Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
MARINA E PIER SILVIO L’AVEVANO DIFESA ANCHE CON IL PADRE, ORA LA ROTTURA E LA SCELTA DI INVESTIRE SU UNA NUOVA FORZA ITALIA
Questa non è soltanto una storia di volti nuovi e restyling di Forza Italia. È uno scontro di potere sotterraneo a tratti brutale. Di interessi finanziari ingenti. Di telefoni che squillano a vuoto. Di ritorsioni, sgarbi e veleni. È soprattutto – riferiscono fonti vicine ad Arcore – il racconto di un disincanto inconfessabile, ma progressivo e inarrestabile: quello verso Giorgia Meloni della famiglia Berlusconi. Che non crede più nella presidente del Consiglio, o almeno: non come prima. Che facendosi interprete di un’ansia che investe mondi produttivi (e in particolare quello lombardo) considera prioritaria la stabilità del sistema e teme alcuni recenti strappi politici della premier con l’Europa. Ecco perché nelle ultime settimane Antonio Tajani – indebolito perché al centro di un fuoco incrociato tra due colossi, uno imprenditoriale e l’altro politico – si è esposto almeno cinque volte pubblicamente per segnalare un rischio: se l’Italia rompe con Bruxelles, i mercati finiranno per aggredire l’Italia già in autunno.
«Proprio tu?»: così inizia la rottura tra la famiglia e Palazzo Chigi
In politica, nulla è personale, quindi tutto è personale. E dunque, la foto sul sagrato del Duomo di Milano di fronte al feretro di Silvio Berlusconi è l’ultimo momento di autentica sintonia privata tra la famiglia e Meloni. Pier Silvio e Marina difendono da tempo la leader, anche a dispetto del patriarca: attorno alla figura di “Giorgia” padre e figli discutono, anche animatamente, nel 2022.
Con la morte del fondatore, c’è da mettere in sicurezza un governo appena nato. Forza Italia è un partito in disfacimento, destinato a confluire in Fratelli d’Italia. Poi succede qualcosa, sempre alla voce: interesse. Il primo segnale lo notano in pochi: l’esecutivo cancella il bonus cultura voluto da Matteo Renzi, danneggiando tra gli altri anche Mondadori. «Proprio questo governo doveva farlo?». Poi, dal nulla, il cataclisma. La premier annuncia unilateralmente la misura sugli extraprofitti, che fa infuriare l’azienda. Tajani finisce stritolato tra i Berlusconi e Palazzo Chigi. Marina attacca. Il vicepremier intanto reagisce, la misura verrà infine svuotata. Ma il conflitto sotterraneo mai più si arresterà.
A fine ottobre, due fuori onda di Striscia la Notizia affossano Andrea Giambruno, il compagno di Meloni, provocando la fine del rapporto. L’ira della leader è incontenibile, come i sospetti attorno al programma e al suo editore (è proprio di ieri una precisazione dell’ufficio stampa di Striscia a Dagospia, in cui si afferma che «non c’è stato nessun complotto e ingerenza di Mediaset nella scelta di trasmettere i fuorionda»).
Marina frena Pier Silvio. I timori di un blitz
C’è un momento del 2023, dunque, in cui i fratelli Berlusconi sembrano decisi a chiudere il partito, sfruttando il rapporto diretto tra azienda e Meloni. Ma l’idillio si infrange sugli interessi concreti. La linea cambia. I Berlusconi tengono in piedi FI con quasi cento milioni di fidejussioni. I rapporti con Palazzo Chigi, intanto, peggiorano.
Tra marzo e aprile 2024, la svolta: la famiglia – e diversi manager dell’azienda – donano nuove risorse a FI. Ossigeno, ma soprattutto un segnale: investiamo in questo asset. Il sorpasso ai danni della Lega alle Europee certifica che può sopravvivere. Ma non basta, perché Pier Silvio Berlusconi si lascia tentare da un antico desiderio: impegnarsi personalmente in politica. Ne parla con la sorella, si apprende da fonti vicine alla famiglia, ma subito emerge un problema: dovrebbe vendere le aziende. Non siamo nel 1994, esistono ostacoli legislativi europei. E poi, gli ricorda Marina, esporrebbe troppo le imprese. Ma c’è di più, a motivare la prudenza: c’è la sensazione che il ciclo di Meloni sia in fase discendente. Peggio: nel mondo imprenditoriale circolano indiscrezioni secondo cui la premier potrebbe anticipare le elezioni per sfuggire al logoramento. Conviene dunque metterci la faccia, se il centrodestra è a rischio alle prossime elezioni? No, non adesso. Ma bisogna essere pronti a tutto, anche a un blitz di FdI. Il piano è rafforzare il partito. E mettere pressione all’esecutivo, perché le tensioni intanto crescono.
I veleni per l’operazione canone
Pier Silvio invoca un volto in grado di conquistare l’area moderata. In privato, si espone anche di più, sostenendo che Tajani non potrà essere quel leader che ha invocato dal palco. Seguono tensioni e un pranzo riparatore, presente anche Gianni Letta (a lungo critico con Meloni, ultimamente un po’ meno).
Perché Berlusconi Jr. sceglie questa strada? È un segnale al governo, ancora una volta. Il frutto di un braccio di ferro che ha provocato nell’ultimo mese due scontri tra la famiglia e Palazzo Chigi.
