Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
LO SCORSO 5 NOVEMBRE, DOPO ALCUNI MINUTI DI UTILIZZO IL SISTEMA È COLLASSATO E HA PERSO IL DOCUMENTO SIN LÌ FORMATO… NELL’APPLICAZIONE MANCANO CONVALIDE DI ARRESTI, DECRETI PENALI, PATTEGGIAMENTI
Fallisce per il secondo anno consecutivo il ministero della Giustizia nel predisporre l’applicativo che dall’1 gennaio 2025 (dopo proroga in extremis nel 2024) dovrebbe attuare l’obbligatorietà (per legge del 2023) del telematico per tutto il penale.
Il 5 novembre il dicastero di Carlo Nordio è stato messo dal Csm di fronte agli esiti concreti: dopo alcuni minuti di utilizzo il sistema collassa e perde il documento sin lì formato; nell’app mancano convalide di arresti, decreti penali, patteggiamenti; il pm scrive un atto ma l’“esistenza” è subordinata alla validazione dell’utente “segreteria”.
Specifiche tecniche del ministero agli avvocati, per il deposito telematico diretto dal 30 settembre di qualunque atto nel fascicolo del pm, fanno impazzire le cancellerie perché il sistema non verifica la coerenza tra titolo e atto, accetta depositi fatti nell’ufficio sbagliato (ignaro quello giusto), non tiene scadenze, non rileva urgenze.
Istruttivo esempio di come la tecnica, mai neutra, surrettiziamente condizioni l’esercizio della giurisdizione.
(da agenzie)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
MA GRILLO POTREBBE RICHIEDERE LA RIPETIZIONE DI ALCUNE VOTAZIONI. NEL CASO DI UN SECONDO GIRO DI CONSULTAZIONI, IL RAGGIUNGIMENTO DEL QUORUM DELLA METÀ PIÙ UNO DEGLI ISCRITTI SAREBBE UNO SCOGLIO NON DA POCO: GRILLO POTREBBE INVITARE ALL’ASTENSIONE
Un Consiglio nazionale lunghissimo, terminato a tarda notte, non è riuscito a definire i dettagli di un lavoro complesso e delicato. Sul tavolo del più alto organo pentastellato, i quesiti che saranno messi ai voti degli iscritti per rilanciare il M5s. Per la stesura definitiva bisognerà attendere ancora 48 ore.
I vertici sono impegnati sulle limature, ma la sostanza c’è. L’Assemblea costituente di fine novembre voterà, sul ruolo del garante, sul limite dei mandati e sulle alleanze. Così come sul simbolo e sul nome del Movimento che verrà. Nessun referendum, invece, sulla leadership del presidente Giuseppe Conte. Mentre prendono forma i contorni delle operazioni di voto.
Consultazione in rete aperta già dal 21 novembre, due giorni prima dell’inizio di ‘Nova’, l’evento culmine della Costituente fissato al Palazzo dei Congressi dal 23 al 24. Voto online fino al primo pomeriggio di domenica, poi la comunicazione dell’esito in chiusura della kermesse. Intanto, sono ore di intenso lavoro e febbrile attesa nelle fila del Movimento. Il lavoro sui quesiti non è tra i più facili. E le lunghe ore di discussione al Consiglio nazionale lo dimostrano. La pubblicazione era attesa per oggi, ma si dovrà ancora aspettare.
“La stesura segue pedissequamente il report di Avventura Urbana che tira le fila del processo costituente”, si tiene a precisare da Campo Marzio. E sono tanti, forse troppi, gli spunti emersi nei gruppi di lavoro e sintetizzati nel report. La sfida è quella di condensare una mole di differenti proposte in quesiti chiari ed equilibrati. La tendenza, emersa nel Consiglio, sarebbe quella di una modalità ibrida tra quesiti referendari e quesiti con opzione di scelta. E questo vale per la modifica del nome e del simbolo, per l’intricata revisione del limite dei due mandati e per il nodo delle alleanze.
L’esempio più discusso in Transatlantico, però, è quello relativo al ruolo di Beppe Grillo. A una domanda secca, come potrebbe essere “vuoi eliminare il ruolo del garante?”, l’iscritto si troverebbe di fronte a un bivio: “sì” o “no”. Nel caso di una risposta negativa, si aprirebbe una sorta di menù a tendina con altre proposte tra cui scegliere. Sempre tra quelle emerse durante il confronto deliberativo: e si va dal convertire la figura in un ruolo a tempo determinato al trasformarla in una carica onorifica.
