Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
“L’ITALIA È UN GRANDE PAESE DEMOCRATICO E DEVO RIBADIRE CHE ‘SA BADARE A SÉ STESSA NEL RISPETTO DELLA SUA COSTITUZIONE’. CHIUNQUE, PARTICOLARMENTE SE IN PROCINTO DI ASSUMERE UN IMPORTANTE RUOLO DI GOVERNO IN UN PAESE AMICO E ALLEATO, DEVE RISPETTARNE LA SOVRANITÀ E NON PUÒ ATTRIBUIRSI IL COMPITO DI IMPARTIRLE PRESCRIZIONI”
“L’Italia è un grande Paese democratico e devo ribadire, con le parole adoperate in altra occasione, il 7 ottobre 2022, che ‘sa badare a sé stessa nel rispetto della sua Costituzione’.
Chiunque, particolarmente se, come annunziato, in procinto di assumere un importante ruolo di governo in un Paese amico e alleato, deve rispettarne la sovranità e non può attribuirsi il compito di impartirle prescrizioni”.
Lo afferma il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, replicando così alle parole sui giudici italiani pronunciate da Elon Musk.
(da agenzie))
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
LA SORA GIORGIA SOGNA CHE LA CORTE DICHIARI INCOSTITUZIONALE LA RIFORMA COSI’ DA FAR SALTARE IL REFERENDUM: NON SOLO PERCHE’ FRATELLI D’ITALIA, DA SEMPRE STATALISTA, NON VUOLE L’AUTONOMIA MA PERCHE’ UNA SCONFITTA AL REFERENDUM METTEREBBE SALVINI CON LE SPALLE AL MURO ALL’INTERNO DELLA LEGA E IN BILICO IL GOVERNO
La Corte costituzionale, ancora orfana del quindicesimo giudice a causa dell’inerzia del parlamento e che a breve sarà privata di altri tre membri in scadenza il 21 dicembre, ha aperto ieri l’udienza pubblica in materia di autonomia differenziata.
La questione, oltre che essere complessa, è controversa: riguarda la riforma – bandiera leghista nell’azione del governo – impugnata in via diretta da quattro regioni per conflitto di attribuzioni. Il punto principale, sotto il profilo costituzionale, riguarda l’interpretazione dell’articolo 116 della Costituzione sull’autonomia regionale.
I ricorsi provengono da Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, tutte a guida centrosinistra, che hanno impugnato la legge sia nella sua totalità sia in riferimento a specifiche disposizioni: la leale collaborazione, il procedimento con cui verranno approvate le intese tra stato e regione e, soprattutto, il finanziamento delle funzioni trasferite.
Questo è il tasto più dolente per il governo, ancora non risolto con l’effettiva fissazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni per le materie che riguardano diritti civili e sociali, per cui è necessario uno standard minimo nazionale.
Vista l’articolazione dei ricorsi, il giudizio non sarà rapido. Intanto ieri la Corte ha ritenuto ammissibili gli interventi ad opponendum (in opposizione alle tesi prospettate dai ricorsi) delle regioni Piemonte, Veneto e Lombardia, governate dal centrodestra. […] Oggi la Corte si riunirà in camera di Consiglio per decidere e in ogni caso, viene fatto sapere, la sentenza verrà depositata entro metà dicembre. Una data non irrilevante per due ordini di ragioni: si colloca prima della cessazione dell’incarico di altri tre giudici costituzionali (tra cui l’attuale presidente Augusto Barbera) ma soprattutto prima di quando la Cassazione deciderà sull’ammissibilità dei referendum abrogativi presentati sulla stessa legge Calderoli.
Proprio quest’ultimo punto è fondamentale: come viene fatto notare da chi conosce bene questo tipo di ricorsi, non serve che la Corte decida per l’abrogazione per intero della legge, per bloccarne sostanzialmente il funzionamento.
Se i giudici accoglieranno il ricorso delle regioni per quanto riguarda il finanziamento delle materie, la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni e il mancato rispetto del principio di leale collaborazione tra stato e regioni, ecco che il disegno autonomista di Calderoli verrebbe di fatto smontato.
