Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
“NIENTE BANDIERINE, DECIDE IL MINISTRO DELL’ECONOMIA”… LA DUCETTA HA FATTO SAPERE AGLI ALLEATI CHE SI TERRA’ LE DELEGHE DEL MINISTRO FITTO “ALMENO FINO ALL’INIZIO DEL 2025”
Nella nuova casa di Giorgia Meloni, sulla strada che porta al mare, vanno messe a punto alcune cose. Non molte, non ce n’è il tempo (Antonio Tajani arrivando precisa di avere una cena con il suo omologo francese) ma importanti. C’è la manovra da sistemare, ma anche un andamento generale, nella maggioranza, da riaddrizzare. Il clima tra i leader, oltre ai vicepremier c’è anche Maurizio Lupi, non è teso, d’altronde tra la vittoria della Coppa Davis e l’atmosfera domestica di una domenica prenatalizia non si presta ad asprezze.
Gli alleati litigano sulle misure da inserire in manovra e vengono invitati a darsi una calmata. La padrona di casa mette in chiaro alcuni aspetti, anche per evitare ulteriori zuffe. Il primo è la sostituzione di Raffaele Fitto, che fra due giorni diventerà vicepresidente della Commissione europea. Meloni informa gli alleati che le deleghe del ministro trasferitosi a Bruxelles resteranno a Palazzo Chigi, «quantomeno fino all’inizio del prossimo anno». Una maniera per prendere tempo su una decisione complessa.
Altra urgenza è la nomina di quattro giudici costituzionali: il parlamento si riunirà in seduta comune giovedì prossimo, ma anche stavolta la fumata sarà nera, perché l’accordo con le opposizioni ancora non c’è. I leader della maggioranza concordano: tutto rimandato di una settimana.
Ma è la manovra il piatto forte. Il passaggio chiave della nota diffusa da Palazzo Chigi, secondo gli esegeti notturni della maggioranza, è questo: «I leader hanno dato mandato al ministro Giorgetti di valutare, alla luce delle coperture necessarie, la praticabilità di alcune proposte».
Parole che vanno lette così: nessuno si deve intestare le misure della manovra, che vanno sempre condivise. E in ogni caso quello che decide è il ministro del Tesoro, uno che per ruolo e indole non è amante delle avventure. È in definitiva la riproposizione del solito monito della premier: «Niente bandierine».
Quello che, per l’appunto, è un film già visto, stavolta assume altri significati. I vessilli, infatti, non vengono esibiti dai partiti soltanto in occasione della manovra. Il discorso di Meloni va molto più in là, visto che i temi su cui ognuno sta andando per conto suo, all’interno della maggioranza, sono diventati, ai suoi occhi, troppi. I parlamentari sono i primi a notarlo, ormai su quasi tutti i provvedimenti c’è una corsa a distinguersi che non promette nulla di buono per i prossimi mesi.
Anche questo vertice, come quello della scorsa estate, è stato sollecitato da Antonio Tajani. Secondo l’interpretazione che ne dà Fratelli d’Italia, lo scopo di fondo di questa richiesta è certificare che i post berlusconiani hanno ormai consolidato il sorpasso sulla Lega e che «siamo il terzo partito nazionale», come ricordato da Tajani dopo le elezioni in Umbria. Il ministro degli Esteri sottolinea di non voler passare all’incasso, ovvero di non pretendere ministri o sottosegretari in più. Ma, senza disconoscere il politichese, Tajani chiede un «riequilibrio» sui temi.
Un parlamentare azzurro è più esplicito: «Abbiamo dovuto accettare l’autonomia, che tanti problemi ci sta creando e dobbiamo essere ricompensati». Forza Italia spera che il primo terreno della compensazione possa essere la manovra, ma Giorgetti e Meloni non lasciano speranze.
(da la Stampa)
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Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
E C’E’ L’IMPRENDITORE CHE DICE: “SONO PER UNA LIBERA DITTATURA”
«Ci fanno le multe!». Nel bel mezzo della fondazione del partito scatta il fuggi-fuggi verso l’auto. Tutti i soci lasciano l’assemblea e si precipitano all’esterno dell’Hotel Terme Marine Leopoldo II a Marina di Grosseto. Spostata la macchina, si ricomincia. Rientra l’ex paracadutista che arriva da Milano: «Vannacci è splendido, può fare qualcosa per l’Italia». Rientra l’elegante signora romana: «La mia auto era salva. Sono qui perché mi aspetto di cambiare il mondo». Fa capolino una spilla di Alberto da Giussano sulla giacca dell’avvocato Guglielmo Mossuto, capogruppo della Lega a Palazzo Vecchio a Firenze. «Roberto è un amico, il suo scopo è riunire più persone per salvare l’Italia». Barbara Cerri, avvocato civilista, arriva da Tarquinia: «Di Vannacci mi attirano i valori». Il più risoluto è Federico Concas, si definisce «imprenditore-faccendiere» nella formazione: «Sono per la sospensione della Costituzione e per instaurare una libera dittatura». «Dio, famiglia, patria, le regole… Io ero un militare», un signore di mezza età elegante, napoletano, elenca col sorriso cosa apprezza in Vannacci.
