KAMALA HARRIS, DUE SCENARI E CENTO GIORNI PER PROVARE A BATTERE TRUMP
Luglio 22nd, 2024 Riccardo FucileRISCHI E BENEFICI DELL’ULTIMO ASSALTO
E adesso? Kamala Harris è già in pole position, pronta a scattare per la corsa e sicura di poter sconfiggere Donald Trump. Joe Biden le ha dato un endorsement prezioso, che vale ma non è decisivo.
Ci sono almeno due scenari da qui alla convention di Chicago che a metà agosto deve ratificare la candidatura democratica per la Casa Bianca: una transizione veloce e pressoché automatica da Biden a Harris; una convention «aperta», con più candidati e un vero dibattito, tra un mese a Chicago.
Il primo scenario sembra essersi messo in moto non appena Biden ha fatto il passo indietro annunciando il suo appoggio alla vice. Sono già arrivati altri appoggi autorevoli, se questo movimento dovesse accentuarsi potrebbe fare valanga. In questa ipotesi il partito democratico fa quadrato attorno a Kamala per risolvere il più rapidamente possibile la crisi.
Perché di crisi si tratta, non si ricorda un altro caso nella storia recente in cui un partito sia stato costretto a cambiare candidato in corsa, a soli cento giorni dal voto (senza contare che in alcuni Stati già a settembre si potrà cominciare a votare per corrispondenza).
I vantaggi di una veloce ratifica del passaggio di consegne da Biden a Harris sono appunto la brevità, per lanciare subito la nuova numero uno del ticket democratico, che deve anche scegliersi a sua volta un vice.
C’è anche un beneficio economico: è più semplice attingere ai fondi già raccolti, perché i donatori li avevano versati in un contenitore che si chiamava la campagna Biden-Harris, e uno dei due cognomi è invariato (però non è vietato travasare quei fondi ad altri eventuali candidati).
E gli svantaggi? Almeno due. Il primo si chiama Kamala. In questi quasi quattro anni, la sua immagine non è mai decollata.
I sondaggi danno risposte ambigue, e tutt’altro che esaltanti, sulla capacità di Kamala di sconfiggere Trump. Ma dimentichiamo pure i sondaggi: valgono poco.
Un tema di fondo è questo: al di là della vecchiaia Biden è impopolare perché il giudizio sulla sua presidenza è complessivamente negativo, una maggioranza di americani (compresi molti elettori democratici) pensano che la nazione sia «sulla cattiva strada».
Kamala essendo stata la numero due nell’ultimo quadriennio non può fare campagna senza prendersi la responsabilità integrale delle politiche di Biden. Non può certo improvvisare una campagna «da opposizione» né prendere le distanze da qualche aspetto della presidenza Biden. Dunque, tolto il fattore età, è in parte appesantita dalla stessa zavorra che penalizzava Joe.
I repubblicani hanno già cominciato a segnalare la loro linea d’attacco principale contro la Harris: «l’unico dossier che Biden le delegò, l’immigrazione, è stato un disastro». Di una sola cosa doveva occuparsi lei, e proprio quella cosa lì oggi è una delle ragioni per cui Trump può essere rieletto. L’immigrazione clandestina è un handicap enorme per la Harris, per più di un motivo.
La sinistra radicale, quella «no border» guidata da Alexandria Ocasio Cortez, considera Kamala una vera e propria traditrice. Al suo primo viaggio da vicepresidente in Centroamerica la Harris andò a proclamare: «Non vi vogliamo negli Stati Uniti. Restate dove siete. Vi aiuteremo a rimanere a casa vostra».
La destra l’accusa del contrario: a quelle parole non seguirono i fatti, perché gli ingressi clandestini continuarono a crescere. E questi ingressi clandestini sono una ragione per cui i democratici perdono consensi perfino tra i black e i latinos.
L’insicurezza sul controllo delle frontiere spaventa i ceti popolari, anche se di origine straniera. Inoltre la manodopera clandestina fa una concorrenza sleale sul mercato del lavoro che impoverisce proprio black e latinos. La Harris qui è vulnerabile da tutti i lati. E come dice la propaganda repubblicana: «Se ha fallito miseramente sull’unico dossier a lei affidato, figurarsi se dovesse governare tutto il resto, dall’economia ai destini del mondo».
Per finire lo svantaggio del primo scenario è che il passaggio semiautomatico è gestito dall’establishment del partito, conferma il sospetto che il partito democratico sia manovrato dalle élite.
Secondo scenario. Una convention «aperta» a Chicago – candidature multiple, dibattito e confronto reale davanti ai delegati e all’opinione pubblica – sarebbe un omaggio alla democrazia. Far fuori Kamala comunque sarà problematico. Lei fu scelta non per le sue competenze, modeste, quanto perché donna e di colore. Una sua bocciatura scatenerà accuse di razzismo e sessismo. Peraltro una sua candidatura rischia di confermare nell’America bianca – quasi il 60% degli elettori – che la sinistra difende solo i diritti delle minoranze e offende quelli della maggioranza. È una trappola in cui Biden s’infilò nel 2020 per placare l’ala radicale.
Cento giorni saranno sufficienti forse a cancellare una parte dell’effetto-attentato a beneficio di Trump. Rischiano di essere pochi per ricostruire una credibilità di Kamala, oppure per gestire con delicatezza e tatto il suo allontanamento in favore di altre o altri candidati. L’utilità di riaprire i giochi rinunciando a Biden, è che almeno l’attenzione si sposta, finalmente si parla d’altro che della sua vecchiaia o della miracolosa salvezza di Trump.
Una convention aperta avrebbe il vantaggio di mettere in scena di fronte a migliaia di delegati – in rappresentanza della base – un dibattito vero: sul futuro della sinistra, su un progetto per l’America. Dalla ricetta californiana del governatore Gavin Newsom al moderatismo pragmatico della sua collega Gretchen Whitmer del Michigan, i democratici potrebbero scontrarsi a volto aperto e lasciare l’ultima parola alla base.
(da Il Corriere della Sera)