Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
L’EX CAPITANA DELLA SEA WACHT: “SOLIDARIETA’ AI POPOLI OPPRESSI, SEMPRE CONTRO LE DITTATURE”… “L’UCRAINA HA DIRITTO AD ATTACCARE LE STRUTTURE MILITARI IN TERRITORIO RUSSO”
Essere di sinistra vuole dire stare dalla parte degli oppressi. Per questo l’Ue deve dare armi all’Ucraina. Carola Rackete, eletta al Parlamento Europeo con Die Linke, parla oggi in un’intervista a La Stampa del suo voto sul sostegno militare a Kiev.
«Nel nostro gruppo ci sono posizioni diverse e la mia è allineata con quella dei partiti della sinistra scandinava: Finlandia, Svezia e Danimarca. Essere di sinistra vuol dire essere solidali con i popoli oppressi ed essere contro le dittature, che si tratti di Russia, Venezuela o Siria. Bisogna stare con questi popoli e ascoltare le loro esigenze. Io l’ho fatto con gli ucraini, con i movimenti progressisti del Paese: sono loro a dirci quanto sia importante ricevere le armi per difendersi. Per questo ho votato a favore della risoluzione».
Il voto di Carola
L’ex capitana della Sea Watch spiega che «non c’è pace senza giustizia. Se smettiamo di fornirle le armi, a un certo punto l’Ucraina non potrà più difendersi e finirà per essere occupata dalla Russia. Milioni di persone saranno costrette a fuggire e milioni di persone si ritroveranno a vivere sotto una dittatura. Chi dice stop alle armi per arrivare alla pace, non cerca la giustizia. Anche io voglio la pace, anche gli ucraini vogliono la pace: non sono stati loro a chiedere di essere invasi! Ma serve una pace giusta. E la precondizione per la pace è che Putin ritiri le sue truppe dal territorio ucraino. Per questo dobbiamo sostenere la richiesta di autodifesa che arriva da Kiev».
Ed è giusto che si usino le armi occidentali per colpire in territorio russo: «Da due anni e mezzo la Russia bombarda le infrastrutture civili in Ucraina, provocando vittime innocenti. Se vogliamo aiutarli a difendersi in modo efficace, non possiamo dire loro: aspettate che i missili attraversino la frontiera e arrivino sopra le vostre teste. Dobbiamo consentire agli ucraini di distruggere gli obiettivi militari dai quali partono gli attacchi. Di questo parlava la risoluzione, non avrei mai votato a favore di un testo che chiedeva di bombardare i civili… ».
Il sostegno con il freno a mano tirato
Nel colloquio con Marco Bresolin Rackete spiega che «molti Paesi e molte persone in Europa dicono di sostenere l’Ucraina, ma lo fanno con il freno a mano tirato. Se siamo d’accordo su chi ha ragione e chi ha torto, non possiamo che agire in questo senso. Io sono da sempre critica nei confronti della Nato, ma in questo caso la situazione è chiarissima: è la Russia che ha invaso l’Ucraina, per la seconda volta, dopo averlo fatto anche in Georgia. Putin non riconosce la sovranità dell’Ucraina e la vuole distruggere. C’è un popolo chiaramente oppresso ed è un nostro dovere aiutarlo a difendersi».
La Nato
A Rackete non piace tanto l’Alleanza Atlantica: «Resto critica nei confronti della Nato per gli errori commessi, specialmente in Nord Africa o nell’ex Jugoslavia. Ma essere di sinistra vuol dire essere al fianco degli oppressi, siano essi in Palestina, in Kurdistan o in Ucraina. Io sto con la gente di Hong Kong e di Taiwan, con il diritto all’autodeterminazione e con la democrazia. Non è questione di Est o di Ovest, di Russia o di Nato. È una questione di imperialismo. Bisogna aiutare chi è più debole a difendersi dai soprusi dei più forti e la Russia è chiaramente più forte dell’Ucraina». Mentre le minacce nucleari potrebbero essere «un bluff. Spesso ci dimentichiamo che gli unici ad aver sganciato una bomba atomica sono stati gli Usa, la Russia non lo ha mai fatto».
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
MA CON IL 46% DI POTENZIALI ASTENUTI TUTTO E’ ANCORA INCERTO… L’EX GRILLINO MORRA SOTTRAE IL 3% AD ORLANDO… VEDIAMO SE CONTE RIESCE A FAR VINCERE BUCCI CON I SUOI VETI (SENTIR PARLARE DI QUESTIONE DI PRINCIPIO DA UNO CHE HA GOVERNATO CON SALVINI FA RIDERE)
Poco più di un mese e le urne si apriranno in Liguria: le elezioni regionali si terranno il 27
e il 28 ottobre 2024. Il voto anticipato è dovuto alle dimissioni dell’ex presidente Giovanni Toti, che ha patteggiato sulle accuse di corruzione impropria e finanziamento illecito.
