Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
L’ENDORSEMENT DEL PRESIDENTE PER KAMALA HARRIS NON E’ VINCOLANTE. I DELEGATI SONO LIBERI DI SCEGLIERE CHI VOGLIONO… SUL METODO NON CI SONO PRECEDENTI
L’annuncio di Joe Biden che si ritira dalla corsa alla Casa Bianca, ha sconvolto il quadro politico degli Stati Uniti. Ma cosa può accadere adesso? Di fatto, anche se il presidente ha espresso immediatamente il suo endorsement per la sua vice Kamala Harris, il subentro non può essere immediato, in base alle regole del partito Democoratico.
Biden aveva ottenuto la ricandidatura ottenendo il via libera da parte di oltre 4.000 delegati. Con il ritiro, è la decisione torna in mano alla convention del partito che con ogni probabilità verrà convocata per la metà di agosto. I tempi ovviamente stringono
Ma quanto pesa l’indicazione espressa a caldo da Biden per Harris?
Chris Dempsey, fondatore di Delegates are Democracy, un’organizzazione di base che lavora con i delegati, ha dichiarato al Financial Times: «Se il presidente si ritira, dal punto di vista delle regole è tutto aperto e i delegati possono votare per chi vogliono. Dal punto di vista politico, se dovesse sostenere il suo vicepresidente, i delegati potrebbero seguirlo, ma nessuno è obbligato a farlo». Di fatto, dunque, le parole di Biden non sono vincolanti.
Normalmente per assicurarsi una candidatura è necessaria una petizione firmata da 300 delegati, di cui non più di 50 da uno stato. Di fatto, non ci sono precedenti, se si eccetua il caso del 1968. Il presidente in carica Lyndon Johnson rinuncio a ricandidarsi, ma Bob Kennedy – nettamente favorito alla candidatura ma non ancora proclamato dal partito – venne assassinato a Los Angeles. Allora i democratici tennero un congresso a Chigaco da cui scaturì la nomina di Hubert Humphrey, poi sconfitto da Nixon.
Secondo fonti riportate sempre dai media Usa, il partito dovrebbe innanzitutto scrivere le nuove regole e chiarire se è necessario effettuare delle nuove primarie stato per stato o scegliere il successore di Biden con una convention nazionale.
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
DAL SOGNO MICHELLE OBAMA ALL’IPOTESI KAMALA HARRIS, MA CI SONO QUATTRO CANDIDATI MOLTO FORTI CHE POTREBBERO FARCELA: GAVIN NEWSON, GRETCHEN WHITMER, ANDY BESHER E WES MOORE
Joe Biden viene sostituito perché non può vincere, perciò il criterio su cui bisogna basare la scelta del nuovo candidato sono le possibilità di vittoria contro Donald Trump nelle presidenziali del prossimo 5 novembre. D’accordo, la giustificazione ufficiale è l’età, e quindi le condizioni di salute che non gli consentono di correre per la Casa Bianca come dovrebbe. Se avesse avuto quattro anni in meno, o meglio ancora una decina, nessuno avrebbe obiettato alla ricandidatura di un presidente che sul piano pratico ha certamente ottenuto più risultati del predecessore Barack Obama.
Però la sostanza non cambia: i democratici hanno la necessità di individuare un altro candidato che abbia più possibilità di battere Trump. Partendo da questo presupposto, dovranno freddamente esaminare i dati e la realtà della varie ipotesi.
La prima, la più scontata, sarebbe quella di Kamala Harris. Perché è la vice, e in teoria il programma era questo fino dal 2020: Biden avrebbe fatto un mandato, aprendo la strada alla prossima generazione. Sarebbe stato venerato come l’uomo che aveva fermato Trump, salvando la democrazia, e in più un grande presidente capace di mettere mano alla piaga delle disuguaglianze generate dalla globalizzazione, che avevano sguinzagliato ovunque i populismi.
Però a 81 anni avrebbe lasciato spazio ai nuovi leader. Non ha funzionato, un po’ perché lui si è affezionato al potere, un po’ perché Donald si è ricandidato, e molto perché la vice non ha convinto.
La situazione è ancora questa, perché pochi si fidano della capacità di Kamala di gestire una campagna presidenziale. Viene considerata una liberal della California facile da attaccare, e inoltre non ha gestito bene l’emergenza delle migrazioni, regalando a Trump un elemento fondamentale della sua agenda per la campagna in corso.
