Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
MALAGO’ INFURIATO: “CERTE SCELTE SI COMMENTANO DA SOLE”… L’ITALIA NON CONTA UN CAZZO NEANCHE NELLO SPORT, CI POSSONO PRENDERE PER IL CULO
Mentre nella seconda giornata delle Olimpiadi di Parigi 2024 tarda ancora ad arrivare l’oro nel medagliere azzurro, che conta cinque metalli – 2 argenti, 3 bronzi – dalle pedane e dai ring arrivano grandi delusioni per la squadra italiana.
Ma all’amarezza si mescola la rabbia per alcune scelte arbitrali risultate decisive e sfavorevoli agli azzurri, e che quantomeno sono risultate dubbie. Gli atleti italiani non hanno montato la polemica ma hanno espresso le loro perplessità.
Come ha fatto la porta bandiera azzurra Arianna Errigo che si è fermata ai quarti di finale di fioretto contro la statunitense Lauren Scruggs con il risultato di 15-14. E proprio il 15esimo punto di Scruggs è stato contestato dall’italiana. Prima in pedana, chiedendo al giudice di andare a rivedere la stoccata, poi a fine gara. «Mi dispiace, ma non sarei un’atleta e una persona migliore con una medaglia d’oro: quindi sono felice», ha chiarito Errigo, che ha parlato però poi chiaramente dell’errore, «la stoccata era mia. Perdere per un errore arbitrale dispiace, anche se fa parte del mio sport. Però forse ho sbagliato io, prima, a farla arrivare fino al 14-14».
Una delusione analoga è quella che ha patito la judoka Odette Giuffrida, fermata in semifinale dalla kosovara Distria Krasniq. L’italiana ha ricevuto terzo shido, un cartellino giallo, al golden score, per una grip avoidance – lo svincolo dalla presa – che la giudice ha assegnato contestualmente a entrambe le sfidanti, e che per Giuffirda è significato l’eliminazione. Nella finalina per il bronzo Giuffrida ha subito un altro ko per 10-0 contro la brasiliana Larissa Pimento
Una scelta contestata è stata quella di assegnare la giudice della semifinale ad arbitrare anche la finalina. «L’arbitraggio? Anche nella finale l’ultimo shido era dubbio. Con questo arbitro un giorno prenderò un caffè e le chiederò che problemi ha con me. Va avanti da tanto. Quando vedo che sale lei, già so che devo fare qualcosa in più di quello che basterebbe. Non ha molta simpatia per me», ha detto Giuffrida della rumena Rou Babiuc, che ha arbitrato i suoi due ultimi incontri persi ai Giochi, «non so cosa dire, è ancora tutto troppo fresco. Mi sto ripetendo che ho dato tutto. Sicuramente il Signore vuole mostrarmi qualcosa. Mi dispiace perché ci credevo. Non mi piace dare la colpa agli arbitri, ma meritavo di più».
All’incontro ha assistito anche il presidente del Coni Giovanni Malagò: «Onestamente dire che fa riflettere è dir poco», è stato il suo commento a fine gara sulla semifinale e sulla finalina, «ho visto la semifinale e finale per il bronzo col presidente Falcone e il segretario generale Benucci, persone competenti ed equilibrate – ha aggiunto -. La cosa che ci ha sorpreso è che lo stesso arbitro della semifinale persa da Giuffrida lo hanno rimandato alla finalina: credo che questo si commenti da solo».
Ma non solo, perché c’è un altro caso. È quello del pugile dei pesi massimi Aziz Abbes Mouhiidine, che a Parigi sognava l’oro e si è invece fermato agli ottavi di finale contro l’uzbeko Lazizbek Mullojonov. Ferito all’arcata sopracciliare da un movimento involontario dell’avversario con la testa, Mouhiidine sembrava aver condotto l’incontro ma il secondo round è stato giudicato in maniera discutibile dai giudici. Alla fine è risultato sconfitto per 4-1, con l’uzbeko che al momento dell’annuncio ha scosso la testata e fatto cenno di “no” con il dito, riconoscendo il valore dell’avversario italiano. Se il pugile azzurro non ha espresso alcun commento, è il presidente della Federazione pugilistica Italiana ha sfogare tutta la rabbia: «Vergognatevi. Ancora una volta l’Italia è scippata. Pensavamo che il Cio tutelasse i pugili ed evitasse le nefandezze del passato. Niente, siamo alle solite. L’incontro dominato da Abbes e perso con un verdetto sciagurato dimostra che niente è cambiato. Ciò mi induce a fare serie riflessioni sulla mia ulteriore permanenza in questo mondo che ho amato e amo», ha dichiarato il presidente Fpi Flavio D’Ambrosi, ex arbitro, «purtroppo gli sciacalli, anche quelli più anziani, approfitteranno di questa palese ingiustizia e fermeranno anche il cambiamento che a livello nazionale il pugilato lentamente stava subendo. Sono il presidente e devo rispondere degli insuccessi anche quando non sono a me direttamente riconducibili. Non so, quindi, se mi ricandiderò. Non so se ne troverò la forza. Intanto spero che i pugili italiani ancora in gara non subiscano lo stesso oltraggio di Abbes». Ieri era stato eliminato anche Salvatore Cavallaro fra le polemiche, tanto che dopo il verdetto aveva preso a calci per la rabbia le corde del ring.
(da Open)
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Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
TRA “TI VOGLIO BENE”, FRASI PRO-LGBT (“NON CAPISCO COSA STAI FACENDO, MA TI SOSTENGO”) SPARATE CONTRO “THE DONALD” (“È UN RAZZISTA, “UN ESSERE UMANO MORALMENTE RIPROVEVOLE”, “DICE STRONZATE“) E CONTRO LE FORZE DELL’ORDINE (“ODIO LA POLIZIA”), IL RITRATTO CHE EMERGE È MOLTO LONTANO DAL TRUMPIANO DI FERRO CHE VEDIAMO OGGI
Il passato continua a tornare a galla e a riscrivere la storia di J. D. Vance, scelto da Donald Trump come candidato vicepresidente dei Repubblicani e che ogni giorno aggiunge un nuovo capitolo alla sua rapida metamorfosi. Sophia Nelson, difensore d’ufficio a Detroit, che ha frequentato il corso di legge a Yale con Vance e si definisce transgender, ha mostrato al New York Times una novantina di email e messaggi, scritti tra il 2014 e il 2017, in cui emerge come Vance non fosse solo un forte oppositore di Trump, definito pubblicamente un “Hitler”, ma affettuoso amico di Nelson e avesse accettato serenamente la sua condizione di transgender, dando il suo sostegno.
