Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
IL VOLTO NUOVO SU CUI “PIER DUDI” VUOLE INVESTIRE È MASSIMO DORIS, EREDE DI ENNIO E AD DI MEDIOLANUM… SECONDO “IL FATTO” TRA I CONSIGLIERI PIÙ FIDATI PER CREARE LA FORZA ITALIA 2.0 C’È ANCHE GERRY SCOTTI: “SI DICE CHE OGGI IL CONDUTTORE TELEVISIVO SIA QUELLO CHE PAOLO DEL DEBBIO È STATO PER BERLUSCONI PADRE”
Non è più il se, ma il quando. E Pier Silvio Berlusconi lo aveva fatto capire a luglio quando, durante la presentazione dei palinsesti Mediaset, aveva fatto trapelare la sua volontà di entrare in politica seguendo le orme del padre: “Sento di avere il fascino della politica, è nel dna di mio padre”, aveva detto il secondogenito di Silvio Berlusconi.
Mosse che sono state notate nell’entourage della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che vede la famiglia Berlusconi ormai come un pericolo.
Secondo Dagospia il 2025 potrebbe essere l’anno giusto per commissariare definitivamente Antonio Tajani, fonti di Mediaset parlano di una discesa in campo in grande stile solo a ridosso delle prossime elezioni politiche, dopo che sarà più chiaro il futuro di Media for Europe (Mfe). Dubbi che vengono alimentati dalla sorella Marina che, consapevole degli attacchi personali al padre, ha sollevato qualche perplessità di fronte alla volontà di Pier Silvio di candidarsi.
Eppure, lui si sta muovendo. Organizza incontri con imprenditori tra Arcore e villa Grande e si fa commissionare sondaggi privati sulla sua popolarità (anche se lui smentisce). Ora ha anche degli uomini di fiducia che stanno lavorando con lui a questo progetto come fece Berlusconi con Marcello Dell’Utri nel 1994.
Il primo è Niccolò Querci, fiorentino, classe 1961: è l’anima grigia che Pier Silvio ha ereditato dal padre. Uomo di Publitalia, capo segreteria e assistente personale di Berlusconi dal 1992 al 2001, oggi siede nel consiglio di amministrazione di Mediaset. Pier Silvio si affida a lui per tutto, a partire dai contatti con il mondo dell’imprenditoria e dell’alta finanza.
Il volto nuovo su cui il figlio di Berlusconi vuole investire è Massimo Antonio Doris, erede di Ennio e fondatore di Mediolanum. Oltre ad avere le chiavi della cassaforte di famiglia (la banca), Doris viene considerato anche un manager in grado di fare politica: l’idea di Pier Silvio è quella di candidarlo alle prossime elezioni politiche portandolo da Milano a Roma.
Poi ci sono i giovani da lanciare nelle trasmissioni televisive per scalzare i “dinosauri” del partito, Maurizio Gasparri e Antonio Tajani: in estate ha fatto il suo esordio a Mediaset il 34enne Federico Benassati (oggi Client Account a Publitalia ’80), ma ci sono anche il responsabile giovani Simone Leoni e il consigliere del municipio 5 di Milano, Filippo De Bellis.
Per scendere in campo, però, Pier Silvio avrà bisogno anche di uno o più consiglieri in grado di costruire la piattaforma della Forza Italia 2.0. E si racconta che tra questi ci sia un volto nazionalpopolare, noto al pubblico televisivo: Virginio, in arte Gerry, Scotti. Si dice che oggi il conduttore televisivo sia quello che Paolo Del Debbio è stato per Berlusconi padre.
Negli ultimi anni si è parlato spesso di un impegno in politica di Scotti ma lui ha sempre smentito. Eppure il suo cuore batte da quella parte e il suo sarebbe un ritorno: è stato deputato craxiano tra il 1987 e il 1992, negli anni della Milano da bere conclusi con Mani Pulite.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
LA LETTERA DURISSIMA DEL LEADER DI FORZA ITALIA A CALDEROLI, CHE AVEVA CHIESTO DI AVVIARE UN CONFRONTO SULLE MATERIE DI COMPETENZA DEGLI ESTERI: “NON CI SONO MARGINI DI MEDIAZIONE”… L’IRA LEGHISTA
Sulle richieste di Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria di una maggiore autonomia “nel
commercio estero, nella cooperazione internazionale e nei rapporti con l’Unione europea non ci sono margini di mediazione” e la risposta è un no secco “al di là degli argomenti giuridici perché ne va dell’efficacia e della coerenza dell’azione internazionale dello Stato”.
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani risponde in maniera netta al collega degli Affari regionali Roberto Calderoli che, come previsto dalla legge sull’Autonomia differenziata, ha chiesto di avviare un confronto al collega per le materie da devolvere di competenza degli Esteri.
La risposta è stata durissima e il suo contenuto integrale è emerso solo nelle ultime ore: le stesse nelle quali le Regioni contrarie al ddl Calderoli (Emilia-Romagna, Sardegna, Campania e Toscana) hanno depositato in Cassazione i due quesiti sui quali chiedono anche loro un referendum abrogativo.
Sul fronte della battaglia sull’Autonomia differenziata a tenere davvero banco nella maggioranza, e nel governo, è la risposta data dal ministro Tajani a Calderoli.