Il primo: Marina si dice più in sintonia con la «sinistra di buon senso» se si parla di diritti Lgbtq+, aborto e fine vita, Meloni le replica indirettamente in Aula alla Camera attaccando i grillini che si aggrappano a «diritti e aborto» perché «a corto di argomenti».
Ma il momento peggiore si verifica quando Matteo Salvini presenta una proposta per ridurre il canone Rai: l’effetto sarebbe quello di incrementare la raccolta pubblicitaria di Viale Mazzini e aumentare la concorrenza con Mediaset. Meloni tace, dando ordine ai suoi uomini di fare altrettanto. Il sospetto è che ci sia il suo via libera, dietro all’operazione.
Nel frattempo, il leghista si produce in un pesante sgarbo alla famiglia Berlusconi, organizzando il blitz per intitolare Malpensa al Cavaliere senza coinvolgere Arcore. Anche in questo caso, Palazzo Chigi lascia fare.
La Germania, i soci, il futuro
Marina frena dunque Pier Silvio, almeno per il momento. Ma se volesse scendere in politica, dovrebbe liberarsi dell’impresa. In questo senso, non bisogna trascurare un’altra partita aperta, quella tra Mediaset e i tedeschi della ProsiebenSat, di cui l’italiano detiene il 29% ed è vicino alla quota di controllo. Come in ogni grande risiko, il rapporto teso tra il governo italiano e quello tedesco potrebbe non aiutare. Meloni, intanto, osserva. E sospetta. Non le piace, raccontano fonti a lei vicine, l’atteggiamento degli eredi di “Silvio”. A loro imputa in privato un modus operandi codificato: alzano il prezzo (e la tensione) per pesarsi, e pesare. Grande è la confusione sotto il cielo.
(da repubblica.it)
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Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
LA PREMIER TEME CHE LO SCONTRO POSSA ANDARE AVANTI E COMPROMETTERE I PROVVEDIMENTI DA VARARE
A Palazzo Chigi c’è aria di ultimatum. Giorgia Meloni è irritata a dir poco per lo scontro tra i due vicepremier, che continua a crescere di intensità. Per la premier la diversità di vedute (e di voti) sulla collocazione in Europa è una ricchezza anche sul piano interno, ma il continuo duello e i toni aggressivi che oppongono leghisti e forzisti rischiano di ripercuotersi sulla tenuta del governo e questo la presidente del Consiglio certo non può consentirlo. Ad accrescere l’irritazione della premier è il fatto che l’ultima aspra contesa tra Matteo Salvini e Antonio Tajani arriva dopo un severo altolà, che la leader della destra aveva recapitato ai due vice all’indomani del voto di Strasburgo.
«Adesso è più che mai importante non dividersi, lavorare con la massima unità al programma di governo e dare un’immagine di compattezza, evitando polemiche inutili e non prestando il fianco agli alleati», è il senso del messaggio che la premier aveva inviato ad «Antonio» e a «Matteo» dopo il verdetto europeo sulla riconferma di Ursula von der Leyen. Un voto che ha certificato la spaccatura dell’alleanza. Ebbene, i due leader di Lega e Forza Italia hanno promesso alla premier che avrebbero abbassato i toni, ma appena due giorni dopo la rivalità ha ripreso il sopravvento.
Il ministro dei Trasporti non ha digerito l’accusa di essere «irrilevante» in Europa con i Patrioti di Le Pen e Orbán e ha rinfacciato al suo omologo di aver votato «con la Schlein per una poltrona». A quel punto Tajani ha colpito duro a sua volta, ricordando a Salvini che gli eurodeputati leghisti si sono espressi, su «Ursula», come i suoi più acerrimi avversari: Ilaria Salis, Nicola Fratoianni e Carola Rakete.
Lo scontro continuerà. E la premier lo ha capito, tanto da aver incaricato il vicecapogruppo di FdI al Senato, Raffaele Speranzon, di lanciare forte e chiaro l’ultimatum dei meloniani: è ora che Salvini e Tajani la smettano di far roteare gli stracci, altrimenti nella sala comandi di Palazzo Chigi metteranno il dito sul tasto «tutti a casa».
Non è la prima volta che Giorgia Meloni avvisa gli alleati e il leitmotiv suona così: «Non sto qui per scaldare la sedia». A questo punto un vertice a tre Meloni-Salvini-Tajani si impone. A Palazzo Chigi c’è preoccupazione per i tanti decreti ancora da convertire in corsa. Per scongiurare inciampi in Aula su provvedimenti come il Codice della strada, il disegno di legge sulle carceri e il ddl sicurezza, l’alleanza non può perdere pezzi (cioè voti) e deve evitare il continuo sventolio di bandierine che finisce per rallentare i lavori.
Certo il clima è torrido e il capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti evoca il rischio di dover resettare la maggioranza: «Tajani e Salvini? Sanno bene entrambi che il voto nel Parlamento europeo ha un significato politico del tutto diverso rispetto al voto di fiducia nel Parlamento italiano». Quanto alla diversità di vedute sulle alleanze a Strasburgo, Foti ricorda che anche a sinistra hanno i loro problemi: «Per una Schlein che vota la popolare von der Leyen, ci sono i deputati di Conte e Fratoianni che non la votano, così come non l’avrebbe votata Renzi». C’è un piccolo particolare che di certo al presidente dei deputati meloniani non sfugge e cioè che il centrosinistra è all’opposizione, mentre le divisioni della maggioranza in Europa (e in Italia) rischiano di ostacolare la velocità e l’efficienza del governo.