La relazione, però, si è incrinata nel 2021 dopo che Vance aveva dichiarato pubblicamente di appoggiare la decisione dell’Arkansas di mettere al bando le cure di genere per i minori. “Ha raggiunto un grande successo ed è diventato molto ricco presentandosi come un ‘Never Trumper’ (mai con Trump, ndr)” “Ora – aveva aggiunto – sta ammassando ancora più potere esprimendo l’esatto contrario”.
Quando nel 2016 era uscito il libro autobiografico, Vance aveva mandato a Nelson una email per scusarsi, perché nel libro il futuro candidato vicepresidente aveva parlato di Sofia come “lesbica progressista” e non transgender. “Hey, Sofi
Riconosco – aveva aggiunto – che questa definizione non riflette in modo accurato come ti vedi, e per questo mi scuso”. “Spero non te la prenda – aveva concluso – ma se fosse così, scusami. Ti voglio bene. JD”.
Nelson aveva risposto lo stesso giorno, chiamando Vance “buddy”, amico, e ringraziandolo per l’attenzione, aggiungendo: “Se avessi scritto pragmatica gender queer radicale nessuno avrebbe capito cosa intendessi”. Nelson gli aveva chiesto una copia autografa e concluso il messaggio con “Love, Sofia”.
Questo scambio fa parte delle email che i due amici si sono inviati negli anni. Ma ora sono su fronti opposti. Nelson è contro il ticket Trump-Vance e spera che la pubblicazione delle conversazioni private possa gettare nuova luce su un uomo accusato di aver rinnegato tutto il suo passato in nome dell’opportunismo politico.
Tra i messaggi appaiono giudizi corrosivi dati da Vance a Trump in cui lo accusa di “razzismo” e di essere “un essere umano moralmente riprovevole”. Vance aveva dato il suo sostegno a Nelson dopo l’intervento chirurgico per la transizione sessuale. Dopo quell’operazione, il loro rapporto era diventato ancora più saldo. “Il senso delle nostre conversazioni – ha spiegato Nelson al Times – era del tipo: non capisco cosa stai facendo, ma ti sostengo. E questo per me significava molto, perché penso fosse la base della nostra amicizia”.
La pubblicazione delle email ha segnato un punto di non ritorno e una violazione della privacy. “E’ una scelta sventurata – ha commentato un portavoce del senatore – rivelare al New York Times vecchie conversazioni tra amici. Il senatore Vance considera le sue amicizie con le persone al di là dello spettro politico”. “Vance – ha aggiunto – ha già chiarito come il suo punto di vista di un decennio fa sia cominciato a cambiare quando è diventato padre e ha messo su famiglia e ha spiegato ampiamente perché ha mutato idea su Trump”.
“Nonostante questo dissenso – ha concluso – il senatore Vance tiene a Sofia e augura a Sofia il meglio”. Il portavoce non ha usato pronomi per riferirsi a Nelson. Riguardo la polizia, il futuro senatore era su posizioni tipo Black Lives Matter: “Odio la polizia – aveva scritto a commento dell’uccisione di un giovane afroamericano, Michael Brown – e viste le numerose esperienze negative che ho avuto negli anni, non riesco immaginare cosa possa passare un ragazzo nero”.
Nel dicembre 2015 aveva scritto del tycoon, candidato presidenziale: “Sono ovviamente indignato dalla retorica di Trump e preoccupato di come cittadini musulmani possano sentirsi nel nostro Paese. Ma penso che la gente abbia sempre creduto alle più grosse str…”. “E c’è sempre stata – aveva aggiunto – la demagogia di voler sfruttare la gente che crede a queste grosse str…”. “Più i bianchi vogliono votare Trump – aveva commentato un’altra volta – più i neri sono destinati a soffrire. Lo credo davvero”. In un’altra email aveva definito Trump un “disastro”. “E’ proprio un uomo cattivo”, aveva aggiunto.
(da La Repubblica)
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Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
MERITO DELL’EX STELLA DELLA NBA LUOL DENG, PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE LOCALE, CHE HA DECISO DI CHIAMARE I CAMPIONI CRESCIUTI ALL’ESTERO: “SIAMO UNA SQUADRA DI RIFUGIATI”… AL MATCH D’ESORDIO AI GIOCHI HA BATTUTO IL PORTORICO
Nato il 9 luglio 2011: quando il tassametro dei punti messi insieme in Nba dai mammasantissima LeBron James, Kevin Durant, Steph Curry, Jrue Holiday segnava già 29.994 punti e il più giovane dei suoi dodici cestisti a cinque cerchi – Khaman Maluach, il gigante (219 centimetri) non ancora maggiorenne che maturerà alla Duke University – aveva più di cinque anni.
Il Sud Sudan, quel giorno, neanche poteva fantasticare di giocarsela nel basket punto a punto con gli Stati Uniti, evento successo realmente una settimana fa (101-100 deciso sulla sirena da LeBron James) in amichevole a Londra e che potrebbe riproporsi mercoledì in gara ufficiale a Lille, o di sbarcare alle Olimpiadi, unica rappresentante dell’Africa tra i canestri.
L’utopia non circolava ancora nella mente illuminata del pigmalione cestistico Luol Deng, allora pezzo grosso sul parquet dei Chicago Bulls e in procinto di preparare la sua prima e ultima Olimpiade da giocatore sotto la bandiera adottiva della Gran Bretagna, dove trovò riparo nella sua gioventù itinerante da rifugiato e più giovane di nove fratelli.
E l’illuminazione, agevolata dal riconoscimento del Cio nel 2015 nel bel mezzo della guerra civile tra le etnie dinka e nuer, arrivò. «Organizzando camp di basket, ogni estate, vedevo che c’erano tanti ragazzi talentuosi di origine sud sudanese. E molti di loro, purtroppo, sceglievano di giocare con altre Nazionali», la scintilla che ha fatto scoccare nella testa di Deng la pazza idea di rimettere insieme i cocci (non solo) cestistici della diaspora del suo paese d’origine e di candidarsi a presidente della federazione locale, elezione avvenuta il 25 novembre 2019.