Proprio questa è un’ipotesi realistica: la legge, in particolare nella parte che riguarda i Lep, porta con sé un rischio di pregiudizio per i diritti dei cittadini a seconda della regione. Se così sarà, c’è da attendersi un effetto domino.
Con la dichiarazione di incostituzionalità di parti essenziali della riforma, la Cassazione potrebbe decidere che i quesiti referendari presentati con la raccolta firme siano superati. Dunque, niente referendum.
Qualora così non fosse, l’ultima parola sull’ammissibilità costituzionale dei quesiti spetterà comunque alla stessa Consulta, entro il 20 gennaio prossimo.
Se così fosse, l’effetto politico sarebbe inevitabile. In casa Lega, la legge attesa per trent’anni e finalmente approvata scivolerebbe via per un soffio ai governatori del nord. Nell’attribuzione delle colpe, però, i leghisti non potrebbero che guardare in casa, visto che la legge è stata scritta da Calderoli con la benedizione di Matteo Salvini.
Per gli altri due alleati, invece, un eventuale stop risolverebbe più di un problema. Forza Italia, di cui fanno parte molti governatori del Sud, non ha mai fatto mistero delle sue riserve sull’autonomia e anche Giorgia Meloni – che per cultura ha concezione centralistica dello stato – sanerebbe la contraddizione nei confronti del suo elettorato meridionale.
(da Open)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
“LA RISPOSTA DELLA PREMIER È SPROPOSITATA, NON È MAI SUCCESSO NELLA STORIA REPUBBLICANA CHE UN SINDACO FOSSE STATO ATTACCATO IN QUESTO MODO”… “RIDIREI CAMICIE NERE? ERANO VESTITI DI NERO E INDOSSAVANO CROCI CELTICHE CANTANDO FACCETTA NERA AL PASSO DELL’OCA…”
«Il prefetto usa parole al limite della falsità». Il sindaco di Bologna Matteo Lepore torna all’attacco dopo gli scontri di sabato scorso tra collettivi e forze dell’ordine a margine della manifestazione dei Patrioti e di CasaPound e delle polemiche che ne sono seguite.
Vuole rispondere al prefetto Attilio Visconti che in un’intervista al Corriere della Sera ha dato la sua versione dei fatti ma anche al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi che «ha rilanciato la versione del prefetto» e alla premier Meloni «che ha passato il segno».
Sindaco, cosa contesta della ricostruzione fatta dal prefetto di Bologna, Attilio Visconti sulla manifestazione dei Patrioti?
«Il prefetto dice alcune falsità. Il comitato per l’ordine pubblico non ha mai valutato il divieto della manifestazione, io non l’ho mai chiesto. Perché, anche se penso che questi movimenti andrebbero sciolti, so benissimo da sindaco che finché esistono non si può vietare una manifestazione».
Cos’altro?
«Non ho chiesto solo io di spostare la manifestazione, tutto il comitato all’unanimità ha chiesto che il sit-in si facesse fuori dal centro. Il prefetto ha detto testualmente nella riunione: “Nel salotto buono di Bologna non si può svolgere una manifestazione del genere”.
Eravamo in dieci a quella riunione. Poi non è vero che noi abbiamo chiesto di spostare la manifestazione per evitare assembramenti, questa è una falsità. Noi abbiamo chiesto di spostarla perché era pericoloso e infatti è andata come è andata. E c’è anche dell’altro».
Cosa?
«Che queste cose false sono state rilanciate dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, anche per questo ci tengo a ricostruire quello che è successo».
Forse andava ricercata una soluzione comune tra tutte le istituzioni coinvolte.
«Sono loro che dovrebbero spiegare bene cosa è successo dopo la prima riunione e perché un comitato prende una decisione e poi si cambia idea senza un passaggio formale. Si accusa il centrosinistra di sostenere i violenti, io invece vorrei sapere quali sono le motivazioni per cui si è cambiata idea. Ho chiesto se c’erano state richieste da Roma? Evidentemente qualcosa non ha funzionato».
Nei giorni scorsi lei ha avuto uno scontro durissimo con la premier Meloni che l’accusa di avere due facce diverse .
«Io ho una sola faccia. La risposta di Meloni è spropositata, non è mai successo nella storia repubblicana che un sindaco fosse stato attaccato in questo modo. Meloni ha passato il segno, con le sue parole lede i rapporti leali tra le istituzioni».