Tra i ministri e i dirigenti di FdI la lettura condivisa è che la premier sia «furibonda» soprattutto con Salvini, che l’ha pressata per tutta la campagna elettorale europea e continua a farlo un giorno sì e l’altro pure. Raccontano che anche Tajani sia a dir poco stufo dei tweet e dei post di leghisti e alleati vari, in cui il leader di Forza Italia viene dipinto come un «traditore che si allea con i comunisti» per aver votato von der Leyen. La competizione elettorale è fortissima.
A sentire un’autorevole fonte di governo, di rito meloniano, «Matteo Salvini ha il problema del generale Vannacci che è stato scaricato dai Patrioti e Antonio Tajani subisce il pressing dei figli di Berlusconi, e quindi per restare in piedi nei sondaggi i due sono costretti a battibeccare». Gli ultimi termometri del consenso danno in crescita Forza Italia e in calo la Lega.
(da agenzie)
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Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
INVECE DI INVESTIRE NEI COLLEGAMENTI DELLA RETE FERROVIARIA DEL SUD IL GOVERNO PENSA A SPUTTANARE SOLDI CON IL PONTE SULLO STRETTO
Trenitalia consiglia ai viaggiatori di riprogrammare i loro spostamenti verso il Cilento (Salerno), dato che raggiungere la regione sarà particolarmente complicato.
Fino a venerdì, salvo ulteriori imprevisti, la tratta ferroviaria Tirrenica sarà interrotta a causa del deragliamento di un convoglio merci a Centola avvenuto all’incirca due settimane fa.
«Una vera mazzata», la definisce il sindaco di Camerota, Mario Salvatore Scarpitta, «per una terra già afflitta da problemi di comunicazione. È un duro colpo in piena estate, quando c’è da lavorare con il turismo».
Per i prossimi quattro giorni, riporta la Repubblica, le famose mete turistiche di Palinuro, Camerota, Ascea, Pollica, Acciaroli e altre località saranno inaccessibili via treno.
Trenitalia offre un rimborso se non vai
Da oggi, chi viaggia da nord dovrà fermarsi a Battipaglia, mentre chi arriva da sud si fermerà a Sapri, con la necessità di proseguire il viaggio in autobus sostitutivi. Trenitalia offre anche un rimborso per chi decide di annullare il viaggio.
«Se non vogliamo che la gente abbandoni il territorio, dobbiamo migliorare i trasporti. Attualmente, alcune strade sono impraticabili e il metrò del mare funziona a singhiozzo. La sospensione dei treni aggrava ulteriormente la situazione», incalza il sindaco Scarpitta.
Della stessa linea anche il primo cittadino di Pollica, Stefano Pisani, che a sua volta evidenzia le conseguenze negative: «Quest’anno, insieme a Castellabate, avevamo lanciato il progetto “Cilento in treno”, che includeva Frecciarossa e Freccialink per raggiungere la zona con agevolazioni offerte dagli operatori turistici. Questo stop arriva in un momento critico, poco dopo l’avvio del Metrò del Mare».
L’interrogazione parlamentare
Nel frattempo, si mobilita anche la politica con il vicepresidente della commissione trasporti della Camera dei Deputati, Andrea Casu, che ha presentato un’interrogazione Matteo Salvini, ministro dei Trasporti e vicepremier, e Daniela Santanchè, ministra dl Turismo.
Trenitalia precisa che da venerdì 26 luglio, Frecce, Intercity e treni regionali dovrebbero riprendere gradualmente a circolare sulla tratta Battipaglia-Sapri. Tuttavia, l’offerta di collegamenti tra Campania e Calabria sarà ridotta, e i treni potranno subire ritardi o cancellazioni. Intanto, la Procura di Vallo della Lucania ha aperto un’inchiesta sull’incidente, che ha visto sei carrozze deragliare e danneggiare parte della banchina della stazione di Centola. Alcuni dei container trasportati contenevano materiali pericolosi, e si ipotizza che il sovraccarico del treno merci possa aver causato il deragliamento.
(da agenzie)
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Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL RACCONTO DEL GIORNALISTA
Andrea Joly è il giornalista de La Stampa aggredito a Torino fuori da un locale a San Salvario. Due dei presunti autori dell’aggressione sono stati individuati e denunciati dalla polizia. Il giornalista passava davanti a L’Asso di Bastoni mentre era in corso «La Festa della Torino Nera».
Ha iniziato a girare un filmato. A quel punto alcune persone gli hanno intimato di consegnare il telefono. Poi lo hanno preso a spintoni e calci. I due fermati sono militanti di Casapound. Per entrambi è in arrivo la denuncia per lesioni personali con l’aggravante di aver agevolato l’attività di organizzazioni e gruppi che hanno tra i loro scopi la discriminazione o l’odio etnico, razziale o religioso. Joly ha raccontato su La Stampa e in un’intervista a Repubblica i dettagli dell’aggressione.