E’ donna e afro americana, cosa che aiuterebbe a mobilitare minoranze decisive per i democratici, ma secondo i sondaggi sta anche peggio di Biden contro Donald, e quindi scommettere su di lei sarebbe un azzardo.
Il principale surrogato di Joe è stato finora il governatore della California Gavin Newson, che di sicuro si presenta bene e ha grandi qualità da politico consumato, per contrastare duramente Trump. Però guida uno stato liberal, che da decenni non produce un candidato vincente per i democratici. Queste presidenziali si vinceranno o perderanno nel Midwest, dove presentarsi con un governatore della California, per di più ex sindaco della super liberal San Francisco, asfissiata da homeless e droghe varie, vorrebbe dire condannarsi al suicidio.
Discorso opposto per i molti governatori del Midwest che siedono sulla panchina democratica, e potrebbero seriamente mettere in difficoltà Trump.
La prima della classe è Gretchen Whitmer, perché guida con successo il Michigan, uno dei tre stati essenziali per il Partito dell’asinello, insieme al confinante Wisconsin e alla Pennsylvania. Whitmer ha avuto successo, l’economia va bene, e le case automobilistiche hanno appena firmato un rinnovo del contratto molto vantaggioso per gli operai.
Lei si porterebbe da casa il Michigan e protrebbe presentarsi con queste credenziali nelle altre regioni del Midwest. In più è donna, e quindi può mobilitare il voto contro il bando dell’aborto, ed è stata oggetto di un tentativo di rapimento da parte di estremisti di destra, con lo scellerato obiettivo di ucciderla.
Dietro a lei, ma con credenziali simili, ci sono il governatore della Pennsylvania Shapiro, se gli americani sono pronti a mandare il primo ebreo alla Casa Bianca; quello dell’Illinois Pritzker; e quello del Wisconsin Evers.
Ma il più affascinante è Beshear del Kentucky, perché è bravo, ha appena 46 anni, ed è stato eletto per due volte alla guida di uno stato repubblicano, che nelle presidenziali ha votato nettamente per Trump.
Se anche solo costringesse il Gop ad impegnarsi e investire nel suo stato, per la paura di perderlo, si aprirebbe percorsi impensabili per gli altri democratici allo scopo di conquistare gli stati che assegnano i 270 voti elettorali necessari a entrare nella Casa Bianca.
E’ molto bravo anche il governatore del Maryland Wes Moore, che molti definiscono il nuovo Obama. Ex militare, ha fascino e carisma da vendere. Il problema però è capire se questa elezione sia quella giusta per un nero del Maryland.
Anche tra i senatori molti sognano la Casa Bianca, da Klobuchar del Minnesota e Booker del New Jersey, all’ex astronauta dell’Arizona Mark Kelly. Ma per battere Trump forse stavolta ci vogliono le credenziali di qualcuno che ha già governato e guidato un’amministrazione.
Il sogno ovviamente sarebbe Michelle Obama, per vari motivi. Primo, il Partito democratico si riunificherebbe rapidamente dietro alla sua leadership. Secondo, è brava, empatica, conosce i dossier, ha fatto l’avvocato di grido e sa come tenere un discorso carismatico. Terzo, avrebbe subito a disposizione la macchina elettorale del marito Barack, mentre l’esperienza da first lady per otto anni l’aiuterebbe a rispondere alle critiche sulla mancanza di preparazione per il lavoro. Quarto, è donna e afro americana, quindi capace di parlare a due gruppi elettorali fondamentali per i democratici. Quinto, ha vent’anni meno di Trump, che dovrebbe cambiare strategia elettorale, non potendo più attaccare il “rimbambito” Biden: il vecchio diventerebbe immediatamente lui.
Il problema è che Michelle, almeno finora, ha ripetuto in ogni modo possibile che odia la politica e non vuole candidarsi al posto occupato dal marito, lasciando i democratici nel limbo di questa scelta potenzialmente fatale per il futuro della loro democrazia.
(da La Repubblica)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
IL GOVERNO DOVRÀ TROVARE 13 MILIARDI ALL’ANNO PER FAR RIENTRARE IL DEFICIT E RISCHIA DI RIMANERE AL PALO SUL PNRR… NELLE EURO-CANCELLERIE C’È IL SOSPETTO CHE LA DUCETTA SI STIA RICONVERTENDO AL “TRUMPISMO”
Le prossime tranche del Pnrr, la procedura di rientro dal deficit, il fastidio della struttura europea, la delega al Commissario italiano e il sospetto di “trumpismo”.
