovedì si insedia la nuova Assemblea Nazionale con i 577 deputati eletti che dovranno eleggere il presidente della Camera.
Yaël Braun-Pivet, macronista e presidente uscente, cerca un bis ma è stanno già emergendo altri candidati, tra cui Charles de Courson che guida un gruppo indipendente Liot e gode di appoggi trasversali tra gli schieramenti.
Emmanuel Macron ha già fatto sapere di voler aspettare la «strutturazione» dell’Assemblea per prendere qualsiasi decisioni in merito al futuro premier. Il capo dello Stato ha spiegato in una lettera ai francesi diffusa sui quotidiani locali di voler costruire un esecutivo di larghe intese che non sia limitato solo al Fronte Popolare che – secondo l’Eliseo – non ha sufficienti deputati per governare.
L’idea di Macron è anche escludere le “ali estreme” dell’emiciclo: il Rassemblement National ma anche la France Insoumise.
In mezzo all’incertezza politica, una cosa è certa per la futura squadra di governo: dovrà occuparsi dei conti pubblici in rosso. In un denso rapporto, la Corte dei Conti presieduta da Pierre Moscovici traccia un quadro preoccupante: il deficit pubblico è salito a 154 miliardi di euro nel 2023, rispetto a 125,8 miliardi nel 2022.
La Francia, su cui la Commissione Ue ha aperto una procedura di infrazione, aveva un deficit di bilancio del 5,5% del Pil nel 2023, in aumento rispetto al 4,8% del 2022. Il governo di Macron si è impegnato a rispettare il limite del 3% entro il 2027, ma le prospettive sono state complicate dal nuovo contesto politico. La necessità di ridurre il debito è un “imperativa”, ha avvertito Moscovici, e dovrà ” essere condivisa” da tutte le forze politiche, qualsiasi sia il prossimo esecutivo.
(da repubblica.it)
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Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
PER L’ASSASSINIO SONO STATI CONDANNATI COME MANDANTI I VERTICI DI COSA NOSTRA, MA NON SI CONOSCONO ANCORA I NOMI DEI KILLER… GIÀ GIOVANNI FALCONE AVEVA INDAGATO SUGLI ESTREMISTI DI DESTRA
Un foglio formato A4 con sette righe. Secche. Scritte al computer. In cui un anonimo, come apprende l’Adnkronos, scrive il nome del presunto killer dell’ex Presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980, sotto la sua abitazione a Palermo.
I figli dell’ex Presidente della Regione hanno consegnato la lettera agli investigatori, in attesa di sviluppi. Sarà adesso la Procura di Palermo, guidata da Maurizio de Lucia, a tentare di fare luce su questo anonimo. Il lavoro di un mitomane, oppure quel nome porta a un nuovo filone di inchiesta? E’ ancora troppo presto per saperlo. L’unica certezza, finora, è che a distanza di 44 anni non si conoscono ancora i nomi dei killer che uccisero Piersanti Mattarella, il Presidente “dalle carte in regola”, fratello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma solo i nomi dei mandanti. Almeno quelli di Cosa nostra.
Cosa dice la lettera
Ma cosa c’è scritto nella lettera anonima visionata dall’Adnkronos? Ecco: “Cappuccio in testa, occhi color ghiaccio, passo ondeggiante, ballonzolante. Questa la descrizione del killer di Piersanti. C’è un ragazzo militante nero, ai tempi chiamato per i suoi occhi di ghiaccio negli ambienti di destra. Si chiama e corrisponde alla descrizione testuale e alle immagini. Assomiglia molto all’identitikit. Dopo l’omicidio si trasferisce in …”. Sono state volutamente omessi il nome indicato, il soprannome e anche il luogo citato dall’anonimo per consentire agli inquirenti di potere svolgere il proprio lavoro serenamente.
Il giorno dell’agguato
Il giorno in cui venne ucciso, Piersanti Mattarella era senza scorta. Era appena salito in auto con la moglie, Irma Chiazzese, e i figli Bernardo e Maria, lui 21 anni e lei appena 18enne, con i quali stava andando a messa. Quell’anno l’Epifania cadeva di domenica e il Presidente della Regione Siciliana nei giorni di festa era solito lasciare liberi gli uomini che lo proteggevano, affinché potessero stare con le proprie famiglie. Questo era Piersanti Mattarella, l’uomo che voleva una regione “con le carte in regola” nei confronti dello Stato e delle altre regioni italiane.
