Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
NELLA REGIONE PIÙ RICCA D’ITALIA, FEUDO DEL CARROCCIO, I MILITANTI LOCALI NON HANNO MAI GRADITO LA SVOLTA NAZIONAL-VANNACCIANA DI SALVINI. E POTREBBERO SCONFESSARLO
«Io di certo non mi ritiro, è da un anno e mezzo che mi giro tutta la Lombardia, ho preso un impegno con i militanti». Nella Sala Garibaldi di Palazzo Madama, il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo si sfoga ad alta voce con un collega di partito: «Faccio decine di telefonate al giorno per dire a quelli incazzati: state buoni, state tranquilli».
L’oggetto della conversazione è il congresso regionale della Lega in Lombardia, congelato dal 2021, richiesto e procrastinato da oltre diciotto mesi. Romeo ha dichiarato, da subito, la disponibilità a correre.
Sembrerebbe una candidatura senza rivali: presidente dei senatori, parlamentare fra i più popolari con la spilletta di Alberto da Giussano, e soprattutto, gradito ai militanti locali. In un territorio, quello lombardo, fremente di insofferenza verso certe derive del salvinismo.
Eppure nel Carroccio, raccontano fonti interne, c’è chi vuole spingerlo al passo indietro in nome di una candidatura unica e unitaria, benedetta da Matteo Salvini: quella di Luca Toccalini, 34 anni, deputato, coordinatore federale della Lega Giovani. Alla pressione a ritirarsi, Romeo, come spiegava ieri al Senato, ha risposto un sonoro: «No, grazie». E dunque, se necessario, si andrà alla conta, all’uno contro uno.
Un passaggio che la segreteria nazionale sta cercando di evitare per non intaccare l’immagine del monolite leghista che cerca di proporre all’opinione pubblica. Perché Salvini sembrerebbe preferire un giovane esponente leghista al capogruppo di Palazzo Madama, è presto detto: Toccalini è nato e cresciuto politicamente – anche per un banale dato anagrafico – con il segretario, al quale risponderebbe in via diretta.
Romeo è un salviniano, sì, ma non di cieca obbedienza. Ha una voce. A porte chiuse, quando è necessario, dice la sua. In pubblico lo fa in maniera più sfumata, nel rispetto della disciplina di partito, ma può farlo. Durante le Europee, per dire, non era di certo fra gli ultrà di Roberto Vannacci. Si limitò a due commenti: «Non la penso come lui» e «in lista ci può stare, ma solo con i leghisti storici».
Il capogruppo è convinto di poter contare sui militanti locali. Aspetto, quest’ultimo, non più scontato in Lombardia, campo minato di nostalgici bossiani e ribelli anti-sovranisti. Basti dire che l’ultimo vero segretario regionale, da quelle parti, è stato Paolo Grimoldi, espulso dal Carroccio dopo aver riferito del voto europeo di Umberto Bossi a Forza Italia, preferita alla sua stessa creatura, oggi a guida salviniana.
E lombardo era anche Gianantonio Da Re, cacciato per aver dato del «cretino» al segretario federale Matteo Salvini.
Romeo è convinto di poter vincere in Lombardia proprio in nome del proposito di far convivere le due «anime» del partito. Ieri, al Senato, lo ribadiva all’interlocutore: «L’importante, ora, è tenere unite la componente storica e identitaria e quella sovranista più recente». Resta da definire la data. Il congresso lombardo potrebbe tenersi a inizio dicembre, al più tardi entro Natale, ma l’orizzonte temporale rimane incerto. Anche perché, nel mezzo, c’è un giorno cerchiato in rosso nel calendario di Matteo Salvini: il 20 dicembre, la sentenza del processo Open arms a Palermo.
(da La Stampa)
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Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
IL TRIMESTRALE (CHE PUO’ CONTARE NEL PRIMO NUMERO ANCHE DI UN INTERVENTO DI LUCIANO VIOLANTE) SERVIRÀ COME STRUMENTO DI CONSENSO AMICALE. DETTO IN SOLDONI: POTRA’ MAI PARLARE MALE DI TE UN COLLABORATORE DOPO CHE GLI È GIUNTO IL BONIFICO PER LA PRESTAZIONE?
Non è al naso del ministro Alessandro Giuli, che a Venezia annusa il sublime cartaceo primordiale dell’arte e così forse perfino del creato, cui occorre fare caso in questa storia. Piuttosto al bonifico che, prima o poi, apparirà sull’estratto conto del collaboratore per il testo richiesto e pubblicato.
Ancora meno alla prosopopea del presidente Pietrangelo Buttafuoco che con curiale retorica da filodrammatica siciliana, anche in un’occasione in apparenza anodina, monta la guardia al Sacro Graal familista meloniano. Applaudito, quest’ultimo, perfino dagli ingenui di sinistra.
Talvolta la pagliuzza della doverosa satira demolitrice e liberatoria, vedi la parodia esemplare che di quel naso ha subito fatto Maurizio Crozza, impedisce di intuire la trave della gratificante cooptazione letteraria, forse anche “teoretica”.