Sono questi i problemi con cui Giorgia Meloni dovrà fare i conti in seguito alla scelta di non votare Ursula von der Leyen. Conseguenze che stanno sempre più isolando il nostro Paese. E con il tempo se ne determineranno ancora di più.
Tutto si sta già modificando. Molto rapidamente. E in un modo che certo non favorisce ora e non agevolerà nel prossimo futuro gli interessi nazionali del nostro Paese. L’aspetto meno immediato ma dagli effetti forse peggiori si concentra sul fattore che si potrebbe denominare “trumpismo”.
La scelta di schierarsi contro von der Leyen mettendosi al fianco di Le Pen, Orbán e Salvini viene letto come il tentativo di creare un nuovo fronte “trumpiano”. Quasi tutte le Cancellerie ritengono che a Roma sia in corso una rapida ricollocazione con una conversione amichevole nei confronti di ”The Donald”.
Una situazione che comporta un rischio corposo per l’Italia: emarginazione in politica estera. Il “gruppo di comando” dell’Ue si preparerà da novembre in poi – se davvero il Tycoon americano sarà eletto – a fronteggiare una probabile politica non amichevole della Casa Bianca e l’Italia sarà sospinta nell’angolo in cui si trovano l’Ungheria, la Repubblica Ceca o il Rassemblement National di Le Pen.
Il secondo aspetto, invece più prossimo, è il Pnrr. Il governo Meloni ha beneficiato di alcune indulgenze nelle tranche ottenute fino ad ora. Soprattutto grazie al via libera ottenuto “alleggerendo” gli impegni in questa prima parte di attuazione e “appesantendoli” nella parte finale fino al 2026.
Una opzione che avrà anche una ripercussione sulla formazione del debito pubblico: una parte rilevante dei “loans” (i prestiti) è stata spostata sugli ultimi anni del Piano e quindi il debito è destinato a crescere. La Commissione, allora, non avrà un atteggiamento punitivo ma imparziale. E quindi con meno accondiscendenza. E già solo questo sarà un bel problema per il governo.
Che, se perdesse anche solo una tranche di finanziamenti, sarebbe costretto a rivedere molte delle stime su deficit e debito e anche a fronteggiare la probabile reazione dei mercati. Non a caso Palazzo Chigi sta valutando la candidatura di Raffaele Fitto in qualità di Commissario come una chance per entrare a Palazzo Berlaymont con uno dei pochi esponenti della destra non disprezzato a Bruxelles, ma non nasconde il dilemma sulla sua sostituzione a Roma.
A questo aspetto è strettamente connesso il programma di rientro dal deficit eccessivo che il governo italiano dovrà presentare il prossimo settembre. Il nuovo patto di Stabilità concede 7 anni per tornare sotto il 3 per cento. Ma questo significa una politica economica di lacrime e sangue con risparmi annuali di almeno 13 miliardi. Pure in questo caso difficilmente la Commissione, nonostante il no di “Giorgia a Ursula”, seguirà una linea dichiaratamente sanzionatoria ma non si muoverà di un centimetro dai parametri. Non farà insomma regali.
E nella situazione italiana vuol dire che le prossime manovre saranno senza margini. Dalle pensioni alle tasse fino agli stipendi. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, lo ha capito bene e già nei giorni scorsi ha fatto intendere esplicitamente che una riforma previdenziale nel segno annunciato dalla destra in campagna elettorale è letteralmente impossibile.
Infine c’è un ultimo aspetto che peserà dopo la decisione di opporsi alla rielezione di von der Leyen: la struttura di Bruxelles. Gli uffici delle istituzioni europee non si si sentono rappresentati e garantiti dal gabinetto meloniano. Conseguenza: nessuna ostilità ma nemmeno nessuna cortesia.
(da la Repubblica)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
E’ SOLO BASSA POLITICA NON ARTE DI GOVERNO E PRESTO I SUOI STESSI ELETTORI LA ABBANDONERANNO AL SUO DESTINO
Per oltre un anno Meloni ha investito su un buon rapporto con l’Unione europea, si è accreditata, è stata accettata, si è fatta portatrice di iniziative accolte da tutti come quella sull’immigrazione, ha tenuto contatti costanti con i popolari in ottica di programma e di alleanze.