L’inchiesta e i mandanti
La vicenda giudiziaria sull’omicidio Mattarella è stata lunga e complessa. E non definitiva. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo i boss della commissione di Cosa nostra, da Totò Riina a Michele Greco, con gli altri esponenti della cupola, da Bernardo Provenzano a Bernardo Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci. L’inchiesta, però, non è riuscita a identificare né i sicari né i presunti mandanti esterni, che il giudice Giovanni Falcone pensava di aver individuato in Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, poi entrambi assolti. Ma altri killer non sono stati mai individuati, e il mistero resta.
L’identikit del sicario
Nella lettera anonima viene inviato anche l’identikit che era stato realizzato e che è agli atti dell’indagine della Procura. Un fotofit, in bianco e nero, uno con gli occhiali e uno senza. “Anni 22-24 anni circa, statura m. 1,65, capelli castano chiari, bocca e naso regolari”. Una ricostruzione fotografica del viso dell’uomo che avrebbe ucciso Piersanti Mattarella.
La pista degli estremisti di destra
La pista dei giovani estremisti assoldati dalla mafia siciliana attraverso la Banda della Magliana era stata avvistata presto da Giovanni Falcone, che indagò Valerio ‘Giusva’ Fioravanti per omicidio. Era stata confermata dalla moglie di Piersanti, Irma Chiazzese, che riconobbe in Fioravanti l’uomo “dagli occhi di ghiaccio” che si era avvicinato al finestrino della Fiat 132 guidata da Piersanti e lo aveva freddato. Una tesi che era stata ribadita dal pluriomicida di destra Angelo Izzo, mostro del Circeo.
Ma il vero rivelatore degli esecutori fascisti e primo accusatore del fratello Giusva fu Cristiano Fioravanti. A diversi pm, di Rovigo, Bologna, Firenze, Roma e Palermo, e in diversi interrogatori disse: “Mio fratello ha commesso un omicidio politico a Palermo, in presenza della moglie del politico, tra gennaio e marzo 1980”. “È stato Valerio a dirmi che avevano ucciso un politico siciliano…”. Salvo poi non confermarlo nelle successive fasi processuali.
La riapertura dell’inchiesta nel 2018
Nel 2018 la procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio. Nuovi accertamenti attraverso complesse comparazioni fra reperti balistici. Uno dei reperti del processo celebrato a Palermo, la targa di un’auto del commando, sarebbe stata divisa in due dagli autori del furto e una parte fu poi ritrovata in un covo proprio dell’organizzazione terroristica neofascista dei Nar. Oggi l’inchiesta, ancora a un punto fermo, è coordinata dal Procuratore Maurizio de Lucia e dall’aggiunta Marzia Sabella. Si indaga su altri nomi. Ma finora nulla di concreto.
I figli del Presidente non hanno mai parlato dell’indagine. A farlo sono stati i nipoti, come Piersanti Mattarella, omonimo del nonno, che tempo fa disse all’Adnkronos: “Non abbiamo mai saputo nulla sullo stato delle indagini, a distanza di tanti anni dall’omicidio, nonostante ciclicamente il 6 gennaio vengano riportate notizie di stampa o indiscrezioni su presunte novità sulle indagini sull’omicidio di mio nonno, oltre a questa ciclica ripetizione, quasi commemorativa più che di relativa notizia riguardo alle indagini, non abbiamo alcuna notizia da parte della Procura, nonostante si sappia dalla stampa che le indagini sono ancora aperte”.
“Forze occulte” evocate nell’omelia ai funeral
Durante l’omelia dei funerali, il vescovo di Palermo di allora Salvatore Pappalardo, parlando dell’omicidio di Piersanti Mattarella disse che fosse impossibile che il delitto venisse ascritto solo alla matrice mafiosa, perché “ci devono essere altre forze occulte”. Due giorni dopo il delitto, l’8 gennaio 1980, l’allora Ministro dell’interno, Virginio Rognoni, parlò di una “complicità operativa tra criminalità organizzata e terrorismo”. La stessa visione venne espressa nel dibattito successivo da Pio La Torre.
Una impostazione seguita anche da Giovanni Falcone, che condusse la sua ultima indagine importante proprio sull’omicidio Mattarella e sugli altri delitti politici. Disse che si trattava di delitti di matrice mafiosa ma il movente “non era sicuramente o esclusivamente mafioso”.
Svolta vicina?