«Oh, ‘sti video?». «Cancella le foto»
Alle 23,57, dopo il suo arrivo nel locale, Joly comincia a girare filmati e a scattare foto quando due ragazzi presenti al raduno lo fissano e poi si avvicinano a lui. «“Oh ’sti video?”. “Sei con noi?”. “Cancella le foto”. Sento i loro corpi avvicinarsi, toccarmi, la mano che ha afferrato lo schermo non sembra voler mollare la presa. Tutto si fa veloce, anche io. Sposto lo smartphone, arretro, uno dei due urla «Marco! Marco!». Sento la tensione salire, com’è appena accaduto dentro al circolo. Ma questa volta non si ferma. Mi giro, faccio due passi. Sento arrivare un calcio da dietro. Sono a terra. Non sento nessun dolore, non sento niente: anestesia totale. Intorno a me urla irriconoscibili, presenze che si moltiplicano. Mi alzo, ma sono di nuovo a terra. Lo smartphone è volato via, vedo lo schermo illuminato. Mi allungo, lo stringo, intorno a me continuo a percepire colpi che non sento arrivare. Ma arrivano».
Molto giovani, sulla trentina
Joly dice a Repubblica che i suoi aggressori erano «molto giovani, sulla trentina, un po’ più grandi di me (ha 28 anni, ndr)». Non sono riusciti a strappargli il cellulare perché lo ha sempre tenuto stretto: «Però mi sono venuti addosso e sono caduto quasi subito. Lo smartphone mi sfugge, ma poi lo riprendo con uno scatto. Cado ancora, non faccio nemmeno due passi. Provo ancora a rialzarmi ma non riesco. Da terra ho sentito arrivare i colpi, senza però rendermi bene conto. Provavo dolore, naturalmente, e avevo l’istinto di ripararmi». A quel punto sente qualcuno che gli cinge il collo da dietro: «Mi toglie il respiro. Non perdo conoscenza ma ho una chiara sensazione di soffocamento. Per mia fortuna riesco a liberarmi e a scappare. Stavolta senza cadere».
La fuga
Poi c’è il racconto della fuga: «Corro per un paio di isolati per raggiungere l’auto che avevo parcheggiato non troppo vicino da lì. Intanto, dai balconi sento qualcuno che grida “lasciatelo stare”, ma è tutto confuso: ho ritrovato il filo guardando i video degli altri».
Ora si sente «tutto intero, senza nulla di rotto, soltanto qualche ammaccatura. Ho ferite a un gomito e alle ginocchia, conseguenza, credo, delle cadute, ma insomma è andata bene. Prima di raggiungere il pronto soccorso ho preferito passare da casa, ero molto scosso, volevo farmi una doccia per togliermi il sangue di dosso. Poi ho chiamato i miei capi al giornale, e loro mi hanno detto di andare subito all’ospedale. Alle Molinette sono stati molto gentili, mi hanno visitato rispettando le urgenze, e verso le sei di mattina sono tornato a casa».
(da La Stampa)
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Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
I DUE NON SONO NEPPURE RAGAZZINI, HANNO 53 E 45 ANNI, CONTESTATA L’AGGRAVANTE DI “ORGANIZZAZIONI CHE PROMUOVONO ODIO E DISCRIMINAZIONE”
Continua il lavoro degli investigatori della digos della Questura di Torino per identificare i militanti di estrema destra che sabato sera hanno partecipato all’aggressione del giornalista de La Stampa Andrea Joly, in via Cellini, quartiere San Salvario, durante la sera per i 16 anni del circolo Asso di Bastoni.
La polizia aveva già identificato due volti noti di Casa Pound Torino. Si tratta di un 45enne e un 53enne, riconosciuti nel pomeriggio di ieri anche dalla vittima dell’aggressione. Sono stati denunciati per violenza privata, lesioni personali con l’aggravante del reato commesso “per agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi” che abbiano tra i loro scopi la “discriminazione o l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso”.
Entrambi gli identificati avrebbero precedenti legati alla loro attività politica.
Il giornalista era stato accerchiato da almeno sette persone e gli investigatori sono arrivati ai due dopo aver visionato i video sia del cronista che dei residenti della zona che hanno assistito alla scena filmandola con i telefonini.
“Non bastano le condanne di circostanza che vengono dal governo e dalla maggioranza, che, per lo più, omettono persino l’uso del termine ‘fascisti’ per indicare gli autori di pestaggi, aggressioni, violenze”.
È quanto scrivono Alessandra Agostino, docente universitaria, e Livio Pepino, magistrato in pensione, portavoce del Coordinamento antifascista Torino.
Qui, si legge nella nota, “le violenze e le prevaricazioni fasciste, dall’Università ai territori, sono all’ordine del giorno, con la tolleranza di fatto delle forze dell’ordine. E in Italia i rapporti tra le organizzazioni dell’estrema destra fascista con Fratelli d’Italia e, da ultimo, anche con la Lega sono conclamati e confermati da inchieste e reportage giornalistici, mentre i saluti, i gesti, gli slogan del fascismo approdano finanche nelle sedi istituzionali”.
(da agenzie)
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Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
CHARLES KUPCHAN, EX CONSIGLIERE DI OBAMA, È OTTIMISTA: “BATTERE TRUMP È FATTIBILE. KAMALA DEVE SCEGLIERE COME VICE UN UOMO GOVERNATORE BIANCO DI UNO STATO CHIAVE”
Dopo il passo indietro del presidente, l’attenzione è concentrata sui sondaggi. Al suo posto Kamala Harris, che lui ha indicato come sua scelta per prendere il suo posto sul ticket.
Da tempo i sondaggisti immaginavano questo scenario e, solo nelle ultime tre settimane, sono state pubblicate undici rilevazioni sulla sfida tra la vicepresidente e Trump.