Al di là della procedura, una cosa è certa: i poteri di Beppe Grillo usciranno ridimensionati dalla consultazione, se non definitivamente cancellati. Non a caso, ora, i fari sono tutti puntati sulle possibili reazioni del garante. A cominciare da un suo possibile intervento infuocato in Assemblea, dopo mesi di guerra aperta con il presidente. Nessuno lo esclude, molti si aspettano la sorpresa. E c’è chi, come Pasquale Tridico, auspica un viaggio di Grillo a Roma per la Costituente. Ma non finisce qui. Tra i corridoi della Camera, comincia a consolidarsi l’ipotesi che l’Assemblea rischi di non chiudere il nodo Grillo. Molti sottolineano come il garante possa sempre richiedere la ripetizione di alcune votazioni
E, nel caso di un secondo giro di consultazioni, ipotesi già di per sé dirompente, il raggiungimento del quorum della metà più uno degli iscritti sarebbe uno scoglio non da poco. Sul quale Grillo potrebbe giocarsi la carta dell’invito all’astensione. I timori ci sono. Dopo un Consiglio in cui non sono mancati momenti di acceso confronto, con alcuni consiglieri equidistanti tra Conte e Grillo e qualcuno critico sulla strategia, il presidente si prepara a serrare le fila.
Riunisce i gruppi, anche per frenare qualche malumore tra parlamentari che si sono sentiti esclusi dal processo Costituente. Ed è pronto a parlare alla sua comunità, con l’intenzione di lanciare due ulteriori momenti di dibattito online prima dell’Assemblea. Un modo per mobilitare la base, ma anche il consenso. Intanto, sono oltre 2000 le registrazioni arrivate per ‘Nova’
(da agenzie)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA DI MILENA GABANELLI SUL CORRIERE DELLA SERA
Era il 1973 quando l’economista-filosofo Ernst Friedrich Schumacher scrisse «Piccolo è bello». Nella sua analisi suggeriva di suddividere le grandi imprese in più virtuose micro-strutture, anche perché i grandi gruppi traggono benefici dalle infrastrutture create con spesa pubblica, ma a vantaggio di pochi. Da allora il mondo è cambiato ma se, per esempio, parliamo dei piccoli aeroporti italiani, basta guardare i loro bilanci per vedere che spesso vengono tenuti in piedi succhiando denaro pubblico più per interesse politico o di qualche lobby che per le reali ricadute sulla comunità locale.
La linea rossa
In Italia abbiamo 41 scali commerciali gestiti da una trentina di società diverse, che nella maggioranza dei casi rappresentano un mix di pubblico e privato. Un report commissionato da Aci Europe e Assaeroporti e trasmesso a settembre 2024 alla Commissione europea, mostra la relazione tra la dimensioni degli aeroporti e la loro capacità di realizzare profitti e di avere solidità finanziaria: nel 2023 sono transitati dai nostri scali 197 milioni di passeggeri complessivi, ma il 76% si sono concentrati nei 10 aeroporti più grandi. Per farsi un’idea, Roma-Fiumicino da solo muove oltre 40 milioni di persone, Milano-Malpensa 26, Bergamo 15 milioni, Napoli 12, Venezia 11. Agli altri,restano le briciole e questo mette in seria discussione la loro stabilità. La linea rossa di sopravvivenza – si legge nel report – si posiziona sul milione di passeggeri. E se si scende a meno di 500mila, senza l’aiuto dello Stato è pressoché impossibile stare in piedi.
La regola: fare sistema
Chi conosce bene i conti è il presidente Assaeroporti Carlo Borgomeo: «Se i piccoli aeroporti italiani non vogliono integrarsi con i grandi, non ce la possono fare: si faranno la guerra e moriranno tutti. A meno che la comunità decida che avere quello scalo è proprio indispensabile, ma allora dovrà prepararsi a pagare l’ira di Dio». Che le cose stiano in questi termini, lo sanno bene i gestori che ogni anno si svenano per tenere in vita i piccoli scali. L’alternativa alla chiusura è quella di fare squadra creando sistemi regionali dove gli aeroporti maggiori fanno da stampella agli altri. Aeroporti di Puglia, ad esempio, gestisce Bari (decimo scalo d’Italia con 6,4 milioni di passeggeri) e Brindisi (oltre 3 milioni), ma anche i piccoli di Foggia (48.900) e Taranto (1.080) . A Nordest invece c’è la società Save che gestisce il «Marco Polo» di Venezia (11 milioni) e Treviso, (3 milioni) ma controlla anche Verona (3,4 milioni di passeggeri) e Brescia (8.831).Se poi vogliamo prendere come parametro un modello economicamente più redditizio bisogna guardare alla Spagna, dove un’unica società statale controlla quasi tutti gli aeroporti, registrando utili per 2 miliardi l’anno.
I piccoli aeroporti di provincia
Dei 18 aeroporti italiani sotto il milione di passeggeri, il professor Ugo Arrigo del Centro di ricerca di economia industriale e pubblica (Cesisp) dell’Università Bicocca, ne individua 8 che non fanno sistema e la cui tenuta, sulla base dei bilanci degli ultimi dieci anni, è a rischio. Fra questi, Trieste, Pescara, Perugia e Rimini: alternano conti in rosso ad annate in leggero utile. Sono tutti sopra al mezzo milione di passeggeri l’anno, tranne Rimini che infatti nel 2013 era perfino fallito, salvo poi risorgere e tentare il rilancio. Si può aggiungere Trapani, che fino al 2022 perdeva -2,3 milioni di euro con 890mila passeggeri, ma nel 2023 ha portato i viaggiatori a quota 1,3 milioni tornando così in utile. «Questi aeroporti – spiega Arrigo – con una gestione oculata, anche senza il ricorso ad aiuti pubblici possono sperare di raggiungere un equilibrio e arrivare quindi all’autosufficienza». Gli scali da bollino rosso sono invece Ancona, Forlì, Parma e Cuneo: tutti da mezzo milione di passeggeri in giù, e tutti stabilmente in perdita. «Sono gli aeroporti più problematici, ai quali servono continue iniezioni di liquidità. Non significa che vadano per forza chiusi, ma senza un vero piano di rilancio o un’alleanza con altri aeroporti, probabilmente sono condannati a non essere in grado di mantenersi da soli».