«Nel nostro Paese non abbiamo campi di basket al chiuso. Di fatto siamo un gruppo di rifugiati che sta facendo qualcosa di grande: mostrare che possiamo competere contro squadre di campioni e che anche il basket può rivelarsi fondamentale per lo sviluppo dell’Africa», il pensiero di Wenyen Gabriel, un altro dei figli del Sud Sudan sbocciati altrove (con un transito pure in Nba ai Lakers) riportati a casa da Luol Deng.
«Due anni fa ci allenavamo su campetti allagati con le aquile che ci volavano sopra la testa», ricorda il coach americano Royal Ivey, voluto da Luol Deng per i trascorsi comuni liceali (e il prestito delle scarpe da basket) alla Blair Academy, confrontando le strutture del Sud Sudan con quelle Nba degli Houston Rockets (dove è uno degli allenatori in seconda).
Anche il paese più povero del mondo, secondo uno studio commissionato nel 2023 dal Fondo Monetario Internazionale, può avere una spedizione olimpica di 14 rappresentanti: nel basket con 12 ragazzi acciuffati in giro per il mondo e nell’atletica leggera con Lucia Moris nei 100 metri femminili e Abraham Guen negli 800 maschili.
(da la Stampa)
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Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
E ORA, DOPO AVER COMPRATO IL “SECOLO XIX” DA JOHN ELKANN, PUNTA ALL’AEROPORTO DI GENOVA
Il metodo Aponte è semplice e si può riassumere così. Se il Comandante desidera qualcosa apre il portafoglio e la compra. E non c’è prezzo che tenga. Certo, Gianluigi Aponte detto il Comandante se lo può permettere, visto che tira le fila di un grande gruppo globale del trasporto marittimo (crociere, merci e porti), una galassia dal giro d’affari multimiliardario che comprende decine di aziende sotto l’ombrello della holding Msc. La novità, semmai, è che in questi ultimi anni il numero delle acquisizioni è cresciuto a un ritmo senza precedenti.
L’italiano più ricco di Svizzera (e tra i più ricchi del mondo), 84 anni, origini campane, da mezzo secolo residente a Ginevra, ha consolidato il suo potere nel business globale del mare comprando a fine 2022 le attività logistiche in Africa del gruppo francese Bolloré per 5,6 miliardi di euro, ma poi ha allargato ancora i confini dell’impero con una raffica di acquisizioni anche in settori solo indirettamente collegati a quello del trasporto marittimo.
Giusto per restare dalle nostre parti, un anno fa Msc ha investito un miliardo per rilevare Rimorchiatori Mediterranei, forte di una flotta di 170 mezzi nei porti italiani e nei principali scali del Mediterraneo. Nell’autunno scorso invece Aponte è sbarcato in ferrovia, prendendo il controllo dei treni di Italo per 4,2 miliardi di euro.
Per dare un’idea della potenza di fuoco del Comandante e famiglia (la moglie Rafaela Diamant, il figlio Diego e la figlia Alexa) vale la pena segnalare che le tre operazioni citate, del valore complessivo di quasi 11 miliardi di euro, sono state in gran parte finanziate con un maxi aumento di capitale da oltre 10 miliardi di euro di una delle principali società del gruppo, la lussemburghese Shipping Agencies Services (Sas), che a sua volta ha fatto il pieno di risorse supplementari da un’omonima sigla off shore con base a Cipro.
In base al bilancio del 2023 la sola Sas conta oltre 46 mila dipendenti con giro d’affari globale di 9,5 miliardi. Una cifra che non comprende le attività crocieristiche di Msc e quelle ancora più grandi del business dei container. Non è mai stato pubblicato un bilancio ufficiale consolidato, ma secondo le stime più attendibili il giro d’affari complessivo del gruppo avrebbe ormai superato i 90 miliardi di euro.
E adesso? A inizio anno è arrivato l’accordo con gli spagnoli del gruppo Boluda, che si porta in dote circa 400 rimorchiatori portuali dislocati in Europa, in Sud America e nell’Africa Occidentale. In questo caso, la holding Sas ha messo sul piatto circa 240 milioni per comprare il 15 per cento della società iberica
Nel frattempo, ad aprile, è stata annunciata l’acquisizione, sempre da parte di Sas, di Gram Car Carriers, uno dei più grandi operatori al mondo nel trasporto marittimo di automobili, con sede in Norvegia. Prezzo: 650 milioni di euro.
Fin qui l’elenco, per sommi capi, della vertiginosa ascesa dell’italianissimo gruppo che batte bandiera elvetica. Per raccontare la voracità su scala globale del Comandante, non c’è punto d’osservazione migliore di Genova.
FRONTE DEL PORTO
Le carte dell’inchiesta giudiziaria descrivono manovre e ambizioni di Aponte per consolidare il suo potere sulla città portuale più importante d’Italia. Va detto che quello ligure è solo uno degli scali italiani finiti nell’orbita della multinazionale targata Msc, presente anche a Trieste e Gioia Tauro.
Aponte, si legge nei documenti dell’indagine, puntava ad allargare la sua zona di operazioni nello scalo genovese, anche per garantire spazio supplementare ai traghetti di Grandi Navi Veloci, che fanno capo alla multinazionale del Comandante. L’obiettivo è stato raggiunto alla fine del 2022 dopo una serie di scontri pesantissimi con Aldo Spinelli, l’altro uomo forte del porto. Interrogato dai pm il 12 giugno scorso l’armatore con base a Ginevra ha confermato i suoi incontri con l’allora governatore, negando di aver mai ricevuto richieste di finanziamenti da parte dell’uomo politico.