Solo in due la democratica è data vincente — una di Abc News e Washington Pos t, condotta tra il 5 e il 9 luglio; e una di Npr / Pbs / Marist , del 9 e 10 luglio — nelle altre il repubblicano è in vantaggio con un margine che va da uno a sei punti.
La media parla chiaro: Trump 48,2 per cento, Harris 46,3 per cento. Un margine non insormontabile, anche se va tenuto presente che un nuovo ticket democratico non c’è ancora.
La priorità ora è una, continua Kupchan: «Mettere insieme due candidati che possano sconfiggere Trump, ufficializzare la loro nomina e poi buttarsi in campagna elettorale».
Sarà fondamentale individuare un nome adatto per affiancare Harris: «Credo che la scelta migliore sia un uomo governatore di uno Stato chiave. Di nomi ne sono circolati, e ne circolano, tanti: Josh Shapiro della Pennsylvania, Roy Cooper della North Carolina, Andy Beshear del Kentucky, J. B. Pritzker dell’Illinois. C’è anche Gretchen Whitmer del Michigan, o Gavin Newsom della California. La cosa importante è che si arrivi a definire un ticket prima della convention».
Battere Trump «è assolutamente fattibile», conclude Kupchan, secondo il quale i democratici devono puntare a convincere gli elettori indipendenti e i repubblicani moderati: «In Stati decisivi come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin la campagna dovrà concentrarsi in particolare sulle elettrici sensibili a un tema come l’aborto e non disposte a votare Trump per quello che rappresenta. È vero, l’inerzia della sfida è dalla sua parte; ma è anche un criminale condannato che ha cercato di ribaltare il risultato del voto nel 2020. In pratica: può essere battuto».
(da agenzie)
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Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
LA VERITA’ E’ CHE I GIOCHI ORA SI RIAPRONO, AVRA’ IMPORTANZA ANCHE PER KAMALA LA SCELTA DEL VICE
La decisione senza precedenti del presidente Joe Biden di ritirarsi dalla corsa per la rielezione in un momento così avanzato della campagna elettorale USA e di sostenere la candidatura alla presidenza dell’attuale vicepresidente Kamala Harris ha già scosso profondamente lo scenario politico americano, alla fine di un mese che era stato già pieno di colpi di scena.
Tale decisione potrebbe rappresentare un serio ostacolo per Donald J. Trump nella sua marcia verso un ritorno alla Casa Bianca che sembrava inarrestabile fino a poche ore fa, soprattutto dopo il fallito tentativo di assassinio e l’apparente implosione democratica di queste settimane.
Le novità dell’ultimo minuto con l’improvviso cambio della candidatura democratica introducono, infatti, nuove dinamiche nella campagna elettorale, che potrebbero consentire di riaprire una competizione che molti davano troppo frettolosamente come già per scontata.
Cosa succede adesso
Avendo ottenuto l’endorsement di Biden e di buona parte dei principali esponenti del partito nelle ore successive, tutto lascia pensare che Kamala Harris diventerà con tutta probabilità la candidata democratica per la presidenza. La campagna di Biden ha già trasferito i suoi quasi 96 milioni di dollari di fondi sotto il nome di Harris, rinominando ufficialmente il comitato elettorale in “Harris for President”.
Al momento non esiste neppure un vero e proprio rivale alla candidatura di Harris per la presidenza. Solo il senatore indipendente uscente della West Virginia, Joe Manchin, sta pensando di tornare a registrarsi come democratico per sfidare Kamala Harris per la candidatura a presidente, ma la possibilità che possa davvero impensierirla è veramente remota.
Tuttavia, non tutti i leader del partito hanno ancora dato il loro endorsement alla Harris. Al momento, ad esempio, manca quelllo di due pezzi da novanta come l’ex presidente Barack Obama (e sua moglie Michelle) così come della Speaker Emerita Nancy Pelosi, che ha avuto un ruolo chiave dietro le quinte per arrivare alla decisione di Biden di farsi da parte.
Inoltre, il processo di nomina del candidato presidente non è automatico: i delegati democratici dovranno scegliere formalmente il candidato nel voto che si terrà durante la Convention di agosto. Per questo motivo, la campagna di Harris ha già iniziato a contattare i leader del partito e i delegati per assicurarsi il loro sostegno.
La Convention Nazionale Democratica, prevista per il 19-22 agosto, diventa ora il fulcro di questo processo. Ecco come potrebbe svolgersi
Con Biden fuori dalla corsa, i delegati che gli erano stati vincolati durante le primarie sono ora sostanzialmente liberi di sostenere altri candidati. Tuttavia, i delegati sono tenuti a votare “in buona coscienza” riflettendo i sentimenti di coloro che li hanno eletti, il che potrebbe influenzare le loro scelte, considerando che formalmente sono stati eletti per rappresentare il ticket Biden-Harris.
Si aprirà probabilmente una finestra temporale per permettere ad altri candidati di presentare formalmente la propria candidatura. Durante la Convention, i delegati voteranno per scegliere il nuovo candidato. Potrebbero essere necessari più turni di votazione se nessun candidato dovesse ottenere la maggioranza al primo turno. L’intento della campagna di Harris è quello di evitare che il processo di votazioni vada avanti oltre il primo turno.