L’esempio di Parma
Per capire cosa significhi tenere in vita un piccolo aeroporto, prendiamo il «Giuseppe Verdi» di Parma. L’hanno definito «un morto che cammina»: 134mila passeggeri, bilanci disastrosi. A volerlo sono stati i grandi industriali come i Barilla, i Pizzarotti (che tuttora detengono quote) e Calisto Tanzi. A gestirlo è Sogeap: fin dalla nascita con maggioranza ai privati e il resto ai soci pubblici a cominciare da Comune, Provincia e Camera di commercio di Parma, che difendono con i denti lo scalo cittadino, sebbene a un tiro di schioppo ci siano gli aeroporti di Bologna e Linate. Un mix di orgoglio e campanilismo. Nel 2006 la Regione Emilia Romagna – che all’epoca partecipa alla gestione di Bologna, Forlì e Rimini – propone a Sogeap di entrare con una quota per costruire una Rete Regionale che garantisca a tutti una fetta di mercato. La risposta dei soci: «Un aeroporto e una città come Parma non possono fare accordi con Bologna, abbiamo già avviato trattative con Milano e Roma, ritenute più in linea con le nostre ambizioni». Alla fine non viene fatta alcuna alleanza e oggi, in un esposto presentato in procura a Parma dall’avvocato Veronica Dini, si analizzano 82 milioni di perdite degli ultimi 31 anni. Tutti in rosso tranne uno, quello del 2018. Il caso vuole che proprio quell’anno Enac versi 1,2 milioni relativi a un vecchio contenzioso, mentre altri 1,7 milioni di debiti vengano dichiarati prescritti. Senza quell’intervento Sogeap avrebbe perso la concessione. Resta il fatto che tenere in vita lo scalo costa a soci pubblici, Enac e ministeri oltre 65 milioni di euro
L’affaire Gazzetta di Parma
Quando il passo è più lungo della gamba c’è sempre qualcuno che paga il prezzo. Nel 2019 Sogeap perde il suo maggior azionista, Meinl Bank, che Oltreoceano finisce in un’inchiesta per riciclaggio. A tappare il buco interviene l’Unione Parmense degli Industriali (Upi) con 8,5 milioni. Upi però controlla anche la Gazzetta di Parma e, poco dopo, circa la stessa somma viene tolta dal capitale sociale dello storico giornale della città. Da una parte quindi si salva l’aeroporto, dall’altra – osserva «con sgomento» il comitato di redazione del quotidiano – la Gazzetta di Parma è costretta a chiedere al ministero lo stato di crisi con avvio del piano di prepensionamenti e cassa integrazione. A carico della spesa pubblica.
I 12 milioni per i cargo
In quegli anni entra nel vivo il Piano di rilancio che punta a trasformare l’aeroporto in uno scalo di riferimento per il trasporto merci. Per farlo – spiega Sogeap – occorre prima allungare la pista e creare un hub logistico: progetto da 20,8 milioni. La Regione ci crede e ne mette 12, presi dal Fondo Sviluppo e Coesione. Iniziano gli espropri e Sogeap prevede che, terminati i lavori nel 2025, entro un paio d’anni i conti saranno finalmente in attivo. Merito delle 53mila tonnellate di merci l’anno che gireranno sullo scalo? Non esattamente. Il24 luglio 2023 il presidente di Sogeap, Guido Dalla Rosa Prati, convocato in Comune dice: «Il trasporto merci è stata una scusa che ho utilizzato per portare a casa i 12 milioni. Ma qui parliamo di trasporto passeggeri…». A giugno 2024 la canadese Centerline Airport Partners si prende il 51% di Sogeap e conferma che a loro le merci interessano poco, ma vogliono arrivare «a 700mila passeggeri entro 5 anni». Prima però serve un nuovo aumento di capitale da circa 6 milioni: Comune e Provincia non parteciperanno perché la legge vieta agli enti pubblici di investire in società partecipate stabilmente in perdita. E allora qual è il piano?