Al momento, i sondaggi sembrano assegnare un vantaggio risicato al centrosinistra, ma le variabili sono ancora troppe per capire se ci sia un favorito.
A sfidarsi sono soprattutto Andrea Orlando, ex ministro del Pd, e il sindaco di Genova Marco Bucci. I due rappresentano rispettivamente il centrosinistra (‘allargato’ a M5s, Avs, Italia viva e Azione) e il centrodestra. Ma tra i candidati è emerso anche Nicola Morra, ex senatore del Movimento 5 stelle, con la lista Uniti per la costituzione.
Quali sono i partiti più votati in Liguria
Il sondaggio più recente, curato da Tecnè per l’emittente ligure Primocanale e pubblicato nei giorni scorsi, ha chiarito innanzitutto come si schierano i liguri per quanto riguarda i partiti e le liste da sostenere. Al primo posto c’è il Partito democratico, con il 26% delle preferenze, seguito da Fratelli d’Italia con il 24%.
Segue Forza Italia con il 10%, e poi si piazza la prima lista civica: quella di Andrea Orlando, che ottiene l’8%. Pari merito, al 7%, ci sono il Movimento 5 stelle e la Lega. Poi la lista civica di Bucci (6%), e infine Alleanza Verdi-Sinistra (5%), Italia viva (2%), Azione e +Europa (entrambi all’1%).
Nel complesso ne esce un 50% di sostegno per la coalizione di centrosinistra, contro il 47% del centrodestra. Ma, va tenuto a mente, c’è anche un 46% di elettori che dice che non ha intenzione di votare o non ha ancora deciso per chi farlo.
Chi prende più voti tra Orlando, Bucci e gli altri candidati
Quindi, l’incertezza resta alta. Come aveva confermato, pochi giorni prima, un altro sondaggio di Tecnè. Stando ai risultati, se la sfida fosse solo tra Orlando e Bucci il primo oggi prenderebbe il 53% e il secondo il 47%, con sei punti di distacco. Il ‘problema’, per il dem, è che gli sfidanti non sono solamente due.
La presenza di Nicola Morra con la sua lista complica le cose: infatti, la stima è che l’ex M5s ottenga il 3%, e si tratta in buona parte di voti sottratti a Orlando. Così, la previsione diventa di un 50% per l’ex ministro e 47% per il sindaco di Genova. Un distacco nettamente entro il margine di errore, e che quindi potrebbe essere colmato al momento del voto
Che effetto ha avuto la candidatura di Bucci
Il sondaggio in questione aveva anche rilevato che per oltre un quarto degli elettori del centrodestra (il 27%) Bucci avrebbe dovuto continuare a fare il sindaco fino alla fine del suo mandato, nel 2027. Ben il 68%, però, aveva detto che invece candidarsi in Regione è stata la scelta giusta.
Non solo, ma la ‘discesa in campo’ di Bucci ha spinto il 3% degli elettori di centrodestra a sostenerlo alle urne, quando prima non avevano intenzione di votare, e addirittura ha fatto cambiare idea a un 1% che avrebbe votato Orlando.
Possono sembrare percentuali ridotte, e lo sono, ma come visto i distacchi sono di pochi punti
Tuttavia, allo stesso tempo la candidatura del sindaco ha spinto un 4% di elettori di centrosinistra a non astenersi e votare l’ex ministro del Pd. Ancora una volta, è chiaro che la sfida è del tutto aperta.
(da Fanpage)
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Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
PENSAVA DI ESSERE IN ITALIA DOVE L’AVANSPETTACOLO NON COSTITUISCE REATO
Un italiano di 48 anni è stato arrestato per aver fatto il saluto nazista durante l’Oktoberfest
a Monaco di Baviera. L’uomo, ha riferito la polizia, è stato poi rilasciato su cauzione, come riportano i media tedeschi.
Secondo le ricostruzioni, giovedì 26 settembre si sarebbe esibito nell’Hitlergruß (“saluto di Hitler”) a braccio alzato, vietato in Germania, dietro un tendone, in direzione degli agenti presenti. Immediato l’intervento e l’arresto. È stata quindi presentata una denuncia per l’utilizzo di simboli di organizzazioni incostituzionali.
Solo dopo aver pagato la cauzione ed espletato le formalità di polizia, all’italiano è stato concesso di lasciare la stazione. Secondo quanto riferito da un portavoce della polizia, il 48enne aveva un tasso alcolico ben oltre i limiti.
L’Hitlergruß è considerato un reato in Germania: è vietatissimo e punibile con una condanna che può arrivare fino a tre anni di reclusione o con una multa di entità variabile, a discrezione dei giudici.