Una divisione che diventa politica in seno alla maggioranza e al governo Meloni. Scrive Tajani a Calderoli rispondendo alle richieste formali arrivate da Liguria, Lombardia, Piemonte e Veneto: “Nelle materie di specifica competenza del ministero degli Affari esteri rilevo che talune richieste fuoriescono dal perimetro dell’articolo 116 della Costituzione e riguardano ambiti di competenza dello Stato – si legge nel testo – mi riferisco a esempio alle richieste attinenti alla cooperazione allo sviluppo, al diritto di intervento nei negoziati nei trattati internazionali e alle proposte tese a derogare ai limiti e ai controlli sull’attività internazionale delle Regioni. In questi ambiti non vedo margini di mediazione”.
Tajani dice no anche a richieste di maggiori competenze delle Regioni del Nord nei rapporti con l’Unione europea e nel commercio estero. Richieste arrivate in particolare dai governatori della Lega, Luca Zaia per il Veneto e Attilio Fontana per la Lombardia: “La partecipazione delle Regioni alla legislazione europea è già codificata – scrive il segretario degli azzurri – in ogni caso al Consiglio dell’Unione europea partecipano gli Stati e sono gli Stati a rispondere delle violazioni del diritto europeo”.
Ancora più dura la risposta sul commercio estero: “Per l’economia italiana il commercio estero ha una importanza strategica, le nostre filiere esportatrici sono profondamente integrate a livello nazionale ed europeo e quindi l’azione della pubblica amministrazione a sostegno delle nostre imprese deve essere coerente, efficace e coordinata – scrive – e nell’ambito promozionale, nel quale le richieste di maggiore autonomia si sono concentrate, già oggi le Regioni possono svolgere e svolgono azioni di valorizzazione dei propri territori”.
Di fatto Tajani al momento chiude alla cessione di materie di sua competenza al di là della richiesta politica di fissare prima i Livelli essenziali delle prestazioni. Perché nella sua lettera c’è già un secco no a prescindere dai Lep.
In casa Lega la tensione è molto alta e il ministro Calderoli dicono sia andato su tutte le furie dopo aver letto, non poco sorpreso, il testo della lettera del collega, per la quale ha preparato una risposta scritta.
(da la Repubblica)
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Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
COALIZIONE A RISCHIO ANCHE IN EMILIA E IN IN UMBRIA
“No ragazzi, questo non va bene. Fatelo togliere. Ci vuole l’Inno nazionale”. Matteo Renzi, mentre si prepara ad aprire l’Assemblea nazionale di Italia Viva all’Hotel Parco dei Principi di Roma, blocca le note della canzone introduttiva, + 1 di Fulminacci, con passaggi persino troppo allusivi alla confusione del momento (“Aspetterò il momento, senza sapere qual è”) per farsi introdurre da un più eroico “Fratelli d’Italia…”.
La lista Riformisti uniti per la Liguria (composta da Iv, +Europa e Socialisti) è fuori dalla coalizione che appoggia Andrea Orlando. Dopo giorni e giorni di trattative, alla richiesta di lasciare fuori i candidati renziani, Raffaella Paita ha annunciato che Iv si ritirava dalla coalizione. “Quando mi è stato chiesto di togliere dalla lista dei riformisti 10 nomi, depennati solo perché esponenti di IV, ho capito che avevano ceduto al diktat di Conte”, ha spiegato. Mentre +Europa ha parlato di “killeraggio politico”. Anche i loro candidati sono rimasti fuori, mentre due del Psi sono stati recuperati in una civica.
Orlando è arrabbiatissimo, dopo aver provato fino all’ultimo a tenere tutti dentro: “Con Iv, uno strappo che si poteva evitare. Le Regionali sono uno stress test”, dice a sera. Mentre Renzi anche ieri ha provato a tenere un profilo ancora dialogante con Elly Schlein: “Il Pd ci ha detto ‘il veto dei 5 Stelle non lo reggiamo’. Ma l’obiettivo di Conte non siamo noi, ma Elly Schlein perché ritiene che Schlein possa fare la presidente del Consiglio. Io sono per una posizione molto secca: il leader del primo partito della coalizione fa il candidato premier”.
Di fatto però, ieri non ha fatto la mossa che in molti si aspettavano: cedere il partito a Maria Elena Boschi, farsi di lato, per rendere più facile l’entrata di Iv nel campo largo. Una strategia preparata negli ultimi mesi, con l’ex ministra delle Riforme, frontwoman per i renziani della battaglia contro l’Autonomia differenziata e anche con la firma sul referendum per la cittadinanza, una battaglia decisamente di sinistra.
Ma a questo punto il fu Rottamatore ha capito che il campo largo è un’utopia, che – ancora una volta – tra lui e Conte, la segretaria del Pd sceglie Conte. E dunque, meglio tenersi qualche carta di riserva. Tanto che proprio ieri sceglie di ribadire che Iv farà i comitati per il No al referendum sul Jobs Act. Provvedimento storico del suo governo, che provocò l’uscita di Schlein dal Pd.
Il punto, però, non è solo la coalizione per le Politiche, ma anche le consultazioni regionali in arrivo: Emilia-Romagna e Umbria. Dove i renziani appoggiano rispettivamente Michele De Pascale e Stefania Proietti (che però è un caso particolare, visto che si tratta di una candidata civica con moltissime liste in appoggio).