Si è pentito di aver infiammato la polemica parlando di camicie nere? Poi Salvini ha parlato di zecche rosse e così non si finisce più.
«Erano vestiti di nero e indossavano croci celtiche cantando faccetta nera al passo dell’oca, certo che lo ridirei».
Il confronto sugli scontri di Bologna ha acceso i riflettori nazionali su una campagna elettorale per le Regionali finora un po’ noiosa ma molto civile. Quello che è successo influirà sul voto?
«Quello che volevano ottenere era chiudere nell’angolo Bologna e l’Emilia-Romagna costringendoci a passare l’ultima settimana a parlare solo degli scontri in città. E invece mi sembra che un passo indietro lo abbiano già fatto loro visto che la premier Giorgia Meloni ha rinunciato a venire a chiudere la campagna elettorale della candidata del centrodestra. Io credo che il voto dimostrerà che la città ha la schiena dritta e che l’Emilia-Romagna è stanca del balletto che c’è stato sui finanziamenti per le alluvioni».
(da Il Corriere della Sera)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
COSA C’È DIETRO L’AIUTINO DI ELON MUSK A GIORGIA MELONI
L’entrata a gamba tesa di Elon Musk nella politica italiana evidentemente non è un’ingerenza straniera. Per questo Giorgia Meloni e il suo governo, che per mesi le hanno stigmatizzate, oggi non protestano. E poi «con Elon ormai siamo amici», ha detto qualche tempo fa la premier.
Ed è vero, visto che i due periodicamente si scambiano chat su Whatsapp. E poi «è un privato cittadino», ha detto la settimana scorsa Meloni da Budapest. Anche se va verso un incarico di prestigio (si parla della delega all’intelligenza artificiale) nel governo di Donald Trump. E anche se la piattaforma Starlink vuole sbarcare in Italia e c’è bisogno dell’ok di Palazzo Chigi. Come abbiamo appreso grazie all’inchiesta su Sogei e Andrea Stroppa. Così come dietro l’attivismo dell’imprenditore sudafricano c’è una passione: l’Antica Roma.
Starlink e l’appalto da 1,5 miliardi con Palazzo Chigi
«Per aspera ad astra»: con un biglietto e un mazzo di fiori durante il suo ultimo viaggio a Roma ha reso omaggio nel luogo in cui bruciò il cadavere di Giulio Cesare. Attraverso le difficoltà si arriva alle stelle, è il senso del motto latino. E in effetti per i suoi emissari italiani di Starlink, Tesla e SpaceX è stato difficile salire ai piani alti dei ministeri per proporre affari.
Ma adesso, spiega il Corriere della Sera, sul tavolo c’è una fornitura di banda larga attraverso satellite per garantire connessioni “sicure” alle imprese italiane. Un accordo della durata quinquennale per una spesa totale di 1,5 miliardi di euro. Anche se le norme anti-pirateria potrebbero bloccare tutto. E non c’è solo questo. La premier, che ha conosciuto Musk grazie ai buoni uffici del giornalista Nicola Porro, potrebbe essere anche una sponda per ammorbidire le regole del Dsa.
La Tesla low cost
Ovvero l’atto di legge per combattere l’hate speech sui social network. Che metterebbe in difficoltà X. Ma nei piani e nei sogni del governo c’è anche una Tesla low cost. Un’auto elettrica a guida autonoma per il nostro mercato che Musk potrebbe lanciare. Anche questo fa parte dell’asse Meloni-Musk. Che potrebbe consolidarsi anche grazie alla passione per l’Antica Roma del nuovo tycoon.
E pazienza se anche lui pare proprio essere un miliardario globalista come George Soros, spesso attaccato dalla premier. Che ha voluto che a coordinare i lavori per l’appalto di Starlink fosse il generale Franco Federici. Visto che, spiega oggi La Stampa, l’esecutivo al termine dell’estate era pronto alla firma del protocollo d’intesa. Poi l’inchiesta su Sogei ha rallentato tutto. Anche se nel frattempo due progetti pilota per la connessione sono stati avviati nelle rappresentanze diplomatiche italiane in Libano e in Afghanistan.
