Settembre 3rd, 2024 Riccardo Fucile
LE CONVERSAZIONI DEGLI UFFICIALI DELLA GUARDIA DI FINANZA E DELLA GUARDIA COSTIERA: L’IMBARAZZANTE RIMPALLO DI RESPONSABILITA’ TRA I DUE CORPI MENTRE OLTRE 100 ESSERI UMANI MORIVANO
«So’ migranti…mesetto tranquillo». «In realtà non s’è visto nessuno, ma è una barca tipica». «E poi sotto il flir (sistema di rilevazione termica n.dr.) è tutto nero».
Lo sapevano, come era ovvio che fosse, che la pancia di quel caicco avvistato da un aereo di Frontex con una sola persona in coperta era piena di migranti. I bollettini meteo davano avvisi di burrasca: «C’è vento bruttissimo e una barca di migranti in arrivo». Ma chi doveva controllare quel barcone ( la Guardia di Finanza) rientrò in porto e chi doveva uscire per mettere in sicurezza chi navigava in quel mare in tempesta rimase agli ormeggi: «Noi non usciamo perché non abbiamo ricevuto nessun genere di richiesta».
Le chat degli indagati
Eccole le chat della notte di Cutro, quelle whatsapp fuori dai circuiti di comunicazione istituzionale, in cui nelle cinque ore in cui le cento e passa vite andate perdute avrebbero potuto essere salvate se gli ufficiali e sottufficiali di guardia di finanza e guardia costiera non avessero sottovalutato e non si fossero, soprattutto nell’ultima mezzora prima dello schianto, rimbalzata la palla.
Una “verità”, quella che esce fuori dalle 650 pagine di informativa finale del reparto operativo dei carabinieri di Reggio Calabria, su cui si è basata la decisione del sostituto procuratore Pasquale Festa di chiedere il rinvio a giudizio per quattro ufficiali della Finanza e due della Guardia costiera chiamati a rispondere a vario titolo di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo.
Il rimpallo di responsabilità
Chat private ma non solo. Dalla trascrizione delle comunicazioni registrate quella notte e dalle testimonianze dei protagonisti viene fuori un imbarazzante rimpallo di responsabilità tra i due corpi. Pesanti le parole dell’ammiraglio Gianluca D’Agostino, responsabile della sala operativa delle Capitanerie di porto: «Ritengo che il nostro unico errore sia stato quello di fidarci della Guardia di finanza che ci ha dato informazioni mendaci». Non meno severa la valutazione del comandante regionale della Capitaneria di porto di Reggio Calabria Giuseppe Sciarrone: «Non capisco perché quella notte ci hanno chiamato e hanno rifiutato il nostro apporto. La Guardia di finanza avrebbe dovuto chiamarci immediatamente, avevano l’obbligo di intervenire una volta scoperto il target. Le nostre imbarcazioni erano in grado di navigare con quelle condizioni meteo».
La Finanza: “Passiamo la palla”
In realtà le cose non sono andate proprio così. Perché se è vero che già dalle 23.30 del 25 febbraio le chat degli ufficiali della Finanza rivelano la decisione di procedere con un intervento di law enforcement nonostante la piena consapevolezza che quel caicco era pieno di migranti e che il meteo era proibitivo: «Per il momento è un’attività di polizia, abbiamo una nostra motovedetta fuori che l’attenderà…mare permettendo», è anche vero che quando alle 3.48 la Finanza si decide a comunicare alla Guardia costiera che i suoi mezzi stanno rientrano in porto per il mare proibitivo («Passiamo la palla a voi)», dalla capitaneria di porto rispondono serafici: « Noi in mare non abbiamo bulla, poi vediamo come evolve la situazione, perché al momento non abbiamo nessun genere di richiesta di aiuto».
I commenti dopo la strage
«Help, Italia, help». Quando le drammatiche richieste di aiuto arrivano, mezzora dopo, già ci sono cadaveri che galleggiano in acqua. Alle 7 del mattino, quando il sole è già alto sul disastro di Steccato di Cutro, sulla chat della Guardia di finanza c’è chi già si assolve: «Alla Capitaneria abbiamo richiesto l’intervento già a mezzanotte ma non sono mai usciti. Dopo che noi siamo rientrati gliel’ho fatto mettere a brogliaccio: guarda noi non ce la facciamo, valutate voi. Senza una chiamata di soccorso non hanno ritenuto di uscire. Noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare».
