Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA A VENEZIA: LA RETE RICOSTRUITA DALLA GUARDIA DI FINANZA
Tutti gli uomini del sindaco Luigi Brugnaro: nel gruppo privato e nell’amministrazione del Comune di Venezia. È la rete che i magistrati veneziani ricostruiscono nella richiesta di misura cautelare, sfociata nell’arresto dell’ormai ex assessore Renato Boraso. In questa indagine Brugnaro è indagato, ma per vicende diverse, per concorso in corruzione e non è destinatario di alcuna richiesta di misura cautelare. Nel loro documento i pm fanno dunque riferimento a un’informativa della Finanza, dove vengono elencati coloro che “hanno svolto o svolgono l’incarico di amministratori delle società appartenenti al reticolo controllato dalla Luigi Brugnaro Holding spa”: “Diversi di loro – scrivono i pm – sono stati nominati a stretti collaboratori del sindaco o altissimi dirigenti comunali o delle società partecipate”.
La finanza elenca quelli che ritiene “i casi più importanti”. Tra questi cita: Morris Ceron (indagato) “legale rappresentante da settembre 2019 dell’associazione elettorale ‘Un’impresa comune’” e “soprattutto, ‘segretario particolare’ dal 2010 al 2015 del Presidente di Umana Holding Spa, Luigi Brugnaro”. Dopo l’elezione a sindaco di quest’ultimo nel 2015 Ceron è diventato “capo di gabinetto del Sindaco”, poi “Direttore generale del Comune da marzo 2021”. Nel contempo Ceron ha mantenuto un rapporto di “dipendenza” con “società del Brugnato”: è stato “dipendente della Società Sportiva Reyer Venezia Mestre Srl da luglio 2009 a febbraio 2021”.
C’è poi Derek Donadini (indagato) che da maggio 2014 a giugno 2019 è stato “amministratore del ‘Consorzio Produzione e Sviluppo Nord est, costituito da Brugnaro il 16 dicembre 2004”. Donadini dal 2015 è vice capo di gabinetto del sindaco. Tuttavia, continuano i pm, “è rimasto dipendente della ‘Umana Spa’ dal 2008, quantomeno fino al 28 febbraio 2022”.
Ancora. Paolo Bettio (estraneo all’inchiesta) “collaboratore storico del Brugnaro sin dal 1993 e amministratore unico di società del gruppo Brugnaro come la Everap spa e la Attiva spa”: dopo l’elezione del 2015 Brugnaro lo ha “nominato (…) amministratore unico della società pubblica ‘Venis-Venezia informatica e sistemi spa’ conservandogli comunque le funzioni nelle società del ‘Gruppo Lb Holding’”. C’è poi Luca Zuin (anche lui estraneo all’inchiesta): “Assunto da maggio 2015 presso la Umana Spa con contratto a tempo indeterminato è stato poi assunto dal Comune di Venezia, dal 31 luglio 2015 (…) quale Collaboratore Responsabile attuazione del programma del Sindaco”. Infine nell’elenco la Finanza cita Barbara Casarin (estranea all’indagine) “collaboratrice, dal 2016 al 2021, della ‘Asd minibasket Reyer”: “Barbara Casarin è stata eletta consigliere comunale nella lista Brugnaro” nel 2015 e rieletta nel 2020.
Secondo i pm però Brugnaro non ha mancato di nominare “persone di fiducia” nel blind trust creato nel 2014. “Costoro – scrivono i pm – rivestono e/o hanno rivestito ruoli di vertice nelle società facenti parte del gruppo sopracitato o prestano attività di consulenza per le società del gruppo”. Nessuno dei due è indagato: i pm citano Giampaolo Pizzato e Federico Bertoldi, il primo ha “iniziato a percepire redditi dalla società Umana Spa” dal 2006, il secondo “dal 2012”.
Non è invece indicato nell’organigramma, ma per i pm ha avuto un ruolo nelle faccende comunali anche l’assessore Renato Boraso. In realtà sembra giocare in proprio, è in consiglio comunale da quasi trent’anni, in giunta dal 2015.
Ma al di là delle nomine, il problema per i magistrati sono le figure apicali del comune, tanto che descrivono la gestione amministrativa degli ultimi 7 anni con “ripetuti conflitti di interesse riguardanti le figure più elevate dell’amministrazione” quali il sindaco, il capo e il vice capo di gabinetto. Per i pm a volte chi sapeva si girava dall’altra parte: “Le condotte illecite (…) o di interferenza sulle procedure amministrative sono avvenute senza nessuna reazione e opposizione da parte dei funzionari che gestivano le pratiche. Se ne desume che per molti appartenenti alla macchina amministrativa questi comportamenti illeciti – posti in essere da assessori o alti dirigenti – costituiscono prassi consolidata e accettabile come metodo ‘normale’ di risoluzione degli affari”.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
SE LA FAMIGLIA E’ POCO ISTRUITA AUMENTA IL RISCHIO DI LASCIARE GLI STUDI… UN DANNO PER LAVORO E CARRIERA
La scuola è aperta a tutti in Italia, come stabilisce l’art.34 della Costituzione. Ma per i figli dei laureati lo rimane molto più a lungo che per i figli di genitori che si sono fermati alla licenza media o elementare. Secondo l’ultimo report Istat sui “Livelli di istruzione e ritorni occupazionali” si laurea solo il 12,8% dei giovani i cui genitori hanno un basso livello d’istruzione, mentre tra i figli dei laureati il tasso di chi arriva al traguardo universitario raggiunge quasi il 70% (40,3% per chi ha almeno un genitore con un diploma di scuola media superiore).
Ma non si tratta solo della laurea: la carriera scolastica di chi viene da una famiglia con un basso livello d’istruzione spesso si ferma molto prima. Nel 2023 quasi un quarto dei giovani tra i 18 e i 24 anni, con i genitori che avevano al massimo la licenza media, aveva abbandonato gli studi prima di arrivare al diploma. Ma il tasso di abbandono scolastico del 23,9% scende al 5% se almeno uno dei genitori ha un titolo secondario superiore, e all’1,6% se la madre o il padre è laureato.