Una luce su quanto accaduto potrebbe arrivare dall’istituzione di una commissione d’inchiesta, come auspica da tempo il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione ed ex presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo: “Credo che i tempi possano essere maturi. Soprattutto per la ricostruzione storica condivisa su questa drammatica stagione del terrorismo mafioso. Una stagione che per fortuna appartiene al passato, ma che è comunque importante ricostruire in maniera completa, perché ci sono vaste zone d’ombra su cui sarebbe fondamentale fare piena luce. Tutto ciò potrebbe essere opera di una commissione, che potrebbe andare oltre i limiti che sono connaturati al processo penale.
E potrebbe essere uno strumento importante per costruire una memoria condivisa capace di fare luce su una stagione nella quale sono caduti in Sicilia alcuni dei più importanti rappresentanti delle istituzioni, come Piersanti Mattarella, che aveva saputo mutare la considerazione della Sicilia nel contesto europeo e internazionale, riuscendo ad opporsi con un coraggio straordinario ai disegni di cosa nostra nel periodo più difficile”. Adesso l’invio della lettera anonima che adesso è nelle mani degli investigatori. Potrebbe arrivare una svolta?
(da Adnkronos)
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Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
CON L’APPOGGIO DEI VERDI A URSULA, LA DECISIONE DELLA MELONI NON È PIÙ DECISIVA. MA SEGNERÀ IL CAMMINO EUROPEO PER L’ITALIA… UN EVENTUALE NO AVRA’ CONSEGUENZE NELLE TRATTATIVE SU PATTO DI STABILITÀ, FINANZIARIA E NOMINA DEI COMMISSARI…AL MOMENTO L’IPOTESI PIÙ PROBABILE PER ECR È QUELLA DELL’ASTENSIONE
L’appuntamento che deciderà le sorti del voto di Giorgia Meloni a favore della conferma o meno di Ursula von der Leyen è fissato per domani. A Strasburgo – probabilmente in mattinata – la presidente della Commissione europea incontrerà il gruppo dei Conservatori europei, di cui la premier è leader. Più passano i giorni, più Meloni si trova dentro un labirinto politico.
Ieri il leader di Alleanza verdi e sinistra Angelo Bonelli ha annunciato un «sì condizionato» alla conferma della tedesca. Ha condito l’annuncio con un paio di passaggi urticanti per Fratelli d’Italia: «I nostri punti imprescindibili sono la difesa delle politiche sul clima» e «il no all’ingresso nella maggioranza sia dei Patrioti (il gruppo che unisce Salvini e Le Pen, ndr) che di Ecr».
Un sì che conferma il probabile sostegno di gran parte della pattuglia verde alla conferma della tedesca: se così sarà, sulla carta Von der Leyen si presenterà al voto di giovedì con una maggioranza solidissima. I conti sono presto fatti: 188 popolari, 136 socialisti, 77 liberali, 51 verdi: in tutto 452 voti, ai quali occorre però sottrarre una ventina di aperti dissidenti.
In ogni caso una base di partenza di circa 430 voti, e perla conferma ne servono 361 su 720. Per scongiurare ulteriori defezioni – non mancano nemmeno dentro al variegato gruppo del suo partito – i Popolari europei ieri hanno pubblicato un post su X in cui hanno confermato il sostegno «a una leadership forte per un’Europa forte».
A complicare ulteriormente il quadro politico per Meloni c’è il fallito attentato a Donald Trump: la pattuglia dei Patrioti, ormai competitor europeo a destra di Ecr, è il più entusiasta sostenitore della rielezione del Tycoon a presidente degli Stati Uniti. Meloni, stretta nei complicati panni di premier di un governo di coalizione, non può mostrarsi altrettanto entusiasta mentre Joe Biden è nel mirino per le precarie condizioni di salute.
Giovedì la pattuglia di Ecr potrebbe presentarsi in aula a Strasburgo senza una posizione definita, e decidere che fare dopo aver ascoltato il discorso di Von der Leyen. Per il partito della premier e gli altri alleati di Ecr i passaggi attesi sono tre: sull’immigrazione, la transizione energetica, un’Europa più orientata a uno spirito federale piuttosto che alla creazione di un «super Stato».
Se Von der Leyen vorrà il voto di Ecr – o quantomeno la loro astensione – dovrà pronunciare un discorso molto democristiano: su tutti e tre i temi socialisti e verdi hanno un approccio lontano da quello dei Conservatori.