L’operazione politica sembrava chiara e diretta a fare del più grande partito italiano una forza di governo dell’Unione europea. Invece, alla fine, hanno prevalso i calcoli da capo partito, le paure verso la concorrenza a destra e il timore di perdere lo zoccolo duro dell’elettorato. Col risultato che il lavoro di un anno e mezzo è stato vanificato.
Il partito della premier giustifica la giravolta in opposizione all’apertura ai Verdi e al Green Deal, ma bisognerebbe chiedersi se mettersi all’opposizione e contro von der Leyen aiuterà a fermare l’ambientalismo ideologico di più o di meno rispetto al dare sostegno alla nuova Commissione. Perché il Green Deal sarà proseguito per ricompensare il sì dei Verdi, mentre la destra italiana non potrà che subire le decisioni altrui
Quando invece si sarebbe potuta votare von der Leyen, prendere un commissario con portafoglio e poi valutare cosa fare di provvedimento in provvedimento. Con un gruppo dirigente viziato da questi ragionamenti alla fine Fratelli d’Italia è l’unico grande partito di governo di un paese fondatore a mettersi fuori da tutto, sia sul voto alla presidente che sull’ingresso in maggioranza.
Questo disastro senza logica politica significa che l’Italia avrà più difficoltà a relazionarsi con la Commissione, perché von der Leyen dovrebbe tendere una mano a Meloni che l’ha bocciata in parlamento se l’Italia dovesse trovarsi in difficoltà sul piano finanziario, sull’esecuzione del Pnrr o sulla gestione dell’immigrazione?
Meloni dimostra ancora una volta i limiti della destra italiana, tutta votata al mantenimento delle posizioni politiche originarie, incapace di rompere con l’euroscetticismo e il sovranismo fino in fondo, priva nei fatti di una cultura di governo e di culto della ragione di stato.
Nelle sue stesse condizioni, cioè al governo e all’apice del consenso elettorale, i gollisti francesi, la Cdu tedesca o il Pp spagnolo avrebbero gestito così la partita europea? La risposta è no, perché questi sono partiti che hanno dimestichezza col potere mentre Fratelli d’Italia è un ibrido rimasto a metà del guado.
Sono errori che il governo Meloni pagherà perché le difficoltà, interne o esterne, arriveranno e avere un rapporto freddo con la Commissione e i capi di governo degli altri principali paesi europei non aiuterà. E alla fine anche l’elettorato di destra per gran parte capirà che chiamarsi fuori da tutto, emarginarsi in nome dei valori e della coerenza, è controproducente. Quella di Fratelli d’Italia è solo politica, ma non arte del governo. E non basta per difendere l’Italia.
(da Domani)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“HA MESSO IL PARTITO PRIMA DELLO STATO E L’IDEOLOGIA PRIMA DEGLI INTERESSI. SI È AUTO-ESCLUSA PER RAFFORZARSI NELLA COMPETIZIONE ELETTORALE CON LA DESTRA NAZIONALISTA DI SALVINI, ANCHE SE CIÒ HA CONDOTTO ALL’INDEBOLIMENTO DELL’ITALIA. SIAMO UN PAESE CHE HA FONDATO L’EUROPA, CHE È CRESCIUTO GRAZIE ALL’EUROPA, EPPURE IL MAGGIORE PARTITO DEL NOSTRO GOVERNO NON HA ANCORA DECISO SE STARE DENTRO O FUORI”
Il voto contrario alla rielezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea da parte del maggiore partito di governo italiano, Fratelli d’Italia, è stato giustificato per la seguente ragione.
Ursula von der Leyen, nel suo discorso programmatico, non aveva accolto la richiesta della nostra premier di abbandonare il Green Deal, mantenuto invece per garantirsi il voto dei Verdi europei. È andata davvero così? Due considerazioni.
La prima è generale. Nel Parlamento europeo di Strasburgo, il 18 luglio scorso, si doveva definire il perimetro dell’Europa integrata, prima ancora che il programma per governarla.
Ha detto von der Leyen, «io sarò aperta a tutte le forze politiche che sono a favore dell’Europa, dell’Ucraina e dello stato di diritto». Si è trattato di un’indicazione abbastanza ampia, ma anche abbastanza chiara, dello spazio entro cui collocare la nuova maggioranza parlamentare.