Il Comitato Nazionale Democratico (DNC) avrà un ruolo cruciale nel guidare questo processo e potrebbe cercare di costruire un consenso intorno a un candidato unitario prima della Convention per evitare una lotta divisiva (quella che si definisce come “Convention aperta”). A tal scopo, il DNC potrebbe organizzare un voto virtuale dei delegati prima della Convention per cercare di unificare il partito intorno a un candidato.
Il DNC avrà ora il compito di gestire una situazione senza precedenti nella storia recente dei democratici, cercando allo stesso tempo di mantenere l’unità del partito in vista della fondamentale scadenza di novembre. Il successo di questo processo dipenderà probabilmente molto dalla scelta del candidato alla vicepresidenza nel ticket con Kamala Harris.
Chi potrebbe essere il candidato vicepresidente di Kamala Harris
Tra i candidati più probabili per il ruolo di vicepresidente, sulla base delle indiscrezioni di stampa delle ultime ore, così come delle strategie elettorali, emergono quattro principali figure di spicco:
Josh Shapiro (Governatore della Pennsylvania, 51 anni): Democratico moderato con esperienza da Procuratore Generale del suo Stato, potrebbe aiutare Kamala Harris a vincere in uno Stato cruciale del Midwest, che resta la via principale per la vittoria dei democratici al Collegio Elettorale a novembre.
Roy Cooper (Governatore della North Carolina, 67 anni): Con esperienza bipartisan e diversi successi in uno Stato competitivo, Cooper potrebbe invece aiutare a conquistare voti nella Sun Belt, che la campagna di Biden aveva sostanzialmente già dato per spacciata nelle settimane scorse.
Mark Kelly (Senatore dell’Arizona, 60 anni): Ex astronauta con credenziali moderate su temi come l’immigrazione, potrebbe essere un candidato attraente per gli elettori di un altro Stato chiave come l’Arizona. Ma la sua candidatura rischierebbe di mettere a rischio un seggio chiave al Senato in questo Stato che non è certo facile per i democratici da riconquistare in questo ciclo elettorale
Andy Beshear (Governatore del Kentucky, 46 anni): Ha dimostrato di poter vincere in uno Stato profondamente repubblicano, e ciò potrebbe permettergli di attrarre elettori moderati e indipendenti anche altrove.
Altri possibili candidati, sebbene considerati meno probabili, includono:
Gretchen Whitmer (Governatrice del Michigan), di cui si parla molto come possibile candidata presidente per il 2028. Tuttavia, è difficile immaginare un ticket di due donne per il 2024.
Pete Buttigieg (Segretario ai Trasporti), anche lui considerato un papabile candidato per le elezioni 2028. È difficile immaginare che voglia rischiare di bruciarsi in una scommessa così rischiosa come quella delle elezioni 2024.
Tony Evers (Governatore del Wisconsin): La sua inclusione tra i papabili candidati alla vicepresidenza potrebbe aiutare Kamala Harris a vincere in un altro Stato in bilico cruciale per le elezioni nel Midwest. Tuttavia, vincere il Wisconsin senza la Pennsylvania servirebbe a poco, e in questo senso, forse la scelta di Shapiro potrebbe avere più senso.
La scelta finale di Kamala Harris dipenderà da vari fattori, tra cui la capacità di attrarre voti in Stati chiave, esperienze di governo (anche se solo a livello statale) e la complementarità con Harris in termini di competenze ed appeal demografico.
È molto probabile, comunque, che la scelta finirà per ricadere su un uomo bianco proveniente da uno Stato in bilico, per aumentare al massimo le possibilità di vittoria democratica al Collegio Elettorale a novembre
Perché la decisione di Biden riapre la battaglia in vista di novembre
Il ritiro di Biden potrebbe rimescolare le carte in vista delle elezioni di novembre e rendere più difficile la marcia di Donald Trump verso il ritorno alla Casa Bianca per una serie di motivi. Kamala Harris è più giovane di Biden di 22 anni, e questo neutralizza in buona parte gli attacchi repubblicani sull’età del candidato democratico. A 60 anni a novembre, si presenta come un’alternativa più giovane e dinamica sia di Biden che di Trump, cosa che potrebbe, almeno in parte, rovesciare il tavolo consentendo ora ai democratici di poter attaccare i repubblicani su questo stesso argomento.
Alcuni recenti sondaggi mostrano Harris posizionata più favorevolmente rispetto a Biden contro Trump in alcuni Stati chiave come la Pennsylvania. Anche a livello nazionale, in media, Harris è indietro di soli due punti percentuali, un miglioramento rispetto a Biden. Tuttavia, i sondaggi finora consideravano la candidatura di Harris alla presidenza come solo come un’ipotesi remota. Ora che si sta concretizzando sul serio, sarà interessante vedere come si muoveranno i sondaggi.
Harris potrebbe aiutare a mobilitare meglio l’elettorato afroamericano e femminile, cruciali per i democratici nelle vittorie ottenute negli ultimi cicli elettorali. La sua candidatura storica come prima donna afroamericana ed asiatico-americana potrebbe generare nuovo entusiasmo tra questi gruppi demografici che sembravano aver parzialmente abbandonato la campagna di Biden di recente.
In generale, il cambio di candidato potrebbe rinvigorire l’entusiasmo dell’elettorato democratico, offrendo una nuova narrativa e una visione fresca per il futuro del Paese che sembravano mancare. La candidatura di Harris potrebbe inoltre spostare il focus del dibattito su temi diversi, potenzialmente più favorevoli ai democratici, come i diritti delle donne e l’aborto.
