Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
DA VENDITORE DI STRADA A COMMESSO: UN ESEMPIO DI INTEGRAZIONE E SOLIDARIETA’
Per anni, Adam Gaye, un uomo di 52 anni originario del Senegal ha vissuto vendendo ombrelli e piccoli oggetti davanti a un supermercato nel cuore di Milano, vicino al Policlinico.
Ogni giorno, passanti e clienti abituali lo vedevano accanto alle vetrine del Carrefour Express di via San Senatore. La sua presenza costante e la dedizione al lavoro sono state notate dal titolare del negozio, Giovanni Dossena, un imprenditore di 53 anni con origini sarde. Un giorno, Dossena gli ha fatto un’offerta che avrebbe cambiato la vita di Adam per sempre: “Se vuoi, ti assumo”.
Dopo anni di incertezza e di duro lavoro per le strade di Milano, Adam Gaye ha accettato l’offerta. Ora è un commesso al Carrefour Express e ha un contratto a tempo indeterminato, una stabilità economica che gli permette di fare progetti per il futuro. “Adesso posso finalmente realizzare i miei progetti”, ha dichiarato Adam al Corriere della Sera.
Il suo primo obiettivo è risparmiare per poter tornare in Senegal e riabbracciare la sua famiglia e i suoi tre figli, che non vede da diversi anni.
La generosità di Giovanni Dossena
Giovanni Dossena, il titolare del supermercato che ha dato ad Adam questa opportunità, ha spiegato al Corriere della Sera la motivazione dietro la sua decisione. “Adam faceva il suo lavoro seriamente e ha sempre aiutato la gente. Lo vedevo portare le casse d’acqua pesanti fino a casa dei clienti e guadagnarsi la fiducia di chi gli affidava perfino la carta di credito per fare la spesa”, ha raccontato Dossena.
Questa fiducia e il senso di responsabilità di Adam hanno spinto il titolare a offrirgli un posto di lavoro quando si è liberata una posizione. Adam è conosciuto dai clienti e dai colleghi con il soprannome di “Bobo”, ispirato al famoso calciatore Christian Vieri. Con un pizzico di ironia, Dossena ha ammesso: «Certo, da juventino, se avessi saputo del suo soprannome forse ci avrei riflettuto meglio…».
Un esempio di integrazione e speranza
La storia di Adam Gaye non è solo un racconto personale, ma rappresenta un esempio di integrazione e solidarietà. La sua determinazione e l’atto di fiducia di Giovanni Dossena mostrano come un piccolo gesto possa trasformare radicalmente la vita di una persona. Adam, che un tempo era solo un volto familiare per chi frequentava il supermercato, ora è un collega e un dipendente stimato, con un futuro più stabile e la speranza di ricongiungersi con la sua famiglia.
(da agenzie)
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Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
ALARM PHONE: “VENTIDUE ALLA DERIVA, MA DA 14 ORE NESSUNO INTERVIENE”… LA NAVE LIBRA DEVE PENSARE A SELEZIONARE I DEPORTABILI IN ALBANIA
Nottata di arrivi a Lampedusa. Mentre la Libra al largo beccheggiava con a bordo i nove uomini, adulti, non vulnerabili, provenienti da Paesi sicuri selezionati nel corso di un’intera giornata di operazioni, sul molo Favaloro continuavano a incolonnarsi persone.
Solo nella notte ne sono arrivate 208. Per lo più sono partiti dalla Libia, ma il loro viaggio è iniziato molto prima. Afghanistan, Pakistan, Siria, Sudan, Etiopia.
Sulle carrette partite da Zauwia, Tripoli e Ras Agadir, sono saliti i profughi di guerre e conflitti che si consumano in due continenti, bengalesi, marocchini, egiziani. A chi stava al molo, molti si sono raccontati in fuga da Paesi in cui protestare, ribellarsi, manifestare è sempre più difficile, se non impossibile. A bordo c’erano intere famiglie, madri con bambini al seguito, ragazzini che viaggiavano da soli.