Al banco pass due signore, una di Arezzo e l’altra di Livorno. «Siamo le dame nere del generale. Ci piace il colore nero, guardi come siamo vestite. Di lui “in generale” ci piace tutto. In particolare le idee di buon senso: la sicurezza, l’essere contro il degrado e contro il pensiero unico». Poi mostrano l’anello con un bel fascio littorio accanto alla X della Decima Mas
Arriva la pausa, in 480 soci si lanciano nelle sale da pranzo. «Pranzo sociale» a prezzo calmierato di 25 euro: parmigiana di melanzane, lasagne con porcini e salsiccia, arrosto di vitello con patate e tiramisù. Il direttore dell’Hotel, Francesco Micena, palermitano. «Io vannacciano? Siamo aperti ad ogni nuova realtà».
Si riprende, adesso sono circa 600. Fuori avanzano ordinati con passo svelto, fiancheggiando la piscina, un centinaio di esponenti del movimento Indipendenza. Procedono compatti capitanati da Gianni Alemanno: «Sentire un generale parlare di pace mi ha aperto il cuore. In amicizia, con cameratismo, saremo insieme». Il suo vice, Nicola Colosimo: «Vannacci nella Lega o con un suo partito? Meglio Vannacci in generale». Si accorge del gioco di parole. «Ah, ah… Bella battuta vero? Comunque chi non ci convince per niente è Meloni». Arriva il momento di Fabio Filomeni, ex incursore paracadutista, presidente e mente del movimento politico. «Mi sento risorgimentale, la mia barba è garibaldina, potrei essere Solženicyn».
Alla contestazione di fare paura, ex militari che si candidano in politica, ribatte: «Se per militari si intendono persone coerenti… Fanno bene ad aver paura perché i militari non si piegano alle logiche di certa politica». La moglie di Vannacci, Camelia Mihailescu, osserva il calendario con le vignette dedicate al consorte. «Condivido le idee di mio marito, io lo sostengo. Chi lo accusa di razzismo si sbaglia, evidentemente non lo conosce. Amo l’Italia, mi piace la sua cultura, apprezzo la moda e il cibo. È un Paese stupendo ma vedo spesso il mondo al contrario più qui da voi che in Romania». E buio fitto quando arriva il rompete le righe. Il Mondo al contrario riparte il 20 dicembre ad Arezzo per la cena di Natale.
(da agenzie)
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Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
IL CALO DELLE DETRAZIONI PREVISTO DALLA CONFERMA DEL CUNEO PENALIZZA CHI GUADAGNA TRA 32 E 40 MILA EURO
Il governo della tassa piatta per tutti, promessa in campagna elettorale e realizzata solo per gli autonomi, è lo stesso della stangata sul ceto medio. Quella che da gennaio si abbatterà sui lavoratori dipendenti con reddito tra 32 mila e 40 mila euro. Per effetto della terza manovra dell’esecutivo Meloni, l’aliquota Irpef schizzerà al 56% in quella fascia dal 35% ufficiale. Lo stesso ceto medio impoverito che in queste settimane Palazzo Chigi cerca di beneficiare rastrellando gli incassi, per ora non entusiasmanti, del concordato biennale proposto alle partite Iva. Un effetto paradossale per quei lavoratori dipendenti che dall’anno prossimo verseranno più tasse dei redditi superiori. Un pasticcio figlio di una finta riforma fiscale.
Altro che flat tax, sistema semplificato, pagare meno per pagare tutti. Il governo Meloni inciampa sulle alchimie del nostro sistema fiscale. E nel tentativo di confermare e rendere strutturali il taglio del cuneo e dell’Irpef – valgono il 60% della manovra, 18 miliardi su 30 – mette in campo un sistema misto tra bonus e detrazioni che non solo rende ancora più complicata l’imposta pagata dai lavoratori dipendenti. Ma inasprisce la pressione fiscale proprio del ceto medio che più soffre la morsa dell’inflazione e la sua lunga coda. Lo sostiene l’Ufficio parlamentare di bilancio, nella sua audizione parlamentare sulla manovra. E anche uno studio di Ruggero Paladini, emerito di Scienza delle finanze alla Sapienza, in uscita il 2 dicembre sulla rivista Menabò.
Le conclusioni sono analoghe. Le aliquote formali dell’Irpef rimangono tre: 23% fino a 28 mila euro, 35% fino a 50 mila euro, 43% sopra i 50 mila euro. Ma le aliquote effettive, già quattro quest’anno, salgono fino a sei l’anno prossimo di cui una in particolare schizza, come detto, al 56%. L’effetto è straniante. Dovuto al tentativo del governo Meloni di trasformare, come raccomandato da tutti (Bankitalia, Corte dei Conti, lo stesso Upb), il taglio del cuneo da contributivo a fiscale, evitando così di impattare sui contributi previdenziali. Quest’operazione sembra riuscita solo in parte. Intanto perché un milione di contribuenti su 18 milioni, nota Upb, ci perde: prenderanno meno di quest’anno o perderanno i benefici. E poi perché le aliquote si moltiplicano.