Dati che denunciano con forza come in Italia i percorsi d’istruzione abbiano perso completamente il ruolo di ascensore sociale. Senza perdere però invece il loro rilevante valore in termini economici e di carriera: il tasso di occupazione dei laureati nel 2023 raggiunge l’84,3%, 11 punti percentuali in più rispetto a chi ha solo un diploma di scuola secondaria superiore, e ben 30 in più rispetto a chi si è fermato alla licenza media. Solo che, evidentemente, questo percorso di studi che offre decisamente maggiori opportunità, e che ancora pochi giovani in Italia intraprendono, rispetto alle medie europee, non è accessibile a tutti.
Il percorso umano e lavorativo di chi viene da una famiglia con un basso livello d’istruzione rimane fortemente a ostacoli, e i dati Istat lo descrivono in tutte le sue tappe. Dal momento che in un caso su quattro abbandona gli studi prima di arrivare al diploma, rientra molto facilmente nel bacino del part-time involontario: per i laureati il tasso è del 55,8% contro il 77% di chi ha un livello basso d’istruzione. Anche il lavoro a termine è più diffuso tra chi ha un basso livello d’istruzione. E se poi l’early leaver vive nel Mezzogiorno rischia fortemente di non trovare nessun tipo di lavoro, né precario né part-time: il tasso di occupazione medio di chi abbandona la scuola precocemente è già molto basso, del 44% (seppure in aumento del 5,4% rispetto al 2022) ma al Sud scende al 31,4%, contro il 59,6% del Centro e il 57,1% del Nord.
È molto facile quindi che un early leaver finisca per diventare un Neet, sigla che da anni la statistica utilizza per indicare i giovani usciti dai percorsi di istruzione e non ancora occupati. Apostrofati nei modi più vari, da nullafacenti al più mite “bamboccioni”, i Neet in realtà sono troppo spesso giovani bloccati in un limbo da cui nessuno prova davvero a tirarli fuori. Quasi un Neet disoccupato su due cerca lavoro da almeno un anno, rileva l’Istat, con una prevalenza di residenti nel Mezzogiorno in questa condizione. E, sorpresa, in questo caso neanche la laurea paga: il 43,1% dei Neet disoccupati ha concluso il percorso universitario, contro il 31% di chi si è fermato alla licenza media.
Per chi non riesce a trovare un lavoro la formazione potrebbe essere un aiuto importante. Ma in Italia non funziona neanche quella: la quota dei disoccupati in formazione è del 6,9%, la metà di quella europea (14,1%). Tra chi lavora, la formazione è una realtà soprattutto per i laureati (25,2%), mentre è quasi inesistente per chi ha solo la licenza media (3,2%).
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
PER “PREMIO” IL GOVERNO GLI ASSEGNA COME PORTO DI SBARCO LIVORNO, DISTANTE 1.000 CHILOMETRI, COSI’ IMPARANO A NON FARLI AFFOGARE
In appena due giorni la Geo Barents, la nave umanitaria di Medici Senza Frontiere, ha soccorso oltre duecento persone nel Mediterraneo: a bordo, adesso, ci sono in totale 226 naufraghi.
Il porto assegnato è quello di Livorno, verso cui si sta dirigendo in queste ore. La prima operazione di soccorso risale a ieri mattina: 49 persone, tra cui anche 16 donne e 9 bambini, sono stati salvati. Poi, nelle ore successive, altre 130 persone che viaggiavano su un barchino di legno sovraccarico sono state salvate dalla nave di Msf. Infine, il terzo soccorso è avvenuto questa mattina: 47 persone su un barchino di ferro.
“Questa mattina 49 persone, tra cui 9 bambini e 16 donne, sono stati trovati in difficoltà su un gommone sovraccarico. Tutti sono stati soccorsi e ora la squadra di Msf si sta prendendo cura di loro. I sopravvissuti ci hanno detto di aver trascorso due giorni in mare, senza né cibo né acqua”, hanno comunicato i soccorritori dopo il primo soccorso, specificando che il soccorso è avvenuto nella zona Sar libica, grazie al supporto della Sea Watch.
La Geo Barents ha dovuto navigare per 12 ore per raggiungere l’imbarcazione, dal momento che nessun altro ha risposto alle segnalazioni lanciate anche da Frontex.
Dopo il secondo soccorso il team di Msf ha spiegato che le 130 persone salvate si trovavano su un’imbarcazione di legno di due piani, sovraccarica e alla deriva: “Alcuni dei superstiti hanno bisogno di cure mediche che possono essere fornite sulla terra ferma. Il soccorso è avvenuto dopo due ore e mezzo di ricerche, nella zona Sar tunisina”.
A quel punto la Geo Barents ha iniziato a dirigersi verso Livorno, con un totale di 179 persone a bordo: “È un altro porto distante, assegnato dalle autorità italiane. Livorno si trova a circa 1.100 chilometri dal luogo del primo soccorso. È più della distanza che c’è tra Madrid e Parigi”, hanno denunciato i soccorritori.
Il terzo soccorso è avvenuto questa mattina, in acque internazionali. I naufraghi erano “esausti dopo avere trascorso quasi due giorni in mare”, hanno detto i soccorritori, precisando che l’operazione sia avvenuta con il coordinamento delle autorità italiane.
(da Fanpage)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“AL SUD ANDRA’ A VOTARE IL 68% DEI CITTADINI”
Mentre parte la raccolta delle firme per il referendum contro l’Autonomia differenziata, con l’impegno di tutte le forze di centrosinistra con i rispettivi leader in campo due grandi quotidiani si chiedono se ci sarà mai il quorum dei votanti per rendere la consultazione valida.
Ipsos per Corriere della Sera e Noto Sondaggi per Repubblica danno due risultati diametralmente opposti.
Per il primo il quorum è ancora lontano (solo il 33 per cento andrà sicuramente a votare), per il secondo istituto, invece, almeno il 55 per cento degli italiani si recherà alle urne.
L’analisi di Noto su Repubblica
Per Noto sondaggi «il 55% degli italiani è al momento intenzionato a votare, quindi se tale stima, elaborata dall’Istituto demoscopico Noto Sondaggi per Repubblica, sarà rispettata il referendum ha buone probabilità che sia valido, anche con un discreto margine».