Fatta eccezione per un barcone con a bordo 141 persone, erano tutti su gusci o gommoni che hanno affrontato le onde con una ventina di persone a bordo. È ormai trend costante sulle rotte del Mediterraneo centrale, sia quelle che partono dalla Libia, sia che quelle che partono dalla Tunisia. In tutto, da ieri sull’isola sono arrivate 592 persone, su 17 diverse barche. E dal mare continuano ad arrivare richieste di aiuto.
Ventidue persone – avverte da ore, Alarm phone – sono alla deriva su un gommone nell’area di ricerca e soccorso maltese. “Hanno perso la rotta, non sanno più dove andare. Le autorità sono state informate 14 ore fa, ma ancora non c’è stata nessuna risposta”, denuncia la rete di attivisti. Sul canale 16 delle emergenze, si contano decine di segnalazioni.
A Lampedusa ci si prepara ad un’altra giornata di arrivi, mentre al largo le motovedette della Guardia di Finanza hanno ricominciato a intercettare carrette alla ricerca di naufraghi da trasferire in Albania.
(da agenzie)
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Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
TRUMP HA PIÙ VOLTE DETTO CHE ANCHE QUESTA VOLTA NON ACCETTERÀ LA SCONFITTA
Transenne nei luoghi caldi, droni, cecchini sui tetti, Guardia Nazionale in allerta. L’America affronta l’Election Day con un eccesso di precauzioni. È l’onda lunga del 6 gennaio 2021, il giorno dell’assalto al Congresso da parte della folla pro-Trump che voleva impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden.
Ed è una conseguenza del timore che le teorie complottiste e il negazionismo elettorale, la retorica dell'”elezione rubata” riemersa con forza in questa campagna, possano compromettere la sicurezza del voto e (nuovamente) la pacifica transizione dei poteri.
Del resto, lo stesso Trump, sollecitato più volte durante la campagna, si è rifiutato di impegnarsi ad accettare l’esito del voto in caso di sconfitta. La mappa delle misure messe in campo parte dalla stessa capitale, Washington, dove downtown i negozi più lussuosi hanno messo delle barriere a protezione delle vetrine, temendo disordini (e saccheggi). Protezione rafforzata anche attorno a Capitol Hill e, naturalmente, la Casa Bianca.
Strade chiuse e transenne anche attorno alla Howard University, l’ateneo black dove Kamala Harris ha allestito il suo quartier generale per la notte elettorale. In tutto, nella capitale federale, saranno oltre 3mila gli agenti chiamati a lavorare su turni di 12 ore, ha annunciato la capa della polizia, Pamela Smith. A Phoenix, in Arizona, l’edificio dove vengono elaborati i tabulati dei voti è protetto come una fortezza, con tanto di droni e monitoraggio costante dei social media per percepire eventuali minacce
La Guardia Nazionale è stata posta in standby per un periodo di 48 ore in almeno tre Stati: Nevada, Oregon e Washington. Non solo a tutela dell’ordine pubblico, ma anche a protezione di seggi e centri elettorali, dopo gli episodi di vandalismo che sono stati registrati negli ultimi giorni ai danni dei contenitori dove vengono depositati i voti per posta, come in Oregon e nello Stato di Washington, appunto, dove centinaia di schede sono state date alle fiamme.
(da agenzie)
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Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
LA MELONA TEME SOPRATTUTTO LE CONSEGUENZE ALLA STABILITA’ DEL GOVERNO DA PARTE DEL VICEPREMIER MATTEO SALVINI, PRIMO FAN ITALIANO DEL TYCOON (IL SECONDO E’ CONTE)
Tra poche ore Giorgia Meloni saprà se dovrà tirar fuori dai cassetti del cambio di stagione il cappellino “Maga”. Ne è passato di tempo da quando la presidente del Consiglio attraversava l’oceano per mettersi in fila con gli altri sovranisti d’Europa osannanti il movimento del “Make America Great Again” e il suo sacerdote: Donald Trump.