Inchieste e contratti congelati
E c’è anche il progetto di offrire copertura alle navi come la Garibaldi e la Vespucci. E forse anche alla Libra, nel frattempo impegnata nel trasporto di naufraghi dal Mar Mediterraneo all’Albania e da qui all’Italia dopo le sentenze dei giudici. Il contratto è attualmente congelato dopo l’inchiesta su Sogei. E in Fratelli d’Italia c’è chi dice che proprio l’intervento dei magistrati su Andrea Stroppa abbia convinto Musk ad alimentare la polemica sui giudici. Che intanto dovrà convincere Guido Crosetto della bontà del suo progetto per connettere le istituzioni italiane tramite Starlink. Il ministro della Difesa infatti è stato l’unico a ricordare che Musk nel business satellitare è un monopolista e ha costi non paragonabili a quelli degli altri provider. Poi c’è anche una questione politica da non sottovalutare.
Salvini e Trump
Ovvero la concorrenza di Matteo Salvini nel centrodestra. Il leader della Lega finisce rivitalizzato dalla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti perché lui, a differenza di Meloni, non ha dovuto scattare foto con Joe Biden nei tre anni precedenti. Giorgia invece ha un problema che si chiama Steve Bannon. Il quale ieri ha spiegato in un’intervista che si attende un riallineamento della premier.
È la stessa cosa che si attende Musk. Per questo ha deciso di forzare la mano sui giudici. E Meloni presto dovrà fare una scelta. O decide di seguire le istituzioni europee, che si preparano a un rapporto conflittuale con Washington. Oppure abbraccia la linea di Trump, anche per non farsi superare da Salvini.
(da Open)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
ALBANIA, SCATTA LA RITIRATA: RIENTRANO 50 AGENTI DELLA POLIZIA
IL GOVERNO ORA VUOLE FERMARSI PER NON RISCHIARE IL DANNO ERARIALE E DOVER PAGARE DI TASCA PROPRIA… SI PENSA DI ATTENDERE LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA CHE PERO’ POTREBBE DARE TORTO A MELONI E PIANTEDOSI
Tecnicamente si chiama rimodulazione. Ma dietro l’ordine di ridurre il contingente di forze dell’ordine nei centri di permanenza e rimpatrio di Shengjin e Gjader in Albania c’è un’aria di smobilitazione.
Nonostante i segnali contrastanti che arrivano da Roma e l’aiuto di Elon Musk il governo Meloni va davvero verso la smobilitazione. Almeno fino alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sui trattenimenti nei Cpr. Che però potrebbe dargli ancora una volta torto. Mettendo una pietra tombale sul progetto di Giorgia Meloni. E di Matteo Piantedosi. Che ieri durante le riunioni tecniche al Viminale ha convenuto sulla necessità di rallentare il flusso (si fa per dire: 16 migranti la prima volta, 8 la seconda). Anche per evitare l’accusa che tutti a Palazzo Chigi temono. Ovvero quella di danno erariale.
La “rimodulazione”
La rimodulazione che somiglia a una ritirata la racconta oggi Repubblica. Il contingente di forze dell’ordine in Albania a regime doveva arrivare a 295 unità. Ma quel numero non si è mai raggiunto. Per fortuna, visto che ciascun poliziotto prende cento euro in più al giorno in busta paga solo come indennità di trasferta. Il numero totale di effettivi tra Shengjin e Gjader è arrivato al massimo a 220. Nel frattempo gli esposti alla Corte dei Conti hanno convinto il Viminale al dietrofront. Ora il numero sarà di 170. Che è quello minimo per far funzionare i turni di lavoro. Che consistono nella vigilanza di celle vuote. Intanto la prefettura di Roma pubblica un bando da 3,2 milioni di euro per la manutenzione ordinaria dei centri. Mentre un contratto da 48 mila euro per sei mesi di lavoro è stato stipulato con una ditta di pulizie albanese.
Ritirata dall’Albania?