Il gruppo Aponte non ha però rinunciato a dare un aiuto concreto a Toti. Dai documenti depositati alla Camera dei deputati sulle erogazioni ai partiti politici risulta infatti che la società Msc procurement & logistics, che fa capo al colosso ginevrino, ha più volte staccato un assegno a favore del “Comitato Giovanni Toti Liguria”. L’ultimo finanziamento di 4.500 euro, un finanziamento legale, porta la data del 27 marzo scorso
ASPETTANDO LA DIGA
Le cronache dell’indagine hanno portato sotto i riflettori gli affari del solitamente riservatissimo Aponte. Negli ultimi mesi il Comandante ha rafforzato ancora la sua presa su Genova. Il gruppo svizzero gestisce anche alcuni strategici terminal di approdo
Il panorama, però, è destinato presto a cambiare con la nuova diga foranea, che consentirà di aumentare di molto la capacità dello scalo. Più lavoro, quindi, molto più lavoro, per le aziende di Aponte. La più grande tra le opere finanziate dal Pnrr (1,35 miliardi di lavori) dovrebbe essere completata entro la fine del 2026 e per quell’epoca, […] il gruppo Msc potrebbe aver preso posizione anche in aeroporto.
MANI SULLA CITTÀ
Le sinergie tra navi e aerei sono evidenti, per un gruppo che muove ogni anno milioni di turisti in crociera, dai Caraibi al Mediterraneo fino al mare del Nord. Non per niente, meno di due di anni fa, Aponte aveva a lungo trattato anche per compare Ita, la ex Alitalia. L’operazione a Genova segue la stessa logica della fallita acquisizione della compagnia aerea. Il primo passo risale a poche settimane fa quando da Ginevra è arrivata un’offerta per rilevare il 15 per cento della società che gestisce l’aeroporto ligure.
Nel ruolo di venditore c’è l’Adr della famiglia Benetton, di base a Fiumicino. Aeroporto di Genova spa, che ha come principale azionista, al 60 per cento, l’Autorità di gestione del porto, è presieduta da Alfonso Lavarello, un manager di lungo corso conosciuto e apprezzato da Aponte. È stato proprio Lavarello, raccontano le carte giudiziarie, a gestire la trattativa con Spinelli per dividersi le zone d’influenza nello scalo marittimo.
Lo stesso Lavarello che avrebbe avuto un ruolo centrale anche nel negoziato per rilevare il Secolo XIX, lo storico quotidiano di Genova di proprietà di Gedi, la società della Exor di John Elkann che possiede Repubblica e Stampa.
(da Editorialedomani)
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Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE, ERNESTO MARIA RUFFINI, SOTTOLINEA IN AUDIZIONE ALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE LA NECESSITÀ DI PROCEDURE PIÙ MIRATE PER I PIGNORAMENTI AI CONTI CORRENTI…LA GRAN PARTE DELLE AZIONI CADE NEL VUOTO PERCHÉ I DEBITORI NON RISULTANO AVERE PATRIMONI O DISPONIBILITÀ SU CUI RIVALERSI
L’80% delle maggiori entrate accertate con la lotta all’evasione non viene poi riscosso. Sono necessarie procedure più mirate per procedere ai pignoramenti, in particolar modo quelli sui conti correnti, e ribaltare le statistiche attuali che vedono la gran parte delle azioni cadere nel vuoto perché i debitori non sono capienti, ossia non hanno patrimoni o disponibilità su cui rivalersi.
Sono alcuni dei messaggi emersi dal direttore dell’agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini durante l’audizione in commissione parlamentare di vigilanza sull’Anagrafe tributaria presieduta da Maurizio Casasco (Forza Italia). Audizione in cui Ruffini ha sottolineato che le banche dati di cui dispone l’agenzia delle Entrate sono «molto complete ma non rappresentano certamente un Grande fratello» e ha ribadito ai parlamentari la necessità di sostenere il rafforzamento del personale […]
Sollecitato dalle domande dei commissari, Ruffini ha posto l’accento su quali siano i problemi dell’attuale sistema di recupero del fisco italiano. «Con la Guardia di Finanza – ha precisato – individuiamo buona parte dell’evasione fiscale esistente nel nostro Paese. Il tema è la possibilità e la capacità di recupero dell’evasione fiscale che si individua.
A fronte di un’evasione fiscale individuata pari a 100 tra imposte, sanzioni e interessi, il recupero è al di sotto del 20 per cento. Non per un’incapacità dovuta a inefficienza, ma per strumenti che possono essere il personale o strumenti che il legislatore di tempo in tempo deve affinare mano a mano che le conoscenze emergono.
Quindi a fronte di 100 miliardi di evasione fiscale accertata, quindi non ipotizzata ma di evasione per cui è stata presentata una contestazione, è stato effettuato un ricorso e il contribuente ha perso o c’è stata una rinuncia a presentare ricorso, la capacità di incasso dell’amministrazione finanziaria nel suo complesso non supera il 20 per cento».
Ad avviso del direttore delle Entrate diventa quindi necessaria una serie di interventi che, passando da una velocizzazione dei meccanismi di incasso, operando «una razionalizzazione dell’intervento nelle procedure mobiliari, che sono i conti correnti o i rapporti di fornitura costante presso terzi». In prospettiva ci sono già strumenti utili: «L’ultima legge di Bilancio ha previsto un decreto di prossima emanazione – ha rimarcato Ruffini – per razionalizzare le procedure mobiliari, in modo da evitare anche che l’attività fatta da Agenzia Entrate Riscossione cada nel vuoto.
Questo perché molto spesso, per carenza di informazioni, attorno al 70%-80% dell’attività di recupero non va a buon fine in quanto viene effettuata verso soggetti incapienti. […] Quindi il tema dell’evasione fiscale non è tanto quello di individuarla e basta, ma di fare in modo che quell’attività vada all’incasso
Tra i temi particolarmente sentiti dalla commissione di vigilanza sull’Anagrafe tributaria c’è anche quello di un miglioramento dei rapporti con i contribuenti, anche alla luce delle modifiche introdotte dai decreti attuativi della riforma fiscale e in particolar modo del contraddittorio preventivo.
(da agenzie)
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Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
IL POLITOLOGO SERGIO FABBRINI SULLE ELEZIONI NEGLI STATI UNITI: “IL PARTITO REPUBBLICANO E’ CENTRALIZZATO, MA DIVISO. E’ UN MODELLO PRIVO DI CONTROLLI E BILANCIAMENTI, E’ AUTORITARIO. NON È COMPATIBILE CON IL PLURALISMO DELLA DEMOCRAZIA AMERICANA”… “C’E’ UN NUOVO ATTORE POLITICO CHE CONDIZIONA I PARTITI, I GRANDI DONATORI”
L’America non finisce di stupirci. Joe Biden, ha dichiarato che non si sarebbe presentato per un secondo mandato. Kamala Harris, è diventata la candidata di fatto del partito democratico. Donald Trump, che pensava di avere la presidenza in tasca, ha dovuto rivedere i suoi piani. Cosa ci dice questa vicenda?