Chi vota sostiene partiti di opposizione: «dal 68% degli elettori del Pd al 95% dei simpatizzanti di Alleanza verdi sinistra. Però è anche da notare che la propensione ad entrare in cabina elettorale coinvolge pure il 68% dei votanti Forza Italia (la stessa percentuali dei dem), mentre tra i seguaci di FdI scende al 44% e tra i leghisti comunque arriva al 58%». La partecipazione varia da Nord a Sud. Mentre nelle ultime elezioni europee l’astensionismo ha regnato sovrano nel Mezzogiorno, nel caso del referendum sull’Autonomia differenziata ad andare nelle regioni del Sud Italia sarà il 68% dei cittadini.
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
UNICA INCOGNITA IL QUORUM: SICURO DI PARTECIPARE AL VOTO AD OGGI IL 33%
Il tema del rafforzamento delle autonomie regionali è presente nel dibattito politico da almeno un trentennio. È stato spesso visto come un tema tipico del Nord del Paese, con le venature secessioniste impresse dalla Lega. Ma è stato anche un tema importante per il centrosinistra, con venature più federaliste. Centrosinistra che arriva nel 2001 ad una riforma (per molti versi problematica) che riconosce alle regioni un’ampia autonomia. Il mese scorso il centrodestra ha approvato la riforma detta della «autonomia differenziata» che stabilisce gli iter e le modalità attraverso le quali le regioni potranno chiedere maggiore autonomia nella gestione di diverse materie (fino a 23).
Rispetto a questa proposta il dibattito fa emergere divisioni profonde: i sostenitori, prevalentemente di centrodestra, ritengono che questa riforma permetterà un miglioramento dei servizi e aumenterà l’efficienza della spesa; i critici, prevalentemente di centrosinistra, pensano al contrario che si amplificheranno le disuguaglianze territoriali e peggioreranno i servizi delle regioni meno ricche, prevalentemente del Sud. Le posizioni sono più articolate, qui abbiamo cercato di riassumere alcune delle argomentazioni di fondo.
Che cosa pensano gli italiani di questa riforma? Prima di tutto occorre dire che i nostri connazionali ne sanno poco: solo il 16% si dichiara infatti adeguatamente informato, mentre 29% ha avuto modo di ascoltare qualche notizia e il restante 55% ne ha sentito parlare senza saper bene di cosa si tratti o è all’oscuro del tema.
Dal punto di vista territoriale non emergono differenze rilevanti, mentre gli elettori Pd e delle altre liste minori (in cui vi è una consistente presenza di elettori di sinistra e dell’ex terzo polo) evidenziano un livello di conoscenza del tema apprezzabilmente più elevato della media.
Rispetto alle principali valutazioni positive della riforma, il 47% condivide la tesi che l’autonomia differenziata consentirebbe di trattenere le imposte dei residenti sul proprio territorio, responsabilizzando maggiormente gli amministratori locali, mentre il 41% è d’accordo con l’affermazione che l’autonomia differenziata produrrebbe un risparmio per l’intero sistema regionale, poiché non si baserebbe più sulla spesa storica (che favorisce chi spende di più), ma introdurrebbe uno standard comune di riferimento. I contrari a queste due tesi sono rispettivamente il 28% e il 30%. Invece, riguardo alle valutazioni negative, il 49% pensa che l’autonomia differenziata disarticolerebbe servizi e infrastrutture che dovrebbero invece mantenere una dimensione unica nazionale (come sanità, istruzione, trasporti) mentre il 50% ritiene che la riforma sancirebbe, quando non aggraverebbe, le profonde differenze economiche, politiche e sociali che già ci sono fra le regioni. Il disaccordo con queste due affermazioni si colloca al 27% in entrambi i casi. Prevalgono quindi, sia pur in maniera non dirompente, le opinioni critiche sulla proposta di autonomia.
È interessante notare che nel Meridione l’elettorato è più critico come era lecito aspettarsi (pur se non distruttivo), ma che anche nel Nord del Paese si manifestano consistenti perplessità sulla riforma.
E anche rispetto agli orientamenti politici le posizioni non sono granitiche: certo gli elettori di opposizione sono decisamente critici, ma quote che vanno da un quarto a oltre il 40% ne condividono gli aspetti positivi, mentre tra gli elettori di centrodestra, pur approvandone fortemente gli aspetti positivi, le perplessità, cioè la condivisione degli aspetti negativi, è addirittura più forte: oltre il 40% con punte di oltre il 50% sottolinea i rischi impliciti nella riforma. Insomma, possiamo dire che le perplessità ci sono da entrambe le parti, ma sono più consistenti tra chi la riforma dovrebbe sostenerla.
Le opposizioni hanno avviato la raccolta di firme per un referendum abrogativo della proposta. Il tema che si pone è quello della partecipazione: per essere valido deve vedere la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto. Oggi solo un terzo sembra essere deciso a partecipare all’eventuale consultazione, mentre il 26% non lo esclude ma è incerto. Con questi numeri, per la nostra esperienza, la partecipazione è ancora lontana dalla soglia. Infine, se si votasse, attualmente prevarrebbero coloro che intendono respingere la legge: se riportiamo i dati ai voti validi (escludendo quindi gli indecisi), il 58% si schiera per l’abrogazione, 42% per la conferma.
È certamente troppo presto per dire qualcosa di solido sul voto referendario. Per ora possiamo affermare che l’attenzione sul tema non cresce rispetto a quanto registrato nel febbraio scorso e che le perplessità sono diffuse. E in parte trasversali. Sembra necessario, per il governo, trovare argomenti più convincenti, anche per il Sud, e soprattutto, crediamo, l’individuazione di parametri praticabili e finanziariamente sostenibili che assicurino uniformità sul territorio.