Spiego meglio: la “risorta” rivista trimestrale che, appunto, Buttafuoco e i suoi collaboratori hanno rimesso al mondo delle librerie specializzate al prezzo di 28 euro, ha semmai tutt’altro scopo.
L’oggetto prende nome tautologicamente “La Biennale di Venezia”. E, così leggo nelle note di battesimo, si pone come, immagino, ecoscandaglio per “le arti visive, l’architettura, la danza, la musica, il teatro, il cinema e tutto quanto rappresenta spazio di riflessione e discussione intorno all’oggi, sempre con la prospettiva di meglio comprendere e immaginare il futuro”.
Sarebbe meglio dire il futuro professionale di Buttafuoco stesso, lì voluto, ripeto, da Casetta Meloni: Giorgia, “il presidente”, e la sorella Arianna, amministratrice dei singoli millesimi.
Apprendiamo ancora che i volumi tematici raccoglieranno “testimonianze, racconti, interventi ex cathedra, tutti inediti, di artisti, studiosi, personalità del mondo della cultura e della società civile” (sic). Nel primo numero, tra le firme, segnalo Giovanni Lindo Ferretti, Stenio Solinas e Luciano Violante. Da quest’ultimo mi aspetto un saggio, come minimo, sulle facce grottesche del potere restituite da Honoré Daumier.
Per esperienza, essendo stato critico d’arte contemporanea, addirittura “militante” per oltre un decennio (tuttavia orgoglioso di avere rifiutato un incarico di commissario sezione della Biennale d’Arte nell’edizione del 1993) so che le pubblicazioni tematiche sono oggetto di indifferenza da parte d’ogni possibile lettore. Ignoriamo quanto possa essere il compenso per il singolo intervento ex cathedra che riceverà ogni collaboratore, sono comunque abbastanza certo che, come già certe prosaicamente leggendarie ed economicamente gratificanti pubblicazioni di un’ormai cancellata compagnia aerea, questo il trimestrale in questione servirà soprattutto come strumento di consenso amicale. Detto in soldoni: potrò mai più dire male di te dopo che mi è giunto il bonifico per la prestazione?
(da Dagospia)
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Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
“FU LA DITTATURA ASSOLUTA DI UN UOMO CHE, DOPO AVERE CREATO UN SISTEMA, LO DISATTENDEVA, IMPROVVISAVA, RIPORTAVA TUTTO A SÉ. GRANDE PARTE DEL NOSTRO POPOLO, DEMOCRATICAMENTE, HA CONTINUATO A SPERARE IN UN CAPO SALVIFICO (BERLUSCONI? RENZI? GRILLO? DRAGHI? MELONI?) CHE DI TUTTO SI FACCIA CARICO, TUTTO RISOLVA PER POI ATTRIBUIRCENE IL MERITO, MAI LA RESPONSABILITÀ
Da “Benito. Storia di un italiano” di Giordano Bruno Guerri, Rizzoli editore
Per coloro che lo vissero il fascismo fu molte cose, e tanto diverse: un tempo eroico, una dittatura asfissiante, una parodia all’italiana, un governo qualsiasi (tutti i governi sono malvagi, uno vale l’altro…), un governo forte, l’ignobile politica del capitalismo in crisi, una rivoluzione, una rivoluzione mancata, il baluardo contro il pericolo rosso.
Per lo storico non sono considerazioni o categorie valide. Interpretare il fascismo significa soprattutto restituirgli il massimo grado di senso che ebbe nella società in cui si produsse; tentare di capire perché nacque, come si sviluppò e perché cominciò a declinare fino a scomparire.
Per lo storico che interpreta l’attualità, significa spiegare perché è impossibile che torni, mancando le condizioni che a suo tempo lo avevano fatto nascere, anche se cento anni dopo la marcia su Roma il partito più votato alle elezioni politiche è stato proprio Fratelli d’Italia.
Per dirsi fascisti o antifascisti occorrerebbe sapere cosa fu il fascismo. E, ancora di più, sapere che in Italia i fascisti furono pochissimi, neanche Mussolini lo era, lo abbiamo visto nella storia che abbiamo raccontato.
In pochissimi conoscevano le origini culturali del fascismo, che Giuseppe Bottai e pochi altri intellettuali facevano risalire addirittura alla Rivoluzione francese, che Giovanni Gentile sintetizzava in un culto dello Stato, al di fuori del quale l’individuo è nulla. Figurarsi se gli italiani si sono mai sentiti nulla, al di fuori dello Stato. Figurarsi se avevano, e hanno, davvero voglia di sentirsi un popolo guerriero. Figurarsi che nostalgia hanno della grandezza di Roma, degli stivali, delle marce e della camicia nera.
Popolo neanche troppo conservatore, abbiamo dimostrato di non essere affatto reazionari – con i due referendum su aborto e divorzio – e di essere sempre pronti alle divisioni, piuttosto che all’unione.