Meloni è cambiata, non c’è dubbio. Palazzo Chigi ha stravolto le sue priorità. Il corpo diplomatico di Stato ne ha corretto le sgrammaticature e l’ha ammorbidita, facilitando i rapporti con l’amministrazione democratica di Joe Biden, mentre a destra ne approfittava il vicepremier della Lega Matteo Salvini, con la felpa da irriducibile ultrà della curva trumpiana
Meloni ha cercato di mantenere fino alla fine una cauta equidistanza, anche di fronte alle ripetute sollecitazioni giornalistiche sulla scelta tra repubblicani e democratici. Quasi sempre l’ha ridotta a una questione di tifoseria che le interessava poco, perché «i rapporti tra Italia e Stati Uniti resteranno ottimi chiunque sia il presidente».
Ma la premier sa benissimo che Trump non è un presidente qualsiasi, sa che la sua elezione produrrà delle conseguenze globali che potrebbero rivelarsi radicali, al punto da stravolgere l’assetto dei rapporti di forza internazionali e la sicurezza dell’Occidente, con effetti che si sentiranno anche nelle vite e nelle tasche dei singoli cittadini italiani.
Chi ne ha raccolto una recente confessione racconta a La Stampa quanto Meloni sia spaventata. Non lo ammetterà mai pubblicamente, ma la premier teme soprattutto la velocità con la quale si produrranno le conseguenze in Ucraina. In poche ore il paradigma valido fin qui sullo scudo europeo e americano a difesa della resistenza di Kiev potrebbe essere spazzato via.
Alla Farnesina se ne discute quotidianamente, anche sulla base dei report che arrivano dalle ambasciate. Cosa farà Trump? Quanto ci metterà a dichiarare una pace basata di fatto sulla resa ucraina e sulla concessione del Donbass e Crimea all’autocrate russo Vladimir Putin?
C’è sempre un margine di imprevedibilità con il miliardario statunitense, ma visti i quattro precedenti anni alla Casa Bianca (2017-2021), e prendendo per buone le promesse ripetute nei comizi degli ultimi mesi, è difficile immaginare che Trump continuerà sulle scelte fin qui portate avanti dalla Nato a sostegno di Volodymyr Zelensky.
Per l’Italia l’effetto sarà duplice, perché, secondo fonti diplomatiche, è scontato che il leader dei Repubblicani americani tornerà con forza a chiedere il conto agli alleati – tra cui Roma – che non hanno ancora adeguato le spese militari in percentuale al Pil, come prevedono gli accordi siglati nel 2014 tra gli Stati membri della Nato.
Durante la prima presidenza alla Casa Bianca, Trump minacciò ripetutamente di uscire dall’Alleanza Atlantica: se questa sera vincerà, pretenderà il dovuto con ancora più forza.
C’è infine un terzo motivo di preoccupazione per Palazzo Chigi. I dazi e la guerra commerciale contro la Cina. Trump ha confermato la volontà politica di rendere ancora più restrittive le ricette economiche protezionistiche in Usa. Vuole punire l’Unione europea.
Nei report diplomatici finiti sulla scrivania di Meloni c’è scritto chiaramente che punterà in tutti i modi a riequilibrare la bilancia commerciale che è per circa 200 miliardi di dollari favorevole all’Ue: i Paesi che rischiano di più, perché hanno economie con forti esportazioni, sono Germania, Olanda, Francia e Italia.
(da agenzie)
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Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
IL 22ENNE ITALIANO SI TROVA NEL CARCERE DI PADOVA PER I REATI DI LESIONI GRAVI AL PICCOLO CHE E’ ANCORA IN PROGNOSI RISERVATA… ASPETTIAMO ANCORA POST DI SDEGNO DAI LEADER SOVRANISTI
Potrebbe aver agito per ottenere un sussidio di invalidità l’uomo italiano di 22 anni che ha ripetutamente maltrattato il figlioletto di appena 5 mesi, ricoverato in ospedale a Padova. Soldi, dunque. Anche a costo di infliggere le peggiori sofferenze al piccolo che aveva messo al mondo. L’ipotesi di un obiettivo di guadagno dietro questa terribile vicenda, proveniente dal Veneto, è stata avanzata dal Gazzettino.