(da La Repubblica)
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Settembre 3rd, 2024 Riccardo Fucile
GRAN PARTE DEI RICAVI VENGONO INTASCATI DALLA FORMULA1 CHE FATTURA ALL’ESTERO, LASCIANDO IN ITALIA LE BRICIOLE
Che differenza c’è tra il Pinocchio di Carlo Collodi e il presidente di Aci, Angelo Sticchi Damiani? No, le bugie non c’entrano. C’entrano invece quei furbacchioni del gatto e della volpe che prendono Pinocchio sotto braccio e lo portano prima a fare baldoria in un’osteria (a spese del burattino) e poi lo convincono a sotterrare le monete d’oro al Campo dei Miracoli, perché l’indomani ne sarebbe fiorita una bellissima pianta di zecchini. Torniamo a Sticchi Damiani, che ogni anno va con il cappello in mano dal ministro dei Trasporti e a batter cassa al Pirellone, nel tentativo – sempre fruttuoso – di racimolare i soldi necessari per pagare alla società Liberty Media Corporation l’obolo milionario, indispensabile per portare in Italia il gran circo della Formula Uno. Già, per vedere la Red Bull di Max Verstappen, la McLaren di Lando Norris e la Ferrari di Charles Leclerc sfrecciare sulla variante Ascari dell’autodromo di Monza bisogna pagare un sacco di soldi. La fee, cioè il contributo che l’ente pubblico Aci versa alla società privata di diritto inglese Fowc Ltd, Formula One World Championship Limited, che detiene i diritti della Formula Uno, attualmente ammonta a 45,7 milioni di dollari l’anno, di cui 20 milioni per il Gp di Monza. I restanti 25,7 milioni servono per la corsa del circuito di Imola, in primavera.
Gli accordi pluriennali stanno per scadere e dovranno essere rinnovati nel 2025. Pare però di capire che anche questa volta il coltello dalla parte del manico ce l’abbia la Formula Uno. Non certo una novità: sono più di quindici anni che i vertici della Formula Uno – prima l’astuto Bernie Ecclestone, ora l’italiano Stefano Domenicali, che sono i nostri gatto e volpe – si fanno assai desiderare e minacciano di non rinnovare l’accordo, se non a fronte di una sfilza di impegni. Nel 2014 l’allora numero uno della Fowc, Ecclestone, non ci aveva girato troppo intorno: «Non credo che faremo un altro contratto con Monza, il vecchio è stato un disastro dal punto di vista commerciale. Dopo il 2016, bye bye…». Eppure la sentenza di condanna a morte non c’è mai stata e alla fine l’Aci – e prima l’Aci Milano – ha sempre firmato un accordo (nel 2017 e un altro nel 2019) e versato il milionario obolo – e ha detto sì a tutte le migliorie richieste prima da Ecclestone, poi da Domenicali – pur di avere il Gran Premio di Monza e ora anche quello di Imola.
Un affare in termini di indotto. O, almeno, così dicono i comunicati stampa che a ridosso della gara snocciolano numeri: 473 milioni di euro di giro d’affari per il Gp di Monza, di cui 143 milioni di indotto diretto sulla Brianza, 80 milioni di ricadute sul sistema produttivo nazionale, 50 milioni di valore del brand e altri 200 milioni di valore mediatico. Questi i dati dello scorso anno. Visti dagli spalti, i tre giorni della Formula Uno sono un vero investimento. E allora perché il nostro 78enne Sticchi Damiani, manager in sella all’Aci dal 2011, che peraltro è finito nei guai perché tra il 2017 e il 2020 avrebbe depositato autocertificazioni fasulle sui redditi guadagnati alla segreteria dell’ente Aci (ma questa è davvero un’altra storia), ogni anno si presenta con il piattino da Stato e Regione Lombardia? Semplice: quello che dovrebbe essere un grande affare lo è per gli altri, ma non lo è né per l’Automobile Club d’Italia né per le casse pubbliche, che sganciano, ma non guadagnano quanto dovrebbero. Mentre Pinocchio, dopo essere stato fregato dal gatto e dalla volpe, prosegue oltre e non ci casca più, con la Formula Uno, ogni anno si paventano risultati strabilianti, ma il piatto piange sempre.