La via d’uscita
A Parma volano solo due compagnie, Ryanar e FlyOne, che garantiscono qualche collegamento con Cagliari, Palermo, Malta e Chişinău (Moldavia). Come abbiamo detto, muovono in tutto 134mila passeggeri l’anno. Per superare la soglia che metterebbe al sicuro i conti, si dovrebbe strappare quasi un milione di passeggeri agli altri aeroporti della zona, a cominciare da quello di Bologna che ne muove 10 milioni (il 95% del traffico regionale). Ma perché Bologna dovrebbe lasciarseli portare via? Governo ed Enac dicono di essere pronti a mettere dei limiti allo sviluppo di Bologna così da costringerlo a cedere alcune tratte o, meglio ancora, a entrare direttamente in società con gli aeroporti vicini, cominciando proprio dal «Giuseppe Verdi» e da Forlì. Bologna replica: «Siamo quotati, quindi diamo via libera soltanto a operazioni che abbiano un senso dal punto di vista del mercato». Tradotto: le alleanze le faremo solo se ci conviene.
Milena Gabanelli e Andrea Priante
(da il corriere.it)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
“L’ITALIA È UN GRANDE PAESE DEMOCRATICO E DEVO RIBADIRE CHE ‘SA BADARE A SÉ STESSA NEL RISPETTO DELLA SUA COSTITUZIONE’. CHIUNQUE, PARTICOLARMENTE SE IN PROCINTO DI ASSUMERE UN IMPORTANTE RUOLO DI GOVERNO IN UN PAESE AMICO E ALLEATO, DEVE RISPETTARNE LA SOVRANITÀ E NON PUÒ ATTRIBUIRSI IL COMPITO DI IMPARTIRLE PRESCRIZIONI”
“L’Italia è un grande Paese democratico e devo ribadire, con le parole adoperate in altra occasione, il 7 ottobre 2022, che ‘sa badare a sé stessa nel rispetto della sua Costituzione’.
Chiunque, particolarmente se, come annunziato, in procinto di assumere un importante ruolo di governo in un Paese amico e alleato, deve rispettarne la sovranità e non può attribuirsi il compito di impartirle prescrizioni”.
Lo afferma il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, replicando così alle parole sui giudici italiani pronunciate da Elon Musk.
(da agenzie))
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
LA SORA GIORGIA SOGNA CHE LA CORTE DICHIARI INCOSTITUZIONALE LA RIFORMA COSI’ DA FAR SALTARE IL REFERENDUM: NON SOLO PERCHE’ FRATELLI D’ITALIA, DA SEMPRE STATALISTA, NON VUOLE L’AUTONOMIA MA PERCHE’ UNA SCONFITTA AL REFERENDUM METTEREBBE SALVINI CON LE SPALLE AL MURO ALL’INTERNO DELLA LEGA E IN BILICO IL GOVERNO
La Corte costituzionale, ancora orfana del quindicesimo giudice a causa dell’inerzia del parlamento e che a breve sarà privata di altri tre membri in scadenza il 21 dicembre, ha aperto ieri l’udienza pubblica in materia di autonomia differenziata.
La questione, oltre che essere complessa, è controversa: riguarda la riforma – bandiera leghista nell’azione del governo – impugnata in via diretta da quattro regioni per conflitto di attribuzioni. Il punto principale, sotto il profilo costituzionale, riguarda l’interpretazione dell’articolo 116 della Costituzione sull’autonomia regionale.
I ricorsi provengono da Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, tutte a guida centrosinistra, che hanno impugnato la legge sia nella sua totalità sia in riferimento a specifiche disposizioni: la leale collaborazione, il procedimento con cui verranno approvate le intese tra stato e regione e, soprattutto, il finanziamento delle funzioni trasferite.
Questo è il tasto più dolente per il governo, ancora non risolto con l’effettiva fissazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni per le materie che riguardano diritti civili e sociali, per cui è necessario uno standard minimo nazionale.
Vista l’articolazione dei ricorsi, il giudizio non sarà rapido. Intanto ieri la Corte ha ritenuto ammissibili gli interventi ad opponendum (in opposizione alle tesi prospettate dai ricorsi) delle regioni Piemonte, Veneto e Lombardia, governate dal centrodestra. […] Oggi la Corte si riunirà in camera di Consiglio per decidere e in ogni caso, viene fatto sapere, la sentenza verrà depositata entro metà dicembre. Una data non irrilevante per due ordini di ragioni: si colloca prima della cessazione dell’incarico di altri tre giudici costituzionali (tra cui l’attuale presidente Augusto Barbera) ma soprattutto prima di quando la Cassazione deciderà sull’ammissibilità dei referendum abrogativi presentati sulla stessa legge Calderoli.
Proprio quest’ultimo punto è fondamentale: come viene fatto notare da chi conosce bene questo tipo di ricorsi, non serve che la Corte decida per l’abrogazione per intero della legge, per bloccarne sostanzialmente il funzionamento.
Se i giudici accoglieranno il ricorso delle regioni per quanto riguarda il finanziamento delle materie, la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni e il mancato rispetto del principio di leale collaborazione tra stato e regioni, ecco che il disegno autonomista di Calderoli verrebbe di fatto smontato.
Proprio questa è un’ipotesi realistica: la legge, in particolare nella parte che riguarda i Lep, porta con sé un rischio di pregiudizio per i diritti dei cittadini a seconda della regione. Se così sarà, c’è da attendersi un effetto domino.