Attualmente, il bambino è ancora ricoverato in prognosi riservata nel reparto di terapia intensiva della Clinica pediatrica dell’azienda ospedaliera euganea. Le sue condizioni di salute restano gravi, mentre il padre, di origini vicentine, è stato arrestato in flagranza di reato sabato scorso dalla polizia: non ha opposto resistenza e non ha detto una parola. Ora si trova nel carcere di Padova e deve rispondere delle accuse di maltrattamenti in famiglia e lesioni gravi.
È verosimile che le accuse possano aggravarsi se venisse confermato il possibile movente economico, rendendo ancora più inquietante un quadro già oscuro.
I medici si erano infatti accorti che il cavo orale del bambino presentava lesioni che sembravano segni di mutilazioni. Non potevano certo immaginare che a causarle fosse proprio il genitore, il quale, sembrerebbe, mirava a provocare danni permanenti al figlio neonato per ottenere un’indennità dallo Stato.
La famiglia vive a Camisano Vicentino. La madre ha assicurato di non essere coinvolta e di non sapere nulla, ma rimane da chiarire come abbia potuto non accorgersi delle condizioni di salute del figlio.
(da agenzie)
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Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
IL BRITANNICO NIGEL FARAGE DÀ UN CONSIGLIO AL TYCOON: “SE PERDE LE ELEZIONI DEVE ACCETTARE L’ESITO E ANDARE A GIOCARE A GOLF”… “NON HO MAI ACCETTATO LA NARRAZIONE SULLE ELEZIONI RUBATE. SPERIAMO E PREGHIAMO CHE QUESTA VOLTA NON SIA UN PROBLEMA. HARRIS, SE VINCE, DOVREBBE CONCEDERE LA GRAZIA AL SUO RIVALE”
Nigel Farage, leader del partito riformista del Regno Unito, ha affermato che Donald Trump dovrebbe accettare il risultato delle elezioni e “andare a giocare a golf” se perderà nettamente contro Kamala Harris.
“Se è chiaro e decisivo, allora forse è il momento per Trump di andare a giocare a golf a Turnberry”, ha detto in un’intervista con il Telegraph a casa di Trump a Palm Beach. Farage ha sottolineato di “non aver mai accettato” la narrazione di Trump sulle elezioni rubate del 2020.
“Speriamo e preghiamo che questa volta non sia un problema. Se il risultato fosse stato chiaro, allora i repubblicani dovranno accettare il risultato”, ha insistito. Il leader populista ha inoltre auspicato che Harris, se vince, conceda la grazia al suo rivale: “Potrebbe apparire magnanima e questo smorzerebbe le potenziali tensioni”.
(da agenzie)
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Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
L’IRRITUALITÀ È STATA ACCOLTA “CON STUPORE” DAL CAPO DELLO STATO
La notizia viene resa pubblica alle sette di sera. Giorgia Meloni riceve il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli. L’incontro è frutto di una convocazione della premier, non concordata col Quirinale. Poco dopo palazzo Chigi fa diramare il seguente comunicato: «La visita si inserisce nell’ambito di una proficua e virtuosa collaborazione nel rispetto dell’autonomia delle differenti istituzioni».
Ma fino a prova contraria il Consiglio superiore della magistratura è ancora presieduto dal capo dello Stato, Sergio Mattarella. Quel che è avvenuto, e sbandierato con enfasi, è quindi un’irritualità che si inserisce nel mezzo di un cannoneggiamento mediatico della destra nei confronti della magistratura. E infatti a tarda sera al Colle non nascondono «lo stupore» per la visita.
Proprio ieri lo scontro sul centro in Albania ha raggiunto una nuova vetta con l’accusa di Matteo Salvini («Comunisti!») nei confronti dei giudici di Catania che non hanno convalidato i trattenimenti nei centri di tre migranti egiziani e due bengalesi perché provenienti da Paesi non ritenuti sicuri. «Non applicano le leggi», secondo il leader della Lega.