Il 19 novembre invece scadono i termini per un appalto di quasi un milione di euro per i pasti nei prossimi due anni. Intanto il Corriere della Sera spiega che nell’immediato futuro c’è il rischio concreto che nessun altro migrante venga accolto nei Cpr. I documenti ufficiali infatti parlano di una spesa di 134 milioni annui per il mantenimento delle strutture. Ovvero 670 milioni in cinque anni. Secondo il Viminale si risparmia rispetto al miliardo e settecento milioni che si spendono per la prima accoglienza straordinaria. Ma i magistrati contabili potrebbero chiedere conto di questi presunti risparmi. La decisione della Grande Chambre è prevista per gennaio 2025 e non per luglio. E quindi il governo potrebbe attendere quel pronunciamento prima di ricominciare il trasporto dei naufraghi nel Paese delle Aquile. Sperano che sia in qualche modo positivo.
E se ci dicono di no?
La decisione di “rimodulare” potrebbe anche andare di pari passo con le necessità della lotta all’immigrazione clandestina. Perché d’inverno i viaggi via nave o barchino si riducono a causa del maltempo e delle condizioni del mare. Quindi, è il ragionamento, i centri sarebbero in ogni caso al lavoro in condizioni ridotte. Con l’arrivo della primavera e della bella stagione le cose cambierebbero. E i centri potrebbero tornare al loro riempimento massimo. Che però è calcolato in 30-40 persone al massimo. Ovvero molto lontano dai 3 mila di partenza. Ma soprattutto: cosa succede se invece i giudici della Cgue dicono di no al governo? A quel punto il problema politico potrebbe scoppiare in tutta la sua potenza. Anche perché finora la linea di Meloni è stata quella di ricalcare un classico del centrodestra al potere: l’attacco ai giudici comunisti.
C’è un giudice comunista anche in Lussemburgo?
Un argomento che pare essere piuttosto debole nei confronti dei giudici di Lussemburgo. Intanto i sette migranti (tre egiziani, quattro del Bangladesh) che erano stati trasferiti a Shengjin la scorsa settimana sono arrivati a Brindisi. Entro 14 giorni dovrebbero presentare il ricorso contro i respingimenti delle richieste d’asilo effettuati in Albania. L’esito potrebbe richiedere mesi. Mentre c’è anche la Corte di Cassazione da attendere per gennaio. Il Palazzaccio non si deve pronunciare sul decreto paesi sicuri, ma sulle regole precedenti. E anche lì rischia di picconare i progetti dell’esecutivo. Mentre va segnalato che ogni volta che perde in tribunale davanti alla sezione immigrazione, il Viminale viene condannato al pagamento delle spese. Anche quelli sono soldi pubblici che se ne vanno. Buttati a mare, è il caso di dirlo.
(da La Repubblica)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
IL “GABBIANO” RAMPELLI E’ GELIDO SULL’ENTRATA A GAMBA TESA DI ELON MUSK SUL CASO MIGRANTI (“VIA QUEI GIUDICI”) METTE GIORGIA ALL’ANGOLO: LA DUCETTA CAMALEONTE PUNTA SU MISTER TESLA PER RIACCREDITARSI CON TRUMP MA RISCHIA DI ALIENARSI L’APPOGGIO DELLE ISTITUZIONI EUROPEELA SORTITA DI MUSK: “SIAMO ATTREZZATI PER DIFENDERCI DA SOLI”… CHE DIRANNO, I CAMERATI, QUANDO MISTER TESLA METTERÀ BOCCA SULLE VICENDE ITALIANE CON UN RUOLO DI GOVERNO NEGLI USA?…DAL CONTRATTO STARLINK DA 1,5 MILIARDI DI EURO ALLA TESLA LOW COST: COSA BALLA TRA PALAZZO CHIGI E MUSK
«Con Musk ormai siamo amici», ripete da mesi Giorgia Meloni alla cerchia stretta dei suoi consiglieri. Il canale è diretto, senza filtri: un messaggino di Whatsapp dopo l’altro. Scambi frequenti, anche se non quotidiani, racconta chi è stato messo a parte dei dettagli di questa special relationship tra la premier e il patron di X.
Però l’amico Elon è anche un tipo incontrollabile, che una mattina può dare dello «scemo» al cancelliere tedesco e che in passato se l’è presa con i magistrati di Francia e Brasile, con il governo inglese, con Ursula von der Leyen, fino a ieri, quando è toccato ai giudici italiani. Un flusso quotidiano di post, senza imbeccate da Palazzo Chigi, sostiene il braccio destro a Roma del magnate di Tesla, Andrea Stroppa: «Musk segue i fatti italiani su X». Rilanciando o commentando quello che scrivono gli 800 contatti che segue.