Dal 2017 è Aci a firmare gli accordi con la Fowc. In quell’anno il Gp di Monza ha significato per il bilancio di Aci un costo complessivo di 29,5 milioni di euro (21 milioni di euro per i servizi, ovvero la fee pagata alla Fowc, più altri 8,5 milioni per organizzazione ed eventi), ha generato incassi per 18,3 milioni: quindi l’utile netto è stato meno 11,2 milioni circa. Non esattamente un affarone. Anche nel 2023 l’Aci non ha guadagnato un centesimo dalla competizione, anzi. Il bilancio 2023 dice che Aci ha speso 36,3 milioni per l’evento e ne ha incassati 35,3. Considerando il cambio sfavorevole la perdita è di 2,3 milioni. Nonostante numeri da record: 304.134 spettatori nel weekend e, sugli spalti, la premier Giorgia Meloni accanto al grande capo della Formula Uno, il manager Domenicali, e all’ambasciatore della Formula Uno in Italia, Flavio Briatore. Un bellissimo palcoscenico per tutti, ma i conti continuano a non tornare.
È forse possibile che il grande tesoro delle sponsorizzazioni, della pubblicità, dei diritti tv, dei servizi e tutto il resto resti in pancia alla società Autodromo Nazionale Monza Sias spa? Quest’ultima è controllata al 90 per cento da Aci e storicamente si occupa della gestione ordinaria dell’autodromo, nonché della gestione straordinaria del Gp. Andando a vedere i conti di Sias, si direbbe proprio di no. Va ricordato che questa società, quando assieme ad Aci Milano gestiva direttamente gli accordi con Ecclestone e la Formula Uno, aveva i conti in pessimo stato, al punto da essere stata travolta nel 2014 da un’inchiesta della Procura di Monza che si è conclusa con la condanna definitiva dei suoi vertici nel 2020 per reati fiscali e false fatturazioni per tre milioni di euro. Da quando Aci ha preso il timone della Sias, l’azienda ha dignitosamente galleggiato: nel 2023 ha generato utili per circa un milione di euro.
Ma dove finisce la ricchezza espressa dal Gran Premio? Fiumi di pubblicità, vip, sponsor, euforia generale. Un dubbio viene rileggendo con attenzione il dettaglio del bilancio Aci dedicato al Gp di Monza: alla voce sponsorizzazioni, i ricavi sono zero. Aci non incassa nulla dai tantissimi cartelloni pubblicitari, dalle centinaia di società che decidono di mettersi in mostra scendendo nella grande arena della Formula Uno.
La faccenda ricorda parecchio il caso sollevato dall’Amministrazione finanziaria indiana e dalla corrispondente sentenza emessa dalla Suprema Corte nel 2017 che aveva riscosso una certa eco mediatica. Sostanzialmente la Suprema Corte indiana affermava che il Buddh International Circuit di Greater Noida, periferia di Delhi, era una stabile organizzazione per la Formula Uno e che tutti i soldi che Fowc direttamente e indirettamente – tramite le sue società controllate che fanno parte della galassia del gruppo Liberty Media Corporation del Delaware, seguendo però un intricato labirinto societario – incassava dalle sponsorizzazioni, dalla vendita dei biglietti, dall’ospitalità al paddock, dalle richieste commerciali, media e marketing dovevano quantomeno essere tassate in territorio indiano. Invece no.
Leggendo le carte degli accordi fra la Formula One World Championship e la società indiana organizzatrice dell’evento, la Jaypee Sports International Limited, la Suprema Corte indiana aveva scoperto non solo che la Jaypee aveva pagato una fee da 40 milioni di dollari alla Fowc e che non si accomodava mai al banchetto delle sponsorizzazioni e dei ricavi, ma addirittura che la società Fowc, non avendo una stabile organizzazione in India, non pagava una rupia di tassa al governo locale per lo sfruttamento dei diritti commerciali che incassava. Questa sentenza, che poteva essere dirompente, in realtà è passata ampiamente sotto silenzio. L’Espresso ha chiesto conto ad Aci dei contratti stipulati con Fowc e le altre società satellite, ma l’ente si è detto impossibilitato a fornirne il dettaglio in tempi rapidi.