Anche all’epoca c’erano diversi fascismi, ma a dominare fu sempre il mussolinismo. Il fascismo ideale di Giovanni Gentile, di Giuseppe Bottai – pur sempre un’inaccettabile dittatura, ma pensante e oligarchica – non si realizzò, il mussolinismo sì. Fu la dittatura assoluta di un uomo che, dopo avere creato un sistema, lo disattendeva, improvvisava, riportava tutto a sé.
Gli italiani erano mussoliniani, non fascisti, perché in lui si volevano identificare, in un superuomo che chiamavano familiarmente Benito.
Per questo motivo, prima di dichiararsi antifascisti, sarebbe bene dichiararsi antimussoliniani, visto che grande parte del nostro popolo – democraticamente, spaventevolmente – ha continuato a sperare in un capo salvifico (Berlusconi? Renzi? Grillo? Draghi? Meloni?) che di tutto si faccia carico, che tutto risolva per poi attribuircene il merito. Mai la responsabilità, sia chiaro.
(da Dagoreport)
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Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
COME SPUTTANARE I SOLDI DEGLI ITALIANI TRA SPIAGGIA PRIVATA, CENTRO BENESSERE, PISCINE E RISTORANTI
Non solo stipendi di lusso – i 100 euro al giorno standard previsti dalla missione all’estero – ma anche una sistemazione di lusso. E che sulle casse dello Stato pesa parecchio: quasi 9 milioni di euro per 12 mesi.
Tanto costerà ospitare i 295 agenti di polizia e carabinieri da tempo di stanza in Albania, al momento a guardia dei due centri vuoti di Shegjin e Gjader. Per vitto e alloggio di ognuno di loro, il Viminale spenderà 80 euro, una cifra di tutto rispetto in Albania, dove prezzi e potere d’acquisto sono di gran lunga differenti dall’Italia.
Del resto le strutture del gruppo Rafaelo Resort sono di categoria lusso e le strutture ‘Rafaelo Executive’ e ‘Hotel Comfort’ scelte per ospitare gli agenti sono due alberghi sul mare a 5 e 4 stelle con spiaggia privata, centro benessere, piscine e ristorante.
Al momento non è chiaro se si sia stata fatta una gara per individuare la soluzione ottimale. Di certo di sa che la convenzione fra il gruppo Rafaelo e il Viminale è di dodici mesi e comprende “alloggiamento in camera singola, ristorazione e servizi connessi”, nonché “l’utilizzo esclusivo del ristorante Comfort Family”. Quando i lavori saranno ultimati e in caso di sopralluogo positivo, gli agenti saranno ospitati anche al ‘Rafaelo Lake’.
Insomma, una sistemazione assai comoda e di gran lunga differente a quella prevista per la polizia penitenziaria, “condannata” a vivere nei moduli prefabbricati , per altro in camere da dividere in due, all’interno del centro di Gjader. Circostanza questa che ha già provocato un paio di note arrabbiate del sindacato Uilpa e parecchi malumori.
Ufficialmente se ne sono distanziati gli undici di stanza in Albania e Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato polizia penitenziaria, un’altra sigla della galassia, si è affrettato a intervenire in soccorso del governo Meloni, sottolineando “chi sta adesso in Albania riceve 139 euro al giorno in più di salario e sta decisamente molto meglio del personale penitenziario in Italia”. Ma c’è malcontento, lamenta disparità di trattamento e in sostanza vuole andare in resort.
(da La Repubblica)
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Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE DEL “FATTO”, COME LA BASE STORICA DEL M5S, SPINGE PER SFANCULARE L’ALLEANZA CON IL PD, AL GRIDO “IL MOVIMENTO NON È MAI STATO DI SINISTRA”, MA CORRERE DA SOLI SIGNIFICHEREBBE NON AVERE PIÙ ALIBI DI FRONTE ALLE SCONFITTE: MEGLIO RIMANERE NELL’OMBRELLONE DEL CAMPO LARGO, COME SUGGERISCE GOFFREDONE
Giuseppe Conte si trova stretto tra i consigli opposti di due ottimi amici, Goffredo Bettini e Marco Travaglio.
Da un lato c’è il direttore del Fatto quotidiano, che dal giorno successivo al voto ligure insiste sull’opportunità di lasciarsi alle spalle l’alleanza stabile con il Pd. «Conte non ha stretto alleanze organiche col Pd: diversamente da qualche smemorato dei suoi, non ha neppure applicato ai Cinque stelle l’etichetta di centrosinistra» ha scritto Travaglio, suggerendo che Conte «ha sbagliato a donare il sangue a candidati invotabili in Liguria, Abruzzo e Basilicata».
Meglio invece, continua il direttore, valutare di volta in volta, e soprattutto ancorare le priorità in un contratto di governo. Insomma, per Travaglio c’è bisogno di un argine più forte di un programma condiviso e di più candidati “stile Alessandra Todde”. Cioè scelti dal Movimento 5 stelle.
Una linea senza compromessi che si ispira alla tolleranza zero verso le alleanze a cui il Movimento deve i suoi successi più grandi, che però oggi si scontra con la realtà dei numeri. Se il cammino comune della coalizione di centrosinistra era già stato accidentato nell’ultimo mese, il 5 per cento scarso della Liguria riduce ulteriormente lo spazio di manovra per Conte, che si ritrova di fronte un Pd che riesce addirittura ad aumentare i voti rispetto all’ultimo appuntamento elettorale.