Sia come sia, l’eventuale no del partito della premier avrebbe conseguenze politiche rilevanti per l’Italia. Meloni deve fare i conti da un lato con il sì entusiasta del partito di un vicepremier (Antonio Tajani) dall’altra con l’aperta ostilità della Lega di Matteo Salvini. Se il pendolo oscillerà dalla parte di Forza Italia e dei Popolari, Meloni potrà rivendicare una vicepresidenza esecutiva per Raffaele Fitto, candidato a una poltrona nella nuova Commissione.
Se la premier scegliesse la strada del no, il danno sarebbe anzitutto all’interesse nazionale. Un interesse che – per inciso – Salvini sta cinicamente addossando sulle sue spalle.
Con ogni probabilità, a meno di una mancanza di stile, che a Palazzo Chigi tendono ad escludere, oggi Ursula von der Leyen telefonerà a Giorgia Meloni. La previsione è fondata su un dato di cronaca: dopodomani, alle 9 del mattino, l’esponente tedesca che corre per un bis al vertice della Commissione europea, ha fissato un confronto politico con il gruppo che dell’Ecr, i Conservatori europei che fanno capo proprio alla premier.
Anticipare a Meloni, almeno in modo ufficioso, quello che dirà ai 78 deputati di Ecr sarebbe un atto di cortesia necessario, sicuramente utile anche per il prosieguo della trattativa sul posto riservato all’Italia in seno alla Commissione Ue. Una vicepresidenza operativa, come ha chiesto Meloni? O piuttosto un semplice Commissario con una delega che renda la nostra diplomazia comunque soddisfatta? La questione resta aperta.
(da agenzie)
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Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
DOUGAN È FUGGITO DAGLI STATES ED È VOLATO A MOSCA DOVE HA OTTENUTO ASILO POLITICO
«Olena Zelenska ha comprato una Bugatti con i soldi degli aiuti all’Ucraina». Questa fake news, che negli scorsi giorni ha fatto il giro del web ed è stata rilanciata da migliaia di utenti sui social, ha tutti gli ingredienti perfetti: c’è la «corruzione ucraina», c’entra il presidente Zelensky, ci sono i soldi che gli alleati (Stati Uniti in testa) destinano a Kiev per difendersi.
Condivisa da un anonimo giornale online francese, la notizia è stata ripostata su Twitter anche da Jackson Hinkle, attivista pro-Trump (e pro-Russia) da oltre 2,6 milioni di follower. Dietro ci sarebbe un personaggio ben noto a chi si occupa di disinformazione online: John Mark Dougan, un ex marine degli Stati Uniti che oggi vive in Russia.
A inizio luglio è rimbalzata la notizia che la moglie del presidente ucraino avrebbe comprato un’automobile di lusso, la Bugatti Tourbillon. Il prezzo? 4,5 milioni di euro. L’occasione è stata la visita in Francia di Zelensky e la sua compagna in occasione delle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario del D-Day, lo sbarco in Normandia del 1944. E i soldi sarebbero dei «contribuenti americani e britannici».
È circolata anche una falsa fattura e un video in cui un presunto dipendente dell’azienda automobilistica con un nome e un cognome – Jacques Bertin – confermava la visita del presidente ucraino e della moglie in una concessionaria parigina il 7 giugno.
Peccato che il video fosse un deepfake fatto con l’intelligenza artificiale e che la Bugatti l’abbia definita subito una «fake news», minacciando anche azioni legali.
Troppo tardi. La notizia era diventata virale
Prima pubblicata su un anonimo sito web francese – Vérité Cachée – E poi rilanciata sui canali Telegram pro-Cremlino con migliaia di follower e su X, dove il post del supporter trumpiano Hinkle è stato visto da oltre 6,5 milioni di persone, dove ha aggiunto che erano stati i «dollari dei contribuenti americani» a pagare la supercar. In totale sono stati raggiunti almeno 12 milioni di account.
La notizia era anche indicizzata alla perfezione su Google: chiunque nei giorni scorsi avesse cercato “Zelensky Bugatti” si sarebbe imbattuto, come primo risultato di ricerca, in un link di MSN (l’aggregatore di notizie di Microsoft). Da una storia falsa a un argomento di tendenza online, in poche ore. Rilanciato da decine di organi di informazione russi.