Entro quel perimetro non poteva entrare il raggruppamento dei Patrioti per l’Europa, guidati da Marine Le Pen e di cui fa parte la Lega di Matteo Salvini, oltre che quello dell’Europa delle nazioni sovrane, guidato dai filonazisti tedeschi dell’Alternativa per la Germania. Quel perimetro rappresentava il cordone sanitario con cui mettere ai margini le forze della destra antieuropea
In quel perimetro, invece, potevano rientrare i Conservatori europei come Fratelli d’Italia. Dopo tutto, nella precedente legislatura del Parlamento europeo, avevano votato più volte insieme all’allora “maggioranza Ursula”, ad esempio per l’87 per cento delle votazioni relative alla denuncia degli abusi dello stato di diritto nella Russia di Putin e al sostegno dell’Ucraina.
Addirittura, nel gennaio 2024, l’intero raggruppamento dei Conservatori europei sottoscrisse una dichiarazione congiunta per rafforzare l’aiuto militare all’Ucraina, insieme a Popolari, Socialisti, Liberali e Verdi. Più volte, nella scorsa legislatura, i Conservatori europei, e Fratelli d’Italia in particolare, hanno votato mozioni, dichiarazioni, proposte di legge insieme ai partiti della “maggioranza Ursula”
Eppure, giovedì scorso, Giorgia Meloni ha preferito interrompere tale convergenza, auto-escludendosi dalla nuova maggioranza. Le considerazioni tattiche hanno fatto aggio su quelle strategiche. Giorgia Meloni si è auto-esclusa per rafforzarsi nella competizione elettorale con la destra nazionalista di Matteo Salvini, anche se ciò ha condotto all’indebolimento dell’Italia nel nuovo equilibrio politico europeo.
Sarà ora più difficile reclamare attenzione verso le nostre esigenze nazionali, rimanendo fuori dalla maggioranza che sosterrà la nuova Commissione europea ed avendo un ruolo eccentrico nel Consiglio europeo. Il partito prima dello stato.
La seconda considerazione è specifica. Per quanto riguarda il Green Deal, certamente von der Leyen ha chiarito che gli obiettivi della transizione ambientale debbono essere mantenuti. Tuttavia, ha anche chiarito che ciò richiederà un diverso approccio per raggiungerli, basato su ingenti investimenti pubblici e privati e limitate regolamentazioni.
In questo nuovo approccio implementativo, l’industria sarà la protagonista. Di qui, una serie di proposte, come la creazione di una European Savings and Investments Union per trattenere i capitali europei che si trasferiscono in America e in Asia, oppure l’incremento del budget dell’Unione europea (Ue), oppure la creazione di un European Competitiveness Fund.
In un mondo che sta attraversando una crisi ambientale senza precedenti, non è giustificabile difendere lo statu quo. Le posizioni di retroguardia portano a conseguenze ancora più negative. […] Invece di denunciare l’influenza dei Verdi su Von der Leyen, Giorgia Meloni, se fosse entrata nella maggioranza, avrebbe potuto avanzare un paradigma alternativo di transizione ambientale, basato su ingenti fondi europei da distribuire ai governi nazionali sotto il controllo della Commissione europea come sta avvenendo con Next Generation EU.
La creazione di debito europeo è la condizione per rendere socialmente sostenibile una transizione che richiederà enormi risorse. Ciò vale specialmente per l’Italia, che non dispone di fondi propri, essendo oberata da un pesante debito pubblico. Ma Giorgia Meloni ha preferito seguire la vecchia strada, allinearsi con una destra nazionalista che non entra nel merito delle politiche, ma contrasta tutto ciò che potrebbe rafforzare l’Europa integrata.
L’ideologia prima degli interessi. Insomma, l’elezione di von der Leyen ha messo in luce l’anomalia italiana. Siamo un Paese che ha fondato l’Europa integrata, che è cresciuto grazie all’Europa integrata, eppure il maggiore partito del nostro governo non ha ancora deciso se stare dentro o fuori di essa. Di sicuro, diventare un Paese marginale e di retroguardia non corrisponde al nostro interesse nazionale.