Come già anticipato, la scelta del candidato vicepresidente potrebbe rafforzare ulteriormente il ticket in Stati in bilico, aggiungendo esperienza regionale o appeal demografico. Infine, in qualità di ex procuratrice generale della California, Harris potrebbe contrastare più efficacemente di Biden l’immagine di Trump come candidato “law and order” e rimettere al centro del discorso la condanna ottenuta da Trump al processo di New York per aver falsificato i registri aziendali per coprire il pagamento in nero ad una pornostar, Stormy Daniels, in cambio del silenzio, così come gli altri problemi legali dell’ex presidente legati in particolare alla sua gestione del post elezioni 2020 e il tentativo di ribaltare il risultato delle elezioni che ha portato poi alla insurrezione fallita del 6 gennaio 2021.
Insomma, tutto lascia pensare che la corsa presidenziale del 2024 sia tornata improvvisamente ad essere più incerta e combattuta. Se Trump sembrava avere un vantaggio ormai significativo su Biden, il suo ritiro dalla corsa per la presidenza e la quasi certa candidatura di Harris al suo posto sembrano essere in grado di riaprire i giochi.
La capacità di Harris di poter mobilitare nuovamente gruppi chiave dell’elettorato democratico e di presentarsi come un’alternativa più giovane e dinamica potrebbe rappresentare una chiara minaccia per le ambizioni di Trump di tornare alla Casa Bianca.
La sensazione che filtra anche da ambienti di stampa è che molti elettori democratici fossero ormai rassegnati alla sconfitta elettorale, ma dopo la decisione annunciata da Biden è tornata la speranza di potersela giocare nuovamente a novembre, sebbene l’ex presidente Trump resti favorito per la vittoria. Ciò è confermato anche dall’ondata di donazioni, grandi e piccole, seguita all’annuncio della decisione.
Nelle prossime settimane sarà cruciale per Kamala Harris cercare di convincere gli americani di essere in grado di governare il Paese dal Day One, nonché di unire il Partito Democratico, che non è mai stato così diviso come nelle ultime settimane, per presentare una visione convincente per il futuro dell’America.
Dopo questa decisione storica e drammatica, molti democratici sperano di aver trovato finalmente la formula giusta per fermare la marcia inarrestabile di Trump verso la Casa Bianca e mantenere così il controllo della Casa Bianca per altri quattro anni. I prossimi giorni mostreranno se il loro ottimismo ha motivo di essere.
(da Fanpage)
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Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL PARTITO SI TROVA IN UNA CONDIZIONE SENZA PRECEDENTI
La decisione di Biden, arrivata a quattro settimane dalla convention democratica di Chicago e a poco più di 100 giorni dal voto di novembre, mette ora il partito in una condizione senza precedenti: nessun candidato aveva mai rinunciato a questo punto della campagna elettorale, anche perché finora era considerata una scelta politicamente suicida.
Ora i democratici dovranno fare una corsa contro il tempo per scegliere il suo successore ed evitare scene caotiche, che li condannerebbero a una sconfitta certa. La decisione più semplice sarebbe quindi seguire l’endorsement di Biden e convogliare i delegati su Harris, ma non è scontata. Pur avendo ricevuto il sostegno del presidente e di molti leader del suo schieramento, pur essendo la scelta più attesa dagli strateghi politici, Harris non otterrà infatti automaticamente la nomination.
I delegati che prenderanno parte alla convention di Chicago e che avrebbero dovuto confermare il risultato delle primarie – Biden ne aveva ottenuti oltre il 90% dei 3.900 totali – non passeranno alla vicepresidente, ma saranno liberi di votare per qualsiasi candidato vorranno: spetterà ai leader del partito, in queste quattro settimane, cercare di rimettere insieme i cocci e provare a indirizzare tutti i voti su un unico nome.
Se questo tentativo dovesse fallire, con più candidati in corsa per la nomination, allora i democratici si troveranno davanti a una convention aperta, come non succedeva dal 1968: fu dopo quella caotica assemblea di partito – che ironia della Storia si tenne proprio a Chicago – che vennero istituite le primarie moderne, con la scelta del candidato affidata al voto popolare e non più alle contrattazioni dietro le quinte.
A Chicago, quindi, si tornerebbe indietro di 56 anni: gli aspiranti sostituti di Biden dovrebbero dare battaglia per accaparrarsi il sostegno della maggioranza dei delegati, per diventare così il candidato democratico alla presidenza. Se nessuno dovesse ottenere la maggioranza al primo turno, poi, entrerebbero in gioco i 700 «super delegati», funzionari di partito e politici che influirebbero sul risultato.
Questo però è lo scenario che il partito vuole evitare a ogni costo, trovando una soluzione prima di arrivare in Illinois. Per avere l’ufficialità della nomination, in ogni caso, sarà necessario aspettare la «roll call», il voto dei delegati: potrebbe tenersi una conta virtuale prima della convention, come il partito aveva intenzione di fare per Biden, oppure tutto potrebbe avvenire a Chicago il 19 agosto.