Con la dichiarazione di incostituzionalità di parti essenziali della riforma, la Cassazione potrebbe decidere che i quesiti referendari presentati con la raccolta firme siano superati. Dunque, niente referendum.
Qualora così non fosse, l’ultima parola sull’ammissibilità costituzionale dei quesiti spetterà comunque alla stessa Consulta, entro il 20 gennaio prossimo.
Se così fosse, l’effetto politico sarebbe inevitabile. In casa Lega, la legge attesa per trent’anni e finalmente approvata scivolerebbe via per un soffio ai governatori del nord. Nell’attribuzione delle colpe, però, i leghisti non potrebbero che guardare in casa, visto che la legge è stata scritta da Calderoli con la benedizione di Matteo Salvini.
Per gli altri due alleati, invece, un eventuale stop risolverebbe più di un problema. Forza Italia, di cui fanno parte molti governatori del Sud, non ha mai fatto mistero delle sue riserve sull’autonomia e anche Giorgia Meloni – che per cultura ha concezione centralistica dello stato – sanerebbe la contraddizione nei confronti del suo elettorato meridionale.
(da Open)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
“LA RISPOSTA DELLA PREMIER È SPROPOSITATA, NON È MAI SUCCESSO NELLA STORIA REPUBBLICANA CHE UN SINDACO FOSSE STATO ATTACCATO IN QUESTO MODO”… “RIDIREI CAMICIE NERE? ERANO VESTITI DI NERO E INDOSSAVANO CROCI CELTICHE CANTANDO FACCETTA NERA AL PASSO DELL’OCA…”
«Il prefetto usa parole al limite della falsità». Il sindaco di Bologna Matteo Lepore torna all’attacco dopo gli scontri di sabato scorso tra collettivi e forze dell’ordine a margine della manifestazione dei Patrioti e di CasaPound e delle polemiche che ne sono seguite.
Vuole rispondere al prefetto Attilio Visconti che in un’intervista al Corriere della Sera ha dato la sua versione dei fatti ma anche al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi che «ha rilanciato la versione del prefetto» e alla premier Meloni «che ha passato il segno».
Sindaco, cosa contesta della ricostruzione fatta dal prefetto di Bologna, Attilio Visconti sulla manifestazione dei Patrioti?
«Il prefetto dice alcune falsità. Il comitato per l’ordine pubblico non ha mai valutato il divieto della manifestazione, io non l’ho mai chiesto. Perché, anche se penso che questi movimenti andrebbero sciolti, so benissimo da sindaco che finché esistono non si può vietare una manifestazione».
Cos’altro?
«Non ho chiesto solo io di spostare la manifestazione, tutto il comitato all’unanimità ha chiesto che il sit-in si facesse fuori dal centro. Il prefetto ha detto testualmente nella riunione: “Nel salotto buono di Bologna non si può svolgere una manifestazione del genere”.
Eravamo in dieci a quella riunione. Poi non è vero che noi abbiamo chiesto di spostare la manifestazione per evitare assembramenti, questa è una falsità. Noi abbiamo chiesto di spostarla perché era pericoloso e infatti è andata come è andata. E c’è anche dell’altro».
Cosa?
«Che queste cose false sono state rilanciate dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, anche per questo ci tengo a ricostruire quello che è successo».
Forse andava ricercata una soluzione comune tra tutte le istituzioni coinvolte.
«Sono loro che dovrebbero spiegare bene cosa è successo dopo la prima riunione e perché un comitato prende una decisione e poi si cambia idea senza un passaggio formale. Si accusa il centrosinistra di sostenere i violenti, io invece vorrei sapere quali sono le motivazioni per cui si è cambiata idea. Ho chiesto se c’erano state richieste da Roma? Evidentemente qualcosa non ha funzionato».
Nei giorni scorsi lei ha avuto uno scontro durissimo con la premier Meloni che l’accusa di avere due facce diverse .
«Io ho una sola faccia. La risposta di Meloni è spropositata, non è mai successo nella storia repubblicana che un sindaco fosse stato attaccato in questo modo. Meloni ha passato il segno, con le sue parole lede i rapporti leali tra le istituzioni».
Si è pentito di aver infiammato la polemica parlando di camicie nere? Poi Salvini ha parlato di zecche rosse e così non si finisce più.
«Erano vestiti di nero e indossavano croci celtiche cantando faccetta nera al passo dell’oca, certo che lo ridirei».
Il confronto sugli scontri di Bologna ha acceso i riflettori nazionali su una campagna elettorale per le Regionali finora un po’ noiosa ma molto civile. Quello che è successo influirà sul voto?
«Quello che volevano ottenere era chiudere nell’angolo Bologna e l’Emilia-Romagna costringendoci a passare l’ultima settimana a parlare solo degli scontri in città. E invece mi sembra che un passo indietro lo abbiano già fatto loro visto che la premier Giorgia Meloni ha rinunciato a venire a chiudere la campagna elettorale della candidata del centrodestra. Io credo che il voto dimostrerà che la città ha la schiena dritta e che l’Emilia-Romagna è stanca del balletto che c’è stato sui finanziamenti per le alluvioni».