(da il Sole 24 Ore)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“PRESERVARE L’INTEGRITA’ DELLA LINGUA ITALIANA RISPETTO ALLE DIFFERENZE DI GENERE”: PECCATO CHE L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA (DOVE NON VI SONO SCAPPATI DI CASA) ABBIA SOSTENUTO IL CONTRARIO
«Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere». Si intitola così l’ultimo disegno di legge presentato da Manfredi Potenti, senatore della Lega. L’obiettivo? Eliminare da tutti gli atti pubblici parole come «sindaca», «questora», «avvocata» o «rettrice». Il partito guidato da Matteo Salvini chiede che l’uso del femminile sia abolito per legge e propone invece di usare sempre il maschile, a prescindere dal fatto che chi ricopra quel ruolo sia un uomo o una donna. Il disegno di legge, visionato in anteprima dall’agenzia Adnkronos, prevede anche una multa fino a 5mila euro per chi non si adegua alle nuove regole.
L’obiettivo dichiarato del provvedimento è «preservare l’integrità della lingua italiana» e, in particolare, «evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo». Un attacco, seppur scritto in politichese, al famigerato “politicamente corretto”, al punto che lo stesso senatore Potenti, nelle premesse del disegno di legge, mette in guardia rispetto al rischio che «la legittima battaglia per la parità di genere» finisca per favorire «eccessi non rispettosi delle istituzioni».
A dire il vero la declinazione al femminile di molte cariche pubbliche – avvocata, rettrice, sindaca, assessora e non solo – è considerata una formula corretta della lingua italiana, e da tempo, tanto da ricevere semaforo verde dall’Accademia della Crusca.
C’è ure il capitolo sanzioni: «La violazione degli obblighi di cui alla presente legge – si legge nel ddl – comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro».
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
IL PICCOLO, IN SOVRAPPESO, PRONUNCIA POCHE PAROLE, LA MAMMA E’ DETENUTA… IL RACCONTO DELLA VOLONTARIA CHE OGNI MATTINA SI IMEGNA A PORTARLO A UN NIDO ESTERNO, POI IL RIENTRO IN CELLA
Giacomo ha due anni, è sovrappeso, ha deficit motori e di linguaggio, porta ancora il pannolino. Giacomo si entusiasma se vede una moto, un parco perché li vede raramente. Vive a Rebibbia, tra le sbarre del carcere, con la mamma (il papà è detenuto in un’altra ala). Dice «si», «no», «mamma», «pappa» e quasi nessun altra parola. Ed è così probabilmente perché passa il suo tempo in cella, dove non dovrebbe stare. A parlare della sua storia è Repubblica, attraverso il racconto di una delle volontarie dell’associazione “A Roma insieme-Leda Colombini”, che hanno dato alla direzione della struttura penitenziaria romana la disponibilità a portare il piccolo ad un nido esterno la mattina e a riportarlo in carcere nel pomeriggio. Una vicenda che allarma, spiega il quotidiano, alla vigilia dell’esame in aula del disegno di legge sicurezza che fa venir meno l’obbligo delle misure alternative per donne con figli minori di un anno.
Giacomo e il ritorno la sera in carcere dopo il nido. «Quando vede il cancello dice ‘chiudi’. Sa che le guardie ce lo richiudono subito alle spalle».
«Lui è contentissimo di andare al nido – spiega la volontaria – io entro con l’auto dentro il carcere, quando salgo a prenderlo lo trovo dietro il vetro di sicurezza con le sbarre che mi aspetta. Mi vede e gli si illumina il viso. Scendiamo insieme i 16 gradini che portano all’atrio e provo a fargli ripetere i numeri. Poi quando in auto aspettiamo che le guardie aprano il cancello, lui cominciare a dire: “Apri, apri, apri”. Giacomo, sei contento di andare a scuola? “Si”. “Di vedere la tua maestra?” Si”, “E i tuoi compagni? “Si”». «Quando ci avviciniamo a Rebibbia e lui riconosce le mura di cinta, allora dice sempre “mamma” – racconta – capisce che lo sto riportando da lei. E mi si stringe il cuore quando, dopo aver varcato il grande cancello di ferro con le sbarre, Giacomo dice ‘chiudi’. Sa che le guardie ce lo richiudono subito alle spalle».
Il resto del tempo il piccolo lo passa davanti ai cartoni, la mamma gli dà quello che passa la struttura o quello che trova per lui allo spaccio. Il minore, sottolineano su Repubblica, è vittima anche della burocrazia, di una lunga attesa per una valutazione. Aspetta quindi di stare in un posto migliore, mentre il tempo, in una fase fondamentale della sua vita, passa.