L’India – per la serie: punirne uno per educarne cento – ha dovuto dire addio per sempre al suo Gran Premio nazionale. Avrà anche smesso di perdere quattrini ogni anno, però il suo primo ministro non può più fare bella mostra in tribuna. La nostra sì, invece, con buona pace del senatore leghista Massimiliano Romeo, che a giugno se l’è presa con Sticchi Damiani: «Ora basta chiedere soldi. Da Aci vogliamo risultati», aveva tuonato, un po’ sconcertato, un po’ arrabbiato, per la quantità immane di quattrini pubblici drenati per il Gp di Monza. «Tra governo e Regioni gli abbiamo dato 80 milioni, mi chiedo come li abbiano spesi», ha detto Romeo a giugno, a poca distanza dall’ennesima richiesta allo Stato da parte del numero uno di Aci di ricevere ulteriori garanzie economiche per altri tre anni. Non è difficile capirlo, dove siano finiti quei soldi: ogni anno il Mit sgancia un contributo di 10 milioni per pagare metà dell’obolo da versare alla Fowc, indispensabile per portare a Monza la Formula Uno. La Regione Lombardia allunga altri 345 mila euro annui. Poi, sempre per mantenere Monza in Formula Uno, Domenicali ha preteso che l’autodromo di Monza fosse riqualificato: nuova pavimentazione, nuovi cordoli, raccolta e drenaggio dell’acqua, nuovo viale d’ingresso, nuovi sottopassi e nuovi percorsi pedonali. Migliorie pagate da Stato e Regione per un totale di 21 milioni di euro. Poi, per il futuro, c’è in ballo il progetto per la nuova tribuna sul traguardo, che sarà moderna, confortevole e con SkyBox. Come richiesto dai vertici della Formula Uno per consentire di vendere a prezzi più alti le hospitality al paddock. Non è tutto. Perché nel 2025 c’è da firmare il nuovo contratto pluriennale per mantenere Monza nel Gp dei prossimi anni, ma Domenicali ha alzato la posta: per essere nella rosa, 20 milioni di euro l’anno non bastano più. Ne servono almeno 30 di milioni, altrimenti Monza sarà scaricata. Tutte monetine che di anno in anno vengono seminate al Campo dei Miracoli. Com’è possibile che questa benedetta pianta di zecchini non germogli mai?
(da lespresso.it)
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Settembre 3rd, 2024 Riccardo Fucile
INTERVISTA ALLO SCRITTORE: “LA LIBERTA’ IN QUESTE REGIONI E’ ANCORA UNO SHOCK”
La Germania dell’Est ha un problema con la libertà?
«L’Est ha una diversa comprensione della libertà. E prevale anche una diversa comprensione della democrazia, che molte persone non riescono ad accettare, preferendo piuttosto una democrazia illiberale come in Ungheria o in Russia».
Ilko-Sascha Kowalczuk, storico e scrittore, e uno dei più importanti intellettuali dell’Est. Il suo libro, Freiheits Schock (lo shock della libertà) è un caso letterario: non a caso, usa la stessa parola Freiheit/libertà, che sarà il titolo della biografia di Angela Merkel, che conosce bene — e con cui discute regolarmente — anche se non lo sbandiera. Siccome dice pubblicamente cose come «Björn Höcke e Sahra Wagenknech sono due grandi demagoghi e questo, nella politica, è sempre pericoloso perché la bugia è il fondamento della loro politica», è la bestia nera dei populisti d’ogni colore. Ma è anche uno che non indietreggia.
Come si è arrivati a questo? Cos’è andato storto ad Est?
«C’era una grande euforia nel 1989-90 sui diritti portati dalla libertà. Però quel che è successo dopo ha profondamente deluso molte persone, perché si erano illuse riguardo all’Occidente, credendo che fosse un paradiso. E invece, piuttosto che finire in paradiso sono approdate nella dura realtà. Tutto ciò le ha portato rapidamente a un rifiuto, che oggi non è più solo rifiuto ma anche forte opposizione».
Come altrove nell’Est. C’è una specificità tedesca?
«Sì. La prima: rispetto alla Polonia, agli Stati baltici o l’Ungheria, la maggior parte della popolazione della Ddr non si è liberata da sola del comunismo, ma ne è stata liberata. La seconda: i tedeschi orientali hanno ottenuto, da un secondo all’altro, non solo la libertà e la democrazia ma anche il marco tedesco. La Deutsche-Mark ha cambiato tutto, distruggendo e travolgendo molte cose, le industrie per esempio, ma il benessere è arrivato molto rapidamente. La trasformazione dal comunismo all’economia sociale di mercato è avvenuta rapidamente, in nessun luogo la società è stata ammortizzata socialmente come in Germania orientale. Ma ne sono nate grandi divisioni. I tedeschi orientali misurano il loro livello di vita non rispetto alle condizioni di partenza, ma rispetto a regioni come la Baviera o il Baden-Württemberg, le regioni più ricche d’Europa, che non raggiungeranno mai».