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
INTERVISTA A TUTTO CAMPO AL GRANDE DIRETTORE D’ORCHESTRA: «LA COLONNA SONORA IDEALE DELLA FINE? LE MESSE DA REQIEM DI CHERUBINI, QUELLA IN DO MINORE E QUELLA IN RE MINORE»
«Avevamo una dimestichezza con la morte fin da piccoli, quando ogni sera, per farci addormentare, le mamme o le nonne ci dicevano di sbrigarci, ché alle otto Lei sarebbe passata a prendersi tutti i bambini ancora svegli. Mia madre, che era napoletanissima, ogni volta che avvertiva un brivido di freddo esclamava: m’è passata ‘a morte ncopp’o cuollo. Alla fine del Carnevale, alla mezzanotte, al suono della campana che annunciava l’inizio della Quaresima, dalla Chiesa di Santo Stefano a Molfetta usciva un gruppo di uomini incappucciati, membri della Congrega della Morte, che portavano in processione per il paese un crocefisso di legno con il volto di Gesù dipinto all’incrocio dei due bracci. Le prime musiche che ho ascoltato sono state la Marcia Funebre dell’Eroica di Beethoven e lo Stabat Mater di Rossini, suonate dalla banda di Molfetta durante le processioni del Venerdì Santo, o per i funerali di qualche parente abbastanza benestante per potersela pagare. Oggi alle cerimonie funebri si applaude il defunto, si infastidisce la morte con il frastuono della nostra società, invece di rispettarla con il silenzio. Ho detto ai miei figli: se qualcuno si azzarderà ad applaudire ai miei funerali, sappia che il mio spirito andrà ogni notte a fargli visita nel sonno».
Riccardo Muti è un fiume in piena. Ho tentato, per pudore e forse anche per rispetto a quel minimo di distacco scaramantico con cui noi napoletani approcciamo di solito il tema, di prenderla alla larga, cominciando dalla teoria. Gli dico di aver letto che la musica è «l’arte della morte» perché, a differenza di ogni altra forma di espressione, dipende dal tempo, e come la vita ha una sua durata, nasce dal silenzio e muore nel silenzio. Lui ascolta, annuisce; ma il suo rapporto con l’oggetto della nostra conversazione, da napoletano-molfettese, è così intenso e personale che prevale subito sulle mie elucubrazioni: parla con disincanto della morte, come un uomo di un tempo in cui non era ancora diventata un tabù, parola impronunciabile, evento da nascondere dietro un paravento, abisso di solitudine strappato alla condivisione della comunità.
«Quando avevo undici, dodici anni, andavo dietro alla banda nelle processioni. Nella Marcia Funebre dell’Eroica — e qui comincia a canticchiarla, ndr — quel rullo di tamburi e quel suono di strumenti gravi sembrava proprio accompagnare e aiutare l’incedere della cassa mortuaria. Sono stati certamente dei funerali a ispirare Beethoven. Allo stesso modo io devo all’idea di morte una parte importante della mia educazione. Al Meridione la morte viveva, era intorno a noi, sempre con noi. Nella chiesa di Molfetta dove ha sede l’Arciconfraternita della Morte dal Sacco Nero, fondata nel XVII secolo da trentotto galantuomini che intendevano dare sepoltura cristiana ai poveri che non potevano permettersela, i monaci fecero apporre nel 1640 una scritta sulla parete. Dice: “HOC FRATRUM COETUS MORTI POSUERE SACELLUM, UT LIBITINA SUAS TOLLAT AMICA FACES”. E cioè: il ceto dei frati pose questo sacello in onore della morte, affinché Libitina possa sollevare le sue fiaccole amichevolmente. E Libitina, attenzione, è la Dea della morte nella Roma arcaica, la divinità che presiedeva ai funerali. Si rende conto? Dei monaci che evocano una entità pagana… Una volta ho chiesto al mio amico cardinal Ravasi se quel nome, Libitina, venga da libido, o viceversa. In fin dei conti c’è un nesso tra le due cose, la morte e l’orgasmo. Non a caso quest’ultimo è definito la “piccola morte”».
La formazione religiosa è un grande filtro dei ricordi e delle emozioni del Maestro. «Vengo da una famiglia cattolica. Mio padre era medico, si prendeva cura senza richiedere compenso dei preti nel Seminario Pontificio di Molfetta e dei monaci che vivevano nei monasteri della zona. Il mio debutto musicale, a dieci anni col violino, avvenne proprio nel Seminario. A 13 anni feci un po’ scandalo nella Basilica della Madonna dei Martiri, perché salii all’organo e suonai il Brindisi della Traviata. Ma erano altri tempi. Ora i preti e i frati portano i calzoni invece della tunica e indossano quelle che in America chiamano le “naiki”, forse senza sapere che la parola Nike è greca, il nome della Vittoria».
«LA COLONNA SONORA IDEALE DELLA FINE? LE MESSE DA REQIEM DI CHERUBINI, QUELLA IN DO MINORE E QUELLA IN RE MINORE»
Ciò nonostante, Muti non crede nell’Aldilà?
«Non si può dire: ci credo o non ci credo. È un mistero della fede. Diciamo che non penso che ci ritroveremo tutti insieme ben vestiti in un altro mondo. Ma credo fermamente che il nostro spirito sia parte di un’energia cosmica e che ad essa tornerà. La “comunione dei santi”, secondo me, è proprio l’insieme delle energie spirituali di tutto il mondo. La forza vitale che ci anima, che è in ognuno di noi, non può svanire, non si dissolve nel nulla. Le faccio un esempio: quando sono morti mia madre e mio padre, fino a un secondo prima il loro corpo aveva una certa levità, una morbidezza, una flessibilità, poi un attimo dopo era rigido e pesante come un blocco di marmo. Perché? Perché l’energia che ci tiene vivi e dona leggerezza al nostro corpo se n’era andata. Dove? Da qualche altra parte. È del resto la stessa energia che esprimiamo nella musica. Quando dirigo, non evoco con il movimento delle braccia una forza fisica, anche se molti direttori si sbracciano, gesticolano, in ossequio a un pubblico che oggi chiede più di vedere che di ascoltare, più lo show che la musica. Per me invece la direzione è emanazione di un’energia interiore. In America dicono, con un’espressione che non mi piace perché paragona l’uomo a una macchina, che una persona energica è una “dynamo”. Ecco, potremmo dire che quando uno muore finisce la dinamo».