(da Open)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“VOGLIAMO LANCIARE UN SEGNALE DALLA PIU’ GRANDE CITTA’ DEL SUD”
Niente più paghe da fame per i dipendenti delle imprese che intendono lavorare per i Comune di Napoli. Tutti gli operatori economici ai quali il Comune affiderà lavori, forniture e servizi dovranno prevedere un trattamento economico per i dipendenti non inferiore a 9 euro l’ora. La giunta ha infatti approvato un atto di indirizzo finalizzato proprio alla tutela della retribuzione minima oraria salariale nei contratti del Comune di Napoli.
La delibera è stata adottata su proposta dell’assessora al Lavoro Chiara Marciani e impegna direttamente sia l’Amministrazione che le società partecipate del Comune. Il documento rappresenta un ulteriore tassello nel quadro delle iniziative volute dal sindaco Gaetano Manfredi per offrire maggiori tutele ai lavoratori.
La delibera, infatti, integra il protocollo d’intesa su sicurezza e legalità negli appalti e nei subappalti, che il Comune di Napoli stipulerà con le organizzazioni sindacali. Lo schema del protocollo d’intesa, approvato dalla giunta l’8 luglio scorso, è finalizzato anche ad assicurare ai lavoratori impiegati negli appalti le migliori garanzie economiche e normative.
L’atto di indirizzo approvato dalla giunta comunale ha recepito i contenuti dell’ordine del giorno a firma del consigliere Sergio D’Angelo, che il Consiglio comunale ha approvato all’unanimità nello scorso novembre.
“Questa delibera – spiega l’assessora Marciani – contiene anche vincoli sui contratti collettivi che devono essere applicati al personale impiegato nei lavori, nei servizi e nelle forniture oggetto di appalti pubblici, in coerenza con la disciplina prevista dal nuovo Codice dei contratti pubblici. L’Amministrazione intende garantire la dignità del lavoro e con gli ultimi atti approvati dalla Giunta vengono prescritte ulteriori garanzie, di sicurezza ed economiche, rispetto a quelle già previste dalla legislazione vigente”.
“Non abbiamo l’ambizione di sostituirci al Parlamento e alla politica nazionale, ma vogliamo lanciare un segnale dalla più grande città del sud, dove più che altrove è largamente diffuso il lavoro povero – evidenzia il consigliere D’Angelo – Basta paghe da fame, soprattutto da parte di chi esegue lavori per conto delle amministrazioni pubbliche. Al di sotto dei 9 euro lordi non è ammissibile pagare i lavoratori impegnati in appalti e subappalti che coinvolgono il Comune di Napoli”.
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
TRISTEZZA. SALUTI E APPELLI A PIER SILVIO… NON RIESCONO NEPPURE A RECITARE LA PARTE, FALSA, DELL’AZIENDA FELICE
Napoli. Il nuovo palinsesto Rai è più drammatico del film “Lezioni di piano”. La chiamano “Offerta informativa”, ma la novità più prestigiosa è una fiction su Mike Bongiorno: allegria o tristezza? Tutta l’offerta la racconta Stefano Coletta, direttore della Distribuzione Rai (che per i vertici sarebbe “il migliore”) uno che parla così: “La Rai deve essere un’ossessione d’amore”; “la Rai è un grande e infinito matrimonio longevo, bisogna renderlo non stancante”. Levategli Catullo!
Quale imprenditore sobrio investirebbe su questa televisione, una tv che piazza per il 2024-2025 sei puntate sull’industria di Mario Sechi, ex portavoce della premier, oggi a Libero, e poi Osho al programma Binario 2 e, se serve, pure al segnale orario? La presidente Rai, Marinella Soldi, spedisce un comunicato come fosse Mattarella, perché lei, qui a Napoli, non c’è. Con la colonna sonora del compositore Michael Nyman sarebbe una “Lezione di Rai”, note dall’abisso.