(da Il Corriere della Sera)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
COSA C’È DIETRO L’AIUTINO DI ELON MUSK A GIORGIA MELONI
L’entrata a gamba tesa di Elon Musk nella politica italiana evidentemente non è un’ingerenza straniera. Per questo Giorgia Meloni e il suo governo, che per mesi le hanno stigmatizzate, oggi non protestano. E poi «con Elon ormai siamo amici», ha detto qualche tempo fa la premier.
Ed è vero, visto che i due periodicamente si scambiano chat su Whatsapp. E poi «è un privato cittadino», ha detto la settimana scorsa Meloni da Budapest. Anche se va verso un incarico di prestigio (si parla della delega all’intelligenza artificiale) nel governo di Donald Trump. E anche se la piattaforma Starlink vuole sbarcare in Italia e c’è bisogno dell’ok di Palazzo Chigi. Come abbiamo appreso grazie all’inchiesta su Sogei e Andrea Stroppa. Così come dietro l’attivismo dell’imprenditore sudafricano c’è una passione: l’Antica Roma.
Starlink e l’appalto da 1,5 miliardi con Palazzo Chigi
«Per aspera ad astra»: con un biglietto e un mazzo di fiori durante il suo ultimo viaggio a Roma ha reso omaggio nel luogo in cui bruciò il cadavere di Giulio Cesare. Attraverso le difficoltà si arriva alle stelle, è il senso del motto latino. E in effetti per i suoi emissari italiani di Starlink, Tesla e SpaceX è stato difficile salire ai piani alti dei ministeri per proporre affari.
Ma adesso, spiega il Corriere della Sera, sul tavolo c’è una fornitura di banda larga attraverso satellite per garantire connessioni “sicure” alle imprese italiane. Un accordo della durata quinquennale per una spesa totale di 1,5 miliardi di euro. Anche se le norme anti-pirateria potrebbero bloccare tutto. E non c’è solo questo. La premier, che ha conosciuto Musk grazie ai buoni uffici del giornalista Nicola Porro, potrebbe essere anche una sponda per ammorbidire le regole del Dsa.
La Tesla low cost
Ovvero l’atto di legge per combattere l’hate speech sui social network. Che metterebbe in difficoltà X. Ma nei piani e nei sogni del governo c’è anche una Tesla low cost. Un’auto elettrica a guida autonoma per il nostro mercato che Musk potrebbe lanciare. Anche questo fa parte dell’asse Meloni-Musk. Che potrebbe consolidarsi anche grazie alla passione per l’Antica Roma del nuovo tycoon.
E pazienza se anche lui pare proprio essere un miliardario globalista come George Soros, spesso attaccato dalla premier. Che ha voluto che a coordinare i lavori per l’appalto di Starlink fosse il generale Franco Federici. Visto che, spiega oggi La Stampa, l’esecutivo al termine dell’estate era pronto alla firma del protocollo d’intesa. Poi l’inchiesta su Sogei ha rallentato tutto. Anche se nel frattempo due progetti pilota per la connessione sono stati avviati nelle rappresentanze diplomatiche italiane in Libano e in Afghanistan.
Inchieste e contratti congelati
E c’è anche il progetto di offrire copertura alle navi come la Garibaldi e la Vespucci. E forse anche alla Libra, nel frattempo impegnata nel trasporto di naufraghi dal Mar Mediterraneo all’Albania e da qui all’Italia dopo le sentenze dei giudici. Il contratto è attualmente congelato dopo l’inchiesta su Sogei. E in Fratelli d’Italia c’è chi dice che proprio l’intervento dei magistrati su Andrea Stroppa abbia convinto Musk ad alimentare la polemica sui giudici. Che intanto dovrà convincere Guido Crosetto della bontà del suo progetto per connettere le istituzioni italiane tramite Starlink. Il ministro della Difesa infatti è stato l’unico a ricordare che Musk nel business satellitare è un monopolista e ha costi non paragonabili a quelli degli altri provider. Poi c’è anche una questione politica da non sottovalutare.
Salvini e Trump
Ovvero la concorrenza di Matteo Salvini nel centrodestra. Il leader della Lega finisce rivitalizzato dalla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti perché lui, a differenza di Meloni, non ha dovuto scattare foto con Joe Biden nei tre anni precedenti. Giorgia invece ha un problema che si chiama Steve Bannon. Il quale ieri ha spiegato in un’intervista che si attende un riallineamento della premier.
È la stessa cosa che si attende Musk. Per questo ha deciso di forzare la mano sui giudici. E Meloni presto dovrà fare una scelta. O decide di seguire le istituzioni europee, che si preparano a un rapporto conflittuale con Washington. Oppure abbraccia la linea di Trump, anche per non farsi superare da Salvini.