Ma questo spirito immortale può rivivere in altri esseri viventi, dopo la nostra morte?
«Oddio, spero davvero di no, sono terrorizzato dall’idea della metempsicosi. Non vorrei che la mia energia si trasferisse in un topo, o peggio ancora. Credo però che si ricongiungerà a tutte le altre».
In occasione dei suoi ottant’anni, in un’intervista con Aldo Cazzullo sul Corriere, Riccardo Muti disse: «Sono stanco di vivere». E molti l’interpretarono come un desiderio di morte. A me apparve piuttosto un severo giudizio sulla qualità della vita nel nostro tempo.
«Era uno sfogo, infatti. Qualcuno avrà magari brindato all’idea che mi togliessi di torno, ma in realtà volevo dire che non mi riconosco più in un mondo che è cambiato troppo per i miei gusti, perché sta distruggendo quell’humanitas che i nostri maestri ci hanno insegnato da ragazzi. Ho letto di recente che in Germania qualcuno propone di modificare perfino i libretti di opera, per renderli politicamente corretti. Lei capisce? Per non arrecare nocumento ai pargoli, vogliono correggere il Flauto Magico che fu scritto per i bambini. Nella Turandot propongono di cambiare i nomi di Ping, Pong e Pang per non offendere gli ascoltatori di etnia cinese. E a Toronto l’hanno fatto davvero, sono diventati Jim, Bob e Bill. Mio nonno diceva che non voleva diventare un laudator temporis acti, e neanch’io, però insomma, qui si esagera. Sempre lui, mio nonno, mi raccontava che un onorevole delle sue parti, per ottenere l’Acquedotto delle Puglie, cominciò così il suo discorso in Parlamento: “Vengo dalla Puglia sitibonda di acqua e di giustizia…”. Lei conosce per caso un onorevole dei nostri giorni capace di un tale incipit? Anche la lingua italiana si sta assottigliando, soffocata dal ricorso eccessivo e futile a un inglese posticcio, capito male e pronunciato peggio. In tv ho sentito ripetere decine di volte: “E ora, la puntata settimanale di Rèport…”. Ma lo sanno che si dice Repòrt?”.
«QUANDO ESCE QUEST’INTERVISTA? VA BEH, SE NON MUOIO PRIMA LA LEGGERO’. SONO L’UNICO VIVO DEGLI ALUNNI DEL MIO LICEO»
Chiedo al Maestro quali siano i brani musicali per lui indispensabili in una colonna sonora ideale della morte.
«Le Messe da Requiem di Cherubini, la prima in do minore, scritta nel pieno della Restaurazione per celebrare nella basilica di Saint-Denis a Parigi il ritorno delle spoglie dei reali decapitati. E quella in re minore, scritta per sé stesso abolendo le voci femminili e i violini al fine di depurarne la gravità da ogni suono leggero, angelico, acuto, e stenderle sopra un manto nero. E poi Le ultime sette parole di Cristo sulla Croce, di Franz Joseph Haydn, una delle più grandi creazioni musicali di tutti i tempi, in cui risuona quell’ultima frase solenne, “Consummatum est”, tutto è compiuto. E naturalmente i Requiem di Verdi e di Mozart. E la Missa defunctorum del nostro Paisiello, e la Grande messa dei morti di Berlioz.
Musiche lugubri, scure, ma tutte hanno in comune una cosa: al momento del “Benedictus qui venit in nomine Domini” anche il compositore più tragico ha un colpo d’ala. Anche nella messa funebre più nera, il Benedictus indica una fonte di luce capace di irradiarsi sulla stessa morte. Nel finale del Requiem di Verdi, scritto per la morte di Alessandro Manzoni, per tre volte il soprano invoca “Libera me domine de morte aeterna”. Prima lo urla, quasi rinfacciasse a Dio la responsabilità della fine: poi lo sussurra, come implorando. E musicalmente non si capisce se quel sussurro esprima anche un dubbio sulla possibilità che davvero esista un altro tempo. Nei compositori italiani è più frequente questa nota tragica, questa rivendicazione: mi hai creato, allora liberami dalla morte. Nei compositori tedeschi, penso per esempio a Brahms, il Requiem è più che altro una forma di consolazione per i vivi».
Approfittando della nostra comune provenienza, di quando in quando il Maestro mi si rivolge in dialetto partenopeo. Va evidentemente fiero della sua origine.
«La devo a mia madre. Col matrimonio si era trasferita a Molfetta, dove lavorava mio padre. Poco prima del parto però (ha avuto cinque figli), se ne tornava sempre a Napoli. Io stesso sono nato lì, e poi riportato dopo quindici giorni in Puglia. Noi figli le chiedemmo una spiegazione. “Non si sa mai”, ci disse, “metti che da grandi dovete girare il mondo, se vi chiedono di dove siete e rispondete Molfetta ci vuole mezz’ora per dire dov’è; se invece dite Napoli, vi rispettano”. Ed è così, aveva ragione, ci rispettano, soprattutto nella musica. Le capitali nel Settecento erano Napoli, Madrid, Parigi, Londra, Vienna e San Pietroburgo. Ma i musicisti napoletani hanno dominato l’Europa: Salieri a Vienna, Cimarosa e Paisiello a San Pietroburgo, Mercadante a Madrid. Hanno unificato il continente ben prima dell’euro. La musica ha fatto l’Europa e l’ha resa un unicum nel mondo. Del San Carlo, inaugurato circa quarant’anni prima della Scala, sono stati direttori Rossini e Donizetti, Paganini e Bellini ne hanno calcato le scene. Purtroppo a Napoli stiamo ancora aspettando una classe dirigente illuminata che sappia mettere a frutto un tale tesoro culturale. Ho diretto per cinque stagioni il Festival di Pentecoste a Salisburgo, e un anno portammo l’Oratorio di Scarlatti, un genio che ha preceduto di venticinque anni Bach.