Accade perché il governo, nel tentativo di essere neutro, cioè di non danneggiare nessuno, nel passaggio dal taglio dei contributi al taglio delle tasse, si inventa un doppio intervento.
Introduce un bonus fino a 20 mila euro di reddito (come gli ex 80 euro di Renzi). E una detrazione fino a 40 mila euro: fissa da mille euro fino a 32 mila euro, poi decrescente. Le detrazioni fiscali riducono le tasse da pagare. Quando calano, soprattutto se in modo ripido (a 50 mila euro si annullano), formano scalini, strappi. E fanno salire la pressione fiscale. Alzano le tasse, quindi. Quello che succederà dal 2025.
Sulla carta le aliquote Irpef sono tre, nella realtà sono il doppio, dal 23 al 43%. Non solo. Secondo i calcoli di Ruggero Paladini, «la detrazione per i dipendenti tra 32 mila e 40 mila si riduce di 12,5 euro ogni 100, per cui l’aliquota marginale complessiva diventa del 56,18%». A queste aliquote «i contribuenti devono aggiungere poi le addizionali regionali e comunali», che sono ancora strutturate come la vecchia Irpef a quattro scaglioni anziché tre. E questo complica un quadro già caotico.
Scrive l’Upb, sull’aumento delle aliquote effettive, diventate «più irregolari», e il picco del 56%: «Tale evoluzione sembra discostarsi dai principi della legge delega che indicava come obiettivi la transizione verso un’aliquota impositiva unica e la razionalizzazione e semplificazione complessiva del sistema». Paladini parla di «dissociazione tra aliquote formali ed effettive». E di una struttura finale che «fa a pugni con tutta la teoria della progressività» in cui i lavoratori con redditi medi «hanno aliquote più alte di coloro che hanno redditi superiori».
Senza dire poi che in Italia, a parità di reddito, pensionati, autonomi, dipendenti e rentier pagano aliquote diverse. Le più alte ai dipendenti. Le più basse al capitale.
(da La repubblica)
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Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
LA DIFFERENZA IN GIORNI TRA CHI PAGA E CHI VA CON IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
Proviamo a metterci nei panni di una persona a cui è stato diagnosticato un problema oncologico: il primo desiderio è quello di liberarsi dell’ospite malevolo entrando il più in fretta possibile in sala operatoria. Sappiamo bene che per migliorare gli esiti clinici è decisivo il tempo che passa fra la diagnosi e l’intervento chirurgico e, quindi, l’accesso alle visite e agli esami preoperatori deve essere tempestivo. Per il paziente ogni giorno in più pesa come un macigno dal punto di vista psicologico. E allora qual è la differenza tra chi può pagare e chi no?
Tutto a pagamento
In Italia, ogni anno, oltre 55 mila donne si operano di tumore al seno nelle strutture pubbliche e in quelle private accreditate; nella sola Milano fra il 2022 e 2023 sono state 11.368. Di queste, 1.788 (il 15 per cento) hanno potuto permettersi di pagare sia gli accertamenti medici sia l’intervento chirurgico. La spesa sostenuta di tasca propria s’aggira almeno sui 16.790 euro. Il costo è ricostruito sulle tariffe di uno dei più importanti istituti oncologici milanesi riconosciuto anche a livello nazionale: ecografia 130 euro, mammografia 150, biopsia 460, visita oncologica 250, visita anestesista 250, visita chirurgica 250. Poi ci sono altri esami per valutare un’eventuale diffusione del tumore, come la Pet, che ha un costo di 1.300 euro e, infine, vanno aggiunti i 14 mila euro per l’intervento chirurgico che facilmente possono raddoppiare a seconda del chirurgo
In sala operatoria con il Ssn
Però solo una minoranza benestante può seguire questa strada che assicura l’ingresso in sala operatoria in meno di un mese. Ci concentriamo dunque sull’85 per cento che si è sottoposto all’intervento chirurgico con il Sistema sanitario nazionale. L’Agenzia per la tutela della salute di Milano (Ats) di Milano ha svolto uno studio unico a livello nazionale sulle 4.863 pazienti che risiedono nel proprio territorio. Pubblichiamo in anteprima i risultati.
Il 3 per cento arriva all’intervento chirurgico con il Sistema sanitario nazionale dopo avere fatto tutte le visite e gli esami a pagamento: ingresso in sala operatoria dopo 32 giorni.
Il 25 per cento al contrario ha eseguito la fila di accertamenti passando dalle liste d’attesa del Servizio sanitario nazionale senza tirare fuori un euro (la malattia oncologica prevede l’esenzione totale): ingresso in sala operatoria dopo 52 giorni. Una differenza è di 20 giorni.