Presentare oggi una strategia a corrente alternata, in cui per i prossimi tre anni l’alleanza andrà avanti a seconda delle circostanze (leggi: se il candidato sarà espressione del Movimento) sembra poco sostenibile.
Sia di fronte ai gruppi, in stato di grande agitazione, sia in termini di materiale umano a disposizione: competere a livello locale prevede una potenza di fuoco di cui i gruppi territoriali ridotti al lumicino attualmente non dispongono. Oltre che un’identità riconoscibile di cui non resta traccia, visto che ormai anche il credito che Conte aveva guadagnato ai tempi del Covid sembra essersi consumato. E poi, se il M5s andasse da solo, addio alibi: la responsabilità di eventuali, probabili, fallimenti, graverebbe tutta sulle spalle del Movimento, nessuna colpa da attribuire alla scarsa attrattività della coalizione o del candidato. Difficile anche riproporsi al Pd in prossimità delle elezioni del 2027 dopo tre anni di tira e molla per fare fronte comune contro la destra.
Proprio su questi dubbi fanno leva le obiezioni dell’intellettuale di riferimento della sinistra romana, Goffredo Bettini, da sempre grande sostenitore della “cosa giallorossa” e amico fraterno dell’ex premier. Prima delle elezioni in Liguria aveva detto a Domani che Conte ora «non va pressato».
Il giorno successivo allo spoglio ha impugnato bastone e carota: «Le lacerazioni della coalizione hanno pesato negativamente. Stabilizzarla e allargarla, significa costruire un soggetto liberale e di centro, collocato nel campo democratico, che superi i residui e i conflitti del passato e guardi al futuro». E poi: «Il Movimento 5 stelle vive una fase di grandi difficoltà e di incerta transizione. Speriamo tutti che anch’esso chiuda la parte della sua storia ormai esaurita e abbia l’energia di costruirne una nuova».
Insomma, della gamba riformista in coalizione non si può fare a meno, ma ci vuole anche comprensione per i travagli interni dei Cinque stelle. Da un lato, l’appello all’intervento di un federatore che metta insieme quanto c’è a destra di Elly Schlein, dall’altro, l’auspicio che Conte traghetti il partito verso una nuova fase da satellite dei dem, con una sopravvivenza garantita proprio dal trend positivo del Pd. Con l’assicurazione che comunque – ha giurato in un’altra intervista Bettini – Conte ha compiuto una «scelta irreversibile» quando si è posizionato a sinistra. E se Travaglio la vede diversamente, pazienza.
(da Domani)
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Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
ASGI: “NEL TESTO ALMENO ALTRI TRE CASI”
Nel testo del disegno di legge di Bilancio inviato al Parlamento il governo ha infilato alcune novità già accusate di discriminare gli stranieri che risiedono nel nostro Paese. A puntare il dito individuando i passaggi controversi nel testo è l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi).
La stessa che ha appena ottenuto il rinvio alla Corte Costituzionale della finanziaria dell’anno scorso che escludeva le lavoratrici straniere madri con contratti a termine e di lavoro domestico dal taglio del cuneo contributivo.
I legali Alberto Guariso, Livio Neri e Mara Marzolla, hanno ottenuto il rinvio dal Tribunale di Milano perché la norma nega un vantaggio retributivo proprio alle donne che generalmente hanno paghe più basse. Intanto la norma è già stata ripresa identica dalla nuova legge di Bilancio 2025. E a questa discriminazione delle persone straniere, avvertono gli avvocati dell’Asgi, si aggiungono adesso altri tre nuovi casi.
Aumento del contributo per le controversie in materia di cittadinanza
Il primo caso segnalato dai legali di Asgi riguarda l’articolo 106 della proposta di legge, che prevede l’aumento a 600 euro del contributo per le “controversie relative all’accertamento della cittadinanza italiana“. L’innalzamento colpirebbe in particolare le domande di cittadinanza iure sanguinis che attualmente pagano già un contributo unificato di 518 euro, costringendo le famiglie a pagare la somma rincarata per ciascun componente che richiede la cittadinanza anche se la domanda è presentata congiuntamente dal nucleo. Un caso unico, “perché in tutti gli altri contenziosi giudiziari con più attori, come nel caso dei condomini che agiscono assieme, il contributo da pagare allo Stato è unico”, fa notare Asgi. Certa che tale misura ostacoli l’accesso alla giustizia per le famiglie più vulnerabili per scoraggiare le richieste di cittadinanza. “Se il governo intende ridurre le possibilità di acquisizione della cittadinanza iure sanguinis lo faccia apertamente, modificando la legge, non certo scoraggiando l’accesso alla giustizia delle persone più povere”, scrive l’associazione.