A quel tempo la tv austriaca mostrava di continuo le scene della crisi dell’immondizia a Napoli. La sera della rappresentazione, uscendo dalla chiesa, il sovrintendente Canessa che ci aveva accompagnato mi avvicinò e mi disse: “Ora avranno capito che sotto la monnezza noi abbiamo tanta bellezza!”. Le racconto un episodio che dice tutto dell’arguzia dei napoletani. Nel 1968 facevo al San Carlo le prove della Sinfonia di Richard Strauss dedicata all’Italia. È composta di quattro movimenti, gli ultimi due ambientati a Napoli. Il terzo è intitolato Sulla spiaggia di Sorrento, il quarto ha un ritmo di tarantella in cui echeggiano le note di Funiculì funiculà. Ingenuamente chiesi agli orchestrali se avessero capito i titoli della partitura, che erano in tedesco (Am Strande von Sorrent), e una voce mi rispose: “Maestro, noi nun sapimm’ o’ francese”. Feci finta di non aver inteso il sarcasmo e tradussi comunque. E la voce: “Maestro, e quando mai c’è stata ‘na spiaggia a Surriento?’ Rimasi fulminato: era vero, stavo per cominciare una lunga concertazione basata su una menzogna. La mia faccia dovette tradire così tanto il mio sconcerto che la stessa voce, per confortarmi, aggiunse: “Vabbuò, forse na’ vota ci stava la spiaggia!”. Questo spirito, quest’ intelligenza, che possono essere straordinari nel bene e pericolosi nel male, reclamano guide capaci. E non è facile».
Chiedo a Muti che cosa intendesse dire a Verona, quando ha pronunciato davanti a Mattarella, a Meloni e le alte cariche dello Stato quello che è ormai noto come “l’apologo dell’impedimento”.
«L’hanno interpretato come un discorso politico, ma io avverto da anni che dal podio non si deve far politica, già la scelta del programma è di per sé un gesto politico, non serve aggiungere niente. Ma società e orchestra – questo intendevo dire – sono davvero simili. Linee diverse si intersecano tra loro, e da queste il direttore deve trarre una suprema armonia, così come il governante deve fare per il bene comune. E l’unico modo è cogliere la necessità interpretativa attraverso il coinvolgimento e il convincimento dell’orchestra, non per imposizione. Se non è in grado di farlo e disturba invece questo delicato processo, allora l’impedimento alla musica è il direttore d’orchestra. Succede, sa? Il primo violino della Philadelphia Orchestra, una delle migliori del mondo, una volta affrontò un direttore dicendogli: “Maestro, se non la smette di chiedere cose senza senso, noi poi cominciamo a suonare come lei desidera…”. Era una minaccia. Ma vale in tutti i campi; chi è al vertice di una qualsiasi istituzione può anche nuocerle. Il podio appare spesso come un luogo di potere, il direttore è posto in alto, comanda a bacchetta. Ma per me il podio è un luogo di solitudine: hai di fronte cento o più orchestrali che dipendono dalla tua interpretazione, e devi trasmetterla a mille o più persone alle tue spalle».
La conversazione è alla fine. Muti deve tornare allo studio delle partiture. Mi chiede quando sarà pubblicata l’intervista. Gli racconto i tempi del settimanale. Conclude con scaramantica arguzia partenopea: «Vabbè, se non muoio prima la leggerò. Consideri che sulla targa degli alunni illustri esposta nell’atrio del Vittorio Emanuele II, il liceo dove ho studiato a Napoli, credo di essere rimasto l’unico ancora vivo…».
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
DALLE LITI CON I PUGLIESI A FURIBONDE POLEMICHE, UN’ESTATE DA SHOW: “NON HO MAI VISTO UN POVERO CREARE POSTO DI LAVORO”… “I FIGLI DEI FALEGNAMI DOVREBBERO FARE IL FALEGNAME, INVECE LI MANDANO A SCUOLA”
Come quella volta che se la prese (indirettamente) con i guardiani di pecore. «La Sardegna ha posti straordinari. Il problema è che i sardi vogliono fare i pastori e che il turismo non sanno cos’è», sentenziò Flavio Briatore a un convegno in Salento nel 2016.
E già così poteva bastare. Ma no. «E allora? Non ho detto niente di strano. La Sardegna non è mica una terra di industriali», rincarò subito dopo, stupito dalle polemiche.
Poi però gli toccò organizzare in fretta e furia un incontro riparatore con la categoria dei fieri pecorai. «I pastori sardi sono eccezionali, non fanno un giorno di vacanza, lavorano duro e sono strozzati dal prezzo del latte», protestò, di colpo uno di loro. E lui si offrì di rilanciare nel mondo «il pecorino di qualità, senza quel latte scadente non italiano che lo rende cheap, salato, immangiabile».
Così va ogni qual volta apre bocca l’ex manager di Formula 1 (appena tornato in pista come supervisore della Alpine).
L’ultima «briatorata» è di un paio di giorni fa, quando, ospite del podcast 2046 di Fabio Rovazzi e Marco Mazzoli, rifletteva sui costi insostenibili della vita: «Credo che una famiglia di quattro persone dove il marito guadagna 1.400 o 2.000 euro e la moglie magari ne guadagna 1.500 ma anche 2.500 — che già sono cifre importanti — con 4000 euro come fanno a vivere?». Dimenticando che tanti italiani, quando va bene, dispongono della metà. E certo non possono permettersi nemmeno un morso alla sua Crazy Pizza al prosciutto Pata Negra da 68 euro.
L’intento magari era buono. Voleva solidarizzare con le famiglie in bolletta, invece si è beccato una caterva di critiche. Compresa una vignetta di Makkox sul Foglio e il rimbrotto dell’onorevole Angelo Bonelli dei Verdi che gli rinfaccia di parlare dalla dorata residenza di Montecarlo «da cui non pagherebbe la patrimoniale».
I due si erano già scornati quando Bonelli gli contestò i privilegi delle concessioni balneari e Briatore rispose offrendogli un contratto a termine: «Vieni al Twiga, ti insegno a lavorare».
Il nostro è fatto così. Nonostante la familiarità con i bolidi, basta poco perché gli scappi il piede dalla frizione. Pochi giorni fa, parlando di vacanze pugliesi a Zona Bianca su Rete4, il fondatore del Billionaire ha stroncato i lidi del posto: «Ombrellone e lettini a 60 euro? Una follia, lì non siamo a Montecarlo». E nemmeno al suo Twiga Beach di Marina di Pietrasanta, 600 euro al giorno per una tenda araba.