Proprio per questo, però, il tasso di imprevedibilità è altissimo. L’incidente, dietro l’angolo. Rischia insomma, Musk, di diventare l’amico imbarazzante per un partito come FdI, che contro le “ingerenze straniere” ha costruito per anni un pezzo della sua propaganda e anche della sua fortuna elettorale.
Anche la linea «Elon è un privato cittadino», approntata da Meloni venerdì al Consiglio Ue di Budapest (a domanda proprio sugli insulti a Scholz) può reggere solo per qualche mese, se Donald Trump, come pare, manterrà l’impegno col fondatore di SpaceX e gli offrirà un incarico nella sua amministrazione. Che diranno, i Fratelli, quando Musk metterà bocca sulle vicende italiane con un ruolo di governo negli Usa?
Per la premier gestire questo rapporto è (e sarà) una prova da equilibrista. Un calcolo continuo di costi e benefici. Il vantaggio principale è lampante: il legame le serve per riallacciare i rapporti con Trump e la galassia “Maga”, che in parte ha vissuto con fastidio la collaborazione, a tratti affettuosa, tra la presidente del Consiglio e il democratico Joe Biden. Non a caso è stata Meloni a chiamare l’imprenditore sudafricano naturalizzato statunitense, subito, la notte dopo il voto. Ed è sempre stata Meloni a rendere nota la telefonata.
Anche per bilanciare l’attivismo di Matteo Salvini, che con Musk il rapporto se l’è costruito più tardi, ma che, al contrario della leader di FdI, non si cruccia minimamente di mostrarsi istituzionale. L’abbraccio con Musk, però, non può diventare troppo stretto per la premier.
Soprattutto, Meloni non può benedire fino in fondo le sue incursioni nella politica italiana, anche quando le farebbero comodo, come ieri. Sa che certe sortite passerebbero per intromissioni, non tanto nei lanci d’agenzia dell’opposizione, ma in un segmento di elettorato che queste “ingerenze” le ha sempre sofferte (e che solitamente vota a destra). Qualche voce critica da FdI già si leva, all’indirizzo del proprietario di X: «Siamo attrezzati per difenderci da soli è il commento gelido del vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli – Ringraziamo Musk, ma non siamo come la sinistra che sbava per amplificare a livello internazionale le criticità italiane, ridicolizzando la nazione ».
Parole che Meloni non può pronunciare. L’amico Elon, oltre ad essere un prezioso interlocutore per spazio e connessione satellitare, è il contatto più strategico che ha in rubrica nel giro di Trump. Difficilmente può esserlo Ron DeSantis, in questi giorni in Italia per promuovere le aziende della Florida e ricevuto ieri a Palazzo Chigi. È un governatore repubblicano, sì. Ma è stato il principale avversario di Trump alle primarie. E ha rotto con la nuova capo- staff del presidente eletto, Susie Wiles. Meloni un incontro glielo doveva: grazie alla mediazione di De-Santis è stato liberato Chico Forti.
Ma si è ben guardata dall’enfatizzarlo: Palazzo Chigi ha diffuso una stringata nota istituzionale, a sera, in cui si parla unicamente della «missione economico-commerciale».
(da La Repubblica)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
TRA I VETI INCROCIATI DI PPE E S&D, È STALLO: IL VOTO SU FITTO SLITTA A “DATA DA DESTINARSI” E VIENE LEGATO A QUELLO DELLA SOCIALISTA TERESA RIBERA…LA MELONI CAMALEONTE ANNUNCIA CHE FDI VOTERA’ SÌ ALLA COMMISSIONE. MA LA MOSSA DI VON DER LEYEN DI APRIRE A DESTRA RISCHIA DI FAR ESPLODERE LA MAGGIORANZA
Il Parlamento europeo rinvia «a data da destinarsi» il voto su Raffaele Fitto come vicepresidente della Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Si accende lo scontro sul commissario meloniano. Nonostante una audizione fiume durata tre ore e mezza e un discorso dai toni moderati e concilianti, con tanto di abiura del fascismo (forte delle proprie radici democristiane), Fitto non convince il gruppo dei socialisti di S&d, del quale fa parte il Pd, né la Sinistra e tantomeno i Verdi, che con socialisti, liberali e popolari formano la maggioranza che sostiene la Commissione.