Secondo le ricerche di BBC Verify e di altri gruppi di fact checking – Recorded Future, Clemson University, NewsGuard – Vérité Cachée farebbe parte di una rete gestita da John Mark Dougan, ex marine degli Stati Uniti che ha lavorato come poliziotto in Florida e nel Maine negli anni 2000. Nel 2016 lo Stato della Florida ha emesso nei suoi confronti un mandato d’arresto perché accusato di 21 reati. L’FBI, come ha scritto il ceo di NewsGuard, Steven Brill, ha da tempo messo nel mirino Dougan, accusato di essere un «agente russo specializzato nel produrre alcune delle più elaborate campagne di disinformazione dei russi e nel raccontarle come se fosse un giornalista americano indipendente».
Dougan è fuggito a Mosca dove ha ottenuto asilo politico. Qui ha iniziato a realizzare reportage dai territori ucraini occupati e a comparire in think tank e trasmissioni televisive.
NewsGuard, che da anni monitora la disinformazione online, ha affermato di aver contato almeno 170 siti web probabilmente collegati al governo russo. E secondo la BBC, gli indirizzi IP e altri indizi suggerirebbero che sia effettivamente Dougan il proprietario dei siti web che hanno diffuso la fake news sulla moglie di Zelensky e la Bugatti.
Pagine online camuffate da siti d’informazione, con nomi che riecheggiano quelli di giornali – come ad esempio The Houston Post, The Boston Times, DC Weekly, London Crier o Great British Geopolitics – che già in passato hanno diffuso fake news: dall’FBI che avrebbe spiato le conversazioni di Trump all’omosessualità nascosta di Macron fino all’acquisto da parte di Zelensky di una villa di re Carlo a un prezzo stracciato.
Secondo BBC Verify, questa volta l’obiettivo non era solo screditare la coppia presidenziale ucraina ma era indirizzato principalmente ai cittadini britannici e statunitensi: i primi hanno votato il 4 luglio (la fake news è stata diffusa alla vigilia del voto), mentre negli Stati Uniti le presidenziali ci saranno a novembre. L’intento dell’operazione, neanche troppo velato, era quello di dimostrare che i fondi dei contribuenti destinati a Kiev in realtà verrebbero usati per altri motivi.
(da Open)
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Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
L’ARMA E’ STATA RIPRODOTTA SU SPILLETTE E CRAVATTE, INDOSSATE PURE DURANTE LE SEDUTE DEL CONGRESSO. ALCUNE FABBRICHE NE HANNO COSTRUITO VERSIONI DEDICATE A TRUMP, DEVOLVENDO PARTE DEL RICAVATO ALLA CAMPAGNA PER LA SUA RIELEZIONE: IN VENDITA A UN PREZZO DA 1.599 DOLLARI
C’è un contrappasso amaro nell’attentato contro Donald Trump: l’arma usata per colpirlo è uno dei simboli della sua ideologia. Il fucile semiautomatico AR15 è l’icona del movimento conservatore americano che difende la libertà di sparare sempre e comunque. Così cara agli uomini dell’ex presidente da riprodurla su spillette e cravatte, indossate pure durante le sedute del Congresso. Alcune fabbriche ne hanno addirittura costruito versioni dedicate al candidato repubblicano, devolvendo parte del ricavato alla campagna per la rielezione: sopra il grilletto vengono incisi il profilo di “The Donald” o i suoi slogan, come Make America Great Again.
Si può persino acquistare uno scintillante affusto color oro con la scritta “Trump commander in chief”. Sono in vendita a un prezzo da 1.599 dollari in su perché vengono realizzate in serie limitata, ma per comprare il modello base bastano cinquecento dollari: una cifra modesta per uno strumento ad alta letalità.
Tante stragi nelle scuole o nei centri commerciali sono state commesse da armi di questo tipo, a cui viene attribuita metà dei massacri più sanguinosi della storia statunitense: ha ammazzato 60 persone durante un concerto a Las Vegas nel 2017 e altre 26, tra cui venti bambini, nelle aule delle elementari di Newton (Connecticut) nel 2012
Da trent’anni le autorità federali cercano di bandirle o comunque limitarle, osteggiate dalla lobby delle raffiche che ha trovato in Trump il suo idolo: battaglie legali che hanno aumentato la sua popolarità a destra. Per la potente National Rifle Association l’AR15 è “il fucile più amato d’America” e ha chiesto al candidato repubblicano di liberalizzarlo ovunque.