Lo scorso dicembre il geometra di Cuneo — così amano chiamarlo i suoi detrattori — invece stroncava tutto il nostro sistema dell’accoglienza, tuonando contro «gli alberghi che fanno schifo» e i ristoranti «con la cultura di fregare la gente» (ma qui tutti quelli che si sono visti recapitare scontrini da gioielliere per due caffè a Venezia, a Roma o in Sardegna staranno con lui). Nel 2019 fustigava il poco redditizio e ancor meno elegante «turismo delle ciabatte che fa male all’Italia».
Briatore come Ramses II quando dichiarò: «I figli dei falegnami dovrebbero fare i falegnami, invece li mandano a scuola, all’università. E tra vent’anni non ci sarà più gente che fa i controsoffitti». Gli attribuirono il proposito di voler tornare alle caste egizie, come un dispotico faraone.
In questo stesso filone potremmo annoverare l’uscita sui Ricchi e Poveri, non Angelo e Angela di Sarà perché ti amo, ma proprio i due prototipi opposti di conto corrente: «Chi crea ricchezza sono le aziende, gli investimenti. Non ho mai visto un povero creare posti di lavoro». E qui si beccò pure del razzista.
Nel bel mezzo dello scontro all’ultimo lievito con Gino Sorbillo su chi fosse il vero re della pizza, Briatore cercò pure di spiegare i ragionevoli sospetti su quelle economiche: «Cosa ci mettono dentro? Se devi pagare stipendi, tasse, bollette e affitti i casi sono due: o vendi 50mila pizze al giorno o è impossibile. C’è qualcosa che mi sfugge».
Ma poi partì con l’intemerata da Marchese del Grillo: «L’Italia è un Paese rancoroso, pieno di invidiosi. La verità è che io sono un genio e voi non lo siete. Questa è la differenza».
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
“A 66 ANNI, DOPO MILIONI DI CHILOMETRI PERCORSI, DEVO ESSERE AGGREDITO PER IL LAVORO CHE HO SCELTO E PER CUI PAGO LE TASSE?”
Ne esce con un forte mal di testa, e molta amarezza: «Ma a 66 anni, dopo milioni di chilometri percorsi, devo finire a prendere una bastonata in testa da un tassista solo per il lavoro che ho scelto di fare?».
Giuseppe Dalzini, milanese, è stato un tassista e dal 2017 ha iniziato a lavorare come autista Ncc, i mezzi a noleggio conducente.
Venerdì 19 luglio, nel pomeriggio, un diverbio stradale con un tassista per un sorpasso, lungo la superstrada che porta a Malpensa, è sfociato in un’aggressione da parte di quest’ultimo davanti al parcheggio delle auto di servizio dell’aeroporto da poco battezzato «Silvio Berlusconi», come raccontato dal quotidiano il Giorno, e confermato dallo stesso Dalzini, che lunedì 22 luglio dovrà riferire dell’episodio davanti alla Commissione disciplinare della categoria.
«Ci tengo a dire che sono sceso dalla mia vettura con l’intenzione di parlare, anche per continuare a mandarci al diavolo, ma mai ho pensato di menare le mani. Questo invece è sceso con un bastone di legno, una specie di appendiabiti». I primi due colpi non vanno a segno, il terzo sì: «So schivare perché pratico karate (sono arbitro mondiale) e kick boxing, ma non uso queste cose fuori dal loro contesto. Mi sono caduti gli occhiali da vista che uso per anche per guidare, e rialzandomi ho preso una bastonata dietro l’orecchio».
Si apre un taglio di circa 3 centimetri, che inizia a sanguinare copiosamente: «Ho sentito caldo sul collo, e ho visto che anche l’altro si è spaventato perché ne perdevo parecchio, mi sono limitato a chiedergli se fosse impazzito, intorno a me non sentivo commenti amichevoli, c’erano altri tassisti, frasi tipo “ecco un altro uberino, dovete morire Ncc di m…”».
Dopo le prime cure della guardia medica, e l’intervento di una pattuglia della guardia di finanza, tra i due arriva un primo chiarimento.
Dalzini ha la facoltà di fare denuncia, condizione necessaria per un eventuale seguito giudiziario, ma intanto deve riferire davanti all’organo disciplinare: «Forse l’episodio si sarebbe potuto chiudere lì, ma l’uomo che mi ha colpito deve “ringraziare” i suoi colleghi che hanno diffuso la mia foto sanguinante».
Intanto resta una certa amarezza e qualche giornata di lavoro persa: «Oggi avrei avuto un viaggio con un cliente, ma non me la sento di fare 600 chilometri in queste condizioni. Non capisco questa situazione, tempo fa sono stato insultato mentre facevo scendere dei passeggeri, ancora a Malpensa, ho fatto il camionista, il tassista e dal 2017 ho scelto liberamente di prendere la licenza Ncc, sono sempre reperibile, ho sempre fatturato tutto, pago le tasse e mi sento dire “ecco un altro abusivo”».
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 21st, 2024 Riccardo Fucile
FORZA ITALIA: “COSTITUIRSI PARTE CIVILE”… FDI: “CONDANNA SENZA SE E SENZA MA”… ANPI: “PIANTEDOSI INERTE”
“Esprimo solidarietà e vicinanza ad Andrea Joly, giornalista de La Stampa che stanotte a Torino è stato aggredito e picchiato da militanti di Casa Pound solo per averli ripresi col cellulare mentre, fuori da in locale, festeggiavano un loro anniversario. Ma esprimo anche grande preoccupazione per il clima di impunità che continuiamo a registrare di fronte a episodi così gravi: cos’altro dobbiamo aspettare perchè vengano sciolte, come dice la Costituzione, le organizzazioni neofasciste? Chiediamo alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di intervenire immediatamente”. Scrive in una nota la segretaria del Pd Elly Schlein.
«Fratelli d’Italia ha nel suo Dna il fermo rifiuto della violenza politica ed esprime quindi senza se e senza ma la condanna di quanto successo al giornalista de La Stampa, cui va la solidarietà del partito». Tra le condanne per l’aggressione a Andrea Joly da parte di militanti di Casa Pound c’è quella della vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Augusta Montaruli, e dell’assessore regionale Maurizio Marrone.