In mattinata i componenti togati del Csm, esclusi tre membri, al colmo della tensione avevano depositato la richiesta di apertura di una pratica a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei magistrati del tribunale di Bologna che nei giorni scorsi avevano rinviato alla Corte di giustizia europea il decreto del governo sui Paesi sicuri.
I magistrati lamentano «un’inaccettabile pressione». Si sono sentiti etichettare come «anti-italiani » per avere sentenziato in linea con le leggi europee su quei migranti che Giorgia Meloni invece intende rinchiudere nei centri in Albania.
E qui si inserisce l’irritato stupore del Quirinale per la convocazione di Pinelli, in passato avvocato di diversi esponenti della Lega e socio della Fondazione Leonardo. Per quello che è uno strappo alle regole da parte di palazzo Chigi, che aggiunge così pressione a pressione.
Il Quirinale com’è noto ha dato il suo via libera al decreto del governo, dopo faticosa mediazione, evitando però che ai tribunali subentrassero i giudici di pace, rendendo la legge più consona al diritto comunitario. Soprattutto lasciando l’ultima parola alla giustizia. Ma il cannoneggiamento dopo il decreto non è diminuito. Anzi è aumentato di intensità. E al Quirinale non hanno apprezzato la violenza dello scontro. Un attacco che divide i magistrati in ideologizzati -i rossi da condannare – e il resto -i buoni – con cui invece dialogare. Un distinguo che non può piacere a Mattarella: il referente dell’autogoverno della magistratura.
(da agenzie)
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Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
SE GLI ELETTORI DI SINISTRA SONO COMPATTI NELL’APPOGGIARE KAMALA, CHI HA VOTATO PER IL GRUPPO DI DESTRA DEI “PATRIOTI” NON È COSÌ CONVINTO NEL SOSTENERE IL TYCOON: TIFA TRUMP IL 45% DEI MAL-DESTRI MA IL 41% DI ESSI E’ PRO-KAMALA…IL 64% DI CHI HA SCELTO IL PPE SOSTIENE LA HARRIS
Più della metà dei cittadini europei tifa Kamala Harris: per il 57% la loro candidata favorita è la vicepresidente democratica, mentre solo il 25% sostiene Donald Trump. Il rimanente 18% non sceglie nessuno dei due. E’ quanto emerge da un sondaggio su cosa pensano in Europa dell’imminente voto americano, condotto da Polling Europe, una società di ricerca con sede a Bruxelles, nata dalla collaborazione di Swg e OpinionWay, due enti di ricerca sociale e di mercato, uno italiano e uno francese.
Ma lo studio riserva anche alcune sorprese: se gli elettori della sinistra sono compatti nell’appoggiare la candidata democratica, chi ha votato i Patrioti non è così convinto nel sostenere il tycoon. Secondo il sondaggio tra gli elettori di Left, Kamala vince con 65% a 14, tra i socialisti con 77% a 14, tra i Verdi con 68% a 20%.
Anche chi ha dato fiducia ai popolari europei fa affidamento a Harris, con un 64% contro il 23% che spera in Trump. Sono invece spaccati a metà gli elettori del gruppo sovranista dei Patrioti per l’Europa: chi tifa Trump è il 45% degli intervistati ma Harris può contare sul sostegno comunque del 41%. Questo sondaggio – si legge nella nota informativa – è stato condotto online attraverso Metodo CAWI su un campione rappresentativo della popolazione sopra i 18 anni dell’Unione Europea, con 5.059 interviste complete, distribuito proporzionalmente alla popolazione del 27 paesi dell’Ue.
(da agenzie)
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Novembre 5th, 2024 Riccardo Fucile
ELLY E’ UN CATERPILLAR: “SONO STATA ELETTA PER ELIMINARE I CAPIBASTONE E NON CAMBIO IDEA, CON ME NON ESISTONO RICATTI, ABITUATEVI AL CAMBIAMENTO”… DE LUCA VUOLE CANDIDARSI UGUALMENTE PER FAR PERDERE IL CENTROSINISTRA
C’è chi nel Pd, per descrivere la situazione campana, cita Eugenio Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Una sola certezza, a un anno dalle elezioni in Regione: non sarà di nuovo Vincenzo De Luca il candidato governatore dei dem.