Le vendite continuano comunque a crescere, con un picco durante la pandemia: nel 2021 si riteneva che negli States 24 milioni di cittadini possedessero un’arma del genere. Tenere il conto è difficile. La sigla nasce dall’industria Armalite Rifle che lo ha brevettato e poi ha ceduto nel 1959 la licenza alla Colt, per trasformarlo durante la guerra vietnamita nell’M16: la risposta al Kalashnikov sovietico. Scaduta l’esclusiva, centinaia di aziende hanno cominciato a produrlo.
Le immagini dalla scena del delitto mostrano accanto al cadavere del ventenne Thomas Matthew Crooks un modello a canna lunga e quindi di costruzione recente. Questo fucile usa proiettili militari calibro 5,56 – lo standard della Nato – o quelli civili chiamati 223 Remington: alla distanza in cui si trovava Trump, pari a circa 140 metri, non danno scampo.
Crooks ha sparato otto volte, con una mira decrescente: i primi colpi sono stati i più vicini a Trump. Crooks non risulta avere preso lezioni al poligono. Indossava però la t-shirt con il logo di Demolitia, un canale youtube con 11 milioni di iscritti, tutti maniaci del grilletto : Un cecchino autodidatta? Fortunatamente gli devono essere sfuggiti i video in cui veniva spiegata l’importanza nel fuoco a lungo raggio di ottiche e cannocchiali.
(da la Repubblica)
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Luglio 15th, 2024 Riccardo Fucile
L’OFFENSIVA, GUIDATA DA FAZZOLARI, CONTRO L’INGRESSO DI RENAULT IN “FREE TO X”, LA SOCIETÀ DELLE COLONNINE ELETTRICHE DI AUOTSTRADE PER L’ITALIA
È noto che Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron non si sopportino. Meno noto è che i pessimi rapporti tra Parigi e Roma stiano iniziano a coinvolgere commemorazioni e finanche operazioni industriali.
L’ultima in ordine di tempo riguarda Autostrade per l’Italia. Stando a quanto filtra in ambienti finanziari, infatti, nelle scorse settimane Palazzo Chigi avrebbe fatto pervenire la sua contrarietà a un’operazione allo studio che prevede l’ingresso del colosso dell’auto Renault (di cui è azionista anche lo Stato francese) nella società Free To X, la controllata di Autostrade per la mobilità elettrica.
Non si tratta di uno stop formale, né risulta che sia stato attivato alcun potere strategico di veto (il golden power), strada peraltro complicata trattandosi di una società europea. Il messaggio però è stato chiaro: non è operazione gradita, serve un supplemento di valutazione.
La cosa bizzarra è che non si tratta certo di un affare strategico. Nel bilancio di Aspi, Free To X vale 76 milioni, e ha chiuso il 2023 con 48 milioni di utili. Autostrade ha deciso di trovare un partner di minoranza (a cui vendere il 49%) alla fine dello scorso anno, un po’ per finanziare il piano industriale e un po’ per evitare problemi antitrust visto che le installerà nelle aree di servizio lungo i 3mila km di rete che gestisce.
Che i rapporti tra Parigi e Roma siano politicamente ai minimi termini, però, lo dimostrano anche piccole scaramucce da cui la presidenza del Consiglio dovrebbe tenersi lontana. Negli ultimi giorni, seppur impegnata a Washington per il vertice Nato, Meloni avrebbe dato disposizione ai suoi fedelissimi di non andare – venerdì sera – all’annuale ricevimento a Palazzo Farnese, sede dell’ambasciata francese in Italia, per la festa nazionale.
Se a villa Taverna, per il ricevimento americano, la premier non aveva messo bocca sulle partecipazioni, stavolta invece lo ha fatto chiedendo ai ministri di Fratelli d’Italia di non partecipare ai festeggiamenti in un momento di particolare tensione tra i due Paesi, certificata dalle trattative europee in cui Meloni è stata tagliata fuori anche da Emmanuel Macron sugli incarichi di vertice nella prossima Commissione.
Alla fine, dunque, a Palazzo Farnese si sono presentati i ministri Antonio Tajani, che però, in quanto titolare degli Esteri, doveva tenere un discorso, Matteo Piantedosi (Interno) ed Eugenia Roccella (Famiglia). Quest’ultima è l’unica ascrivibile a Fratelli d’Italia ma viene considerata comunque una tecnica in quota Meloni. Per il governo era presente anche il viceministro delle Infrastrutture leghista Edoardo Rixi mentre l’unico vero esponente di partito meloniano era Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura, che però non risponde direttamente alla premier essendo uno degli esponenti più in vista dei “Gabbiani” di Fabio Rampelli.
(da l Fatto quotidiano)
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