L’altro tema spinoso è quello dei fondi elettorali. I finanziamenti raccolti da Biden non saranno girati direttamente al suo successore, neanche se fosse Kamala Harris che faceva già parte del ticket democratico: alcuni avvocati del partito sostengono che, essendo il suo nome sui documenti forniti alla Federal Election Commission, la vicepresidente potrebbe ottenere il controllo del conto corrente, ma i repubblicani ribattono che non esistono precedenti a cui affidarsi. Dopo il ritiro di Biden, stando alle regole elettorali, i soldi ancora sul conto saranno considerati «in eccesso» e potranno essere girati al partito: potrebbero però esserci limitazioni nel fornirli ad altri candidati.
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 22nd, 2024 Riccardo Fucile
IL POLITOLOGO AMERICANO: “KAMALA L’ALTERNATIVA MENO TRAUMATICA, PUO’ BATTERE TRUMP”
«Con la decisione di ritirarsi, anche se tardiva, Joe Biden mette almeno parzialmente in salvo l’eredità politica della sua presidenza che è stata di grande rilievo all’interno, mentre a livello internazionale i risultati sono stati molto meno positivi»
Mentre guida tra le vette del Montana, il politologo Ian Bremmer — sorpreso dai tempi scelti dal presidente per annunciare il suo ritiro, non dalla scelta in sé che dava per scontata da tempo — commenta la lettera di Biden arrivati agli americani via social media.
Alla loro convention i repubblicani l’hanno dipinto come uno dei peggiori presidenti della storia. Se riconquisteranno la Casa Bianca e il Congresso, cosa resterà della sua legacy? Donald Trump vuole cancellare quanto fatto da Biden.
«Trump non può cancellare la buona gestione della pandemia, l’efficacia della campagna vaccinale, l’empatia e l’efficienza del presidente in quella fase. E poi la positiva legislazione bipartisan che ha consentito di evitare la recessione e di rilanciare l’economia prima e meglio di altre parti del mondo. Nella gestione della crisi, ma anche, più in generale, con le riforme economiche, Biden è stato molto più efficace anche di Obama che era una rockstar mentre Joe non ha mai avuto carisma. Eppure è riuscito a far varare dal Congresso piani importanti per il futuro dell’America: dall’“Inflation Reduction Act” con le misure per l’ambiente e la transizione energetica al piano per le infrastrutture vitali del Paese, al “Chips Act” che dà ulteriore impulso alla ricerca nelle tecnologie più avanzate e allo sviluppo di produzioni strategiche in territorio americano. Non vedo come Trump possa disfare tutto questo, né quale convenienza ne avrebbe».
Risultati positivi che gli americani non sembrano avergli mai riconosciuto: nei sondaggi è sempre stato un presidente impopolare, anche prima che emergessero in modo evidente i problemi legati alla sua senilità.
«È vero, ma il ritiro è legato soltanto a questo peggioramento abbastanza improvviso delle sue condizioni di salute. Biden è sempre stato, anche da senatore, un personaggio internazionale, un ponte tra l’America e l’Europa, molto amato nel vostro Continente. Mi ha fatto stringere il cuore, qualche giorno fa, durante il vertice della Nato a Washington, vedere diversi leader europei emotivamente provati, addirittura smarriti nell’incontrare un vecchio amico divenuto, rispetto all’ultima volta che l’avevano incontrato, molto più fragile, lento. Lento nei movimenti e anche mentalmente. Fino al punto di non riconoscere alcuni di loro. Alcuni si sono commossi vedendo in lui segni delle stesse sindromi che hanno colpito i loro genitori».
E il Biden gestore del ruolo degli Stati Uniti nel mondo?
«Lì le cose non sono andate altrettanto bene. Nel complesso di una carriera politica durata oltre mezzo secolo, Biden è stato un collante: un fattore di stabilità e di tutela delle alleanze dell’America tanto sul fronte dell’Atlantico quanto su quello del Pacifico. Come senatore e come vice di Obama conosceva e rassicurava tutti. Ho frequentato a lungo l’annuale conferenza per la sicurezza di Monaco di Baviera: lì gli europei avevano un rapporto pieno di fiducia reciproca solo con due americani, Joe Biden e il repubblicano John McCain. Ma il bilancio internazionale dei suoi tre anni e mezzo di presidenza non è altrettanto positivo: c’è la macchia nera del ritiro dall’Afghanistan nell’estate del 2021. È vero che era necessario porre termine alla guerra più lunga della storia americana e che la trattativa con i talebani era stata già male impostata da Trump nell’ultimo anno della sua presidenza, ma le modalità di quell’uscita di scena dell’America sono state disastrose. E, poi, le due guerre attuali. Certo, Biden ha avuto il merito di tenere insieme l’Occidente nella difesa dell’Ucraina invasa dalla Russia rafforzando e ampliando la Nato, ma è anche vero che non è riuscito a mostrare una vera capacità di deterrenza nei confronti di Putin: la strategia delle sanzioni contro la Russia si è rivelata poco efficace e dopo più di due anni di guerra l’Ucraina ha perso terreno. E anche in Medio Oriente, l’America si è in un certo senso isolata in un appoggio incondizionato a Israele senza coordinarsi con gli europei né con gli alleati nel mondo arabo. Salvo, poi, dover prendere le distanze da un Netanyahu incontrollabile e spregiudicato».
Ora tocca a Kamala Harris, non più popolare di Biden.
«Ogni alternativa sarebbe ancora più traumatica. L’impopolarità è una cifra inevitabile in un Paese così diviso. Adesso i democratici hanno cento giorni di tempo per cercare di raddrizzare la situazione».
(da Il Corriere della Sera)
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