Purtroppo, non è la prima volta che connazionali si rendono protagonisti di simili gesti inconsulti. Era capitato esattamente un anno fa, sempre durante la celebre manifestazione che si tiene in questo periodo in diverse località tedesche: due 24enni delle province di Isernia e Matera erano stati arrestati proprio a Monaco di Baviera dopo essersi filmati mentre facevano il saluto nazista. Per entrambi era stata disposta la custodia cautelare fino al momento del processo.
Lo scorso marzo, a margine della partita di calcio di Champions League tra Bayern Monaco e Lazio, un 18enne italiano, probabilmente tifoso della squadra biancoceleste, è stato arrestato in un ristorante della città bavarese per aver fatto il saluto hitleriano.
(da Fanpage)
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Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
L’AFFARISTA CONFIDA IN UN CO-FINANZIAMENTO CON I FONDI DEL PNRR… COME IL GOVERNO, PER FAVORIRE MUSK, DANNEGGEREBBE LA RETE “ITALIANA” (ALLA FACCIA DEI PATRIOTI)
Elon Musk è pronto a collegare l’Italia alla rete di Starlink. E ad offrire abbonamenti a
Internet a meno di dieci euro al mese. Ma c’è un problema. Che si chiama Tim e Open Fiber. E Giorgia Meloni vorrebbe provare a risolverlo. Secondo il padrone di Tesla bastano tra i 6 e i 9 mesi per farlo. E il suo progetto prevederebbe un co-finanziamento. Da una parte i fondi del Pnrr. Dall’altra i suoi soldi. Anche perché, spiega oggi Repubblica, Starlink non avrebbe bisogno delle infrastrutture fisiche di cui si servono i provider tradizionali. E porterebbe il servizio direttamente agli utenti. Ma Tim e Open Fiber sostengono che il loro progetto sia migliore. E la decisione spetta adesso alla premier.
Ora quindi Meloni deve decidere se aprire a Musk. Scontentando in parte i suoi collaboratori, che puntano sulla rete “italiana”. Secondo gli americani la connessione nelle regioni più remote d’Italia è relativamente facile. E sarebbe economica e rapida. Starlink lo ha già fatto in Ucraina e nello Zimbawe. Ma se il governo non prendesse rapidamente una decisione, questo sarebbe un campanello d’allarme. Anche per progetti più complesse. Come la costruzione di fabbriche per le automobili elettriche della Tesla. O la collaborazione nelle attività spaziali.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
SI TRATTA DI MESSAGGI PACIFISTI O SONO FINANZIATI DA QUALCHE STATO STRANIERO CHE VUOLE INFLUENZARE IL DIBATTITO INTERNO? L’INTELLIGENCE INDAGA
A Roma e Milano. A Sondrio e a Lamezia Terme. A Modena e a Verona. In tutta Italia nelle ultime settimane sono apparsi dei manifesti tre metri per cinque, apparentemente innocui, ma che invece sembrano raccontare una storia più grande e complessa, che non a caso ha messo in allerta i nostri servizi di sicurezza: «La Russia non è un nemico», si legge sui poster, con due mani, una avvolta con un tricolore italiano, l’altra dipinta con i toni della bandiera russa. E due didascalie: «La Russia non è nostra nemica ». E «Basta soldi per le armi a Ucraina e Israele. Vogliamo la Pace e ripudiamo la guerra».
Ma si tratta davvero di messaggi pacifisti o invece dietro c’è altro? È un’iniziativa politica o invece un tentativo di influenzare il nostro dibattito interno da parte di uno Stato straniero? Insomma: è una normale schermaglia o un atto di guerra ibrida? È la domanda che si sono posti in queste ore i nostri servizi di intelligence. E anche la politica, tanto che Enrico Borghi, il senatore di Italia Viva e influente membro del Copasir, insieme con il collega Ivan Scalfarotto hanno presentato un’interrogazione parlamentare per capirci di più sulla storia dei manifesti.
«Attualmente nella città di Roma sono stati segnalati almeno una ventina di manifesti affissi da oltre due settimane e almeno cinque vele motorizzate che girano la città: secondo esperti del settori l’ammontare di una campagna pubblicitaria di simili dimensioni è pari a un costo tra i 30.000 euro e i 50.000 euro, di fatto una cifra significativa che merita approfondite indagini volte a verificare se non vi sia un sostegno economico da parte di soggetti o enti esteri».
Ma chi c’è dietro? Il sito Linkiesta , come è raccontato nell’interrogazione, ha fatto il nome dell’ex consigliere municipale 5 Stelle Domenico Agliotti, da sempre molto vicino a Virginia Raggi che risulta tra i responsabili a Roma. Repubblica è oggi in grado di sostenere come dietro l’operazione ci sia una rete – composta da figure vicine ai movimenti No vax e sovranisti – che sta diffondendo il suo materiale propagandistico in tutta Italia. «Si tratta – spiega proprio Agliotti – di centinaia di cittadini che hanno aderito all’iniziativa versando una piccola quota volontaria a titolo personale».