I socialisti non vogliono per l’italiano la vicepresidenza, un braccio di ferro è in corso anche sulla spagnola Teresa Ribera: viene fatto slittare il voto su tutti i sei vicepresidenti indicati da von der Leyen. Si apre ora una difficile trattativa e Giorgia Meloni da Roma, assai irritata, se la prende con Elly Schlein.
Fitto nel suo “esame” davanti al Parlamento europeo tiene un discorso a dir poco moderato, con l’accortezza di non citare FdI: «Non sono qui a rappresentare un partito politico o un Paese membro — dice — sono qui per affermare il mio impegno per l’Europa».
Il ministro apre su due argomenti che preoccupano Bruxelles, viste le prese di posizione del governo Meloni: lo stato di diritto come «valore fondante» e il Green deal, contestato dal governo italiano a partire dallo stop alla produzione di auto endotermiche dal 2035 («Condivido le linee guida della presidente von der Leyen»).
Per convincere i socialisti, il candidato meloniano prende le distanze dell’estrema destra e da Viktor Orbán: «Non sono fascista e il mio ruolo sarà di equidistanza con tutti gli Stati membri». «Fitto schiva le domande sullo stato di diritto ed è tiepido sul Green deal», sostiene il co-presidente dei Verdi Bas Eikhout.
Non basta però. «Se la sta cavando, ma restano domande a von der Leyen sullo spostamento a destra della Commissione nel suo insieme», dice dal Pd l’eurodeputato Dario Nardella. Certo non aiuta l’annuncio dei parlamentari di Afd: «Voteremo Fitto insieme al Ppe, la maggioranza di destra è il futuro», dice Alexander Jungbluth del partito di estrema destra tedesco.
Il sostegno delle destre unite — con il Ppe, anche Ecr, Patrioti, Afd — permetterebbe al meloniano di raggiungere la maggioranza e il sì alla nomina, ma mette in difficoltà von der Leyen e i popolari. Per lanciare un segnale che aiuti a sbloccare lo stallo, il capo delegazione di FdI Carlo Fidanza annuncia il voto favorevole alla Commissione von der Leyen, anche se i Conservatori sono fuori dalla maggioranza: «Le diverse delegazioni nazionali dell’Ecr valuteranno, ma Fratelli d’Italia voterà sì», dice Fidanza.
(da La Repubblica)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
SEI LEGGERMENTE MENO A DESTRA DI BOCCHINO? SEI UNO SPORCO COMUNISTA
Dire che le cose vanno bene, benone, benissimo, quando non vanno bene per niente è una vecchia tattica di chi comanda. Se poi le cose non vanno proprio bene bene, ci sono sempre milioni di motivi indipendenti da chi governa. I giudici cattivi, i centri sociali, i lavoratori che scioperano, insomma il campionario è infinito, e come se non bastasse rispuntano “i comunisti”, meravigliosa e mitologica creatura che piace tanto alla destra, a Salvini, agli arditi da social network, ai sottosegretari che si vestivano da nazisti “per goliardia”, a certi commentatori da talk show che, quando sono a corto di argomenti (spesso) se la prendono con i “comunisti”. Dal punto di vista della realtà è un incrocio tra Harry Potter e Cronache di Narnia, perché va bene indicare un nemico invisibile, ma così invisibile no, si rasenta la fantascienza.
Lasciamo stare il povero Salvini, che si fa i video come Farfallina76 per dire che il comunismo non passerà e vuole chiudere i centri sociali a Bologna (tranquillo, Matteo, li ha già chiusi quasi tutti la sinistra, cioè i “comunisti”) e aspettiamo che qualcuno lo intervisti per una volta non come storico, ma come ministro dei treni in ritardo.