Esclusione delle detrazioni fiscali per i cittadini extra Ue
Il secondo profilo critico emergerebbe dall’articolo 2, comma 10, che limita l’accesso alle detrazioni fiscali per le famiglie con figli a carico residenti all’estero esclusivamente ai cittadini italiani e dell’Unione europea. L’esclusione dei cittadini extra Ue sarebbe però in aperto contrasto con le normative europee. L’articolo 11, comma 1, lett. e) della Direttiva 109/2003 e l’articolo 12, comma 1, lett. f) della Direttiva 198/2011 prevedono – rispettivamente per i titolari di permesso di lungo periodo e per i titolari di permesso unico lavoro – la parità di trattamento con i cittadini dello stato ospitante per quanto riguarda le “agevolazioni fiscali“. La legge di bilancio violerebbe entrambe le direttive, già al centro di contenziosi poi chiariti, si sperava una volta per tutte, dalla Corte di Giustizia Ue e dalla Consulta. Insomma, ci sarebbe sufficiente giurisprudenza perché il legislatore non decidesse di perseverare.
Niente “bonus nuove nascite” alle donne con protezione internazionale
Il terzo punto riguarda l’introduzione del “bonus nuove nascite“, previsto dall’articolo 31, un contributo una tantum di mille euro per ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2025. Le donne titolari di protezione internazionale, tuttavia, vengono escluse da questo beneficio, contravvenendo all’articolo 29 della Direttiva 2011/95, che garantisce parità di trattamento con i cittadini del paese ospitante. Asgi chiede, per ragioni di equità, che “il permesso di soggiorno per protezione internazionale (rifugiato politico o titolare dello status di protezione sussidiaria) sia inserito nella lista di titoli idonei per la fruizione della prestazione”.
Esclusione delle lavoratrici a termine e domestiche dalla riduzione contributiva
Infine c’è l’articolo che mantiene l’esclusione delle lavoratrici già rinviato alla Consulta il 23 ottobre scorso dal Tribunale di Milano. Riguarda le madri con contratto a termine e quelle con rapporto di lavoro domestico a cui già la scorsa finanziaria negava la riduzione della quota contributiva e così il relativo aumento della retribuzione netta. Il Tribunale ha evidenziato come l’esclusione rappresenti una discriminazione indiretta nei confronti delle lavoratrici straniere che viola gli articoli 3 e 31 della Costituzione. Non solo. Secondo la magistratura milanese, “l’esclusione contrasta anche con la direttiva europea che vieta disparità di trattamento tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato ed è indirettamente discriminatoria nei confronti delle lavoratrici straniere che, molto più spesso delle italiane, sono presenti nel mercato del lavoro con rapporti a termine o di lavoro domestico”, ha riportato l’Asgi in un suo comunicato.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
IL SONDAGGIO SUL TESTA A TESTA IN UMBRIA
Dieci milioni di euro di soldi pubblici. Finiti all’azienda del marito dell’assessora al bilancio. E a quella in cui lavora il figlio della presidente di regione. Il tartufo-gate di Donatella Tesei in Umbria, dove si vota il 17 e il 18 novembre e la governatrice leghista si candida a un secondo mandato, sta tutto nella richiesta di archiviazione dello scorso settembre. Raffaele Cantone l’ha firmata poco dopo l’entrata in vigore dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio. E il Gip non ha potuto fare altro che concordare: «Il fatto non è più previsto dalla legge come reato». Anche se per i magistrati Tesei e Paola Urbani Agabiti avrebbero dovuto astenersi. E chissà, visto il precedente di Toti, se la vicenda influirà sulle elezioni. La sfidante del Campo Largo Stefania Proietti nei sondaggi è avanti di un soffio. E la sfida si deciderà all’ultimo voto.
L’abuso d’ufficio
L’inchiesta aperta nel 2023 riguardava la gestione dei fondi del piano di sviluppo rurale umbro. E in particolare i finanziamenti ricevuti da un’azienda di tartufi. Nella quale era stato appena assunto con contratto a tempo indeterminato il figlio della governatrice. E di proprietà del marito dell’assessora, Gianmarco Urbani. Il bando risale al 2021. L’assunzione del figlio di Tesei è arrivata durante l’apertura del bando da 10,7 milioni. La Urbani Tartufi ne ha ottenuti 4,8. Insieme ad altre quattro aziende. L’impresa del marito di Agabiti fattura 100 milioni di euro l’anno, ha sedi a New York e Londra. L’indagine della Guardia di Finanza è partita dopo un esposto anonimo. Un invito a comparire era stato recapitato all’assessora Agabiti ma l’interrogatorio non si è mai svolto. Ha parlato con i magistrati invece l’assessore all’agricoltura Roberto Morroni.
I sondaggi
L’ultimo sondaggio di Swg, ricorda oggi Il Fatto Quotidiano, vede Proietti stimata in una forbice che va dal 47 al 51%. Mentre a Tesei si attribuiscono tra il 45,5 e il 49,5% dei voti. Una classica situazione da too close to call. E un 25% di indecisi che pesano sui pronostici del risultato finale. Il precedente ligure non fa ben sperare riguardo l’esito. Anche se qui corre un’ex sindaca (di Assisi) come candidato civico. E il Movimento 5 Stelle sembra felice della scelta. Nel 2019 un’inchiesta sulla sanità provocò le dimissioni dell’allora governatrice Catiuscia Marini. Proprio sull’onda di quello scandalo il centrodestra di Tesei travolse il primo esperimento di alleanza Pd-M5s con il candidato Vincenzo Bianconi.