C’è chi ha messo 10 euro, chi cinque, numeri molto diversi rispetto alla campagna che si sta organizzando. «Ma non è vero che si parla di 50mila euro, sono molto meno».
Sarà: certo è che la campagna sembra troppo radicata per essere opera di un gruppetto di cittadini organizzati. È il sospetto che hanno anche Borghi e Scalfarotto, i quali chiedono ora l’intervento direttamente del ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, per «verificare che dietro l’affissione dei manifesti non vi sia il finanziamento da parte di soggetti esteri
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
IL VECCHIO MARCHIO DELLA COMPAGNIA DI BANDIERA AFFIANCHERÀ IL LOGO DI ITA AIRWAYS NEGLI AEROPORTI DALLA FINE DEL 2024. UN PRIMO PASSO CHE POTREBBE ESSERE SEGUITO DAL RIPRISTINO DEL BRAND STORICO ANCHE NELLE LIVREE DEGLI AEREI
Il marchio Alitalia torna ad affacciarsi negli aeroporti e andrà ad affiancare il logo di Ita
Airways dalla fine del 2024. Un primo passo per quello che — secondo i piani — dovrebbe poi portare al ripristino del brand storico anche nelle livree degli aerei che viaggiano in tutto il mondo con l’ingresso nel gruppo Lufthansa. È questa una delle novità che i vertici del vettore tricolore hanno presentato durante una conferenza stampa a Milano dopo aver snocciolato i risultati del primo semestre con un margine operativo lordo tornato positivo.
Insomma al momento il marchio Alitalia non tornerà sugli aerei. «L’identità visiva del vettore però si arricchirà di un elemento che omaggia la storia dell’aviazione e del Paese: “Ita, inspired by Alitalia”», spiega il presidente esecutivo Antonino Turicchi. «Il brand (acquistato da Ita per 90 milioni di euro, ndr), viene così valorizzato: su alcuni touchpoint strategici al logo Ita sarà affiancato quello di Alitalia» […]
Conti semestrali, Ebitda positivo per 62 milioni di eur
Sul fronte finanziario, nel periodo gennaio-giugno di quest’anno Ita ha registrato ricavi per 1,4 miliardi di euro, un Ebitda positivo per 62 milioni di euro (migliorato di 130 milioni rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), un Ebit di -88 milioni, e una cassa per 393 milioni di euro. L’ultima riga del bilancio — il risultato netto — è stato negativo per circa 140 milioni (contro i 128 milioni nel 1° semestre 2023), «ma di questi 70 milioni sono conseguenza del tasso di cambio euro-dollaro sfavorevole», chiarisce al Corriere Claudio Faggiani, direttore finanziario di Ita.
«Utile nel 2025»
Il direttore generale Benassi ricorda che la crescita dei sei mesi è stata ottenuta nonostante «l’allungarsi delle trattative con la Commissione Ue», sull’operazione con Lufthansa. «Ci aspettavamo di chiudere nella seconda parte dell’anno», ricorda. In ogni caso — conferma Turicchi — non cambia la prospettiva per il 2025: «Il piano industriale prevede che l’anno prossimo registreremo l’utile e una mano potrebbe darcela il Giubileo a Roma».
(da Il Corriere)
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Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
GLI AIUTI FORNITI MILITARI A KIEV HANNO SVUOTATO I DEPOSITI E ALL’ITALIA MANCA UN EFFICIENTE SISTEMA ANTIAEREO E ANTIMISSILE
Lì fuori c’è un mondo che sta diventando sempre più pericoloso, ma una buona parte del mondo politico e dell’opinione pubblica preferisce ignorare il rischio e quindi ad ogni euro speso in più per la Difesa si alzano immancabili le grida allarmate. Eppure Guido Crosetto, il ministro della Difesa, non si stanca di ripeterlo ad ogni intervista e l’ha scritto anche nel nuovo Documento programmatico pluriennale 2024-26, appena presentato al Parlamento.
Il problema, al solito, sono i soldi che non ci sono. E vanno considerati i vincoli del Patto di Stabilità con Bruxelles. La Difesa chiede un incremento nel 2025 del proprio bilancio (che è passato da 23,655 miliardi del 2008 a 32,331 miliardi del 2024) di almeno 2 miliardi di euro. Anche così saremmo lontani dall’obiettivo del 2% di Pil da investire nelle forze armate, come da impegni con la Nato, ma pure questi 2 miliardi non sono affatto scontati
Perciò il ministro Crosetto scrive che prima dell’invasione russa dell’Ucraina non avremmo mai pensato a doverci difendere sul serio e quindi gli investimenti militari erano stati ridotti al minimo. «Ora abbiamo capito che sono indispensabili, ma hanno un costo, anche elevato, da pagare. Le nostre scuole, i nostri ospedali, i nostri monumenti, le nostre industrie, la stessa libera e pacifica vita quotidiana dei nostri concittadini, viene garantita e si può svolgere grazie al contributo delle nostre Forze Armate».