Più precisamente, a voler leggere tra le righe della citazione e dritto nelle parole della segretaria, si vuole mettere fine all’impero del presidente eterno, basta a un Pd deluchizzato in Campania: se Elly Schlein è stata eletta per rivoltare il partito come un calzino, questa è l’occasione d’oro per dimostrarlo. Anche correndo quel rischio che ha fermato i leader dem precedenti ogni volta a tanto così dal rompere con De Luca: che lui si candidi lo stesso e faccia perdere al Pd la Regione.
Ipotesi che, per la prima parte, è già scolpita nella pietra: oggi il Consiglio regionale voterà, in sostanza, per consentirgli di candidarsi al terzo mandato.
Degli otto eletti dem, da Roma prevedono che in sei si schiereranno col presidente contro le indicazioni della segretaria, mettendosi di fatto fuori dal partito, mentre da Napoli assicurano che, pure fossero tutti leali al Nazareno, i numeri per far passare la legge li porterà il resto della maggioranza. In caso contrario, in una riunione di sabato scorso De Luca avrebbe fatto balenare l’idea di dimettersi, tutti a casa e non se ne parla più: il primo via libera alla norma è arrivato il giorno stesso in Commissione.
Una forzatura che, con inedita durezza, Schlein domenica sera ha respinto al mittente via trasmissione di Fabio Fazio: «Possono votare tutte le leggi regionali che vogliono, ma questo non cambia la posizione del Pd, che non sosterrà i presidenti uscenti per il terzo mandato», altro che funambolici giri di parole per evitare di schierarsi tra Conte e Renzi, stavolta più chiara di così non poteva essere.
De Luca non si è scomposto: quanto ascoltato in diretta tv non è molto diverso da quello che, mercoledì sera, in una tesa telefonata, la segretaria gli aveva anticipato. Non sarai tu il candidato, ma possiamo lavorare insieme per costruire la tua successione, la sintesi delle parole di Schlein. No, grazie, la secca risposta del vulcanico presidente: con o senza Pd intende ricandidarsi, chi lo ama lo segua, e in Campania, lo sanno bene al quartier generale romano del partito, ad amarlo sono in tanti.
Eppure, superare De Luca e il suo sistema di potere, stavolta val bene il rischio di una sconfitta. Perché per una segretaria nemmeno quarantenne eletta dai gazebo contro il parere degli iscritti, mantenere la promessa fatta alla prima Assemblea nazionale di liberare il partito da «capibastone e cacicchi vari», aprire porte e finestre e innestare energie fresche, è fondamentale: «Adesso è bene abituarsi al cambiamento perché io sono stata eletta esattamente per fare questo», ha ripetuto in tv quello che in varie occasioni ha predicato in privato.
Cercando di evitare la personalizzazione: in fondo, ha elencato, prima di De Luca, sotto la scure del no al terzo mandato sono caduti Stefano Bonaccini – l’unico vero momento di tensione fra i due fu quando la segretaria chiuse all’ipotesi anche per lui –, Antonio Decaro, Dario Nardella, la stessa regola varrà per Michele Emiliano. Ma sono anche convinti, lo sussurrano nel suo entourage, che una battaglia a viso aperto contro De Luca può compensare i voti persi in Campania con voto d’opinione guadagnato altrove, là dove l’ex sindaco di Salerno è visto come la personificazione del potere dei famosi e detestati cacicchi.
Certo, ragionano, se Renato Soru in Sardegna ha rischiato col suo 8,6 per cento di impedire la vittoria al campo largo senza riuscirci, a Napoli e dintorni De Luca potrebbe arrivare ben più in alto, anche al 15 per cento, hanno calcolato. Ma siamo sicuri, si chiedono, che siano tutti voti del Pd e del centrosinistra, e che non attinga piuttosto anche nel bacino del centrodestra?
Quando sarà il momento si vedrà, così come si sceglierà il candidato: per ora in pole position è l’ex presidente della Camera, il Cinque stelle Roberto Fico
(da La Stampa)
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