(da agenzie)
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Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
TRA 172 DIRIGENTI C’E’ PURE L’ESTERNO DA 370.000 EURO… E LA MOGLIE DI UN SENATORE FDI ASSUNTA COME ESPERTA
“C’è un mercato delle informazioni. Penso si debba mettere fine a questo schifo”. Le parole utilizzate mercoledì sera da Giorgia Meloni sull’ennesimo scandalo dei dossieraggi, deflagrato con l’inchiesta della Procura di Milano sul “gruppo di via Pattari”, sono sintomatiche del doppio binario su cui spesso si muove il governo: l’indignazione da un lato, l’inerzia dall’altro.
Così, mentre il sistema della sicurezza informatica in Italia fa acqua da tutte le parti – laddove finanzieri, ex poliziotti, hacker e perfino impiegati bancari possono accedere a dati segretissimi di chiunque – sotto la gestione del governo l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (Acn), che potrebbe essere determinante per la protezione di questi dati e di tutto il comparto digitale italiano, continua a ingrossare le proprie file di parenti, ex segretari, assistenti, autisti e fedelissimi. Oppure di militari coi capelli bianchi, ma senza alcun passato nel campo della sicurezza digitale, portati in Agenzia quando l’ex direttore generale Roberto Baldoni – incaricato nel 2021 dal governo Draghi –. Il quale grazie a speciali norme transitorie assegnò decine di incarichi dirigenziali a titolo di speciale incarico a un gruppo di ufficiali e poliziotti portati al seguito dal Dis che ottennero promozioni e congedi immediati. Incarichi cui la gestione dell’ex prefetto di Roma, Bruno Frattasi – nominato dal governo Meloni – ha contribuito con promozioni e ricchi passaggi di livello, confermando tuttavia il gruppo dirigente nonostante la rimozione di Baldoni e garantendo tutti con stipendi adeguati ai parametri di Banca d’Italia, il 30-40% in più rispetto alla media della Pubblica amministrazione.
Ammiragli e ufficiali da 240 mila euro l’anno
Qualche esempio. Subito sotto Frattasi, ci sono 9 direttori centrali. Prendono stipendi in media da 240 mila euro, a seconda dei livelli. E per ogni livello che si scala, si guadagnano circa 1.000 euro l’anno in più. Uno è proprio l’ex dg Baldoni, 11° livello retributivo (il più alto), al momento è senza incarico. Dispone però di uno staff di supporto, nella persona del consigliere Gian Luigi Nanni, ex maggiore dei carabinieri già capo segreteria dell’ex direttore del Dis, Gennaro Vecchione: senza incarico il capo, senza in carico l’unità di supporto. Sono ai vertici di Acn Paola Centra, proveniente dal Mef (con Frattasi dai tempi del suo mandato ai vigili del fuoco) e Marco La Commare, livello retributivo 1, 60enne ex direttore del personale all’Ispra. E ancora i fedelissimi ammiragli Gianluca Galasso e Andrea Billet (livello 2), che insieme all’ex ufficiale dei carabinieri e documentarista DisGianluca Ignagni e all’ex archivista Stefania De Meo detengono sin dalla sua costituzione le chiavi dell’Agenzia: per loro, nessuna esperienza operativa nel campo di cybersicurezza e cybercrime. Know-how che invece potrebbe appartenere a Luca Nicoletti, che in Sogei era il braccio destro di Paolino Iorio – il manager arrestato a Roma per le mazzette e gli appalti truccati (ma Nicoletti è totalmente estraneo a qualsiasi inchiesta) – e Liviana Lotti, che gestiva il sito internet della polizia. Poi c’è Renato Chicoli, ex ufficiale dei carabinieri in pensione, responsabile della prevenzione alla corruzione. Un incarico esterno è stato riservato a Mario Caligiuri, presidente della Società Italiana Intelligence, a 370 mila euro per 3 anni. Chi spezza una lancia in favore della gestione dell’Agenzia dice però al Fatto: “A un organismo del genere non servono solo esperti informatici: ci vogliono giuristi, manager, persone di livello che abbiano le capacità di gestire questa agenzia”.
Dirigenti premiati e operativi verso lo sciopero
L’Acn conta ormai oltre 300 dipendenti. Ma i dirigenti (direttori centrali, direttori da 140 mila euro, consiglieri da 120 mila euro e esperti da 90 mila euro l’anno) sono 172, cui si aggiungono 61 coordinatori. Poi ci sono circa 80 componenti del Csirt (Computer Security Incident Response Team), gli “smanettoni” che garantiscono la sicurezza e la resilienza delle strutture. È come se una società di trasporti avesse in percentuale più dirigenti che autisti e macchinisti. Sono in stato di agitazione, probabilmente a breve proclameranno lo sciopero. Tra le varie istanze, reclamano la “mancata trasparenza nelle procedure per i passaggi di livello economico e bonus di gratifica 2024” e “la mancata attribuzione di corrette mansioni al personale inquadrato nell’Area manageriale”.