E si arriva all’oggi…
«Sì, attraverso grandi crisi: quella finanziaria globale, quella migratoria, il Covid. E adesso, i tedeschi dell’Est stanno vivendo la seconda grande trasformazione in pochi anni, con la rivoluzione digitale che ha creato una grande incertezza in tutti noi. Nessuno sa cosa riserverà il futuro. In Germania dell’Est quest’insicurezza è molto sentita: così si corre verso i populisti, perché in questo tempo complesso e incomprensibile i populisti offrono risposte molto semplici. Unito a un forte nazionalismo e razzismo, ciò dà a molte persone in Germania Est una sorta di conforto. Questo spiega anche perché molti ad Est simpatizzino per Putin. La connessione tra estremisti di sinistra e di destra nell’Est è proprio il desiderio di un sistema autoritario».
Perché quest’inclinazione all’autoritarismo è così forte dell’ex Ddr? Cosa ha di diverso, per esempio, dal resto della Germania?
«Ci sono innanzitutto motivi storici. Abbiamo nell’est una tradizione autoritaria, che si è protratta attraverso l’impero,la repubblica di Weimar, il nazionalsocialismo, la Ddr. Ma c’è anche una fondamentale differenza con l’Ovest. Nell’Est la società civile è poco sviluppata, resiste la convinzione che tutto debba essere regolato dallo Stato, ritenuto il responsabile di tutto. Da una parte lo Stato viene criticato per tutto, dall’altra gli si demanda ogni incombenza. La mancanza della società civile — sostituita da questa onnipresente richiesta dello Stato — è uno dei motivi per cui molte persone sono inclini all’autoritarismo, credono in un leader forte».
L’Afd mira all’autoritarismo?
«Sì, credo che sia un partito molto autoritario e che rappresenti una parte della popolazione che desidera un governo autoritario. Se mai vincesse, cambierebbe nel profondo la Germania».
Ma perché questo rapporto così speciale con la Russia?
«La relazione con Putin cambia nei vari Paesi dell’Est: gli Stati baltici e la Polonia per esempio hanno vissuto il comunismo come oppressione. In Germania orientale, questa affinità con la Russia è assurda perché nella Ddr — e parlo per esperienza personale avendo antenati ucraini e un nome che molti consideravano russo anche se è ucraino — la Russia non è mai stata apprezzata. Pochi si interessano veramente della storia, ieri come oggi. Ma negli ultimi anni, la Russia è diventata per molti tedeschi orientali una proiezione. Si alleano con il più grande nemico del proprio nemico, che è l’Occidente: e se lo fanno amico».
(da Il Corriere della Sera)
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Settembre 3rd, 2024 Riccardo Fucile
“LA GENERAZIONE ANSIOSA” (RIZZOLI) DELLO PSICOLOGO JONATHAN HAIDT… SOTTO ACCUSA L’ABUSO DEGLI SMARTPHONE E L’IPERPROTETTIVITA’ DEI GENITORI
Leggevo il libro di Jonathan Haidt La generazione ansiosa, colpito in primo luogo dall’esplicito sottotitolo: Come i social hanno rovinato i nostri figli quando, a causa di un incendio avvenuto in zona, improvvisamente è saltato ogni collegamento telefonico. Non il wifi, non l’operatore mobile. Nulla. Silenzio.
Con quel telefono, che un incendio ha momentaneamente reso un ninnolo superfluo, di solito si può: parlare, scrivere, acquistare, leggere, giocare, controllare il conto in banca, il peso, la cartella sanitaria, scattare fotografie, girare video, ascoltare musica, ordinare cibo, organizzare viaggi, definire percorsi stradali…
Tutto in un clic. Tutto tempo restituito alla propria vita. Cose che richiedevano ore, come andare in banca, sostituite da un gesto. Diciamoci la verità: una meraviglia.
In teoria, questo oggetto ci restituisce tempo di vita.
Ma come lo usiamo noi?
Sul cellulare.
Un paradosso.
Il problema è particolarmente acuto tra gli adolescenti.