Innanzitutto, che i partiti americani, contrariamente al passato, non si assomigliano più. Il Partito repubblicano, conquistato dalla fazione trumpiana , ha centralizzato il potere nelle mani del leader supremo, Donald Trump. I repubblicani critici verso tale centralizzazione sono stati messi ai margini.
Il Partito repubblicano è centralizzato, ma diviso. Il suo funzionamento prefigura un modello decisionale controllato dal presidente, privo di controlli e bilanciamenti, decisamente autoritario.
Un modello congeniale con la cultura del suo gruppo di riferimento, l’America mono-razziale dei suprematisti bianchi.
Il Partito democratico, invece, continua ad essere un partito pluralista e senza un centro di comando formalizzato. Rappresenta l’America multirazziale, una società in continuo movimento, di cui Kamala Harris è l’espressione. Con un suo presidente democratico in carica, è quest’ultimo che lo rappresenta.
Quando non è così, a rappresentarlo sono i maggiori leader democratici del Congresso. Seppure disaggregato, dispone però di un network di leader nazionali e statali che orientano le sue scelte, talora imponendosi sul suo stesso presidente quando è in carica.
Se la centralizzazione repubblicana non è compatibile con il pluralismo della democrazia americana, la decentralizzazione democratica invece lo è. Per questo motivo, il Partito trumpiano costituisce oggi una seria minaccia per l’equilibrio dei poteri della democrazia americana.
In secondo luogo, quella vicenda ci mostra che un nuovo attore politico condiziona la vita dei partiti, i grandi donatori. Ciò è l’esito della sentenza della Corte suprema del 2010 (Citizens United vs Federal Election Commission), che liberalizzò i contributi indipendenti alle campagne elettorali, in particolare delle grandi corporations. […] Donald Trump è andato a vendere le sue future politiche di de-fiscalizzazione tra i petrolieri e gli imprenditori della Silicon Valley per avere i loro finanziamenti elettorali.
Kamala Harris, anche se ha raccolto in due giorni circa 130 milioni di dollari attraverso piccole-medie donazioni, è comunque grata ai big donors che hanno esercitato un ruolo cruciale nel promuovere la sua candidatura (e per convincere Joe Biden a ritirare la sua). Una democrazia controllabile dai grandi finanziatori è in pericolo permanente, denunciò Barack Obama quando era alla Casa Bianca. Ciò detto, anche se la popolarità di Kamala Harris crescerà, ciò non garantirà affatto la sua vittoria elettorale
Il presidente americano non è eletto direttamente dal voto popolare, bensì è eletto indirettamente dai “grandi elettori” degli stati. Ogni stato dispone di un Collegio di grandi elettori equivalente al numero dei rappresentanti di quello stato alla Camera, più i due senatori assegnati in modo eguale ad ogni stato, a prescindere dalla loro popolazione. Il candidato che prende più voti in uno stato, si prende tutti i grandi elettori di quest’ultimo. Il Collegio elettorale, dunque, sovra-rappresenta i piccoli stati, rurali e collocati nelle aree continentali del Paese (che votano repubblicano), rispetto ai grandi stati, urbani e collocati nelle coste (che votano democratico).
Con alcuni stati (come Wisconsin, Michigan, Pennsylvania) che sono in bilico tra i due partiti. Il pregiudizio pro-repubblicano del Collegio elettorale è ulteriormente rafforzato dalle politiche perseguite dai repubblicani negli stati da loro controllati (ridisegno dei distretti elettorali per favorire i loro elettori, ostacoli imposti alle minoranze etniche per penalizzare gli elettori democratici). L’esito è che i repubblicani hanno potuto controllare la presidenza per 12 anni degli ultimi 24 anni, pur risultando regolarmente minoritari nel voto popolare.
Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, due scienziati politici di Harvard, hanno parlato di una democrazia sottoposta alla “tirannia delle minoranze”, in virtù della quale chi perde le elezioni può comunque controllare la presidenza. Insomma, l’America continua a stupirci, per i suoi cambiamenti e le sue contraddizioni
Sergio Fabbrini
per il “Sole 24 Ore”
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Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
DATI AGCOM: IL CALO SOPRATTUTTO NELLE EDIZIONI SERALI… TRACOLLO TG2: MENO 15%… MALE ANCHE MEDIASET, SOLO LA7 IN CONTROTENDENZA
Un milione di spettatori in fuga dai telegiornali della Rai nei primi tre mesi del 2024: oltre 500mila ascolti persi nelle edizioni serali, tra le 18 e 30 e le 20 e 30, altri 470mila nella fascia compresa tra le 12 e le 14 e 30. I dati dell’osservatorio Agcom fotografano la crisi dei telegiornali: una flessione che coinvolge anche Mediaset e La7 se si considera l’arco temporale 2020-2024. Ma restringendo il confronto all’ultimo anno, La7 inverte nettamente la tendenza mentre spicca la sofferenza di Rai e Mediaset. E la tv pubblica paga il prezzo più alto, con il Tg2 del direttore Antonio Preziosi che raggiunge un disastroso picco negativo (meno 15%) nell’edizione delle 20 e 30.
L’attacco del Pd
Un “tracollo”, lo definisce il Pd: “Prendiamo atto e ci dispiace veder ridotto così quello che una volta era il servizio pubblico di tutti e per tutti e che oggi è un triste megafono del partito della presidente Giorgia Meloni. Fa male assistere al tracollo degli ascolti dei telegiornali della Rai. Un fallimento su tutta la linea, un disastro vero e proprio per Telemeloni”, commenta Sandro Ruotolo, europarlamentare e responsabile Informazione nella segreteria nazionale dem. La replica di FdI: “Se il Pd volesse davvero parlare di fallimenti, allora dovrebbe raccontare quelli che ha prodotto quando lottizzava ed occupava la Rai. Un indebitamento alle stelle, senza un piano industriale e senza alcun rispetto del pluralismo”.