Area che infatti è piena di parenti, più o meno titolati sul tema cybersicurezza
L’ex assessora e la moglie del senatore fdi
Ancora qualche esempio. Tra gli esperti figura Alessandra Ruggiero, moglie di Andrea De Priamo, senatore di Fratelli d’Italia che ha condiviso con Giorgia Meloni tutta la carriera politica: Ruggiero lavorava al Comune di Roma nella segreteria del direttore generale ed è entrata in Acn con interpello quando ancora governava Draghi. Altro nome di FdI è la consigliera Marina Buffoni, già assessora di destra al Comune di Padova. Nel gabinetto del dg c’è la giurista Valentina Lo Voi, figlia del Procuratore di Roma, Francesco Lo Voi. E poi ci sono i “fedelissimi”. Eliana Pezzuto è l’ex assistente dell’attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano; Elena Scarano, storica segretaria dell’ex prefetto Franco Gabrielli; Claudio Ciccotelli e Nicolò Rivetti sono al seguito della 63enne prefettoMilena Rizzi, a sua volta ex capo di gabinetto dell’ex ministra Luciana Lamorgese e oggi impegnata in un corso post universitario in cybersicurezza; Alfonso Gallo Carrabba è l’ex assistente dell’ex prefetto di Roma, Lamberto Giannini – con lui ai tempi dell’Università La Tuscia – mentre Maria Carla Giuzio è la storica segretaria di Frattasi, nominata consigliera per le sue alte professionalità. Carmelo Cipolla e Francesco Carioti (quest’ultimo direttore) erano autisti o impiegati al Viminale. “Tutti siamo parenti di qualcuno, ragionando così non si va da nessuna parte: se uno è parente ed è bravo, è giusto che possa lavorare per il Paese”, ragionano gli stessi difensori della gestione Frattasi.
I curricula lasciati senza incarico
Ai vertici di Acn ci sono anche altissime professionalità nel campo cyber. Solo che in alcuni casi il loro utilizzo lascia qualche dubbio. Anche qui alcuni esempi. Tra i direttori spiccano i curricula di Daniele De Martino ex polizia postale. O di Gian Luca Berruti, da qualche anno cognato di Maria Elena Boschi, ma da molto più tempo impegnato sul tema in Finanza nel campo della sicurezza informatica: oggi Berruti è a capo della divisione procedimento sanzionatorio, l’ufficio che farà le “multe” a chi non rispetta gli standard. E poi Ciro Di Leva, ex capo del Ced di Napoli, attualmente senza incarico. Infine Laura Tintosona, moglie dell’ex prefetto Giannini, forse poco esperta in campo cyber ma da una vita impegnata nella lotta al terrorismo. Il 23 settembre l’Agenzia ha pubblicato un interpello finalizzato all’individuazione di una figura specializzata in cybercrime: a loro quattro è stato suggerito di non partecipare, l’interpello è andato a vuoto e ora si cercherà all’esterno.
Nel 2024, la spesa per il personale è di 54 mln
Di contro, ci sono le carriere lampo: il figlioccio della vedova di un compianto agente del Sismi – a meno di 30 anni passato da esperto a consigliere e poi a capo divisione – l’esperto addetto ai segnaposto di incontri e conferenze, la consigliera arrivata dal Miur. Dal budget economico per il 2024 si evince che l’Acn spenderà per il personale 56 milioni di euro, circa 15 milioni di euro più del 2023. Tutto il gruppo dirigente ex Dis quest’anno ha fatto il pieno di gratifiche e passaggi di livello: tre gratifiche (il massimo) per 6 direttori centrali e 9 direttori. In totale, si contano 250 gratifiche e 136 passaggi di livello (da attribuire): il bengodi. Tranne per gli 80 operatori del Csir: loro, che supportati dai sindacati First Cisl e Sibc Cisal hanno annunciato “opportune azioni di lotta” contro un “vertice sordo alle legittime rivendicazioni del sindacato”, presto incroceranno le braccia.
Cene hacker, organizzate nei ristoranti di Roma
Ma quali sono le fonti di informazioni dei manager dell’Acn? Il Fatto ha scoperto che alcuni di loro partecipano ai cosiddetti “hacker’s dinner” o “hacker’s party”. Eventi informali promossi da “hacker etici” che si ritrovano in ristoranti romani a San Giovanni e Monteverde. “Sono incensurati e sanno tutto di Killnet (il collettivo filorusso che mandava offline i siti istituzionali qualche mese fa, ndr)”, assicura chi promuove, in Acn, questi eventi. Nulla in confronto alla cena – questa autorizzata – del 16 maggio al ristorante “La Lanterna”, arrivata a margine del G7 sulla cybersicurezza, costata 42 mila euro.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Novembre 1st, 2024 Riccardo Fucile
I MERCENARI DELLE GUERRE COMMERCIALI
Non lasciamoci sviare dalle vicende di “colore”: il ricco ereditiere che indaga sulla fidanzata, il banchiere che dopo la morte del padre ha liti in famiglia, la magistrata che vuole saperne di più sui conti del marito. Ben altra è la rilevanza del florido mercato abusivo d’informazioni riservate finito nel mirino della Procura di Milano.