Non sa ancora chi sarà il suo prossimo capo, ha appena emesso un bond da trecento milioni, ma da due giorni mezza Rai soggiorna a Napoli, mangia e si interroga: “Ma tu, stasera, vieni alla festa? Cena alla Mostra d’oltremare”. Il tappeto rosso, che è però blu, viene montato tra le male parole degli operai per il troppo caldo, per arrivare all’Auditorium meglio non chiedere quanti Ncc, taxi e ricevute rimborserà la Rai. Domandiamo a un dirigente: “Ma perché scegliete sempre Napoli?” e lui: “Così gli investitori prendono il sole, vedono il mare e dimenticano la Rai”. L’ad Roberto Sergio sale sul palco e fa un bilancio dei suoi 14 mesi: “Qualche mia esternazione poteva essere più cauta”, poi rivolgendosi alle tv concorrenti, le piccine, manda una carezza, e si fa per dire: “Le cose imbarazzanti non le commento”. Per fortuna doveva essere cauto. Saluta tutti i sindacati, compreso il nuovo, di destra, Unirai, ma si dimentica dell’Usigrai (stanno già scrivendo il comunicato). I suoi collaboratori quando si gira dicono: “È arrivato Roberto Serginho do Nascimiento. Olé”. Si parla del nuovo approfondimento Rai e interviene il direttore Paolo Corsini, il destro di Meloni, uno che se spedito a Kyiv farebbe entrare nel conflitto anche la Cina. I giornalisti vogliono sapere: direttore Corsini, ma insomma, le novità? Massimo Giletti fa un talk su Rai 3, ma ha preteso che fosse seguìto dalla direzione Cultura (di sinistra) e non da Corsini, Peter Gomez farà la solita “Confessione” e di sicuro ci saranno almeno tre puntate con ospite Giuseppe Conte. C’è una paccata di programmi imbarazzanti che non vale la pena neppure sprecare righe di giornale. Non essendoci novità di valore, Corsini si ricorda che torna Giovanni Minoli e lo cita, ma poi si lancia nella polemica retrodatata: “Purtroppo l’anno scorso alcuni hanno inseguito i soldi”. Lui insegue Ranucci di “Report” e amabilmente fa sapere che non è con noi “perché è in ferie. Poi anche io ho letto l’intervista dove annunciava che non sarebbe venuto”. Non c’è Ranucci (che lamenta: “Questa Rai manca di rispetto a Report”) e neppure Pino Insegno, una volta tanto che serviva. Dovrebbero fare fuochi d’artificio e invece fanno venir voglia di prendere il fazzoletto e asciugare le lacrime, Addio Rai. Non riescono a recitare neppure la parte, falsa, dell’azienda felice. Minacciano solo querele, perché in Rai, garantiscono sia Sergio sia Corsini, “la censura non esiste”.
E a dirla tutta hanno ragione. Esiste solo il servaggio sciocco o l’inchino. Le sei puntate di Sechi chi le ha volute? Sono degli approfondimenti? Corsini, sincero: “Io non sapevo nulla. Lo apprendo adesso dai siti”. Dovrebbero essere in quota Cultura, dunque Giletti&Sechi al posto di Fruttero&Lucentini. Il guaio è che questi svippati Rai se la tirano anche. Se ci fosse stato Sergio Marchionne ad Rai li avrebbe spediti in prima fila, ma di mattina, e non a bere spumantino il pomeriggio. Offerta informativa di cosa? Alla stampa avrebbe risparmiato tre ore di viaggi onirici di Coletta, le incursioni di Angelo Mellone, Tom Mellone, il direttore day Time, vestito interamente di bianco perché lui passa dall’Abruzzo di Linea Verde al sarto di Panama di Le Carré. È nato per dirigere Rai L’Avana. Hanno la testa alle ferie anche perché la testa Rai, non c’è, e forse non ci sarà: boh. Sergio fa capire che se ne torna in radio, l’ad designato, Rossi, resta ancora “il designato”, tanto che deve dire “non mi sento sulla graticola. La Rai ha bisogno presto dei nuovi vertici”. Adesso è Forza Italia che non vuole votare il nuovo cda. Antonio Tajani teme che la sua Simona Agnes venga impallinata dalla Lega a scrutinio segreto e non venga eletta presidente, mentre il Pd, suggerisce un dirigente Rai, “è così velleitario che vuole praticare l’Aventino anziché chiedere la presidenza Rai”. Non solo mungono la Rai, ma fanno gli schizzinosi. La mungono, ma non vogliono macchie di latte. Sergio e Rossi sono costretti a lodare Pier Silvio Berlusconi di Mediaset per il “suo approccio illuminante sul canone”, il che è tutto dire. Sarebbe stato bello chiedere “ma Sechi chi lo ha voluto?”, e chiedere anche: “Che fine ha fatto la fiction di Mimmo Lucano nel cassetto?”. Purtroppo non si possono fare domande perché, dopo tre ore di Catullo-Coletta e Serginho, viene comunicato che il tempo è finito. Non è censura. È banalissimo: “Ce chiudono il teatro. Me creda. Ce chiudono”.
(da ilfoglio.it)
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