La crisi della sera
Nel primo trimestre 2024, rispetto al 2023, per le edizioni serali si registra una riduzione di circa 750 mila ascolti (da 17,30 a 16,55 milioni di spettatori). Sorride solo La7, con Enrico Mentana, in aumento del 20% rispetto all’anno precedente ma con un totale di 1,27 milioni di spettatori (erano 1,06 un anno fa). Il Tg1 delle 20 resta il più visto (con 4,81 milioni di ascolti medi giornalieri), seguito dal TG 5 delle 20 (con 4,02 milioni) e dall’edizione del TGR delle 19.30 (trasmessa su Rai 3 per le edizioni regionali), che complessivamente raggiunge 2,46 milioni di ascolti.
In media, i Tg della Rai perdono su base annua il 5,2% degli ascolti giornalieri (da 10,74 a 10,19 milioni di spettatori), con una riduzione per il TG1 delle 20 del 4,4% (da 5,03 a 4,81 milioni di spettatori), del 3,8% per il TG3 delle 19 (da 2,04 a 1,96 milioni di spettatori) e del 15,2% per il Tg2 delle 20 e 30 (da 1,12 a 0,95 milioni di spettatori).
Anche i TG serali di Mediaset hanno registrato una complessiva riduzione del 7,3% (da 5,50 a 5,10 milioni di spettatori): nello specifico, gli ascoltatori del TG5 delle 20:00 passano da 4,24 a 4,02 milioni (-5,2%), quelli di Studio Aperto delle 18 e 30 da 600 mila a 540 mila (-10,2%), mentre gli ascolti del TG4 delle 19:00 passano da 660 a 540 mila spettatori giornalieri circa (-18,4%)
Male anche di giorno
Guardando alle edizioni della fascia oraria 12:00-14:30 nel primo trimestre del 2024 si osserva una flessione su base annua di oltre 560 mila spettatori (da 13,22 a 12,65 milioni di spettatori). Il TG più visto è il TG 1 delle 13:30 (3,33 milioni di ascolti), seguito dal TG5 delle 13:00 (2,84 milioni) e dall’edizione del TGR delle 14.00 (anch’essa trasmessa su Rai 3 per le edizioni regionali), che complessivamente raggiunge 2,17 milioni di ascolti.I TG della Rai perdono complessivamente 470 mila spettatori (da 8,32 a 7,85 milioni, -5,7%) mentre quelli del gruppo Mediaset mostrano una riduzione del 4,4% (da 4,39 a 4,20 milioni circa).
Nei primi tre mesi del 2024 l’andamento degli spettatori medi giornalieri dei due principali telegiornali, il TG1 delle 13:30 ed il TG5 delle 13:00, evidenzia per entrambi ascolti in flessione rispetto all’analogo periodo del 2023. Quelli del TG1 diminuiscono del 7,0% (da 3,59 milioni a 3,33 milioni), mentre quelli del TG5 flettono del 4,5%, (da 2,97 a 2,84 milioni di spettatori giornalieri).Gli ascolti del TG La7 delle 13:30 passano da 500 a 600 mila circa (+20,5%).
Il crollo di ascolti dal 2020
Ampliando l’arco temporale dell’analisi (2020-2024), emerge come gli ascoltatori medi giornalieri dei TG considerati risultino nettamente inferiori ai livelli registrati nel 2020. Nella fascia 18:30-20:30 gli ascolti complessivi dei TG analizzati si riducono di 5,93 milioni (-26,4%), passando da 22,49 a 16,55 milioni di ascolti giornalieri [1]. La concessionaria pubblica in questo caso registra una flessione del -27,8% (da 14,11 a 10,19 milioni), riduzione simile (-27,1%) è fatta segnare dai Tg del gruppo Mediaset (da 6,99 a 5,10 milioni). Il TG La7 passa da 1,38 a 1,27 milioni di ascolti giornalieri (-8,1%), mentre di particolare intensità risulta la contrazione degli ascolti del TG2 delle 20:30 (-51%) e di Studio Aperto delle 18:30 (-48,5%).Per le edizioni dei telegiornali nella fascia 12:00-14:30 gli ascolti complessivi si riducono di 5,01 milioni passando da 17,66 a 12,65 milioni giornalieri (-28,4%). Più in dettaglio, i tg di Rai hanno perso 3,27 milioni di spettatori giornalieri (-29,4%), la flessione dei tg Mediaset risulta di intensità lievemente più contenuta (-27,3%), mentre la riduzione registrata dal tg La7 delle 13:30 risulta del 21,8%.
Le tv all news funzionano al mattino
Nel complesso, i principali canali “all news” (Rai News 24, TGcom24 e Sky TG24) nell’“intero giorno” riducono gli ascolti del 3,6% su base annua. In leggera crescita risultano gli ascolti nella fascia oraria 07-09 (+1,8%), mentre nella fascia 18-20:30 diminuiscono del 15,3%. Rai News 24 è il canale più seguito sia nell’“intero giorno” che nella fascia oraria 07-09, mentre TGcom 24 lo è in quelle 12:00-15:00 e 18:00-20:30.Nel giorno medio è Rai News 24 il canale che su base annua mostra la flessione maggiormente rilevante (-7,5%), mentre Sky TG24 registra una più contenuta flessione del 2,2% e TGcom24 non mostra variazioni di rilievo.
(da agenzie)
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Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
IL PASSO INDIETRO DEL LEGHISTA RIXI (“SE SI FOSSE VOTATO TRA UN ANNO E MEZZO CI AVREI PENSATO. OGGI SAREI SOLO UNA PEZZA A COLORI PER TAMPONARE UNA SITUAZIONE DI EMERGENZA”) METTE IN DIFFICOLTA’ LA MAGGIORANZA ALLA DISPERATA RICERCA DI UN CANDIDATO CIVICO PER SOSTITUIRE TOTI
Un mostro a tre teste agita d’improvviso la già cocente estate di Giorgia Meloni. Una per ciascuna delle Regioni che, per scadenza naturale (l’Umbria), per voto anticipato (l’Emilia-Romagna), per i guai giudiziari del governatore dimissionario (la Liguria) andranno al voto in autunno. Ecco, la premier non fa mistero coi suoi di temere una sonora “scoppola” in tutte e tre le amministrazioni che andranno al rinnovo da qui alla fine dell’anno.