Ieri Conte ad Accordi e Disaccordi ha chiarito: “Ad Andrea Orlando, come al Pd, abbiamo detto: non è possibile in Liguria imbarcare chi il giorno prima era a sostegno di Bucci”. Ma poi ha fatto un passo successivo: “Io ci faccio dieci partite a pallone con Matteo Renzi. Ma la politica non la possiamo fare con lui. Matteo Renzi, pur essendo parlamentare, tenacemente volendo stare in Parlamento, si fa pagare da governi stranieri. Come potete pensare che noi si possa governare con Matteo Renzi?”.
Il preludio, insomma, a fare per l’Emilia lo stesso ragionamento che ha fatto per la Liguria, pretendendo l’uscita dei renziani dalla coalizione, con l’appoggio di Avs. Per ora, sia dal Movimento che dai rossoverdi la versione ufficiale è “adesso pensiamo alla Liguria”. Ma poi il ragionamento si amplia: “In Emilia si vota il 17 e 18 novembre, le liste si fanno un mese prima”. Dunque c’è tempo. Ma “la questione va risolta una volta per tutti”. E a sentire Conte, non è detto che finisca bene: “Non si può andare avanti a colpi di ipocrisia, ci sono dei problemi col Pd perché il pensiero che non viene esplicitato è: noi del Pd possiamo arrivare anche al 30% e tutte le altre forze politiche si predisporranno a fare i cespugli, per consentirci di governare in alternativa alla Meloni”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
QUANDO CONTESTAVA SAREBBE INCORSA NEI REATI CHE ADESSO VUOLE APPLICARE AI CONTESTATORI DI OGGI
“Proverò simpatia per i giovani che contestano. L’ho fatto pure io. Anche quando
scenderanno in piazza per contestare le politiche del nostro governo. Come ha detto Steve Jobs: siate affamati, siate folli. Io aggiungerò: siate liberi”. Giorgia Meloni presenta il suo governo in Parlamento il 25 ottobre 2022
Non è difficile immaginare una giovanissima Giorgia Meloni nelle vesti di agguerrita contestatrice dell’ordine costituito. Difficile che all’età di 17 o 18 anni abbia contestato un governo Berlusconi (di cui più tardi avrebbe fatto parte). Proveremo, perciò, ad anticipare leggermente la lancette della storia al 1992: ci sembra di vederla la quindicenne Giorgia che, iscritta al Fronte della Gioventù, capeggia (se non lei chi altro?) all’istituto Amerigo Vespucci di Roma la protesta studentesca di destra contro le politiche del governo Amato. Mentre Giorgia organizza i suoi manipoli immaginiamo per un attimo che ministro dell’Interno non sia l’anonimo Enzo Bianco bensì il tosto Matteo Piantedosi. E che all’Istruzione, al posto del distaccato linguista Tullio De Mauro, sieda Giuseppe Valditara, terror degli studenti. Immaginiamo, infine, che al tempo fossero già in vigore contro i contestatori ( tipo Giorgia Meloni) le norme che sarebbero poi state approvate dal governo presieduto dalla omonima Giorgia Meloni. Dunque, in questa rivisitazione ucronica (si dice così?) degli eventi di una trentina di anni fa immaginiamo che Giorgia venga fermata dalle guardie per i seguenti reati. 1.Occupazione di beni immobili (avendo ella occupato le aule della scuola, come del resto facevano e avrebbero fatto tutti gli studenti contestatori di sinistra e di destra dal ’68 in poi). Con l’aggravante della “minaccia”, in seguito, poniamo, a una vivace discussione avuta da Giorgia medesima con il personale dell’istituto, poi “convinto” a farsi da parte (pene da 2 a 7 anni, inasprite dal governo Meloni). 2. Imbrattamento di cose mobili e immobili avendo Giorgia, poniamo, scritto con un pennarello su un muro dell’edificio: “Scuola occupata” (pena da 1 anno e mezzo a cinque anni, inasprita dal governo Meloni). 3. Danneggiamento di cose mobili e immobili: i banchi indebitamente usati, poniamo,per ostruire l’ ingresso delle aule occupate (pena da un anno e mezzo a 5 anni, inasprita dal governo Meloni). 4. Blocco stradale: avendo, poniamo, Giorgia guidato un corteo di protesta per le vie del quartiere creando intralci alla circolazione delle auto (pena inasprita dal governo Meloni da 6 mesi a 2 anni). 5. Violenza contro pubblico ufficiale: Giorgia, poniamo, punita perché cercava di sottrarsi al fermo operato dalle forze dell’ordine (da 6 mesi a 5 anni, aumentata di un terzo dal governo Meloni). Insomma, se la giovanissima Giorgia Meloni fosse scesa in piazza per protestare, poniamo, contro le norme del governo Meloni, qualche rischio con le legge lo avrebbe corso. Quando la premier dice “siate liberi” è dunque legittimo che i contestatori odierni (come lo fu Giorgia) si chiedano: con la condizionale o senza? Perché non vorremmo che per fermare coloro che imbrattano i monumenti o distruggono le aule si creasse invece il clima adatto per colpire il diritto al dissenso.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
CONDUTTORI CHE INTERVISTANO CONDUTTORI, AMARCORD INFINITI, TALK POMERIDIANI FATTI CON LO STAMPINO
Con il palinsesto a pieno regime la tv torna a dare il meglio di sé. Sprazzi di trash al “Grande Fratello”: il water s’intasa, la cacca resta a galla, parte la girandola di accuse e sospetti tra inquilini, “io non pulisco”, “io non so’ stato”, “qui ce poi magna’ da quant’è pulito”, replica a testa alta Jessica Morlacchi, prima indiziata del fattaccio. Limpida metafora della tv che “si fa ma non si guarda”, la cacca scuote dal torpore il format. Nella casa c’è anche Tommaso, single, “ragazzo d’altri tempi”, come recita la scheda, e nella vita idraulico. Potrebbe essere una macchinazione degli autori per metterlo alla prova e dare verve al programma. Potrebbe essere un problema strutturale del “nuovissimo villaggio” dove si fa il “GF”. Quest’anno per la prima volta non più a Cinecittà, ma nel “parco di Veio”, nella wilderness di Roma Nord, fuori dal Gra, tra boschi, foreste, ruscelli, resti di città etrusche, in un reticolo idrografico più impervio. Bisognerà capire se le fognature reggono. Proclamata con grande enfasi da Pier Silvio lo scorso anno, la “bonifica del trash” esce dalla porta e rientra dal cesso di questo “GF “all’insegna della biodiversità. Chi vorrà andare fuori la Casa con megafoni e striscioni e messaggi per i concorrenti, come da consolidata tradizione del programma, dovrà vedersela coi cinghiali.