Del restante 72 per cento, le pazienti che hanno fatto più della metà degli accertamenti a pagamento sono state operate dopo 49 giorni; chi meno della metà, dopo 54 giorni
Questi dati confermano l’evidente vantaggio in termini di risparmio di tempo per chi si sottopone a tutte le visite e a tutti gli esami a pagamento, mentre dimostrano che fare un po’ dentro e un po’ fuori dal Servizio Sanitario non accelera i tempi. Eppure è il comportamento più comune. Se infatti più in generale andiamo a vedere cosa succede ai 41.408 pazienti di Milano che, sempre nel 2022 e nel 2023, si sono sottoposti a un intervento chirurgico con il Sistema sanitario nazionale per tumore, scopriamo che una prestazione su tre è erogata a pagamento (il 32 per cento). Di fronte a un referto che stravolge la vita, è evidente che cerchiamo di risparmiare tempo, anche se poi di fatto non succede a meno di sborsare tutto di tasca propria. Allora la domanda è: chi guadagna sulle liste di attesa persino dei malati di cancro?
Dove stanno i guadagni
Gli ospedali pubblici sono intasati ma, come previsto dalle regole d’ingaggio, i privati accreditati devono aiutarli ad accorciare le liste d’attesa, soprattutto quando si prendono in carico un paziente oncologico. Facciamo due conti: quanto rimborsa il Servizio Sanitario nazionale a queste strutture per tutti gli accertamenti che precedono l’intervento? La tariffa di rimborso per l’ecografia è di 40 euro, per la mammografia 45, per la biopsia 38,50, per la visita oncologica dell’anestesista e chirurgica 22,50 euro ciascuna, per la Pet 1.082. Totale: 1.273 euro. Se tutti questi esami vengono effettuati a pagamento la struttura incassa 2.790 euro. Più del doppio.
Succede allora che la visita chirurgica specialistica viene fatta a pagamento nel 30,5 per cento dei casi per i pazienti che vengono poi operati con il Sistema sanitario nazionale negli ospedali pubblici: chi guadagna dall’attività a pagamento è lo specialista che fa la libera professione (a cui va l’80 per cento del valore della prestazione, mentre alla struttura pubblica il restante 20 per cento). Invece la stessa visita chirurgica specialistica per chi poi si opera sempre con il Servizio sanitario nazionale, ma nel privato accreditato, viene eseguita a pagamento nel 53 per cento dei casi: a guadagnarci in questo caso è la struttura privata accreditata che poi può riconoscere una percentuale al medico. Per la visita gastroenterologica le cose peggiorano: 58,6 per cento nel pubblico contro il 68,7 per cento nel privato. Per la visite ginecologiche si passa dal 41 al 66,6 per cento. Per gli esami di radiologia: 21 per cento contro 32 per cento. Tutto questo porta l’Ats di Milano a concludere: «I pazienti trattati in strutture private accreditate sono più propensi o vengono indotti a ricorrere a prestazioni a pagamento per accelerare il percorso diagnostico e terapeutico».
La testimonianza
Speculare sulla fragilità di un paziente oncologico è deprecabile, ma tant’è. La pubblicazione del racconto che segue (verificato in tutti i passaggi) è stata autorizzata dalla diretta interessata: «Nel mese di maggio 2024 casualmente mi sono accorta della presenza di un nodulo al seno e, pur avendo effettuato i controlli di routine solo pochi mesi prima, decido di ripetere l’ecografia per chiarire in fretta la situazione. Le immagini non lasciano dubbi: quel nodulo non è sicuramente benigno. Presa dall’ansia vado dritta su una struttura privata accreditata di Milano dove, pagando circa 500 euro, riesco a fare nel giro di pochi giorni l’agoaspirato (cioè il prelievo di una piccolissima parte di tessuto del nodulo per mezzo di un ago guidato da una sonda ecografica e su cui sarà eseguito l’esame istologico). Purtroppo, l’esito conferma quanto mi era stato anticipato. La struttura prende in carico il mio caso, mettendomi in lista d’attesa per una Pet. Io confidavo, essendo purtroppo ormai una malata oncologica, di avere una corsia preferenziale. Invece, dopo ben due mesi di attesa nessuno si era ancora fatto vivo. Provo a contattarli per avere notizie, ma mi viene riferito che non ci sarebbe stata possibilità di trovare una data nel breve periodo. Stanca e sfiduciata, chiedo di eseguire la Pet a pagamento e scopro che, alla “modica cifra” di 1.300 euro, avrei potuto eseguirla dopo due giorni». Ogni ulteriore commento è inutile.