(da Open)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
ALBANIA, SCATTA LA RITIRATA: RIENTRANO 50 AGENTI DELLA POLIZIA
IL GOVERNO ORA VUOLE FERMARSI PER NON RISCHIARE IL DANNO ERARIALE E DOVER PAGARE DI TASCA PROPRIA… SI PENSA DI ATTENDERE LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA CHE PERO’ POTREBBE DARE TORTO A MELONI E PIANTEDOSI
Tecnicamente si chiama rimodulazione. Ma dietro l’ordine di ridurre il contingente di forze dell’ordine nei centri di permanenza e rimpatrio di Shengjin e Gjader in Albania c’è un’aria di smobilitazione.
Nonostante i segnali contrastanti che arrivano da Roma e l’aiuto di Elon Musk il governo Meloni va davvero verso la smobilitazione. Almeno fino alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sui trattenimenti nei Cpr. Che però potrebbe dargli ancora una volta torto. Mettendo una pietra tombale sul progetto di Giorgia Meloni. E di Matteo Piantedosi. Che ieri durante le riunioni tecniche al Viminale ha convenuto sulla necessità di rallentare il flusso (si fa per dire: 16 migranti la prima volta, 8 la seconda). Anche per evitare l’accusa che tutti a Palazzo Chigi temono. Ovvero quella di danno erariale.
La “rimodulazione”
La rimodulazione che somiglia a una ritirata la racconta oggi Repubblica. Il contingente di forze dell’ordine in Albania a regime doveva arrivare a 295 unità. Ma quel numero non si è mai raggiunto. Per fortuna, visto che ciascun poliziotto prende cento euro in più al giorno in busta paga solo come indennità di trasferta. Il numero totale di effettivi tra Shengjin e Gjader è arrivato al massimo a 220. Nel frattempo gli esposti alla Corte dei Conti hanno convinto il Viminale al dietrofront. Ora il numero sarà di 170. Che è quello minimo per far funzionare i turni di lavoro. Che consistono nella vigilanza di celle vuote. Intanto la prefettura di Roma pubblica un bando da 3,2 milioni di euro per la manutenzione ordinaria dei centri. Mentre un contratto da 48 mila euro per sei mesi di lavoro è stato stipulato con una ditta di pulizie albanese.
Ritirata dall’Albania?
Il 19 novembre invece scadono i termini per un appalto di quasi un milione di euro per i pasti nei prossimi due anni. Intanto il Corriere della Sera spiega che nell’immediato futuro c’è il rischio concreto che nessun altro migrante venga accolto nei Cpr. I documenti ufficiali infatti parlano di una spesa di 134 milioni annui per il mantenimento delle strutture. Ovvero 670 milioni in cinque anni. Secondo il Viminale si risparmia rispetto al miliardo e settecento milioni che si spendono per la prima accoglienza straordinaria. Ma i magistrati contabili potrebbero chiedere conto di questi presunti risparmi. La decisione della Grande Chambre è prevista per gennaio 2025 e non per luglio. E quindi il governo potrebbe attendere quel pronunciamento prima di ricominciare il trasporto dei naufraghi nel Paese delle Aquile. Sperano che sia in qualche modo positivo.
E se ci dicono di no?
La decisione di “rimodulare” potrebbe anche andare di pari passo con le necessità della lotta all’immigrazione clandestina. Perché d’inverno i viaggi via nave o barchino si riducono a causa del maltempo e delle condizioni del mare. Quindi, è il ragionamento, i centri sarebbero in ogni caso al lavoro in condizioni ridotte. Con l’arrivo della primavera e della bella stagione le cose cambierebbero. E i centri potrebbero tornare al loro riempimento massimo. Che però è calcolato in 30-40 persone al massimo. Ovvero molto lontano dai 3 mila di partenza. Ma soprattutto: cosa succede se invece i giudici della Cgue dicono di no al governo? A quel punto il problema politico potrebbe scoppiare in tutta la sua potenza. Anche perché finora la linea di Meloni è stata quella di ricalcare un classico del centrodestra al potere: l’attacco ai giudici comunisti.
C’è un giudice comunista anche in Lussemburgo?
Un argomento che pare essere piuttosto debole nei confronti dei giudici di Lussemburgo. Intanto i sette migranti (tre egiziani, quattro del Bangladesh) che erano stati trasferiti a Shengjin la scorsa settimana sono arrivati a Brindisi. Entro 14 giorni dovrebbero presentare il ricorso contro i respingimenti delle richieste d’asilo effettuati in Albania. L’esito potrebbe richiedere mesi. Mentre c’è anche la Corte di Cassazione da attendere per gennaio. Il Palazzaccio non si deve pronunciare sul decreto paesi sicuri, ma sulle regole precedenti. E anche lì rischia di picconare i progetti dell’esecutivo. Mentre va segnalato che ogni volta che perde in tribunale davanti alla sezione immigrazione, il Viminale viene condannato al pagamento delle spese. Anche quelli sono soldi pubblici che se ne vanno. Buttati a mare, è il caso di dirlo.