A “Pomeriggio 5”, invece, un sottopancia da “Minority Report”. “Ultim’ora: uccide la madre e confessa davanti alle nostre telecamere”. L’omicida è stordito, braccato, incalzato dalle telecamere sotto casa. Lo cercano coi droni, lo trovano gli inviati di Myrta Merlino. Farfuglia, piange, è stordito, spiega che sì, l’ha uccisa lui. “Se vuoi chiamiamo i carabinieri”, suggerisce l’inviato. Potrebbe essere una buona idea. “Notizia data con sobrietà” dice la conduttrice che comandava le operazioni in studio. Chissà come se la immagina “scomposta e inappropriata”.
Ci si perdonerà se mettiamo insieme il watergate al “GF” e l’omicida reo-confesso a uso di telecamera, ma danno l’idea dei rantoli di una tv decrepita, costretta a rimestare nella cacca o a giocarsi il delitto in diretta per ricordarci di esistere. Il primo “Tapiro d’oro” della stagione, con occhiali e cicatrici, va intanto a Maria Rosaria Boccia, contentissima naturalmente di riceverlo, sfoggiando per l’occasione unghie acuminate e minacciose, le stesse con cui pare abbia sfregiato in un impeto d’ira la testa del povero Sangiuliano. Un Tapiro meritato. E sa anche un po’ di vendetta della vecchia tv generalista, scavalcata dall’Instagram della mancata consigliera nella gaglioffa e squinternata costruzione dell’affaire Pompei.
“Se vuoi capire la televisione guardala di domenica”, mi diceva un vecchio giornalista con rubrica ben retribuita su un quotidiano locale, quando i giornali vendevano un milione di copie e la tv faceva numeri oggi impensabili. Non che in televisione ci sia granché da capire, ma il “daytime” della domenica, uguale a sé stesso da trent’anni, è sempre illuminante. E’ lì che si misura l’indistruttibilità di una tv spavaldamente vuota di idee, chiamata a traghettare lo spettatore dai postumi del pranzo all’horror vacui della sera. Guardare la tv di domenica è la punizione di ogni critico televisivo. Un annientamento della volontà. Lo scivolamento nel nirvana catodico.
La domenica in televisione tutti si celebrano, si premiano, si abbracciano, si baciano, si “mettono a nudo”, si parlano addosso, si confessano in interviste confidenziali o strappalacrime, tra strizzatine d’occhio, sottintesi, complicità. “Da quant’è che non ci vediamo io e te?”, “Ti trovo bene!”, “quante ne abbiamo fatte!” dice a tutti i suoi ospiti-amici Mara Venier, the “Queen of all Domenica In”, la nostra Oprah Winfrey col canone in bolletta, che ormai potrebbe entrare in studio anche in ciabatte, tanto non se ne accorgerebbe nessuno. Programma casalingo, in un senso molto letterale, alla sedicesima edizione condotta da Mara Venier “Domenica In” esplora nuove possibilità e traiettorie dell’autoreferenzialità televisiva, sempre agitando lei lo spettro dell’“ultima edizione”, “basta”, “ho chiuso”, “dopo questa vado via ho altri progetti”, come Putin con l’atomica. “Domenica In” è una festa di metatelevisione svogliata. E proprio come il “Grande Fratello” – un programma che potrebbe andare avanti da solo, senza autori, senza Signorini in studio, senza pubblico a casa – anche “Domenica In” si fa perché si deve fare. La “scenografia completamente rinnovata” di quest’anno è ricalcata su una delle tante “Domenica In” degli anni Ottanta disegnate da Boncompagni: balconata bianca, fondale azzurro, finestrone romano e skyline con Campidoglio e Palazzo Venezia, che potrebbe anche essere la “vista mozzafiato” dal terrazzo di casa Venier, abitando lei proprio da quelle parti. C’è anche la rentrée del “tabellone” per giocare da casa. Un meccanismo un po’ contorto che ha già creato malumori. Mancano solo il telefono fisso, l’urna coi fagioli e la schedina Totip. Nelle “Domenica In” che celebrano “Domenica In”, Mara Venier si trasforma nel repertorio di Mara Venier. E’ la techetechizzazione “live” del conduttore. Le interviste diventano l’occasione per mandare in onda pezzi di qualche vecchia “Domenica In” naturalmente con Mara Venier, in un micidiale effetto mise-en-abyme, con noi che guardiamo Mara Venier che guarda Mara Venier. Come nelle vecchie serate a casa di zii e cugini a immalinconirsi davanti a diapositive, filmini, foto e video delle vacanze degli stessi zii e cugini, però con la strana sensazione qui di non essere stati neanche invitati. Sperimentando nuove varianti del voyeurismo televisivo. Sentendosi di troppo, imbucati a casa di Mara Venier. L’intervista come maratona di ricordi autoriferiti è ormai un classico della sua conduzione.