Le terapie
Dopo l’intervento si devono affrontare le terapie. Per il cancro al seno il costo a pagamento di un trattamento di chemioterapia è di dodici sedute a 2.900 euro ciascuna, per un totale di 34.800 euro. Un ciclo di terapia per il tumore al pancreas costa 3.500 euro e ne vanno fatti dodici per un totale di 42 mila euro. Per il tumore al polmone una singola seduta di chemioterapia costa 12 mila euro e ne va fatta una al mese per almeno due anni, arrivando dunque alla spesa di 288 mila euro.
Questi costi possono essere sostenuti a pagamento, di fatto, da uno 0 virgola della popolazione. E anche l’assicurazione sanitaria (per chi ce l’ha), raramente copre le cure oncologiche, e quando è previsto resta a carico del paziente uno scoperto del 20 per cento, oppure tetti di spesa fino a 5 o 10 mila euro. Alla fine dunque a farsi interamente carico di tutti i costi è il Sistema sanitario nazionale. Teniamocelo caro.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)
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Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
OGGI COME IERI L’ITALIA NON E’ UN PAESE PER DONNE
«Era lei che dava fastidio a mio figlio, che non ha fatto nulla di male. Era lei che rompeva le scatole tutte le sere a chiamare a casa e quello è un uomo, cosa doveva fare».
Correva l’anno 1976 e a sfogarsi davanti alle telecamere della Rai non era uno dei tanti padri padroni che all’epoca dominavano in casa a suon di botte e umiliazioni, ma una donna. Ovvero la madre di un imputato in quel “Processo per stupro” trasmesso dalla seconda rete in prima serata, che per la prima volta rendeva il pubblico testimone degli insulti inflitti nei tribunali alla dignità delle donne.
Un evento mediatico trasformato in un atto di denuncia per riprendere non solo le udienze, ma un mondo o meglio una cultura: quella che da secoli si schiera a difesa del diritto del maschio a prendersi la preda, in nome della sua virilità. E già perché la cultura dello stupro non è arrivata con i barconi carichi di immigrati, ma è tutto frutto della nostra mentalità patriarcale. Che la donna sia un essere irrazionale, incostante, di indole leggera, decisamente passionale e dunque bisognoso della tutela maschile, è scritto nei nostri classici. «Quando avranno la parità, le donne ci domineranno» scrive Tito Livio riportando una frase di Catone il Censore, che considerava le donne «animali indomiti» da assoggettare con la forza.
Il patriarcato
Ci sono uomini che oggi sostengono tutto sia cambiato per le donne. E che il nuovo diritto di famiglia del 1975 abbia segnato la fine del patriarcato. Certo non si può negare che in nome dell’art. 30 della Costituzione quella riforma abbia cancellato l’esistenza del capofamiglia, introducendo la parità dei coniugi nel mantenere, istruire, educare i figli.
Peccato che le donne abbiano dovuto attendere il 1981 per veder abolito l’istituto del matrimonio riparatore che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale se lo stupratore (anche nel caso di una minorenne) sposava la sua vittima. E se si guardano certe realtà del sud Italia in quegli anni, la fotografia è di un paese dove alle donne è vietato passeggiare in piazza o parlare in pubblico senza il consenso dei maschi di casa.
Persino ammazzare una donna non è reato se in ballo c’è l’onore e il buon nome della famiglia. Per la legge italiana l’uomo ha il diritto di difendere il proprio focolare domestico, fino all’omicidio di quelle mogli (ma ci vanno di mezzo anche figlie e sorelle), che non rispettano il dovere della verginità.
Una pena di morte discrezionale per tutte quelle ragazze scandalose e spregiudicate, considerate di indole leggera perché cambiano fidanzato o hanno relazioni libere senza essere sposate. Se poi il compagno le abbandona incinta, trasformandole in madri nubili di figli illegittimi, lo stigma dell’immoralità è un marchio che perseguita a vita e che costringe le “disonorate” a cambiare città, ad essere cancellate per sempre
Il linguaggio
Le donne che si ribellano alla prigione della virtù sono dunque avvisate: essere uccise se il proprio comportamento non piace all’uomo geloso non è reato. Violenza e omicidi ci dicono che l’Italia non è mai stato un paese per donne.
E non lo è tuttora se è vero che l’attenuante della “tempesta emotiva” o “l’eccesso di rabbia” informa ancora il linguaggio (non di rado volgare) della stampa chiamata a commentare casi di stupro, svuotando di significato le violenze di uomini ossessionati e frustrati, incapaci di gestire l’abbandono.
«Vorrei che Filippo sparisse, ma minaccia di uccidersi. Mi sento in colpa». Sono state le ultime parole di Giulia Cecchettin, che si gettava la croce addosso per la fine di una relazione.
Ecco, forse questo andrebbe insegnato alle giovani ragazze. A fuoriuscire una volta per tutte dal ricatto della cura del maschio a ogni costo e non essere “mamme” per i propri uomini, quando si cessa di essere il loro oggetto del desiderio.
Essere meno fragili emotivamente conviene in questo mondo: perché non sta scritto da nessuna parte che le donne debbano sempre comprendere o perdonare (anche in nome della rinuncia alla propria felicità) come se fosse una sacra missione.