Entro il 2035 la Difesa vuole comprare 25 jet F-35 più del previsto (da 90 si passa a 115 velivoli) per una spesa di 7 miliardi di euro; dovrà essere modificata in corsa anche una nave portaelicotteri, la “Trieste”, per ospitare gli F35 a decollo verticale. Contemporaneamente si investono miliardi nella progettazione del “Tempest”, il caccia del futuro, di sesta generazione, che sarà una coproduzione anglo-italo-giapponese. Entro il 2037 dovranno arrivare 1000 nuovi mezzi corazzati per la fanteria pesante, tra cui i carri armati Leopard 2, di tecnologia tedesca, costruiti in una fabbrica di “Leonardo” a La Spezia, per una spesa complessiva di 24 miliardi.
«L’Ucraina è stato un brusco risveglio dopo una sbornia di venti anni di peace-keeping, durante i quali sembrava che non servisse più l’armamento pesante», dice una fonte della Difesa. La festa però è finita, è il messaggio. Ogni passaggio è stato contrattato con la Nato. Come ha spiegato la sottosegretaria Isabella Rauti in Parlamento, ad esempio, «la componente pesante dell’esercito dovrà avere almeno 250 carri armati per formare due brigate pesanti e una corazzata, requisito specifico individuato dall’Alleanza atlantica per l’Italia».
La lezione sul campo, in Ucraina come in Medio Oriente, insegna poi che i missili e i droni dominano il campo di battaglia, perciò è indispensabile dotarsi di un efficiente sistema antiaereo e antimissile, su cui l’Italia è clamorosamente in ritardo. Il ministro Crosetto qualche giorno fa ha annunciato di avere ordinato 10 nuove batterie Samp/T, di fabbricazione italo-francese, ammodernate per fronteggiare la minaccia dei missili ipersonici come degli sciami di droni. È prevista una spesa di 6 o 7 miliardi.
Questo il libro dei sogni dei generali cui si contrappone una realtà delle ristrettezze. Il custode dei conti, Giancarlo Giorgetti, è una sfinge. Secondo le bozze del Piano strutturale di Bilancio, «lo sforzo finanziario sarà concentrato sul rifinanziamento del Fondo per gli assetti di alta e altissima prontezza operativa, il Fondo per le esigenze di difesa nazionale, e la riorganizzazione della programmazione concordata con il MIMIT per supportare il comparto industriale nazionale e il suo posizionamento nello scenario europeo e internazionale».
Finora però non sono state ripianate le spese dovute agli aiuti militari all’Ucraina. Si legge infatti sul Documento programmatico della Difesa, con riferimento all’esercizio finanziario 2024 di un incremento nel budget di circa 1, 4 miliardi di euro rispetto al 2023. «Ciò nonostante per il settore Esercizio si conferma un quadro generale economico-finanziario di incertezza determinato non solo dall’impegno dell’Italia a supporto delle autorità governative ucraine al quale non corrisponde un afflusso di risorse adeguato a ristorare le Forze armate, ma anche dall’applicazione di riduzioni di spesa».
(da La Stampa)
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Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
SI PUNTA A PRIVATIZZAZIONI PER RACCOGLIERE 20 MILIARDI TRA INTERESSI INDUSTRIALI E OSTACOLI DI MERCATO
Tosare i pensionati e vendere i gioielli di famiglia restano le due strade maestre della
politica di bilancio anche per la terza Finanziaria, come si chiamava un tempo, firmata Giorgia Meloni.
A questo giro, per non infierire troppo sui lavoratori a riposo, l’accento del governo grava sulle privatizzazioni, programmate in tre anni per portare in cassa 20 miliardi di euro e scendere sotto il 3 per cento nel rapporto deficit-prodotto interno lordo e, soprattutto, rassicurare i mercati internazionali e le agenzie di rating che non premiano i proclami. All’apparenza tornano i ruggenti anni Novanta, quando un rampante direttore generale del ministero del Tesoro di nome Mario Draghi girava ai privati i pezzi pregiati delle partecipazioni statali. Da allora quel che resta delle aziende pubbliche è andato in ordine sparso, a volte bene (Eni, Poste, Enel), a volte male (Alitalia, Mps, Tim), a volte così così (Ferrovie).
Le cessioni prossime venture sono però diverse da quelle del 1991-2001. Il governo annuncia di volere restare ai comandi e monetizzare senza fare danni e lo fa in particolare attraverso i due leghisti che, caso curioso visto il peso elettorale in flessione continua, sono al centro di un processo delicato: il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, cioè l’azionista, e il ministro delle Infrastrutture e vicepremier Matteo Salvini. Il piano triennale per i 20 miliardi è fermo a scarsi tre sommando le operazioni di Eni e Mps. Anche se in queste settimane si registra una accelerazione definitiva su Poste, il governo è consapevole che i 20 miliardi sono, al massimo, un traguardo suggestivo.