(da La Repubblica)
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Novembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
IL “GABBIANO” RAMPELLI E’ GELIDO SULL’ENTRATA A GAMBA TESA DI ELON MUSK SUL CASO MIGRANTI (“VIA QUEI GIUDICI”) METTE GIORGIA ALL’ANGOLO: LA DUCETTA CAMALEONTE PUNTA SU MISTER TESLA PER RIACCREDITARSI CON TRUMP MA RISCHIA DI ALIENARSI L’APPOGGIO DELLE ISTITUZIONI EUROPEELA SORTITA DI MUSK: “SIAMO ATTREZZATI PER DIFENDERCI DA SOLI”… CHE DIRANNO, I CAMERATI, QUANDO MISTER TESLA METTERÀ BOCCA SULLE VICENDE ITALIANE CON UN RUOLO DI GOVERNO NEGLI USA?…DAL CONTRATTO STARLINK DA 1,5 MILIARDI DI EURO ALLA TESLA LOW COST: COSA BALLA TRA PALAZZO CHIGI E MUSK
«Con Musk ormai siamo amici», ripete da mesi Giorgia Meloni alla cerchia stretta dei suoi consiglieri. Il canale è diretto, senza filtri: un messaggino di Whatsapp dopo l’altro. Scambi frequenti, anche se non quotidiani, racconta chi è stato messo a parte dei dettagli di questa special relationship tra la premier e il patron di X.
Però l’amico Elon è anche un tipo incontrollabile, che una mattina può dare dello «scemo» al cancelliere tedesco e che in passato se l’è presa con i magistrati di Francia e Brasile, con il governo inglese, con Ursula von der Leyen, fino a ieri, quando è toccato ai giudici italiani. Un flusso quotidiano di post, senza imbeccate da Palazzo Chigi, sostiene il braccio destro a Roma del magnate di Tesla, Andrea Stroppa: «Musk segue i fatti italiani su X». Rilanciando o commentando quello che scrivono gli 800 contatti che segue.
Proprio per questo, però, il tasso di imprevedibilità è altissimo. L’incidente, dietro l’angolo. Rischia insomma, Musk, di diventare l’amico imbarazzante per un partito come FdI, che contro le “ingerenze straniere” ha costruito per anni un pezzo della sua propaganda e anche della sua fortuna elettorale.
Anche la linea «Elon è un privato cittadino», approntata da Meloni venerdì al Consiglio Ue di Budapest (a domanda proprio sugli insulti a Scholz) può reggere solo per qualche mese, se Donald Trump, come pare, manterrà l’impegno col fondatore di SpaceX e gli offrirà un incarico nella sua amministrazione. Che diranno, i Fratelli, quando Musk metterà bocca sulle vicende italiane con un ruolo di governo negli Usa?
Per la premier gestire questo rapporto è (e sarà) una prova da equilibrista. Un calcolo continuo di costi e benefici. Il vantaggio principale è lampante: il legame le serve per riallacciare i rapporti con Trump e la galassia “Maga”, che in parte ha vissuto con fastidio la collaborazione, a tratti affettuosa, tra la presidente del Consiglio e il democratico Joe Biden. Non a caso è stata Meloni a chiamare l’imprenditore sudafricano naturalizzato statunitense, subito, la notte dopo il voto. Ed è sempre stata Meloni a rendere nota la telefonata.
Anche per bilanciare l’attivismo di Matteo Salvini, che con Musk il rapporto se l’è costruito più tardi, ma che, al contrario della leader di FdI, non si cruccia minimamente di mostrarsi istituzionale. L’abbraccio con Musk, però, non può diventare troppo stretto per la premier.
Soprattutto, Meloni non può benedire fino in fondo le sue incursioni nella politica italiana, anche quando le farebbero comodo, come ieri. Sa che certe sortite passerebbero per intromissioni, non tanto nei lanci d’agenzia dell’opposizione, ma in un segmento di elettorato che queste “ingerenze” le ha sempre sofferte (e che solitamente vota a destra). Qualche voce critica da FdI già si leva, all’indirizzo del proprietario di X: «Siamo attrezzati per difenderci da soli è il commento gelido del vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli – Ringraziamo Musk, ma non siamo come la sinistra che sbava per amplificare a livello internazionale le criticità italiane, ridicolizzando la nazione ».
Parole che Meloni non può pronunciare. L’amico Elon, oltre ad essere un prezioso interlocutore per spazio e connessione satellitare, è il contatto più strategico che ha in rubrica nel giro di Trump. Difficilmente può esserlo Ron DeSantis, in questi giorni in Italia per promuovere le aziende della Florida e ricevuto ieri a Palazzo Chigi. È un governatore repubblicano, sì. Ma è stato il principale avversario di Trump alle primarie. E ha rotto con la nuova capo- staff del presidente eletto, Susie Wiles. Meloni un incontro glielo doveva: grazie alla mediazione di De-Santis è stato liberato Chico Forti.
Ma si è ben guardata dall’enfatizzarlo: Palazzo Chigi ha diffuso una stringata nota istituzionale, a sera, in cui si parla unicamente della «missione economico-commerciale».
(da La Repubblica)
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