(da editorialedomani.it)
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Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
CRONACA DI UN PARRICIDIO
Quando sullo schermo appaiono i numeri del parricidio, restano senza fiato anche i contiani più stretti. Anche i pretoriani dell’avvocato, radunati attorno al vincitore, rimangono stupiti. Non se l’aspettavano. Eppure è proprio così. Alle 16 e qualcosa di una domenica a Roma, sotto le volte razionaliste del Palazzo dei Congressi all’Eur, gli iscritti hanno cacciato Beppe Grillo dall’organigramma del Movimento. Il 63 per cento dei votanti nella Costituente ha cancellato la figura del garante, e con quella una storia di 15 anni nel Movimento per il suo fondatore, che lo battezzò sul palco del teatro Smeraldo a Milano, il 4 ottobre 2009. Ma le radici affondano ancora prima, nel Vaffa Day a Bologna del 2007, dove Grillo riempì piazza Maggiore. Un’altra era, chiusa dal voto della base, e dall’avvocato che si è preso tutto, Giuseppe Conte. “Abbiamo rischiato tutto, ma il fuoco del M5S è vivo” celebra lui dal palco. Poi colpisce: “Non mi sarei mai aspettato di avere il nostro garante a gamba tesa contro il processo costituente. Ho ricevuto battute velenose ma non è mai stato uno scontro tra me il garante”. E invece sì: è stata soprattutto la resa dei conti tra il fondatore che a Roma non si fa vedere, preoccupato dai probabili fischi di una platea che non è più la sua, e l’ex premier.
Il Conte che cerca e trova la standing ovation del pubblico e quella della base, con il quorum per le modifiche statutarie raggiunto agilmente – ha votato oltre il 61 per cento degli iscritti – e il via libera a tutte le sue preferenze politiche. Inclusa la collocazione nel fu campo largo come “progressisti indipendenti” (l’opzione votata dal leader) e il no con oltre l’83 per cento al divieto di alleanze, che se fosse passato avrebbe spinto Conte a salutare tutti. Invece ora è tutto suo, nel Movimento che saluta anche il totem dei due mandati – ma sulla formula esatta l’avvocato dovrà fare una sintesi tra le varie proposte approvate – con la maggior parte dei voti per la possibilità di candidarsi senza vincoli come sindaci o presidenti di Regione. Dal tesseramento alle risorse per i gruppi territoriali, passano anche tutte le innovazioni che trasformano il M5S che voleva essere fluido e né a destra né a sinistra in un partito, progressista. Tutti i paradigmi di Grillo sono spazzati via. Lui si limita a una battuta sul suo stato di WhasApp: “Da francescani a gesuiti”. Ora potrebbe chiedere la ripetizione del voto sulle modifiche statutarie, per cui nel secondo turno sarebbe comunque necessario il voto della metà più uno degli 89mila iscritti. Ma alcuni nel M5S sospettano che si muoverà sul piano legale, contestando a Conte l’uso del simbolo. Però l’avvocato dal palco già indica la rotta: “Dai quesiti direi che siamo progressisti. Però l’alleanza non è un dato precostituito, ma è un mezzo per cambiare la società. Siamo disponibili a sporcarci le mani”. Ma Conte vuole tenere una sua postura. Per questo all’ora di pranzo aveva dato spazio all’unico ospite politico, Sahra Wagenknecht, la leader della sinistra tedesca pacifista e che invoca “limiti all’immigrazione”, fondatrice del partito Bsw. Le ha fatto addirittura da simil-intervistatore, Conte, mentre in collegamento l’ex big della Linke celebrava le affinità: “Nella guerra in Ucraina c’è una corresponsabilità dell’Occidente e della Nato, è molto importante che le forze Ue che sono per un’Europa progressista e giusta si alleino”. Tanto che invita l’ex premier a Berlino, e lui accetta.
I 5Stelle, ora nel gruppo di The Left in Ue, aspettano le elezioni tedesche in febbraio per vedere se la probabile crescita elettorale di Bsw favorirà la creazione di un gruppo assieme a Wagenknecht. Nell’attesa, Conte celebra la cancellazione dei due mandati (definitiva, perché per cambiare il codice etico non serve il quorum): “Siete stanchi di combattere ad armi impari con altre forze politiche. Sui mandati formuleremo una proposta cum grano salis che voterete”. Saluti, dall’arena del parricidio.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
QUANDO NON SI CAPISCE CHE SI PUO’ USCIRE CON DIGNITA’ QUANDO NON CONDIVIDI PIU’ LA LINEA DI UN MOVIMENTO POLITICO
Una certezza e qualche dubbio. Che l’aria alla Costituente non fosse delle migliori per Beppe Grillo, il fondatore lo aveva capito all’annuncio del raggiungimento del quorum. Così da Marina di Bibbona, dove ha passato le ultime giornate, riflettendo se fare o meno un blitz all’Eur, si è trovato a un bivio: scendere a Roma o risalire nella sua Genova. E il fondatore ha scelto la seconda opzione.