Il cartello di vendita affisso un po’ ovunque è un messaggio urbi et orbi a possibili partner finanziari. Preferibilmente fondi sovrani che, nella vulgata, sarebbero meno avidi di rapidi ritorni sugli investimenti. Purtroppo il socio che compra e tace è animale raro. In casi come Mps e Ita Airways non è neanche proponibile perché serve un partner industriale. E alcuni dei diamanti, veri o immaginari, non sono così facili da vendere. Per adesso, a parte l’opposizione dei sindacati, c’è la gara a garantire che nessun settore strategico sfuggirà al potere pubblico. È davvero così? L’Espresso ha fatto una ricognizione tra illusioni e verità delle privatizzazioni in formato terzo millennio.
Non ha tirato il freno di emergenza, ma l’effetto è quello. Stefano Antonio Donnarumma, amministratore delegato del gruppo Ferrovie dello Stato dalla fine di giugno, si è trovato sul tavolo un progetto di privatizzazione ereditato dal suo predecessore Luigi Ferraris, già “collocatore” di pezzi di Enel e Poste sul mercato borsistico. Anche per le Ferrovie l’idea girava intorno a una quotazione, possibile e appetibile per la sola Trenitalia, anzi, per la sola parte redditizia di Trenitalia, le Frecce dell’alta velocità. Al tempo, ha detto Donnarumma. Il nuovo ad vuole prima smontare il modello cervellotico dei poli organizzato dai passati dirigenti e non intende pronunciarsi prima del prossimo anno su un progetto che vede realizzabile da qui a un biennio. In totale, è un intervallo di circa trenta mesi dalla sua nomina che dura un triennio, salvo rinnovi e che arriverà alla scadenza poco mesi prima della fine naturale della diciannovesima legislatura. In altre parole, per le Fs ci sono altre emergenze legate al core business, che consisterebbe nello spostare passeggeri senza troppi ritardi e incidenti.
Il quadro è complicato da una rete di partecipazioni di minoranza, come quelle in Ferrovie Nord Milano, che riguardano il trasporto pubblico locale e l’ipotesi di ammettere il nuovo socio privato a livello di holding si scontra con l’evidenza dei numeri. Nell’ultimo bilancio la capogruppo ha chiuso con 100 milioni di utile netto a fronte di quasi 15 miliardi di euro di ricavi (0,66 per cento). Difficile trovare qualcuno interessato a un rapporto dello 0,66 per cento.
Parlando di redditività Eni ha ricavato 94 miliardi con profitti di 8 miliardi. Enel, che lo Stato non ha messo nella lista delle cessioni, ha fatturato 95,6 miliardi con utili netti per 6,5 miliardi. L’ex ente petrolifero, oltre ai dividendi, ha reso alle casse pubbliche 1,4 miliardi di euro dalla sua privatizzazione mirata alla raccolta triennale lanciata dal Tesoro. Dai binari al volo, la connessione è naturale. L’espansione di traffico aereo ha rimesso in campo la privatizzazione degli aeroporti ancora controllati dagli enti locali, a dimostrazione che il sistema del compro-oro non è affatto esclusiva del governo centrale, anche se a spingere per le vendite è proprio il ministro del Made in Italy Adolfo Urso. Con la frenata della pandemia alle spalle, le ultime statistiche Assaeroporti disponibili (luglio 2024) segnalano passeggeri in crescita del 10,7 per cento a quota 23,4 milioni. Sono oltre due milioni in più del 2023 e quasi tre in più del 2019. A guidare la lista dei privatizzatori ci sono le due isole maggiori, sempre più ricercate come mete turistiche. In Sicilia, la telenovela di Catania dura da un paio di decenni. Di recente, il senatore meloniano Salvo Pogliese è tornato a spingere per la vendita di Fontanarossa, che ha ritrovato la piena operatività dopo l’incendio dell’estate scorsa. Per la privatizzazione di Palermo Punta Raisi, insieme con il presidente regionale Renato Schifani, si è speso un Totò Cuffaro al rientro in politica. L’ex presidente regionale ha sostenuto la scelta di Vito Riggio, ex numero uno dell’Enac, di dimettersi da ad della società di gestione Gesap a fine giugno in mancanza di un progetto concreto di cessione.
Sembra andare in direzione contraria la presidente della Sardegna, Alessandra Todde, eletta a marzo. Todde ha frenato sulla cessione-integrazione dei tre aeroporti sardi che per la sola aerostazione di Cagliari Elmas vale 400 milioni di euro con il fondo 2i aeroporti (F2i e Ardian) che gestisce Alghero e Olbia, oltre a partecipare negli hub della Sea (Milano) e a controllare Napoli. Contro l’operazione sugli aeroporti sardi si è schierata una strana coppia formata da Cgil e Lega locale.