Però, dicevo, al di là del famoso cabarettista padano, la parola “comunista” rimbalza nelle cronache e nel chiacchiericcio politico in modo ossessivo. Con grande sprezzo del ridicolo, va detto, perché a sfogliare le cronache recenti la destra meloniana e gli assistenti del capocomico di via Bellerio hanno dato del “comunista” a chiunque, ai magistrati che applicano la legge, a esponenti della sinistra più liberale e annacquata che esiste, ai professori che non bocciano, ai volontari delle Ong, all’Europa, a Biden e Kamala Harris, e via elencando. Se esistessero in natura tutti i comunisti evocati dai figuranti della destra italiana altro che Stalingrado, avremmo almeno ripreso la Liguria.
Pare che di colpo, sul pianeta, tutto quello che sta anche vagamente a sinistra di Bocchino sia “comunista”, il che non rende giustizia a una parola nobile, che segnò un clamoroso pezzo di storia dell’Ottocento e del Novecento. Non si capisce, insomma, se dare del “comunista” a Gentiloni, o a Schlein, sia più offensivo per loro o per i famosi “comunisti” che vedendosi così paragonati potrebbero anche sospirare: “Ma come cazzo siamo finiti”. E del resto, anche Trump ha tuonato che bisogna battere il comunismo, e forse intendeva il famoso comunismo della Florida o del Wyoming dove, come è noto a tutti, comandano i Soviet.
Ma sia: sopportiamo qualche imprecisione storica, che a volte è dettata dall’ignoranza e più spesso dalla malafede, del resto ancora oggi – 2024 – si legge ogni tanto che le truppe russe sul fronte ucraino sono “sovietiche”, che è un po’ come dire che a Lampedusa sbarcano migliaia di Ostrogoti. E del resto fu proprio un ministro della Cultura del governo Meloni, Sangiuliano Martire, a pronunciare durante un’esilarante intervista la mitica frase: “Non mi venite a dire che in Italia non c’è stata una dittatura comunista”. Vabbè, il ministro finì come finì, in una storia sospesa tra Boccaccio e un cinepanettone, ricucito sulla capoccia (spoiler: mica sono stati i comunisti) e non fa testo. Restiamo qui noi, come al solito basiti, italiani semplici, a guardarci le spalle, magari in lista d’attesa per una visita o un esame medico, o col soffitto della scuola che ci frana in testa, o con la busta paga che ci consente a malapena di arrivare al 20 del mese. Ma molto, molto spaventati dai “comunisti”.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
IL SENSO DEL RIDICOLO E’ LA SOLA FORMA DI EGEMONIA CULTURALE CHE RIMANE DA SPENDERE CONTRO CHI NON NE DISPONE
Il Bandecchi, quando strilla «comunisti di merda», sembra un comico di seconda mano bocciato alle selezioni di Zelig: “Grazie, divertente la parte dell’omone che sbraita, ma è da caratterista, qui c’è bisogno di gente capace di far ridere per più di dieci secondi. Si trovi uno bravo e gli faccia da spalla, forse funziona”.
Il Salvini, con le sue «zecche rosse», sembra un personaggio di Corrado Guzzanti, l’uomo di Stato che non ce la fa, se mette la giacca gli strippa sulla pancia, se vede una salsiccia interrompe il comizio per mangiarla, se comincia a parlare gli parte l’embolo (cit. Littizzetto) e sbraca all’istante.
Elon Musk avrebbe avuto la prima pagina di Cuore almeno una volta su tre, il riccone fuori di testa che vuole colonizzare Marte e trasformare il cervello umano in una Tesla, niente fa ridere più della megalomania. Quanto all’amministrazione Trump nel suo insieme, anche grazie alla nomina di quella che ha sparato al suo cane perché indisciplinato, nemmeno Mel Brooks avrebbe saputo mettere insieme un cast simile.
Purtroppo, ogni volta che uno di questi qui ne spara una grossa si leva, a sinistra, una geremiade di dichiarazioni indignate e compunte: come se ci fosse bisogno di spiegare che non si dice comunisti di merda e che un ministro non deve parlare come l’avventore di una bettola poco prima di essere cacciato fuori dal barista.
Nessuno nega che questi signori siano attori potenziali di una tragedia. Ma il comico è il tragico visto di spalle, e prendere per i fondelli i prepotenti è un dovere morale. Il senso del ridicolo è la sola evidente forma di egemonia culturale che rimane da spendere contro chi non ne dispone.
(da repubblica.it)
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