Una zona grigia in cui più sei altolocato e più ti puoi permettere di violare i database delle istituzioni preposte alla sicurezza nazionale; per questo alla società Equalize del supermanager Enrico Pazzali e del superpoliziotto Carmine Gallo venivano conferiti incarichi investigativi dai vertici delle più grandi aziende del Paese. Che naturalmente ora cascheranno dalle nuvole, fingendo stupore di fronte alla scoperta che le ricerche commissionate venissero portate a termine commettendo abusi, effrazioni di sistemi informatici, intromissione nella vita di chicchessia.
L’elenco dei committenti di Equalize è interessante anche perché spesso coincide con le aziende più dedite all’intimidazione della stampa non asservita e dei dipendenti. Vi troviamo l’Eni così come Acciaierie d’Italia. Ma poi anche Barilla, Erg, Heineken per limitarci ai marchi più noti. Mentre resta da chiarire la motivazione della consulenza da 244 mila euro lordi bonificata da Intesa Sanpaolo a una ditta individuale di Enrico Pazzali costituita nel 2021 venti giorni dopo la data del contratto, come rivelato da Luigi Ferrarella e Cesare Giuzzi sul Corriere della Sera.
Non costituisce certo una novità, in Italia e altrove, la relazione corruttiva fra servitori infedeli dello Stato e imprese aspiranti al controllo del territorio in cui operano. Risale al 1971 la scoperta delle 350 mila schede di dipendenti raccolte illecitamente dalla Fiat, molte delle quali provenienti dalla Procura, dalla Polizia e dai carabinieri. Il processo subì ogni genere d’intralcio, venne trasferito a Napoli, e solo nel 1978 si concluse (nel silenzio della grande stampa) con la condanna dei responsabili, grazie alla rettitudine di un magistrato come Raffaele Guariniello e alla tenacia degli avvocati Bianca Guidetti Serra e Pier Claudio Costanzo. Ma oggi, nell’epoca della digitalizzazione e col boom della cybersecurity, il caso Equalize (non certo l’unica agenzia spionistica che ricorre a metodi poco ortodossi di hackeraggio e intercettazioni) rivela un salto di qualità: nei comportamenti di importanti protagonisti del capitalismo italiano si riconosce indifferenza alle regole tale da configurare una privatizzazione degli apparati di sicurezza dello Stato. Gli ex dirigenti delle forze dell’ordine e dell’intelligence reclutati nel privato – con la spruzzatina di tecnologie israeliane che non guasta mai esibire nel presentarsi all’avanguardia rispetto alle strutture pubbliche – agiscono come i contractor delle guerre contemporanee. Sorta di mercenari delle guerre commerciali che grazie al loro ascendente sui malpagati ex sottoposti continuano a esercitare su una parte di essi una relazione gerarchica. “Sì, facevo gli accessi abusivi per i dati, nell’ambito di un rapporto di scambi di favori” a lui richiesti dal suo “ex capo”, è la deposizione rilasciata dall’agente di polizia Marco Malerba interrogato al Palazzo di Giustizia di Milano. Mentre il detective privato Massimiliano Camponovo parla di “una mano oscura che muove questo sistema” e che lo fa temere “per l’incolumità mia e della mia famiglia” ora che ha ammesso: “Mi passavano i dati e io facevo i report, eseguivo”.
Ma sbaglieremmo a concentrare l’attenzione sui pesci piccoli, i funzionari comprati con gli spiccioli e i nerd informatici reclutati alla bisogna. In fondo restano figure secondarie anche gli spioni arricchiti che ora di fronte ai giudici continuano a proclamarsi leali servitori dello Stato. Hanno messo la loro reputazione e le competenze acquisite al servizio del miglior offerente. Più in su dobbiamo guardare. Gli attori di questo presunto “libero mercato”, imprenditori o manager che siano, quando sospettano comportamenti illeciti da parte di amministratori, dipendenti o concorrenti, preferiscono – come si dice – farsi giustizia da sé piuttosto che rivolgersi alle autorità preposte. Ed è così che acquisiscono un potere abnorme figure trasversali poco note al grande pubblico, come il presidente (autosospeso) di Fondazione Fiera di Milano, Enrico Pazzali; nonché collezionisti di poltrone nei Cda di società pubbliche, in grado così di scalare posizioni fino a contare più dei loro protettori politici. Questo sistema di privatizzazione degli apparati di sicurezza, posti al servizio di un capitalismo che privilegia la concorrenza sleale al rischio imprenditoriale, fa sì che prima o poi rimangano tutti invischiati nella rete. Ciascuno col suo dossier a carico, ricattabile, dunque affidabile.
(da ilfattoquotidiano.it)
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