Lo scorso anno, alla prima puntata, Mara Venier intervistava Sabrina Ferilli. Baci, abbracci, album di famiglia, ricordi e momenti intimi. A un certo punto l’intervista era risucchiata dall’effetto repertorio. Ecco Mara Venier e Sabrina Ferilli che guardano in split-screen un’intervista di Mara Venier a Sabrina Ferilli in una qualche “Domenica In” del passato, mentre lo spettatore a casa confronta zigomi, rughe, interventini, occhiaie, “ah guarda com’era giovane”, “ah come si è mantenuta bene”. Domenica scorsa, intervista al povero Stefano Tacconi. Quaranta minuti estenuanti sulla sua ischemia cerebrale, et voilà: Tacconi e Venier di repertorio, spensierati e felici in una vecchia “Domenica In”. Those were the days. Naturalmente la metatelevisione non è una novità, ma vezzo e cifra stilistica della tv anni Ottanta, che all’improvviso si scopriva più postmoderna e autoreferenziale del cinema, della letteratura, dell’arte. Da Umberto Eco a David Foster Wallace l’autoreferenzialità della tv è almeno da quarant’anni oggetto di indagini e speculazioni teoriche. “Ciò che spiega l’inutilità della maggior parte della critica televisiva scritta”, diceva Foster Wallace in un saggetto illuminante e ormai classico (“E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction”), “è il fatto che la televisione è diventata immune dalle accuse di essere priva di qualsiasi nesso sensato con il mondo esterno”. Dal 1990, l’anno in cui scrive Wallace, la tv è cambiata parecchio e reality come il “GF” nascono già “privi di qualsiasi nesso sensato con il mondo esterno”.
La metatelevisione ormai si è radicalizzata e allo stesso tempo dispersa. Non ci si fa più neanche caso. Ma la posta in gioco sembra diventata più alta. Non ha più a che fare con una fase euforica e propulsiva del mezzo, come trent’anni fa. Si mescola invece con la nostalgia e le stampelle del repertorio. Scaturisce dalla sensazione che la tv abbia più passato alle spalle che futuro davanti. Il dato generale da osservare, infatti, non è il micro su-e-giù dello share, quel rovistare nelle briciole di molti programmi, ma la diminuzione complessiva dell’audience. Una metatelevisione fatta per addetti ai lavori, e sempre meno per gli spettatori che nel frattempo spariscono (ma con la fortuna italiana che gli ultrasessantenni sono il vero “paese reale” e quindi si tira ancora avanti un po’).
Non si capisce dove inizino e finiscano la pigrizia degli autori, la mancanza di idee, l’ego dei conduttori che usano i format per celebrare sé stessi, ma ormai parecchia televisione si fa tutta così. Faccio zapping, vado su “Verissimo”, l’alternativa Mediaset a “Domenica In”. C’è Silvia Toffanin che intervista i conduttori di “Tu si que vales”. D’accordo, bisogna fare il lancio promozionale del programma. Ma a furia di lanciare programmi della stessa rete, a furia di trafficare e rimescolare ospiti e conduttori che si scambiano di posto (Barbara D’Urso a “Ballando con le stelle”, Mario Giordano da Berlinguer, Alfonso Signorini da Myrta Merlino, ecc…) al povero spettatore sembra di essere intrappolato nella “casa degli specchi” del Luna Park. Il pubblico di “Verissimo” è diverso naturalmente da quello di “Domenica In”. Con la palpebra meno calata, meno annichilito dalla digestione del pranzo, con più smania di news e gossip di prima mano. Quindi anche meno repertorio in trasmissione, ma comunque grande spazio all’autoreferenzialità senza tracce di ironia, sciorinando a getto continuo matrimoni della galassia Mediaset scaturiti dalla factory di Maria De Filippi, per esempio “Tony & Jenny”, che sembra un cartone animato ma è invece la coppia più amata di “Temptation Island”, “in esclusiva a ‘Verissimo’ per un racconto a cuore aperto”. Il rotocalcone di Toffanin, che dura oltre tre ore come “Domenica In”, è una versione presentabile, educata della D’Urso television. Per intenderci, non c’è l’intervista all’Uomo Gatto, il Ken umano, la donna con sei tette. E’ un programma vuoto, come “Domenica In”, ma con verniciatura frizzante e colorata. L’estetica di “Domenica In” è quella del realismo ministeriale, stanzoni vuoti, macchinette del caffè nei corridoi (rotte), quell’atmosfera pigra da uffici pubblici, sale d’attesa col numeretto, anziani che fissano il pavimento (e con Mara Venier, non a caso, testimonial perfetta di una nota pubblicità). A queste tonalità da pennica stravaccati sul divano, “Verissimo” oppone una macchina spettacolare più muscolare, state-of-mind neon-viola-blu elettrico, i colori della televisione. Tutto è più ritmato, tonico, col muscoletto in vista della silhouette scattante di Toffanin. Non c’è quel “buttarla in caciara” tutto romano e vialemazziniano, ma l’ansia da prestazione atletica tipica delle soldatesse di Cologno. Se Mara Venier ha nostalgia di sé stessa, Silvia Toffanin insegue l’attualità. Ovviamente un’attualità che inizia e finisce dentro l’universo espanso di Mediaset, col suo stardom autarchico, confezionato per un pubblico soprattutto femminile, 25-50enni, a dieta, col tatuaggetto, un filo di botox, non intercambiabili con le anziane correntiste di “Domenica In”. Ma l’effetto specchio, la tv che celebra la tv in un rito sempre più stanco, vale però per entrambe le domeniche.