Solidarietà è stata espressa anche dalla capogruppo di Forza Italia, Federica Scanderebech, che fa una richiesta ben precisa al sindaco di Torino, Stefano Lo Russo: «La città di Torino si costituisca parte civile per fare chiarezza su quanto avvenuto e stare accanto al giornalista vittima di aggressione. La libertà d’informazione non deve mai subire intimidazioni. Solidarietà a Joly e auguri di pronta guarigione».
La condanna del sindaco di Torino
Sull’episodio è intervenuto anche il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo: «Esprimiamo solidarietà al giornalista del quotidiano La Stampa che stanotte è stato aggredito da alcune persone vicine a Casa Pound mentre cercava di documentare un evento che le vedeva protagoniste. Episodi di violenza e vile aggressione come questo, di cui mi auguro vengano accertate al più presto le responsabilità, non devono avere spazio nella nostra città. Non possono essere assolutamente tollerati e vanno condannati con fermezza, da tutte le forze politiche. La libertà di stampa è un pilastro fondamentale della democrazia e ogni attacco a chi esercita il diritto di informare è un attacco ai valori democratici stessi».
E in mattinata è arrivata anche la condanna del governatore del Piemonte, Alberto Cirio: «Desidero esprimere piena solidarietà al giornalista e a tutta la redazione per l’aggressione subita. La violenza è inaccettabile e va condannata sempre e con nettezza, da qualsiasi parte provenga, e mi auguro che vengano presto accertate le responsabilità. Al cronista Andrea Joly che conosco personalmente e di cui apprezzo il lavoro, ho voluto confermare poco fa il mio incoraggiamento e gli auguri di pronta guarigione oltre alla garanzia che, per parte nostra, la libertà di stampa sarà sempre considerata un caposaldo della nostra democrazia e difesa da ogni attacco».
Avs chiede di sciogliere Casa Pound
«L’aggressione ad Andrea Joly, al quale va la nostra solidarietà – dicono l’assessore Jacopo Rosatelli e le consigliere comunali Alice Ravinale e Sara Diena di Alleanza Verdi Sinistra – mostra che la pericolosità dei gruppi neofascisti, per quanto minoritari, non può essere sottovalutata. Le associazioni nostalgiche del fascismo vanno sciolte, perché sono un pericolo per la nostra democrazia: il fatto che abbiano preso a calci un giornalista che faceva il suo mestiere in strada ne è, purtroppo, un chiarissimo esempio. È importante che i responsabili delle violenze siano identificati e sottoposti ai doverosi accertamenti giudiziari per evitare che negli ambienti dell’estrema destra possa attecchire una sensazione di impunità e di “licenza di agire”».
E ancora: «L’episodio di ieri nella nostra città è solo l’ultimo di una serie che deve assolutamente finire». Con loro anche il vice capogruppo alla Camera di Avs, Marco Grimaldi: «Dopo le aggressioni a studenti, militanti di sinistra, coppie gay, ora arrivano quelle ai giornalisti. Ci deve scappare il morto per iniziare ad andare oltre a qualche dichiarazione di circostanza? Esprimiamo forte preoccupazione per il clima che cresce nel Paese, in cui le organizzazioni che si richiamano al fascismo si sentono legittimate all’uso della violenza . Oltre a esprimere la nostra solidarietà ad Andrea Joly, aggredito mentre faceva il suo lavoro, chiediamo a tutte le istituzioni e al Governo di procedere allo scioglimento delle organizzazioni che si macchiano del reato di apologia di fascismo».
M5S: “Una vile aggressione”
«Esprimiamo la nostra più profonda solidarietà e vicinanza al giornalista Andrea Joly, vittima di una vile aggressione da parte di militanti dell’estrema destra di Casa Pound mentre ne stava documentando il raduno per “La Stampa». Consì numerosi esponenti del Movimento Cinquestelle, compresa l’ex sindaca Chiara Appendino, sull’aggressione di Andrea Joly.
«Non si deve minimizzare l’ennesimo subdolo attacco alla libertà di stampa e al diritto di informazione, principi fondamentali su cui si basa la nostra democrazia. La violenza contro i giornalisti è un gesto inaccettabile che mina la libertà di espressione e il diritto dei cittadini a essere informati» hanno scritto gli esponenti dell’M5S.
«Colpire un giornalista significa colpire la verità e la trasparenza, valori imprescindibili per una società libera e democratica. Chiediamo alle autorità competenti di fare piena luce sull’accaduto e di assicurare alla giustizia i responsabili di questo atto intimidatorio».
Conte (M5S): “Fortificare gli anticorpi democratici”
Questo il messaggio inviato dal leader del M5S; Giuseppe Conte, al direttore de La Stampa: «L’aggressione squadrista subita da Andrea Joly, giornalista del quotidiano La Stampa, dimostra ancora una volta la necessità di fortificare ogni giorno gli anticorpi democratici per combattere odio, intolleranza e violenza intolleranza di stampo neofascista. È un episodio grave e inaccettabile, ma non si tratta di un caso isolato: i campanelli di allarme su alcune derive antidemocratiche nel nostro Paese hanno già suonato più volte. Alla politica e alle forze sane il compito di intervenire per mettere fine a questi deliranti rigurgiti di arroganza e violenza. A Joly e a tutta la redazione la solidarietà mia e del @Mov5Stelle».
Anpi: “Un clima di squadrismo strisciante”
«L’aggressione da parte di militanti di CasaPound al cronista della Stampa Andrea Joly, a cui va la nostra solidarietà, rivela un clima di squadrismo strisciante che da tempo sta montando. È ora di sciogliere le organizzazioni neofasciste. È sconcertante l’inerzia del ministro Piantedosi. Chiuda subito il circolo neofascista di Torino “Asso di bastoni” e finalmente la centrale operativa di CasaPound a Roma, un intero stabile occupato abusivamente da CasaPound fin dal 2003». A dirlo è Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale dell’Anpi.
(da agenzie)
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