Grillo, in realtà, si sente «liberato da un peso». Proprio per questo ha evitato iniziative legali prima del voto. E proprio per questo ha atteso l’ultimo momento utile per pubblicare il suo commento su WhatsApp, quella storia con una didascalia molto breve ma altrettanto pregna di significati: «Da francescani a gesuiti». Conte è visto come il gesuita. E in ambienti vicini al fondatore ricordano anche il detto «Falso come un gesuita».
Ma la delusione di Grillo non è tanto per Conte. Il garante si sente tradito soprattutto dai big della vecchia guardia che ancora hanno un peso nel M5S contiano, in primis Roberto Fico e Stefano Patuanelli. Da loro si aspettava una vicinanza maggiore, un contributo alla sua causa.
Ora il garante deve decidere il da farsi. E qui iniziano i dubbi. Molto probabilmente nelle prossime ore pubblicherà un video per commentare la votazione. Ma le parole non bastano stavolta. Grillo non vuole disperdere quello che ha contribuito a creare con Gianroberto Casaleggio quindici anni fa. E soprattutto non vuole che la storia «di questo nuovo partito» si sovrapponga a quella dei «suoi» 5 Stelle.
L’esito della Costituente, insomma, chiude un capitolo ma ne apre altri. La strada di una guerra legale sul simbolo sembra l’opzione più concreta, anche perché — spiega chi lo conosce bene — «Beppe era indeciso se lasciar correre o martellare, ma visti certi atteggiamenti farà valere le sue ragioni».
C’è anche un’altra carta sul tavolo: quella della ripetizione del voto. Grillo ha da statuto cinque giorni di tempo per chiedere un nuovo test elettorale sulle questioni statutarie.
Il fondatore, però, sta valutando. C’è chi in ambienti vicini a lui si chiede se la ripetizione della consultazione abbia un senso perché «sarebbe garante di qualcosa in cui non crede più».
C’è chi invece spera che con il nuovo test i 15 mila iscritti pro garante si tirino fuori dal voto, facendo di nuovo vacillare il quorum. In ogni caso, un’eventuale nuova votazione protrarrebbe lo scontro interno almeno fino a metà dicembre
(da ilCorriere della Sera)
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Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
POTREBBE CONTESTARE LA PATERNITÀ DEL SIMBOLO DEL PARTITO, O ADDIRITTURA FAR RIPETERE IL VOTO… ALL’ANNUNCIO DELL’ELIMINAZIONE DEL RUOLO DEL GARANTE, ALLA CONVENTION “NOVA”, PARTE LA OLA. L’UNICA A SMARCARSI È CHIARA APPENDINO: “È STATO UN BRUTTO MOMENTO”
Cancellato alle 16.24 del pomeriggio. Nel palazzone dell’Eur, un anonimo notaio incravattato, collegato da remoto, incorna a morte il Fondatore, l’Elevato, l’Unico: Beppe Grillo.
Si chiude così, con una slide e una percentuale letta con voce nasale, un’era della storia politica italiana: il 63,24% degli iscritti al movimento Cinquestelle ha votato per «l’eliminazione del ruolo del garante». Fine.
L’ideatore della democrazia diretta dei clic ucciso con un clic. Parte l’applauso della sala, lungo, liberatorio. Dietro il palco, nella saletta vip dove si raduna la classe dirigente contiana, un anonimo riferisce: «Abbiamo fatto una ola». Chissà se anche Conte ha alzato le braccia in segno di giubilo, forse no. Ma di certo ha sorriso.
Quando è andato sul palco, ha assaporato la vendetta ostendando signorilità: «Non è mai stato uno scontro tra garante e il sottoscritto, per quanto mi riguarda. Non mi sono mai lasciato distrarre da queste questioni personali. Ho ricevuto battute velenose ma sono andato avanti pensando sempre al bene del Movimento ».
Non lo nomina mai direttamente, supremo distacco o supremo disprezzo. «Non mi sarei mai aspettato che il nostro garante si mettesse di trasverso ed entrasse a gamba tesa nel nostro processo costituente». Quindi, con studiata perfidia rivela: «Mi è stata anche proposta la stessa logica verticistica di decidere tutto in caminetti ristretti e a geometria variabile ma l’ho rifiutata: l’assemblea degli iscritti è sovrana». Grillo è diventato solo «il garante » ed è stato cancellato senza una lacrima.
Grillo naturalmente lo sapeva, se lo aspettava. Se la cava modificando il suo stato su WhatsApp: «Da francescani a gesuiti». Un messaggio per una volta chiaro per dire che i suoi fedeli si sono venduti l’anima, hanno rinnegato il San Francesco delle origini, quello scelto come nume tutelare di un movimento fatto nascere il 4 ottobre. Senza contare che uno dei più famosi ex allievi dei gesuiti è quel Mario Draghi che Grillo assicurò essere “un vero grillino”. E così il cortocircuito è totale.