Se è vero, come diceva Flaubert, che “scrivere è riscrivere”, vedere la televisione è ormai incontrare vecchi pezzi di televisione, conduttori televisivi che intervistano conduttori televisivi o mash-up e remix, come il ciclo “Amici-Verissimo” con Maria De Filippi e Silvia Toffanin, un Frankenstein autocelebrativo del gossip televisivo, in arrivo a breve. Si salvano i grandi eventi: la copertura in diretta di un attentato, le Olimpiadi, Sanremo, che ormai tra attesa e postumi nutre quasi tutto l’anno televisivo della Rai.
Del resto, novità e piccoli smottamenti in televisione sono sempre rischiosi. Il mondo e il business delle repliche offre, a cominciare da Montalbano, lezioni esemplari. E il caso Amadeus, per ora a picco sul Nove, ci ricorda che quando un format va bene funziona in automatico. Più o meno con qualsiasi conduttore ci si metta dentro. A differenza di Fazio, che contava e conta su un pubblico feltrinellizzato, e cioè quel vasto segmento midcult di “ceto medio riflessivo” che si vanta di non vedere la tv a parte “Che tempo che fa” e poco altro, e che ora si sente ancora più cool per il fatto di vederlo sul Nove, il pubblico di Amadeus era proprio il pubblico dei “Soliti ignoti”. Soprattutto anziani, incollati alla tv, affezionati alla Rai, col telecomando scivolato sotto il cuscino del divano, e che con grande difficoltà cambiano canale. Non schiodano. Restano lì aspettando che arrivi qualcun altro a mandare avanti il programma. E se a presentarlo ci mettono un ologramma di Corrado o Mike Bongiorno non è detto che si accorgano del trucco.
(da ilfoglio.it)
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Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
GASPARRI INTERVIENE PER TUTELARE MEDIOLANUM, DOVE LA FAMIGLIA BERLUSCONI E’ AZIONISTA
Per Matteo Salvini è un “genio innovatore“, Giorgia Meloni ha appena ricevuto dalle sue
mani il Global Citizen Award, con tanto di foto che li ritrae mentre si scambiano sguardi d’elogio. Per Forza Italia, invece, Elon Musk è un “bandito fiscale“. Parola di Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato del partito di Arcore.
Intervistato da Affaritaliani.it, l’ex ministro berlusconiano si è scagliato contro l’ipotetica tassa sugli extraprofitti delle banche, notoriamente indigesta al gruppo di Segrate, azionista di Mediolanum. “Siamo contrari a nuove tasse a carico di chi già le paga. Ricordo, pochi lo sanno, che le banche già pagano una tassa supplementare rispetto agli altri. Invece tutto ciò che emergerà da intese con il governo, senza introdurre nuove tasse, con il confronto e il dialogo con le parti lo valuteremo quando sarà il momento”, ha detto Gasparri a proposito della prossima Legge di Bilancio.
Poi ecco l’attacco a Musk. “Se vogliamo parlare di tasse – continua Gasparri – bisogna tassare i giganti della rete che non pagano nulla, una vera vergogna. Sono banditi fiscali che tutto il mondo dovrebbe tassare e penso ad Amazon, Zuckerberg, Musk e tutti i giganti del web. Ci sono poi grandi gruppi, e non parlo delle banche, che grazie a una maggiore crescita economica aiutano anche lo Stato, perché più un’azienda fattura e più paga imposte. Sulle banche, ribadisco, si possono cercare tecnicalità fiscali a vantaggio del bilancio dello Stato ma senza introdurre nuove tasse”, conclude il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama. Una posizione, quella di Gasparri, che è completamente opposta a quella del leader della Lega e persino a quella della presidente del consiglio. E che per l’ennesima volta certifica la volontà di Forza Italia di sfilarsi dal coro unanime del centrodestra. Soprattutto quando si parla di tassare gli extraprofitti delle banche.