Sarebbe un pessimo viatico per proseguire con la seconda metà del suo mandato a Palazzo Chigi. Tant’è vero che, per evitare l’effetto trascinamento provocato dalla probabile disfatta ligure — dopo le dimissioni di Giovanni Toti, agli arresti domiciliari da ottanta giorni, e in assenza di un’alternativa valida — la leader starebbe sul serio pensando a un election day per tutte e tre le regioni, il 17 e 18 novembre
Il fatto è che il voto entro tre mesi nella regione del Nordovst, dunque entro fine ottobre come prevede la norma in questi casi, rischierebbe di trasformarsi in un boomerang. Soprattutto dopo che il leghista Edoardo Rixi ha fatto sapere che il tempo a disposizione è troppo poco per affrontare la sfida. Il viceministro ai Trasporti era di fatto l’unica pedina politica di peso che i partiti di quell’area avrebbero potuto schierare per il dopo- Toti. «Se si fosse votato tra un anno e mezzo ci avrei pensato. Oggi sarei solo una pezza a colori per tamponare una situazione di emergenza»Speranze ora affidate a un civico ancora da selezionare, mentre il centrosinistra compatto sembra convergere sull’ex ministro dem Andrea Orlando. Ma succede anche che in Emilia Romagna sia decollata sotto i migliori auspici la candidatura di Michele De Pascale, sindaco pd di Ravenna, con la benedizione dell’uscente e neo eurodeputato Stefano Bonaccini.
La preside ciellina Elena Ugolini è la civica scesa in campo e alla fine accettata da FdI, Lega e FI. Il colpo di scena tuttavia potrebbe maturare nella piccola Umbria. Dal 2019 è amministrata dalla leghista Donatella Tesei, ma non come gli umbri avevano sperato, stando ai consuntivi della sua giunta. Ecco perché stanno crescendo nei sondaggi le quotazioni della sindaca di Assisi Stefania Proietti, col consenso dei partiti e dei movimenti civici.
Sono queste le nubi che, a dispetto della canicola ormai quasi agostana, si stanno addensando su una coalizione di governo che poche settimane dopo le Europee si scopre tutt’altro che imbattibile. La leader di FdI, raccontano uomini a lei vicini, avrebbe preferito che il residente della Regione Liguria a questo punto resistesse almeno per qualche altra settimana-mese, nel suo esilio di Ameglia. Tempo sufficiente a far slittare le elezioni almeno lì all’anno nuovo. Le cose sono andate diversamente, a parte Salvini, Toti si è ritrovato da solo e allora addio. Ora sarà tutto il centrodestra a farsi carico del grosso nodo ligure.
Nodo uno e trino, dunque. Che stringe una coalizione che fa già fatica a restare compatta sui temi di governo. Dalla politica estera (il sostegno all’Ucraina, quello alla presidenza bis di Ursula von der Leyen) a quella interna. Ultima guerriglia, l’autonomia differenziata, sulla quale Tajani e Forza Italia chiedono una moratoria Tutto questo accade mentre Palazzo Chigi è impegnato nella complicata partita per assicurare al componente della futura Commissione europea (Raffaele Fitto, finora) una delega almeno dignitosa.
(da agenzie)
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Luglio 28th, 2024 Riccardo Fucile
SI MOLTIPLICANO I DOSSIER COMPLICATI, GLI ALLEATI LITIGANO E LE INTERVISTE ESTIVE SPAVENTANO
L’ultimo consiglio dei ministri, salvo emergenze, è in programma il 7 agosto. Poi il telefono di Giorgia Meloni sarà silenziato per qualche giorno, resterà a disposizione solo per la famiglia, gli amici e pochi fedelissimi, almeno fino a dopo Ferragosto.
Il tentativo della presidenza del Consiglio sarà quello di trovare ristoro in Puglia, nella regione che la accoglie durante le ferie. Proprio nell’amata Valle d’Itria ha voluto organizzare un G7. Il progetto è quello di un legittimo relax se non fosse che il Generale Agosto preoccupa, perché farà sentire i suoi effetti. Il mese balneare per eccellenza della politica italiana è sempre foriero di tensioni, nervosismi e preoccupazioni per l’autunno che verrà.
Chi è avvezzo alle cose di palazzo, nei conciliaboli alla Camera, ha già fatto le proprie previsioni: «Sarà un’estate ballerina per la destra». Eppure non c’è da preoccuparsi: «La crisi di governo non ci sarà», garantiscono tutti, dai big agli ultimi dei peones, sempre attenti sulla questione del voto anticipato.
Da Pechino a Bruxelles
C’è l’immagine internazionale da tutelare e rilanciare. Prima del riposo c’è il viaggio in Cina, da ieri fino a mercoledì. Una tappa che ha un valore mediatico prima che diplomatico. La prima mossa è stata la diffusione di un video che mostra, in una visita ufficiale, la figlia Ginevra che la accompagna, scendendo dall’aereo. Una mossa di comunicazione utile per far parlare di sé. Salvo lamentarsi alla prima occasione dell’invasione della stampa nella sua privacy.
Ma oltre agli appuntamenti in agenda ai relativi trucchi narrativi, i giorni festivi di Meloni sono quelli che dovranno riposizionarla nello scacchiere Usa, su cui non mancano affanni. Il cuore batte a destra, al fianco del Repubblicani di Donald Trump e tifosi del Make America great again (Maga), che però per l’Europa – quindi per l’Italia – è una sciagura, quantomeno sotto il piano della difesa.
L’iperatlantismo di Meloni, tanto gradito all’amministrazione Biden, cozza contro la visione trumpiana. Al rientro dalle vacanze, servirà un esercizio di equilibrismo in vista del voto di novembre, nonostante qualcuno in Fratelli d’Italia si sia già proteso per abbracciare Trump. Trovando il campo occupato da Matteo Salvini, il leader della Lega ha già indossato la maglietta del magnate. In qualsiasi caso, la premier è in affanno.
Nel perimetro continentale, invece, l’Europa è tornata matrigna per la presidente del Consiglio. La gestione delle trattative sulle nomine a Bruxelles è stata scriteriata, solo i fan più sfegatati provano a negare questa versione. Meloni ha messo piede da protagonista, forte dell’affermazione elettorale di giugno, e ne è uscita ridimensionata.