Haidt, nel libro (Rizzoli, in arrivo il 10 settembre) che molto farà discutere, sostiene che, con l’arrivo dei social, si è progressivamente passati, tra i ragazzi, dalla «generazione del gioco a quella del telefono». Parla di una «Grande Riconfigurazione dell’infanzia» come «unica e sostanziale ragione alla base dell’ondata di malattie mentali tra gli adolescenti iniziata nei primi anni Dieci del Duemila». E aggiunge: «La prima generazione di americani che ha attraversato la pubertà con in mano lo smartphone (e internet) è diventata sempre più ansiosa, depressa, soggetta a episodi di autolesionismo e suicidari…».
Secondo i dati pubblicati nel libro la depressione tra i ragazzi americani, in questo periodo, è cresciuta del 161% per i maschi e del 145% per le femmine, l’ansia è incrementata del 139% e il tasso di suicidi del 91% tra i maschi e del 167% tra le femmine. È chiaro, almeno per me, che altri fattori — storici, sociali, ambientali — hanno inciso nel profondo sul grado di fiducia nella vita e nel futuro di questa generazione.
Dice Haidt: «Il cervello umano contiene due sottosistemi che lo mettono in due modalità: la modalità di scoperta (per approcciare le opportunità) e la modalità di difesa (per difendersi dalle minacce). I giovani nati dopo il 1995 hanno maggiori probabilità di attenersi alla modalità di difesa, rispetto a quelli nati negli anni precedenti. Sono costantemente in allerta in previsione di pericoli, invece che in cerca di nuove esperienze. Soffrono di ansia».
Per Haidt ciò che sta accadendo ha a che fare con la rimozione del gioco, esperienza individuale e collettiva, dalla formazione infantile.
«Proprio come il sistema immunitario deve essere esposto ai germi e gli alberi devono essere esposti al vento, i bambini devono essere esposti a ostacoli, insuccessi, shock e inciampi per poter sviluppare forza e autosufficienza. L’iperprotezione interferisce con questo sviluppo e rende più probabile che questi giovani diventino adulti fragili e apprensivi. I bambini cercano il livello di rischio ed emozione per cui sono pronti, in modo da dominare le proprie paure e sviluppare competenze».
Nel libro si denuncia l’iperprotettività dei genitori che, resi ansiosi dalla società della paura, proiettano questi timori sui figli, privandoli della fiducia nel futuro e nel prossimo. «Questo atteggiamento è pericoloso perché rende più difficile per i bambini imparare a badare a sé stessi e a gestire rischi, conflitti e frustrazioni». Con il paradosso di bambini sottoposti a un ipercontrollo fisico e poi lasciati completamente liberi di vagare nei boschi della Rete.
La diagnosi di Haidt delle conseguenze della «rovina» di una intera generazione è durissima. Indica quattro fenomeni.
Il primo: la riduzione dei momenti di socializzazione. Le occasioni di incontro tra amici sarebbero, con l’avvento dello smartphone, passate da centoventidue minuti al giorno nel 2012 a sessantasette minuti al giorno nel 2019.
Il secondo: «Appena gli adolescenti sono passati dal telefono modello base allo smartphone, il loro sonno è peggiorato in quantità e qualità in tutto il mondo industrializzato».
Il terzo: la frammentazione dell’attenzione. «Gli smartphone sono kryptonite per l’attenzione. Molti adolescenti ricevono centinaia di notifiche al giorno, vale a dire che raramente hanno cinque o dieci minuti per pensare senza interruzioni».
Quarto, e più pericoloso, è la dipendenza: «Molti adolescenti hanno sviluppato dipendenze comportamentali molto simili a quelle causate dal gioco con le slot-machine, con profonde conseguenze per il loro benessere, lo sviluppo sociale e la famiglia». La dipendenza si manifesta — me lo hanno confermato personalmente degli psicologi infantili italiani — in ansia, irritabilità, insonnia.
Il libro si conclude con una serie di saggi consigli a insegnanti, governi, genitori
Ma il problema è reale, di fondo e merita una discussione. Non bisogna accettare il catastrofismo dei nemici delle tecnologie, dei luddisti della evoluzione scientifica, ma cercare, secondo me, di distinguere le opportunità della rete dalle distorsioni dei social. Ci deve preoccupare l’affermarsi di una sollecitazione costante al pensiero puramente binario, alla rimozione della complessità e, ancor di più, dell’accoglienza del pensiero e dell’identità altrui.
Il libro di Haidt dovrebbe essere discusso in classe, e letto tra genitori e figli.
Spegnendo i cellulari, senza bisogno di un incendio.
(da agenzie)
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