(da La Repubblica)
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Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
È GIA’ RIUSCITA A PIAZZARE LA CASA DELLE “CREDENZE CHE SBATTONO” E QUELLA IN CUI SI È COMPIUTO UN DELITTO
Nel passato di Fiorenza Renda, agente immobiliare di lungo corso e non a caso scrittrice, c’è stato l’appartamento disabitato in pieno centro dove tutti i condomini del palazzo giuravano di aver visto una bambina alla finestra e il castello in provincia di Cesena dove, con un po’ di fortuna, si poteva incontrare il fantasma di Lord Byron.
L’abitazione in via San Petronio Vecchio dove i proprietari erano spaventati dagli zii passati a miglior vita che si facevano ancora sentire, facendo volare piatti e bicchieri, e quella in via del Riccio dove è stata uccisa la storica dell’arte Francesca Alinovi. Specializzata in case stregate: Ghost house, il nome, con sede in via Audinot 31.
«È una nicchia – racconta Renda – ma quello che in certi casi ci sembrava un ostacolo alla vendita si è rivelata un’opportunità. Lavoriamo su scala nazionale». L’idea le è venuta vedendo su Sky la serie “Agenzia Roman – Case infestate vendesi” su un agente immobiliare impegnato a vendere abitazioni condivise con spiriti, fantasmi, ectoplasmi.
Il più inspiegabile, sempre in città, quello di un signore che stava valutando l’acquisto di una casa quando nel giardino della stessa ha trovato una chiave che sosteneva fosse sua, benché non fosse mai stato lì. «L’ho visto con i miei occhi. L’ha raccolta, affermando che era di un armadio di casa sua, da tutt’altra parte della città. L’aveva smarrita da tempo. Rincasato mi ha chiamato per assicurarmi che in effetti apriva l’armadio e che dunque avrebbe comprato l’immobile proposto perché lo considerava un segno».
Per la serie “non è vero ma ci credo” quello che Renda sta cercando di vendere ora è il castello di Affrico a Gaggio Montano. «Anche in questo caso con fantasma – assicura – quello di una fanciulla che ha deciso di mettere fine ai suoi giorni per un amore non corrisposto»
Ci fu poi il caso della casa dalle “credenze che sbattono” in via San Petronio Vecchio. «Mi avevano già affidato l’appartamento da mettere in vendita, quando uno dei due fratelli che l’avevano ereditato mi chiamò in preda ai sensi di colpa. Si scusò per non avermelo confidato prima, giurando che in quella casa succedeva di tutto. Era convinto fossero gli zii scomparsi, forse contrariati dalla vendita».
Caso diverso quello dell’abitazione di Francesca Alinovi in via del Riccio, venduto da Renda ormai molti anni fa. «Il proprietario mi confidò fosse l’alloggio della critica uccisa dopo aver ricevuto un’offerta di acquisto con caparra. Lo rimproverai seriamente, ma quando riferii al cliente il passato oscuro del luogo, assicurandolo che poteva recedere dall’impegno, mi disse entusiasta che aveva già scoperto si trattasse della casa dell’Alinovi.
(da la Repubblica)
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Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
DOPO CHE MOLTI MARCHI SIMBOLO DEL MADE IN ITALY SONO STATI ASSORBITI DA LVMH, ORA ANCHE TOD’S E MONCLER VEDONO LE PROPRIE SORTI LEGATE AGLI INVESTIMENTI DEL RE DEL LUSSO
Negli anni molti marchi simbolo del made in Italy sono stati acquisiti da Lvmh (tra gli altri
Fendi e Loro Piana). Ed è di giovedì la notizia che, sebbene in modalità diverse, anche Tod’s e Moncler vedono le proprie sorti legate agli investimenti del re del lusso.
Centotrentatre. È il numero (sempre lo stesso) dei gommini che formano la suola dei mocassini su cui Diego Della Valle ha costruito il successo di Tod’s. Il gruppo, che conta al suo interno anche Hogan, Fay e Roger Vivier, ha lasciato a giugno la Borsa di Milano a fronte di un valore di Opa di 1,4 miliardi.
Per l’operazione Della Valle ha scelto di farsi affiancare da L Catterton, il fondo di private equity che fa capo alla famiglia Arnault e che quindi oggi condivide le sorti del brand. Il nuovo corso si è aperto giovedì con la nomina del manager John Galantic ad amministratore delegato, carica ricoperta finora dallo stesso Della Valle, che resta presidente. La scelta sembra essere dettata dalla necessità di far crescere i marchi soprattutto sul mercato americano, che resta il più solido per il lusso globale malgrado le incertezze dell’anno elettorale e nel quale il nuovo amministratore, laurea alla Harvard Business School, ha costruito la sua carriera.
«Moncler è una delle storie di successo imprenditoriale più significative del settore negli ultimi vent’anni. La visione e la leadership di Ruffini sono straordinarie»: così nella serata di giovedì lo stesso Bernard Arnault ha commentato l’operazione che ha visto Lvmh acquisire il 10% (ma con la possibilità di salire fino a un massimo del 22%) del capitale di Double R, la società di Ruffini che controlla Moncler.
Il brand delle giacche che furono divisa d’ordinanza dei paninari negli anni Ottanta capitalizza oggi circa 16 miliardi di euro ed è il più grande marchio del lusso italiano. L’ingresso dei capitali francesi rafforza la leadership di Ruffini e la protegge da tentazioni di scalate ostili.