Fino a incrinare un buon rapporto personale con la presidente della commissione, Ursula von der Leyen. Occorre ricucire, i giorni di vacanza possono essere utili a distendere gli animi, tra una passeggiata sotto gli ulivi con la calce bianca della Valle d’Itria sullo sfondo.
Con queste premesse internazionali, quasi quasi per Meloni i grattacapi interni sono carezze. Anche se sullo sfondo c’è il totem della manovra economica con le casse che languono. Il dossier fa capo al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Ma palazzo Chigi dalla premier ai sottosegretari, Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari, sanno che è un dossier cruciale per la navigazione dell’esecutivo.
Sono consci, insieme alla loro leader, che bisognerà contare gli spicci rimasti nel portafogli e valutare come raggranellare risorse per abbattere il deficit di 12 miliardi di euro secondo le richieste della Ue, finanziando gli interventi promessi.
La partita delle interviste
E mentre iniziano i conti con la legge di Bilancio, ci sono le interviste e le provocazioni che nel tempo lento agostano non gioveranno all’immagine del governo e quindi della premier. Si prevedono affondi e rivendicazioni, del resto l’estate è il periodo tipico di dichiarazioni che invocano «verifiche» o confronti nella maggioranza.
Il termometro della coalizione di centrodestra sta facendo registrare un incremento delle temperature. Matteo Salvini e Antonio Tajani battibeccano su tutto, non è proprio il modo più sereno di riempire il trolley e partire per le vacanze. Il leader della Lega dice una cosa, il segretario di Forza Italia un’altra. Su ogni argomento all’ordine del giorno c’è un distinguo, anche perché nella testa di Tajani riecheggiano gli inviti degli eredi Berlusconi, Marina e Pier Silvio, a cambiare marcia, a dare nuovo nerbo al partito azzurro.
Il governo non cadrà, come profetizzano tutti. Resta, però, il logorio quotidiano del chiacchiericcio e dei litigi a mezzo stampa. La vicenda-carceri è un caso finito a piè di lista. I forzisti hanno chiesto un’apertura alle proposte delle opposizioni sugli sconti di pena, sbattendo contro l’asse FdI-Lega formatosi sul tema.
Tra una riunione e l’altra, Tajani ha dovuto ordinare la retromarcia. Le truppe più garantiste del suo partito, Pietro Pittalis alla Camera e Pierantonio Zanettin al Senato, hanno masticato amaro. Uno dei grandi grattacapi resta l’autonomia differenziata. Fratelli d’Italia sperava che l’approvazione del disegno di legge, firmato da Roberto Calderoli, togliesse il tema dal menu mediatico.
Invece un po’ la pressione delle opposizioni – con la volontà di fare un referendum – e un po’ le tensioni nella maggioranza rendono la riforma una croce quotidiana per Meloni. Uno spauracchio che si agita sullo sfondo e che porterà a un irrigidimento dei rapporti con i presidenti di regione del Nord, da Luca Zaia in Veneto a Massimiliano Fedriga in Friuli Venezia-Giulia.
I due leghisti, solitamente dialoganti, rischiano di diventare una spina nel fianco a palazzo Chigi e per ragioni opposte lo stesso ruolo spetta a Roberto Occhiuto, governatore della Calabria e vicesegretario di FI, una sorta di viceré al Sud del partito berlusconiano.
Ci sono poi gli avversari. La premier scruta con una certa apprensione il dinamismo di Elly Schlein, che ha ridato fiato al Partito democratico. Certo, i sondaggi rincuorano: Fratelli d’Italia sarebbe in crescita, addirittura sopra il 29 per cento, mentre il Pd è fermo sotto il 24 per cento. Ma Meloni, da navigata politica, sa che in questa fase i rilevamenti sono buoni per farci propaganda, pubblicare qualche card social elogiativa.
Per il resto è consapevole che Schlein stia imbastendo una fitta trama per costruire l’alternativa al suo governo, sottraendo un argomento della destra: quello della sinistra divisa «Se continuiamo così, con Salvini e Tajani che litigano ogni giorno, a destra sembriamo più divisi che a sinistra», è il ragionamento che circola dentro Fratelli d’Italia.
Così da via della Scrofa è stato mandato in avanscoperta Raffaele Speranzon, vicecapogruppo al Senato: «Abbiamo delle riforme da portare avanti. Se dovessimo riscontrare una direzione diversa, porremo una questione politica all’interno della coalizione».
Vento caldo d’estate
Le antenne sono state drizzate, insomma. Non c’è un vero allarme, ma nemmeno la sottovalutazione del nervosismo strisciante tra i leghisti, che seguono l’esempio dei Patrioti europei, ai forzisti, ancorati ai Popolari. Salvini è campione di colpi di testa estivi, in stile Papeete. Ed è intenzionato a portare avanti le proprie battaglie in maniera spericolata.
Ha messo in cascina il «salva-casa», una sanatoria per gli abusi edilizi, ora ha in testa di condurre in porto la misura «salva-Milano» per disinnescare le interpretazioni della procura sulle norme per l’urbanistica.
L’intenzione di introdurla con emendamenti nei vari decreti è stata stoppata dal Quirinale. La maggioranza ha presentato a Montecitorio una proposta di legge ad hoc. Prevedendo una maxi-sanatoria milanese. Meloni, nel mare magnum delle difficoltà, lascia fare Salvini su queste iniziative, che ritiene minuzie. Almeno al cospetto della «madre di tutte le sfide», lo stravolgimento della Costituzione, che «non è un Moloch», secondo la narrazione meloniana. La sensazione è quella di essersi infilati in una strettoia
Il premierato e la nuova legge elettorale possono cambiare i connotati alla Repubblica, ma possono portare la destra a sbattere come è capitato a chiunque abbia provato a mettere mano alla Carta costituzionale. Per informazioni, mandare a memoria cosa è accaduto a Matteo Renzi. Il fondatore di Italia viva ha fiutato l’aria e si è buttato a sinistra, pronto ad abbracciare Schlein anche fuori da un campo di calcio. Meloni preferisce godersi il vento d’estate. Anche se non sembra una piacevole brezza.
(da editorialedomani.it)
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