Dunque adesso che succede? Virginia Raggi all’Eur nemmeno si è presentata, adducendo problemi familiari. Questo ha dato la stura a mille congetture, essendo la ex sindaca di Roma tra le principali indiziate di filo-grillismo. Ci sarà un’altra scissione con Grillo, Raggi, Toninelli e Di Battista? Le voci sono queste ma forse sono solo fantasmi di una sera d’autunno.
I contiani raccontano che, alla vigilia di Nova, un’agenzia di stampa scrisse che Grillo era sceso a Roma pronto a guastare la festa a Conte. Per non essere tampinato dai cronisti, aveva scelto un hotel di Roma Nord anziché il solito albergo davanti ai Fori. E, guarda caso, a Roma Nord ci abita proprio Alessandro Di Battista, che giorni fa sarebbe stato visto in un bar di Ponte Milvio insieme a una storica collaboratrice del comico genovese. Un po’ poco come trama di un giallo, ma questo è.
Un fatto è certo, per i nostalgici di Grillo da domani l’atmosfera dentro il PdC, il partito di Conte, si fa pesante. Nessuno spende una parola per difendere il garante, hanno capito tutti l’aria che tira.
(da La Repubblica)
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Novembre 25th, 2024 Riccardo Fucile
GRILLO “SI ‘E SCAVATO LA FOSSA DA SOLO”
“Posso dirti la verità? Non mi è piaciuto l’applauso, è stato proprio un brutto momento”. Chiara Appendino si avvicina al suo collega vicepresidente, Michele Gubitosa. E confessa che quello che ha appena visto è uno spettacolo che non ha gradito per niente.
È lì, in piedi in mezzo alla platea, quando la slide con il 63 per cento di voti per l’abolizione del Garante ha chiuso definitivamente la storia tra Beppe Grillo e il Movimento Cinque Stelle. L’ex sindaca di Torino che da giorni invoca la pace e chiede che il M5S non finisca “fagocitato dal Pd” è atterrita, scuote la testa, si siede a terra, quasi per riprendersi dallo shock. Intorno, c’è uno sparuto gruppetto di parlamentari, come lei devastato dalla notizia. “È stata una cazzata gigantesca, avremo per sempre lo spettro di Grillo dietro le spalle”, dice il deputato Dario Carotenuto. Il collega Riccardo Tucci gli dà ragione. L’europarlamentare Dario Tamburrano lascia la sala appena sentito il risultato. E quando Conte, già sul palco vittorioso (“Ora esce con la mimetica”, pronosticavano in platea con malevola ironia) dice che “la Costituente è servita a tenere i piedi ben piantati”, un’altra voce mugugna: “Sì, piantati sulla tomba di Beppe”.
Intorno, però, non c’è aria di funerale. Tutt’altro. E sono poche le voci che cercano di stemperare i festeggiamenti, che a tratti rasentano il vilipendio di quella che finora è stata una bandiera. Una è quella di Roberto Fico, che alla telecamere de ilfattoquotidiano.it dice di non aver condiviso il boato e invita a leggere i risultati come “un segnale degli iscritti per maggiore collegialità”. “Non è stato un voto contro una persona – insiste – Beppe è e rimane il fondatore del Movimento 5 Stelle, su questo non ci piove”. Altrove è festa grande, nei corridoi si incontra gente che si abbraccia, quasi commossa e scambia commenti che vanno da “Non poteva andare meglio di così” e arrivano a dire: “La base ha capito che andava fatto fuori”.
Poi, certo, la festa è anche intrisa di quel clima da fine lavori che contagia i membri dello staff della comunicazione, stanchi e felici perché la loro organizzazione della fase finale della kermesse è filata via senza intoppi, come l’avevano immaginata e costruita da mesi. Ma anche tra loro, c’è la vecchia guardia che ammette: “Un po’ di dolore c’è, siamo qui grazie a Beppe”. E si domanda: “Ora che farà?”. Il video se lo aspettano un po’ tutti, la domanda è solo: quando?
Lo pensano pure i parlamentari della prima èra, che ieri sono tornati anche per capire se per loro, con le modifiche alla regola sul limite dei mandati, si riapre qualche chance elettorale. Perfino per loro la riconoscenza nei confronti di Grillo si è da tempo impastata con il risentimento per gli errori passati. Uno su tutti, il sì a Draghi. “Mi ricordo ancora quando ci ha detto: ‘Mi ha chiamato Mario, andiamo a vedere’. È lì che si è scavato la fossa”, racconta un ex senatore sotto garanzia di anonimato. Che alla fine di parlar male di lui, nessuno ha davvero voglia. Chissà se il riserbo durerà, quando arriverà la video-scomunica. Una attivista già si diverte a leggere i primi commenti che sputano i social. “Vergognatevi, giovani poltronari”.
(da La Repubblica)
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