In continente rimane ancora bloccata la questione del Cristoforo Colombo di Genova che, invece di proseguire sulla privatizzazione, ha visto di uscire di scena il socio di minoranza Adr e il cda che voleva aprire le porte al gruppo Msc di Gianluigi Aponte. Saranno le elezioni regionali e comunali a decidere il destino dell’unico scalo ligure.
Il buon vento nel settore ha facilitato i risultati per Ita Airways, nata dalle spoglie di Alitalia con un’iniezione pubblica di 1,35 miliardi di euro e un carico di 3.500 dipendenti alleggerito di altri 3.500 messi in cassa integrazione. Al 31 dicembre 2023 il numero degli occupati è salito a 4.400. Lo svezzamento di Ita Airways s’è svolto con tre governi diversi. Il varo formale è avvenuto nel pieno della pandemia sotto il governo giallorosa di Giuseppe Conte II, con il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Il lancio sul mercato e la ricerca degli acquirenti, invece, li ha curati il governo di Mario Draghi, con Daniele Franco ministro. All’amministratore delegato Fabio Lazzerini, espressione di una maggioranza di centrosinistra, Palazzo Chigi aveva affiancato come presidente esecutivo Alfredo Altavilla, ex uomo Fiat e ombra di Sergio Marchionne. La ricetta Draghi non ha funzionato. Lazzerini e Altavilla hanno salutato. Oggi al vertice c’è Antonino Turicchi, dirigente del Tesoro. Ita Airways e il governo hanno cincischiato a lungo con le trattative preliminari per cedere subito la nuova compagnia aerea su diktat dell’Unione Europea. Lo scorso luglio, dopo sette mesi di negoziato, il Tesoro ha ceduto a Lufthansa il 41 per cento di Ita per 325 milioni di euro e dunque la compagnia è stata valutata circa 800 milioni. Questo accordo ha avviato il processo di vendita che avrà, al solito, scadenze variabili. Però lo scenario è mutato perché Ita è decollata: i tedeschi sentono l’urgenza di finalizzare, il governo italiano no. Per quest’anno sono previsti oltre 4 miliardi di fatturato con un margine operativo lordo di 300 milioni di euro. La rinascita di Ita somiglia a quella del Monte dei Paschi di Siena. Lì il Tesoro ha versato 1,6 miliardi e ne ha ripresi 1,570 in due rate, ma deve liberarsi ancora del 26,6 col titolo che vale 6,2 miliardi.
Al momento l’aiuto più consistente per la raccolta dei 20 miliardi è in arrivo dal gruppo Poste, quotata durante il governo di Matteo Renzi, con Piercarlo Padoan ministro. Lo sbarco a Piazza Affari portò nella casse del Tesoro circa 3,36 miliardi di euro, il corrispettivo del 35 per cento su una capitalizzazione iniziale di 8,8 miliardi di euro. Nel frattempo Poste è cresciuta e si è evoluta diversificando i suoi servizi logistici e finanziari, ma restando l’azienda più prossima ai cittadini con 13.000 sportelli e decine di migliaia di portalettere. La coppia inscindibile formata dall’ad Matteo Del Fante e dal condirettore generale Giuseppe Lasco è giunta al terzo mandato di fila ed è riuscita a garantire dividendi allo Stato e costanti rialzi in Borsa per una capitalizzazione di 16,1 miliardi di euro. Per questo motivo il governo ha proceduto con cautela prima di scegliere la procedura migliore che consentisse di conservare il 50 per cento più decimali della holding. Oggi lo Stato controlla Poste con il 35 per cento di Cdp più il 29,4 del Tesoro e la governance è del ministero. Sarà il Mef a rilasciare sul mercato circa la metà della sua quota, un 15 per cento che potrebbe fruttare 2,5 miliardi di euro. L’operazione di offerta pubblica sarà aperta ai risparmiatori e ai dipendenti per un terzo del 15 per cento. Il resto è per gli investitori istituzionali. Il Tesoro prende oggi da Poste una parte di quello che poteva incassare domani, considerate le eccellenti prestazioni finanziare. Nel caso della vecchia Telecom, invece, il governo ha rinunciato a tutto. In luglio c’è stato il tanto agognato scorporo della rete telefonica. Il gruppo Tim – primo azionista Vivendi col 23,75 per cento, secondo azionista Cassa depositi e prestiti col 9,81 per cento – ha venduto al fondo americano Kkr in cordata con un fondo pensionistico canadese, un fondo sovrano emiratino, il fondo infrastrutturale italiano F2i, il ministero del Tesoro. Gli americani di Kkr, come rivelato qualche mese fa da L’Espresso, sono diventati primi azionisti della rete telefonica italiana che ha assorbito la fibra ottica di Fibercop investendo in totale 4 miliardi di euro, mentre lo