Ma inevitabilmente la notizia ha suscitato speculazioni sulla possibilità che in un futuro più o meno lontano Lvmh possa prenderne il controllo.
Quel che resta del made in Italy si affida a capitali e manager stranieri per affrontare la peggiore congiuntura degli ultimi 20 anni. La domanda di lusso cinese si è fermata e in molti scommettono che non tornerà più quella di prima. E l’aumento vertiginoso dei prezzi non aiuta a conquistare cuori e portafogli dei consumatori occidentali
(da la Repubblica)
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Settembre 29th, 2024 Riccardo Fucile
INIZIO’ ALL’ACCADEMIA DIRETTA DA SILVIO D’AMICO, NEL 1961 FONDO’ “LA COMPAGNIA DEI QUATTRO” CON VALERIA MORICONI, FRANCO ENRIQUEZ, EMANUELE LUZZATI… HA RECITATO ANCHE AL CINEMA IN “LA CINA È VICINA” DI MARCO BELLOCCHIO, “PROFONDO ROSSO” DI DARIO ARGENTO, “ECCE BOMBO” DI NANNI MORETTI (1978)
È morto nella tarda serata di ieri a Roma Glauco Mauri, decano del teatro italiano. Avrebbe compiuto 94 anni il primo ottobre. La notizia della scomparsa, anticipata dal Messaggero, viene confermata dalla storica compagnia Mauri Sturno, fondata dal grande attore e regista nel 1961 con Roberto Sturno, morto nel 2023.
Nato a Pesaro nel 1930, interprete di Shakespeare, Molière, Pirandello, Dostoevskij, Goldoni, con coraggio e passione Mauri è stato per settant’anni in scena: era atteso dal 26 al 29 settembre al Vascello di Roma con lo spettacolo De Profundis, da Oscar Wilde, annullato per l’indisposizione dell’attore.
Ha quindici anni Mauri quando affronta il primo ruolo da protagonista, con una compagnia amatoriale della sua città. Nel 1949 entra all’Accademia di Arte Drammatica di Roma diretta da Silvio D’Amico. Tra i suoi insegnanti: Orazio Costa, Wanda Capodaglio, Sergio Tofano, Mario Pelosini. Debutta da professionista nel 1953 nel Macbeth di Shakespeare diretto da Orazio Costa. Nello stesso anno è Sir Tobia ne La dodicesima Notte di Shakespeare con la regia di Renato Castellani, e, diretto da André Barsaq, ottiene un grande successo personale nel ruolo di Smerdjakov nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, con Memo Benassi, Lilla Brignone, Gianni Santuccio ed Enrico Maria Salerno.
Nel 1961 fonda con Valeria Moriconi, Franco Enriquez, Emanuele Luzzati, ai quali si aggiungerà in seguito Mario Scaccia, la Compagnia dei Quattro, gruppo artistico che ha rappresentato una forza innovativa e significativa nel panorama teatrale italiano, con cui porta in scena Shakespeare, Beckett, Pasolini, Marlowe-Brecht, Del Buono, Codignola, Garcia Lorca.
Dal 1965, dopo lo scioglimento della Compagnia, lavora soprattutto per gli Stabili di Torino, Genova, Bologna, e collabora con i maggiori registi italiani: Luigi Squarzina, Giorgio Strehler, Mario Missiroli, Aldo Trionfo per citarne solo alcuni.
Diretto da Luca Ronconi (1972) è protagonista nell’Orestea di Eschilo al Bitef di Belgrado, alla Sorbona di Parigi e alla Biennale di Venezia. Tra i suoi autori più amati, Shakespeare, Dostoevskij, Beckett. Nel 1981 fonda con Roberto Sturno la Compagnia Glauco Mauri, divenuta poi Mauri-Sturno. Dal suo debutto da professionista, partecipa a tutte le stagioni teatrali recitando più volte in spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa, al Teatro Romano di Verona, e poi ai Festival di Spoleto, di Benevento e di Asti.
Nella sua lunga carriera, appare anche in film come La Cina è vicina di Marco Bellocchio (1967), La costanza della ragione di Pasquale Festa Campanile (1964), L’ospite di Liliana Cavani (1971), Profondo rosso di Dario Argento (1975), Ecce Bombo di Nanni Moretti (1978). In tv è fra i protagonisti della stagione d’oro degli sceneggiati Rai, come I demoni di Dostoevskij e I Buddenbrook di Thomas Mann.
A dicembre 2023 esce “Le lacrime della Duse. Ritratto di un artista da vecchio”, l’autobiografia di Glauco Mauri, in cui con leggerezza e sincerità racconta la sua lunga ed ineguagliabile carriera di attore: “Vorrei fosse chiaro che non mi servo della vita per parlare di me ma uso me stesso per parlare della vita. Ho più di novant’anni e ho sempre cercato di stare con le antenne della mente e del cuore ben vibranti, per tentare di comprendere qualcosa della grande avventura del vivere. A quindici anni sono salito, per la prima volta, sopra un palcoscenico, poi per settantadue ho dedicato la mia vita al teatro. Luci e ombre, successi e fallimenti e devo confessare che i secondi mi sono stati più utili”.
(da agenzie)
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