Stato ne ha messi 1,6 per rimanere, e non poteva esimersi, in minoranza. Le perizie tecniche dicono che la newco della rete telefonica, che avrà Tim come primo cliente per 15 anni con 2 miliardi all’anno di spese, dopo una prima fase di investimenti per convertire la rete in rame, si ritroverà con un fatturato stabile sui 4,5 miliardi e un margine operativo lordo tra il 46 e il 61 per cento. Un affare per Kkr. Il gruppo Tim si è privato del suo patrimonio storico per ridurre il debito. Oggi la società dell’ad Pietro Labriola, che capitalizza 5,3 miliardi di euro e ha abbattuto il debito netto da 21,5 miliardi a 8,1, ha concentrato le sue attività in Brasile e sul mobile in Italia. Dopo aver venduto in estate le quote residue delle torri Inwit per 250 milioni di euro, per centrare il difficile obiettivo dei 7,5 miliardi di debito a dicembre, Tim punta a ottenere parecchio dalla cessione allo Stato di Sparkle, la società che gestisce 600.000 km di cavi sottomarini che solcano il mar Mediterraneo, l’Oceano Indiano, l’Oceano Atlantico e sui quali scorre gran parte del traffico internet di Israele. Il peso di Sparkle, è intuitivo, esorbita dal conto economico e dai ricavi che si attestano a circa un miliardo di euro (di cui 170 milioni da Tim). Tim vorrebbe più dei 750 milioni di euro già rifiutati, proprio per le sue esigenze di debito. Certo non condizionerà il Tesoro e Asterion che non offriranno neanche un euro in più, semmai in meno.
(da lespresso.it)
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Settembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
“C’È IL SERIO RISCHIO DI NON RIUSCIRE A COLLAUDARE LE OPERE ENTRO LA SCADENZA IMPOSTA DALL’EUROPA PER IL 2026, CON IL RISULTATO DI PERDERE IL FINANZIAMENTO”
Sono “molte” le preoccupazioni dell’Ance sullo stato di attuazione degli interventi Pnrr “che segna profondi ritardi”. Lo afferma il vicepresidente dell’Ance, Luigi Schiavo, nel suo intervento al convegno dell’associazione “Opere pubbliche oltre il 2026”, in corso a Vico Equense.
“Molti appalti sono stati aggiudicati, ma i lavori, in molti casi, non risultano consegnati ed avviati. – sottolinea – Si profila quindi il serio rischio di non riuscire a collaudare le opere entro la scadenza imposta dall’Europa per il 2026, con il risultato di perdere il finanziamento. Tutto ciò è fonte di grandissima preoccupazione per le imprese”.
Nel nuovo Codice degli appalti “emerge, anzitutto, un problema di mercato. Infatti, i principi di apertura del mercato e di tutela della concorrenza sono messi a rischio dalla scelta di liberalizzare sino alla soglia comunitaria le procedure negoziate senza gara, che limitano fortemente la concorrenza”.
Lo afferma il vicepresidente dell’Ance, Luigi Schiavo, nel suo intervento al convegno dell’associazione “Opere pubbliche oltre il 2026”, in corso a Vico Equense. Secondo l’associazione dei costruttori “le soglie andrebbero riviste al rialzo, garantendo al di sopra di determinati importi l’invito di tutti i soggetti potenzialmente interessati.
Sebbene il Ministero delle Infrastrutture abbia avuto modo di chiarire, nel recente incontro sul correttivo, che la norma sulle negoziate non vedrà cambiamenti, noi non ci stanchiamo di auspicare che un parziale ripensamento possa esserci”, ha insistito Schiavo sottolineando che anche la Commissione Ue “ha una preoccupazione al riguardo”
Per l’Ance inoltre, la scelta operata nel nuovo Codice degli appalti di avere regole molto diverse e peculiari per i settori speciali “non appare condivisibile”, perché “crea un mercato parallelo per chi opera in tali contesti”. “Si pensi, ad esempio, alla scelta di non prevedere per tali settori l’obbligo di esternalizzare una quota dei lavori per i concessionari senza gara. – ha spiegato Schiavo –
Un mercato parallelo, quello dei settori speciali, dalle dimensioni tutt’altro che trascurabili: secondo dati Anac, nel 2023, a fronte di un ammontare di appalti pubblici (lavori, servizi e forniture) di circa 280 miliardi, dei quali 100 miliardi (il 35%) sono riferiti a lavori pubblici, la quota dei bandi/inviti afferente ai settori speciali per questo comparto raggiunge quasi il 40% dell’importo totale. In altri termini, nel 2023, oltre 37 miliardi di euro di appalti riferiti a lavori pubblici sono stati regolamentati da norme diverse dai regimi ordinari”.
(da agenzie)
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